Riflessioni filosofiche: La mediazione dei conflitti e il concetto di applicazione.

Hans Georg Gadamer è il pensatore che più ha contribuito al recupero di Aristotele nell’ermeneutica del Novecento.

Se per ciò che concerne il marxismo e le scuole che ne sono state influenzate, è inutile sottolineare la portata del concetto di prassi, ciò è meno scontato per l’altro indirizzo che insieme alla filosofia analitica ed al marxismo ha animato il dibattito del secolo scorso: l’ermeneutica. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che la suadente perifrasi di «svolta linguistica» ha spostato l’attenzione su questo aspetto della riflessione filosofica, mettendo in ombra la portata pratica di alcune delle teorie filosofiche più pregnanti del XX secolo.

Prima di procedere oltre sarebbe essenziale soffermarsi sul concetti di prassi in Aristotele e sulla sua distinzione dal mero fare produttivo[1], ma per tale distinzione e per maggior fruibilità del testo, rimandiamo ad interventi e articoli pubblicati in precedenza. Basti solo definire che in tale distinzione Aristotele distingue concettualmente un fare che mira alla produzione di oggetti esterni e presenti nel mondo attraverso modalità tecniche, uguali e riproducibili, dunque insegnabili (la poiesis o fare produttivo) e dall’altra l’agire propriamente detto il cui scopo è interno al fare stesso (la praxis: una passeggiata o una scelta politica) e per cui non possiamo addurre criteri ripetibili sempre allo stesso modo. La facoltà che presiede tale razionalità sarebbe la saggezza, come capacità di adattare il caso particolare a una norma, un valore o una legge che pretendono validità universale.

Martin Heidegger, maestro di H.G. Gadamer e massimo esponente dell’ermeneutica del Novecento, dagli anni della formazione e dalla lettura di Franz Brentano, ereditava un bagaglio concettuale che derivava dalla teologia e da Aristotele che è ravvisabile anche in Essere e tempo. Se però Heidegger si distacca dalla metafisica aristotelica bollata come le altre metafisiche di essere una «onto-teologia», dall’altro lato ne recupera le categorie etiche.

Heidegger in questo modo «ontologizza la phrónesis» che diventa una delle modalità più proprie dell’esistenza; l’agire che diventa un modo d’essere dell’Esser-ci (così Heidegger chiama l’uomo) il quale è già sempre comprendente, interpretante e dunque agente.

La metodologia tradizionale dell’interpretazione testuale prevedeva una subtilitas intelligendi, una subtilitas explicandi ed una subtilitas applicandi[2]. Il comprendere e lo spiegare erano quindi radicalmente uniti ad una «finezza di spirito nell’applicazione» che dava la misura dell’atto del comprendere stesso. L’ermeneutica giuridica e quella religiosa esercitavano, dunque, la comprensione con il fine di testarne una possibile applicazione pratica, la quale costituiva il «banco di prova della comprensione stessa». L’emancipazione della filologia dall’ermeneutica giuridica e da quella religiosa escluse la subtilitas applicandi, a scapito di qualunque elemento pratico ravvisabile nel testo da interpretare, e favorendo, in tal modo, una riflessione puramente teorica scevra da qualunque riferimento all’agire.

H.G. Gadamer attraverso le tradizionali teorie dell’interpretazione si è fatto invece promotore di un recupero dell’applicatio, favorendo un ritorno alle dottrine aristoteliche ed un recupero del concetto di ragion pratica in quanto saggezza pratica[3]. In particolare, se, come egli afferma, «comprendere significa sempre applicare»[4], l’esistenza stessa è strutturalmente comprendente-applicante: Gadamer sembra così aggiungere, alle modalità fondamentali dell’esistenza riconosciute da Heidegger, comprensione ed interpretazione, anche l’applicazione. Questa non sarebbe però un che di separato dalla comprensione, ma ne costituirebbe un’articolazione come l’interpretazione; la possibilità di comprendere sarebbe condizionata a sua volta dalla possibilità di applicare in qualche modo il sapere originato dalla comprensione stessa tanto che «un sapere generato che non sa applicarsi […] rimane privo di senso»[5].

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A prova di ciò Gadamer si è fatto promotore di un recupero del paradigma giuridico dell’applicazione della legge, che diventa centrale nell’economia della teoria gadameriana: il caso dell’applicazione della legge è esemplare, in quanto il processo giudiziario non consisterebbe in una semplice applicazione di un paragrafo del testo giuridico ad un caso particolare, ma nel trovare, invece, il «giusto paragrafo».

La facoltà che presiede a questa scelta è per Gadamer la phrónesis (Aristotele, Libro Z, 8, dell’Etica nicomachea) e si estenderebbe in tal modo a tutto l’agire tanto che la «filosofia pratica è la più architettonica»[6] in quanto contiene in sé tutte le altre. L’applicazione «è elemento strutturale di ogni comprendere»[7]. Un discorso non dissimile può essere fatto per ogni agire che voglia tenere in considerazione tali premesse, se, dunque, facciamo ricadere la mediazione dei conflitti sotto tale distinzione, essa è una forma di prassi.

Non si nega che la mediazione dei conflitti si avvalga di tecniche ripetibili, insegnabili e, dunque, trasmissibili, ma solo che essa usa delle tecniche senza essere essa stessa una tecnica. Il mediatore, perciò, è tenuto a tenere sempre in conto il singolo caso particolare che non va posto acriticamente sotto una categoria “tecnico-scientifica”, ma messo in relazione a più valori, massime dell’azione, norme etc. affinché il singolo caso stesso non risulti soffocato da una “proceduralizzazione” dell’agire che tenga in considerazione più i temi – quali: conflitto, sistema giudiziario, mediazione – che non i vissuti di colui il quale quel conflitto sta vivendo e che deve essere tutelato dal desiderio del mediatore di strumentalizzare conflitti e confliggenti per fini propri e che sono estranei allo spirito di  neutralità, libertà di scelta, accoglienza del conflitto che dovrebbero caratterizzare queste forme di pratica.

Maurizio D’Alessandro

[1] D’Alessandro M., Quattrocolo A., L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, in La Giustizia Sotenibile vol. VIII, Aracne, Roma, 2015, pp.273-286.

[2] L’applicatio diventa per la prima volta un momento fondamentale dell’interpretazione testuale con J.J. Rambach (1693-1735), il quale nelle Istitutiones Hermeneuticae Sacrae, Jena, 1723, libro IV, cap. III, «De sensu inventi adplicatione», mostra come l’applicazione sia un momento fondamentale dell’interpretazione delle scritture.

[3] Gadamer H.G., Verità e metodo, trad. it., Milano, Bompiani,1983, pp. 418-440.

[4] Ivi, p. 360.

[5] Ivi, p. 364.

[6] Gadamer H.G., Verità e metodo. Volume 2: integrazioni, Milano, Bompiani, 2001, p. 277, l’espressione è ripresa dall’Etica nicomachea.

[7] Ivi, p. 7.

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