Conflitti che generano altri conflitti

«Quei pezzi grossi delle forze armate hanno un unico, grande, vantaggio: se li ascoltiamo e facciamo quello che dicono loro, dopo nessuno di noi potrà più dirgli, da vivo, che avevano torto»

(Il presidente John F. Kennedy al consigliere Kenneth O’Donnell).

L’osservazione amara del presidente Kennedy si presta efficacemente ad evocare quelle situazioni in cui si ha a che fare con conflitti che generano altri conflitti spesso di rilevanza notevole. Si fa riferimento, quindi, ad una particolare difficoltà, tra le tante, riscontrabile da chi tenta di gestire una situazione conflittuale che interessa un gruppo di persone, come ad esempio quelle che si verificano in una famiglia o in un’équipe di lavoro. Si tratta di una di quelle circostanze nelle quali sembra quasi che il conflitto sia una sorta di organismo vivente, propenso non solo a crescere ma anche a moltiplicarsi.

Cioè, non solo nelle situazioni conflittuali internazionali ma anche in quelli, di scala decisamente più ridotta che maturano all’interno dei nostri rapporti quotidiani capita che, fra gli appartenenti alla stessa fazione, si confrontino serratamente, fino a delegittimarsi reciprocamente, due o più soggetti intenzionati a condurre in modi radicalmente diversi la lotta contro la fazione avversa. Si tratta di quelle dinamiche relazionali in cui, senza quasi accorgersene, ci si trova a fronteggiare dei conflitti che generano altri conflitti ulteriori, che sorgono come effetti collaterali di quelli principali e che, non meno di quelli da cui sono originati, possono scavare solchi profondi nei rapporti personali, soprattutto nella misura in cui, insieme alle tensioni, riescono a procurare amarezze e a suscitare percezioni e vissuti di tradimento.

La citazione proposta, ad esempio, rivela come l’atteggiamento del presidente degli Stati Uniti, fosse orientato dalla duplice pragmatica prospettiva del “contenimento dei danni” derivanti dalla progressione del conflitto con l’Unione Sovietica e, contemporaneamente, della tutela dei più basilari interessi nazionali in gioco, inclusa l’immagine della potenza statunitense e del suo governo agli occhi dei cittadini americani e di quelli del resto del mondo. L’approccio sostenuto, invece, da quei vertici delle gerarchie militari, dei servizi di intelligence e da quei politici statunitensi favorevoli ad un bombardamento di Cuba e degli arsenali sovietici lì installati era orientato alla distruzione (o, almeno, all’umiliazione e alla messa angolo) della potenza militare dell’Unione Sovietica, essendo quest’ultima da essi vissuta come un nemico davvero mortale col quale sarebbe stato catastroficamente errato trattare: ritenendo l’impero sovietico come una sorta di mostro famelico intenzionato ad impadronirsi del mondo intero e governato da una leadership tradizionalmente propensa ad avvalersi di ogni diabolica astuzia, a ingannare, mentire e venir meno alla parola data senza esitazioni e del tutto aliena da qualsiasi manifestazione di umanità, costoro credevano che fosse da irresponsabili sperare di ottenere un accordo affidabile negoziandoci assieme. Si trattava di un punto di vista rispetto al quale non era del tutto alieno neppure John Kennedy, il quale, tuttavia, pur reputando la potenza sovietica capace di rispettare solo la forza e ottusamente propensa a disprezzare come indizio di debolezza il tenere conto, da parte degli avversari delle istanze umanitarie, in quella circostanza seppe far ricorso alla propria capacità empatica per intravvedere cosa si muovesse nella mente dei capi dell’URSS e, in particolare, di Nikita Sergeevič Chruščëv, il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica: ciò gli permise di comprendere che, se messa alle strette, Chruščëv avrebbe reagito esattamente come avrebbe fatto il governo USA nel caso in cui fosse avvenuto un poderoso e deliberato bombardamento sul proprio territorio o su quello di una nazione alleata: avrebbe risposto al fuoco, dando il via alla catena delle reazioni che avrebbe condotto all’olocausto nucleare su scala planetaria. Tale capacità relazionale del presidente americano ebbe un’importanza non secondaria nel consentire l’approdo ad un’uscita non catastrofica per l’intera umanità da quella crisi missilistica, ma non gli servì – o non riuscì a declinarla – nei suoi rapporti con i “falchi”, ossia i sostenitori della linea dura contro l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, i quali riconobbero solo formalmente il successo del suo approccio, restando convinti che fosse rivelatore di una debolezza e di un’arrendevolezza del presidente tanto biasimevoli quanto pericolose per la sicurezza degli Stati Uniti e di tutti gli abitanti del nostro pianeta.

Il rapporto tra i due conflitti (quello con la Russia e quello interno alla compagine governativa degli Stati Uniti) era, come spesso accade anche nella più ordinaria quotidianità conflittuale, di reciproco supporto: non solo si era in presenza di conflitti che generavano conflitti ma si era sviluppata una situazione nella quale i primi e i secondi si alimentavano vicendevolmente (abbiamo fatto alcuni riferimenti a tali aspetti anche nei tre post dedicati a JFK, pubblicati nella rubrica Corsi e Ricorsi: uno in occasione dell’anniversario della sua elezione alla presidenza, avvenuta l’8 novembre del 1960, un secondo relativo al fallimento del tentativo di invasione di Cuba maturato il 19 aprile 1961, e il terzo in ricordo del 22 novembre 1963, il giorno del suo omicidio).

Non per caso nel libro recentemente pubblicato, “Ascolto e Mediazione. Un approccio pragmatico alla gestione dei conflitti” (A. Quattrocolo e M. D’Alessandro, FrancoAngeli, 2021), abbiamo citato le frasi dette da Kennedy all’amico O’Donnell nel secondo capitolo, “Il conflitto” e, in particolare, nel paragrafo dedicato all’escalation del conflitto, spiegando in nota che con tali parole il presidente degli Stati Uniti, il 19 ottobre 1962, nel bel mezzo dei tredici giorni della crisi dei missili sovietici a Cuba, quando per quasi due settimane l’umanità temette che stesse per prodursi una guerra nucleare totale tra le due super-potenze, commentò, con il suo consigliere politico e amico Kenneth O’Donnell, l’esortazione ricevuta dal generale Curtis Le May, durante un incontro con i capi degli stati maggiori riuniti, di ordinare un massiccio bombardamento aereo dell’isola.

«Se non reagiamo qui, a Cuba, la nostra credibilità verrà sacrificata», aveva affermato Le May.

«Quale crede che sarebbe la loro [dell’Unione Sovietica] reazione», aveva chiesto Kennedy.

«Nessuna», era stata la risposta di Le May, il quale aveva sostenuto che il solo blocco navale dell’isola e le altre iniziative politiche prospettate dal presidente avrebbero portato «dritto alla guerra…», aggiungendo sarcasticamente: «In altre parole, lei, signor Presidente, in questo momento è in un bruttissimo guaio».

«Come ha detto?», aveva chiesto interdetto JFK.

«Lei è in un bruttissimo guaio», aveva ripetuto il generale.

Il presidente aveva sorriso senza allegria e poi aveva risposto: «Forse non se n’è accorto, ma c’è dentro anche lei».

Dopo la riunione Kennedy, arrabbiatissimo, riferì a O’Donnell, e commentò con le parole citate nella foto e all’inizio dell’articolo, la convinzione del generale che i sovietici non avrebbero reagito al bombardamento di Cuba e l’esortazione da quello rivoltagli ad agire in tale senso [1].

I conflitti che generano altri conflitti vertenti sui modi migliori per gestire i primi, spesso, si caratterizzano per il fatto che le posizioni sono contrapposte sul piano dei mezzi, ma non degli obiettivi. Nel caso di quello evocato dalla polemica tra Kennedy e Le May, si può riscontrare come, in fondo, i due, nel contrapporsi l’un l’altro, fossero addirittura sostenuti da finalità di lungo termine comuni e mossi da angosce condivise. Per coloro che condividevano l’approccio graduale di Kennedy come per chi si schierava sulle posizioni belliciste di Le May ciò che contava era prevenire il rischio di una distruzione dell’umanità. Per i secondi, tale obiettivo era raggiungibile mostrando al nemico sovietico una determinazione inesorabile a non tollerare sgarbi o minacce di qualsiasi sorta e ostentando una ferma disponibilità a fare uso della forza senza esitazioni, nella convinzione che solo così si poteva scoraggiare la controparte comunista dal lanciarsi in avventurose provocazioni. Per Kennedy la fermezza doveva essere integrata dalla consapevolezza che neppure i russi erano disposti a perdere la faccia, e con essa il potere che intendevano esercitare sui paesi del blocco comunista e su quelli che intendevano guadagnare alla loro influenza.

Con accenti e toni diversi ciascuno dei due “partiti” vedeva nell’altro una minaccia pericolosissima e lo considerava capace di commettere qualcosa di molto simile al tradimento [2].

Anche nei comuni conflitti che generano altri conflitti all’interno delle nostre vite succede di riscontrare tale meccanismo: il proliferare di più o meno esplicitate ipotesi e talora la verbalizzazione di accuse di tradimento indirizzate a coloro che, coinvolti nella lotta contro il comune avversario, sostengono una linea d’azione più flessibile o più rigida di quella con la quale ci identifichiamo noi.

Nella prospettiva di un non improvvisato bensì attento riflessivo approccio di Conflict Management anche per la gestione di tali secondari conflitti (e capita di rilevare che tali secondari generano altri conflitti a loro volta) e non solo per quelli primari, è fondamentale, ancor prima di darsi l’obiettivo di mediare, impegnarsi ad ascoltare, a far parlare e a far sentire ascoltati i protagonisti. Molto spesso, infatti, alla base delle rappresentazioni mentali sviluppate da ciascuno sulla situazione atto e sugli altri attori ci sono sentimenti e pensieri complessi e profondi che, restando inespressi, condizionano fortemente le dinamiche relazionali e ancor prima i vissuti.

Abbiamo fin qui riscontrato con l’esperienza che anche rispetto ai conflitti che generano altri conflitti l’approccio definito Ascolto e Mediazione rivela un’apprezzabile eclettismo che ne rinforza l’efficacia pragmatica e consente di evitare il rischio di sottovalutare una dimensione e di sopravvalutarne altre: soprattutto presenta maggiori possibilità applicative, proprio perché non è condizionato dall’obiettivo di conseguire accordi o pacificazioni, cioè di estinguere il conflitto, e non presuppone, per dispiegarsi, una iniziale disponibilità delle parti a collaborare per pervenire all’estinzione della loro contrapposizione reciproca.

Alberto Quattrocolo

[1] Questi brani di conversazioni e la descrizione dei fatti cui si riferiscono sono tratti da JFK. Una Vita incompiuta, di Robert Dallek, 2004 Arnoldo Mondatori, Milano.

[2] In sintesi: i primi temevano che una politica estera incline alla moderazione e all’accomodamento avrebbe spianato la strada ad una progressione di prepotenze da parte sovietica fino a minacciare la pace mondiale, come era già accaduto, appena 24 anni prima, in occasione dell’appeasement anglo-francese a Monaco – che veniva rinfacciato al presidente, essendo stato approvato da suo padre Joseph P. Kennedy, nel 1938 ambasciatore a Londra, quell’accordo firmato da Adolf Hitler (Germania), Neville Chamberlain (Regno Unito), Édouard Daladier (Francia) e Benito Mussolini (Italia). Le “colombe”, come venivano sprezzantemente chiamati Kennedy e quelli favorevoli alla sua linea, ritenevano che una politica caratterizzata da cieca intransigenza avrebbe inevitabilmente portato ad un conflitto nucleare totale. Sicché consideravano quei loro connazionali i migliori alleati di fatto delle mire espansioniste e delle tentazioni guerrafondaie e sovversive del Cremlino e della Cina comunista. Mentre per Curtis Le May e gli altri che la pensavano come lui, Kennedy e i suoi sostenitori erano nella migliore delle ipotesi degli inconsapevoli e incoscienti amici del nemico numero uno dell’Occidente, quindi, con la loro ingenua mentalità da liberali privilegiati favorivano l’avversarsi delle peggiori minacce alla democrazia, alla libertà alla pace provenienti dalle spietate cospirazioni comuniste.

A. Baiocchi: Micro e macro conflitto nel tessuto sociale – Tavola rotonda Ricostruire legami

Quali conseguenze hanno i conflitti grandi e piccoli che attraversano la  nostra vita quotidiana? Come ricadono gli effetti di un reato sui singoli protagonisti – autori e vittime – e sulla comunità? Qual è il loro impatto? Quali sono gli strumenti per accogliere e contenere tale impatto?

Su questi aspetti si è soffermata Antonella Baiocchi nella riflessione che ha svolto nella Tavola Rotonda “Ricostruire legami” .

Qui è visibile il video del suo intervento, il quarto e ultimo della Tavola Rotonda

Il primo intervento, di Martina Vallesi, è visibile qui; il secondo, di Maurizio D’Alessandro, si trova qui; il terzo, svolto da Maria Alice Trombara (immediatamente precedente a quello di Antonella Baiocchi) è pubblicato in questo post.

 

M.A. Trombara: Gli strumenti di Giustizia Riparativa all’interno della comunità – Tavola rotonda “Ricostruire legami”

Nella Tavola Rotonda “Ricostruire legami”, in primo luogo, Maria Alice Trombara ha ricordato come si è trasformato il ruolo della comunità rispetto al reato verificatosi al proprio interno.

«Il ruolo che la comunità aveva nel passato in relazione alle situazioni di devianza dei suoi membri era assai ampio: poiché le società antiche sapevano bene come la vendetta e la faida potessero disgregare il tessuto sociale attraverso guerre e ritorsioni tra i clan in conflitto, per le dispute derivanti da quelli che oggi chiameremmo reati, la gestione erano svolta da assemblee di cittadini autorevoli, i quali cercavano in primo luogo di ricomporre la frattura sociale.

Quest’amministrazione della giustizia rimase possibile fino all’affermarsi delle prime monarchie militari, allorché il potere legislativo si concentrò in mano ad un unico sovrano. La comunità in tal modo perse il controllo della “questione penale”».

Spiega, quindi, Maria Alice Trombara che da quel momento si ebbe l’affermazione di due modelli di Giustizia,

«che hanno caratterizzato il controllo sociale attraverso la pena, cioè i modelli Retributivo e Rieducativo/ Riabilitativo, nei quali non solo la concezione di parte offesa (la vittima) ha un ruolo estremamente marginale, ma anche la società – che a sua volta è vittima in quanto turbata dall’allarme sociale che ne deriva – non trova parte alcuna in nessuna politica di prevenzione o risoluzione del fatto.

Nel modello Retributivo la società come d’altronde la vittima avevano come unico compito quello di potere assistere alla condanna per essere testimoni della sua effettiva irrogazione da parte delle istituzioni; nel modello Riabilitativo, dove il trattamento sanitario e rieducativo avveniva all’interno di strutture chiuse – fossero case di correzione, ospizi o manicomi – ci si poteva solo affidare all’attesa che i trattamenti sanitari e la rieducazione sociale potessero portare davvero ad un reinserimento  del soggetto nel tessuto di appartenenza».

Come si perviene, allora, alla (ri)comparsa di alcuni strumenti e approcci di Giustizia Riparativa?

«Solamente dalla seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso, facendo memoria di quanto ancora accade nelle cosiddette società a lenta evoluzione – come le tribù della Nuova Zelanda o gli indigeni Wayuus tra la Columbia e il Venezuela -, si inizia a prendere in considerazione l’allarme sociale che la devianza produce e a considerare l’ambiente di appartenenza degli autori come un soggetto leso nelle sue aspettative, in particolare quelle nutrite nei confronti dei propri membri. Secondo tale prospettiva solamente quando i rei, avendo preso coscienza dei danni causati, si attivano per porre in essere delle riparazioni, vengono riaccolti come cittadini “nuovi” della società».

Quali sono dunque gli strumenti di Giustizia (Riparativa) di Comunità che trovano applicazione in Italia?

«Per quanto oggi siano ancora poche in Italia le sperimentazioni sulla Giustizia di Comunità, assistiamo comunque ad una loro lenta implementazione nei programmi di Giustizia Riparativa.

Tra i principali che abbiamo preso a modello dai paesi oltre Oceano ricordiamo i seguenti.

I Restorative Circols (dialogo riparativo) che trae origine dai circoli rituali all’interno dei quali le tribù usavano riunirsi per risolvere i loro conflitti e sono caratterizzati dalla possibilità di promuovere un dialogo guidato in cui ciascuno dei partecipanti può esprimere, attraverso la narrazione dei fatti, la propria percezione della portata e della valenza del conflitto, delle emozioni coinvolte, del danno subito nella sua globalità e proporre soluzioni sulla modalità di prevenire danni futuri. All’interno del Circols, oltre alla vittima e all’autore dell’evento, prendono parte anche i rappresentanti delle istituzioni.

I Family Group Conferencing (modalità operative) sono una forma di mediazione allargata, che trae origine da alcune pratiche diffuse nelle comunità aborigene della Nuova Zelanda e nella quale si tende a realizzare un dialogo esteso ai gruppi parentali e a tutti i soggetti coinvolti nella commissione di un reato, al fine di decidere collettivamente le modalità di gestione del conflitto nascente dall’evento. All’interno di questo gruppo la comunità è presente attraverso i rappresentanti delle forze dell’ordine, dei servizi sociali».

Qui si trova il video dell’intervento di Maria Alice Trombara.

Il secondo intervento, di Maurizio D’Alessandro, è visibile qui; quello precedente, il primo, di Martina Vallesi si trova qui. Invece, qui è pubblicato il video dell’ultimo intervento della Tavola Rotonda “Ricostruire Legami”, quello di Antonella Baiocchi, su micro e macro conflitti e sul loro impatto emotivo sui protagonisti e sulla comunità.

Maurizio D’Alessandro: Comunità e Istituzioni: accogliere il disagio e arginare il disordine – Tavola Rotonda Ricostruire legami

Maurizio D’Alessandro, nella sua relazione alla Tavola Rotonda “Ricostruire legami“, ha proposto una riflessione in cui taluni miti dell’antichità – in particolare, alcune tragedie che li hanno rappresentati e alcune loro interpretazioni filosofiche (la trilogia dell’Orestea di EschiloLe Baccanti di Euripide e Platone) -, sulla transizione dalla giustizia privata a quella istituzionale e sulla necessità di riconoscere la parte irrazionale, e la distinzione di Ferdinand Tönnies tra Comunità e Società, si collegano ai significati sottesi ai Servizi gratuiti di Ascolto e Mediazione nei diversi ambiti (da quello familiare a quello penale) erogati da Me.Dia.Re.

In particolare, spiega Maurizio D’Alessandro,

«A partire nelle riflessioni di Ferdinand Tönnies nel suo testo più famoso Comunità e società del 1878 assistiamo alla separazione tra due tipi di aggregazioni umane: la comunità da una parte e la società dall’altra. Le comunità sono aggregati organici basati su relazioni parentali e di conoscenza diretta e intima, per esempio il rapporto madre-bambino è il primo nucleo in cui si formano le comunità che sono dunque aggregati piccoli caratterizzati da relazioni parentali o comunque a cui non partecipano molti individui.

Con l’urbanizzazione emerge la società in cui il rapporto tipico tra gli individui è un rapporto di scambio quindi un rapporto di reciproca competizione tra di loro.

Nella contemporaneità il termine comunità è sempre più presente (e forse discusso); assistiamo quindi a una dialettica tra i legami che potremmo definire comunitari (la famiglia, gli abitanti del quartiere etc.) e l’istituzione.

A proposito della nascita delle istituzioni da punto di vista mitologico-narrativo un modello può essere l’Orestea di Eschilo: a seguito del ritorno di Agamennone dopo la guerra di Troia, questi viene ucciso dalla moglie Clitemnestra e dall’amante Egisto. L’ultima tragedia della trilogia: le Eumenidi, descrive il passaggio dal diritto privato basato sulla vendetta compiuta da Oreste ai danni della madre e di Egisto, al “tribunale” come passaggio al mondo delle istituzioni.

Facendo un passo avanti Le baccanti di Euripide in cui Penteo non riconosce la divinità di Dioniso, dio del vino e che ha sempre rappresentato nella Grecia classica il mondo dell’irrazionale, presenta un caso particolare di “delitto”: non riconoscendo la divinità del Dio, Penteo infatti, viene ucciso dalle Baccanti che non lo individuano come il re di Tebe. Potremmo dire che se la parte irrazionale non viene riconosciuta può essere distruttiva.

La polis dunque come istituzione può fungere da contenimento a quella spinta irrazionale e distruttiva che sembra caratterizzare sia il singolo soggetto sia gli  aggregati umani.

Parlando di Restorative Justice mentre in francese la traduzione Justice Réparatrice ricalca quella più diffusa in Italia, lo spagnolo con la traduzione: Justicia Restaurativa sembra tener conto di una sfumatura importante.

Queste traduzioni destano curiosità perché fanno sorgere una domanda: la mediazione ha una funzione riparatrice o può anche solo permanere nel concetto di “Ristoro”? Prima della mediazione, quindi, il “riconoscimento” che si attua attraverso l’ascolto, può essere la chiave di volta su cui fondare l’intervento mediativo affinché tanto la vittima, quanto il reo possano essere accolti e ascoltati, al di là dei ruoli stereotipici loro attribuiti».

Qui si trova il video dell’intervento di Maurizio D’Alessandro.

Il precedente intervento, quello di Martina Vallesi, sugli obiettivi della Giustizia Riparativa come strumento di riparazione dei legami nella comunità è visibile qui; quello successivo, il terzo, di Maria Alice Trombara sugli strumenti di Giustizia Riparativa nella vita delle comunità si trova qui. Invece, in questo post è pubblicato il video dell’ultimo intervento della Tavola Rotonda “Ricostruire Legami”, quello di Antonella Baiocchi, su micro e macro conflitti e sul loro impatto emotivo sui protagonisti e sulla comunità.

 

M. Vallesi: Funzioni della Giustizia Riparativa all’interno della comunità – Tavola rotonda Ricostruire legami

«La Giustizia Riparativa può essere utilizzata a livello comunitario per la riparazione dei legami, che, poi, sono il fondamento del vivere comune. Infatti tutta la normativa internazionale in materia ribadisce che questo nuovo paradigma di giustizia è funzionale al recupero di quei legami che si rompono per effetto di un reato o di un conflitto generato da quello».

Ha affermato Martina Vallesi nella sua relazione alla Tavola Rotonda “Ricostruire legami“, citando anche la Risoluzione 15/‘02 del Consiglio Economico e Sociale dell’ONU (Standards and norms in crime prevention and criminal justice), nella quale si propone una definizione sovranazionale di Giustizia Riparativa come quel procedimento in cui «la vittima e il reo, e dove appropriato, ogni altro individuo o membro della comunità leso da un reato, partecipano insieme, attivamente, alla risoluzione delle questioni sorte dal reato, generalmente con l’aiuto di un facilitatore».

Ma nella sua relazione, Martina Vallesi cala anche il discorso nella concretezza della vita quotidiana in una comunità, raccontando, ad esempio, di come sia stato fondamentale il coinvolgimento della cittadinanza nel corso di un’esperienza di mediazione di un conflitto, connesso alla realizzazione di un progetto di riqualificazione urbanistica di una zona periferica.

Del resto, spiega Martina Vallesi,

«Da sempre, il Diritto penale e le Scienze criminologiche hanno concentrato l’attenzione sulla figura del delinquente, sulla sua personalità, sulla possibilità di recupero e sull’individuazione di un trattamento sanzionatorio di natura penale adeguato al crimine commesso, dimenticando di considerare i soggetti deboli del “rapporto” criminoso.

Permettere a “vittima” e “comunità” di entrare nella dimensione riparativa, equivale a riportare il conflitto generato dal reato all’interno della dimensione in cui si è creato, perché è lì che può trovare migliore cura».

Qui si trova il video dell’intervento di Martina Vallesi.

Il successivo intervento, di Maurizio D’Alessandro, è visibile qui; quello seguente, il terzo, di Maria Alice Trombara, sugli strumenti di Giustizia Riparativa nella vita delle comunità si trova qui. In questo post è pubblicato il video dell’ultimo intervento della Tavola Rotonda “Ricostruire Legami”, quello di Antonella Baiocchi, su micro e macro conflitti e sul loro impatto emotivo sui protagonisti e sulla comunità.

 

L’influenza della cultura cristiana nella mediazione penale

La Giustizia Riparativa e, in particolare, la Mediazione Penale in particolare possono risentire dell’influenza culturale del cristianesimo, ad esempio su registri come quello dell’espiazione o quello del perdono,

si è chiesto Maurizio D’Alessandro, rivolgendosi ai relatori (Maria Alice Trombara, Maria Rosaria Sasso, Alberto Quattrocolo e Giovanni Grauso) della Tavola Rotonda “Cittadinanza alle emozioni. La Mediazione dei Conflitti e i suoi ambiti“.

In questo video è possibile seguire le riflessioni che sono state svolte, anche da Martina Vallesi, grazie a quella domanda, posta dopo alcune osservazioni svolte dai relatori e dai partecipanti sulle relazioni appena esposta.

Il tema della Giustizia Riparativa nella nuova riforma del processo penale è quello affrontato nel video dell’intervento di Giovanni Grauso. Mentre in questo post è pubblicato il video del terzo intervento, di Maria Rosaria Sasso, su “La Mediazione Scolastica”. In questo post è pubblicato il video del secondo intervento, di Alberto Quattrocolo, su “Ascolto e Mediazione in ambito sanitario“. Il video del primo intervento, quello di Maria Alice Trombara, sulla Mediazione Penale, è contenuto in questo post.

Giovanni Grauso: La Giustizia Riparativa nella nuova riforma del processo penale – Tavola rotonda Cittadinanza alle emozioni

Giovanni Grauso svolge le sue riflessioni su possibilità e limiti delle previsioni della Giustizia Riparativa nella nuova riforma del processo penale.

Qui sotto è possibile vedere il video dell’intervento di Giovanni Grauso.

Mentre in questo post è pubblicato il video del terzo intervento di Maria Rosaria Sasso, su “La Mediazione Scolastica”. In questo post è pubblicato il video del secondo intervento, di Alberto Quattrocolo, su “Ascolto e Mediazione in ambito sanitario“. Il video del primo intervento, quello di Maria Alice Trombara, sulla Mediazione Penale, è contenuto in questo post. In questo ulteriore post è pubblicato il video del confronto tra questi relatori stimolati da una domanda-riflessione di Maurizio D’Alessandro riguardo a se e a quanto la mediazione penale (ma anche quella familiare e quella in altri ambiti relazionali e sociali) sia influenzata dalle radici cristiane della nostra cultura.

Maria Rosaria Sasso: La Mediazione Scolastica – Tavola rotonda Cittadinanza alle emozioni

La Mediazione Scolastica, il suo senso, la sua funzione e le sue ricadute, è al centro del discorso di Maria Rosaria Sasso, in questo video del terzo intervento della tavola rotonda “Cittadinanza alle emozioni. La Mediazione dei suoi Conflitti e si suoi ambiti”.

Infatti, come sostiene nella sua riflessione:

«Purtroppo nella scuola, che è la prima agenzia di socializzazione, si parla troppo poco di emozioni, ma a queste e ai conflitti che lì sorgono (quelli tra studenti, quelli tra questi e gli insegnanti, quelli tra le famiglie e i docenti…) può dar voce, e la dà, la Mediazione Scolastica»

Qui sotto è possibile vedere il video dell’intervento di Maria Rosaria Sasso.

Mentre in questo post è pubblicato il video del quarto intervento nella tavola rotonda “Cittadinanza alle emozioni”, quello di Giovanni Grauso, su “La Giustizia Riparativa nella nuova riforma del processo penale“. In questo post è pubblicato il video del secondo intervento, di Alberto Quattrocolo, su “Ascolto e Mediazione in ambito sanitario“. Il video del primo intervento quello di Maria Alice Trombara, sulla Mediazione Penale, è contenuto in questo post. In questo ulteriore post è pubblicato il video del confronto tra questi relatori stimolati da una domanda-riflessione di Maurizio D’Alessandro riguardo a se e a quanto la mediazione penale (ma anche quella familiare e quella in altri ambiti relazionali e sociali) sia influenzata dalle radici cristiane della nostra cultura.

 

A. Quattrocolo: Ascolto e Mediazione dei Conflitti in ambito sanitario – Tavola Rotonda Cittadinanza alle emozioni

«Perché mediare i conflitti tra medici, o infermieri, ecc., e pazienti (e loro famigliari)? Perché ci sono.

La risposta più semplice e superficiale è: perché ci sono.

Se ci si chiede da quando ci sono, la risposta si fa più complessa: in un certo senso, ci sono da sempre.

In generale, uno dei principali meccanismi relazionali d’innesco del conflitto, tra individui e tra gruppi (più o meno organizzati) è il vissuto di mancato riconoscimento sperimentato da almeno uno dei protagonisti della relazione (…) Quando il paziente sente di non essere riconosciuto come persona, sperimenta la negazione di un suo bisogno fondamentale; ma anche quando un medico incontra atteggiamenti non collaborativi od oppositivi del paziente, oppure quando viene trattato con sufficienza, o peggio quando è sospettato di negligenza, imperizia o imprudenza, sente negato, tra gli altri, anche il suo bisogno di essere riconosciuto nel suo ruolo e nella sua identità professionale, e sente ignorata la normale esigenza di essere rispettato in quanto essere umano che ricopre quel ruolo. Non scordiamo, tra parentesi, che accusare qualcuno di aver agito con imprudenza, imperizia o negligenza, significa mettere in dubbio la sua moralità personale.

Per gestire il conflitto tra professionisti della salute e pazienti, occorre entrare dentro la carne viva del conflitto. Cioè, occorre ascoltare sentimenti ed emozioni, pensieri e posizioni dei pazienti e dei professionisti in conflitto».

Nel secondo intervento alla tavola rotonda “Cittadinanza alle emozioni. La mediazione dei suoi conflitti e i suoi ambiti” (organizzata dall’Associazione Me.Dia.Re. il 12 novembre), è sull’esperienza pratica di Ascolto e Mediazione svolta da Me.Dia.Re. e dalle équipe formate da tale associazione nelle Aziende Sanitarie Pubbliche che si è basata la riflessione di Alberto Quattrocolo sulle possibilità di gestire i conflitti tra professionisti e pazienti (che si manifestino con denunce o richieste di risarcimento per responsabilità professionale, con reclami, con aggressioni ai danni degli operatori e in altri modi ancora).

Qui sotto è possibile vedere il video dell’intervento di Alberto Quattrocolo su Ascolto e Mediazione dei Conflitti in ambito sanitario.

Mentre in questo post è pubblicato il video del primo intervento nella tavola rotonda “Cittadinanza alle emozioni”, di Maria Alice Trombara, sulla Mediazione Penale. Qui, si trova il terzo intervento, di Maria Rosaria Sasso, su “La Mediazione Scolastica” e in quest’altro post abbiamo pubblicato il quarto intervento, di Giovanni Grauso, su “La Giustizia Riparativa nella nuova riforma del processo penale“. In questo ulteriore post è pubblicato il video del confronto tra questi relatori stimolati da una domanda-riflessione di Maurizio D’Alessandro riguardo a se e a quanto la mediazione penale (ma anche quella familiare e quella in altri ambiti relazionali e sociali) sia influenzata dalle radici cristiane della nostra cultura.

M. A. Trombara: La mediazione penale – Tavola Rotonda Cittadinanza alle emozioni

Maria Alice Trombara, nella tavola rotonda “Cittadinanza alle emozioni. La mediazione dei suoi conflitti e i suoi ambiti”, organizzata dall’Associazione Me.Dia.Re. il 12 novembre, ha spiegato premesse, caratteristiche, approcci, obiettivi della Mediazione Penale, come strumento di Giustizia Riparativa. In tale prospettiva, Maria Alice Trombara svolge un fondamentale excursus storico dei passaggi dei diversi paradigmi di giustizia, da quella Retributiva a quella Riabilitativa, per giungere, infine, a quella Riparativa, soffermandosi anche sulle esperienze europee ed italiane di mediazione penale e sul modello Umanistico di quest’ultimo, i suoi significati, le sue fonti d’ispirazione e le sue peculiarità.

Qui sotto è possibile vedere il video dell’intervento di Maria Alice Trombara.

Mentre in questo post è pubblicato il video del secondo intervento nella tavola rotonda “Cittadinanza alle emozioni”, quello di Alberto Quattrocolo, sulla mediazione dei conflitti tra medico e paziente (“Ascolto e Mediazione in ambito sanitario“). Qui, si trova il terzo intervento, di Maria Rosaria Sasso, su “La Mediazione Scolastica” e in quest’altro post abbiamo pubblicato il quarto intervento, di Giovanni Grauso, su “La Giustizia Riparativa nella nuova riforma del processo penale“. In questo ulteriore post è pubblicato il video del confronto tra questi relatori stimolati da una domanda-riflessione di Maurizio D’Alessandro riguardo a se e a quanto la mediazione penale (ma anche quella familiare e quella in altri ambiti relazionali e sociali) sia influenzata dalle radici cristiane della nostra cultura.