Fair Play Goodbye

In occasione della recente vittoria (11 luglio 2021), nella finale del campionato europeo, degli azzurri contro la nazionale inglese a Wembley, è stato osservato che il proverbiale ossequio britannico al fair play è venuto meno: non per caso s’intitola “Inghilterra sconfitta, c’era una volta il fair play” l’articolo scritto da Enrico Franceschini su Repubblica, l’indomani della partita. E, di certo, non è stato Franceschini il solo a proporre questo rilievo.

La mediazione non si occupa della gestione di quelle particolari contese costituite dalle competizioni sportive (semmai dei conflitti extra-sportivi che da quelle sorgono), le quali sono sottoposte a specifiche regole e a sistemi di governo e di valutazione istituzionalizzate da ben prima che la mediazione diventasse una professione. Del resto, in campo vigono, appunto, norme e sanzioni e operano arbitri con il fine di garantire il rispetto di una soglia minima di fair play da parte degli attori in competizione: regole e sorveglianti, a ben vedere, che prevedono e perseguono in ogni caso un livello basico di riconoscimento reciproco.

Al di fuori del campo, invece, in quel più vasto campo di gioco che è la vita, il rispetto del fair play non trova un supporto altrettanto istituzionalizzato, pervasivo e vincolante. E, se ciò non è certamente un male, resta un aspetto da considerare con attenzione, soprattutto da parte di chi, per le più diverse ragioni, si propone di gestire un conflitto.

“L’ideale di combattere con onore per una causa che sia buona”

Ha scritto, anni fa, Johan Huizinga:

«È un ideale umano di ogni epoca quello di combattere con onore per una causa che sia buona. Questo ideale sin dall’inizio è violato nella sua cruda realtà. La volontà di vincere è sempre più forte dell’autodominio imposto dal senso d’onore. Per quanto la civiltà umana ponga dei limiti alla violenza a cui si sentono portati i gruppi, tuttavia la necessità di vincere domina a tal punto i combattenti che la malizia umana ottiene sempre libero gioco e si permette tutto ciò che può inventare l’intelletto» [1].

Ebbene, queste amare osservazioni relative alle condotte conflittuali di popoli o di gruppi ampi di persone, in realtà, possono essere estese con notevole frequenza anche ai conflitti inter-individuali o, comunque, tra gruppi più ristretti di persone.

In termini più prosaici, si potrebbe asserire, quando litighiamo, pur avendo consapevolezza dei vincoli costituiti dai doveri di correttezza, di lealtà, di adesione alla verità dei fatti, e dalla necessità di conservare, appunto, un certo fair play, la volontà di prevalere, o il connesso timore che a prevalere possa essere la nostra controparte, ci succede spesso che sia «più forte dell’autodominio imposto dal senso d’onore».

Lo screditamento e la denigrazione dell’avversario e altri colpi bassi di varia natura

Chiunque si occupi di gestione dei conflitti – ma, si potrebbe dire, chiunque si dia la briga di guardarsi attorno e magari anche un po’ dentro – sa bene come questi molto spesso siano caratterizzati da una progressione, la cosiddetta escalation, la quale, sul piano mentale, implica e, contestualmente stimola, una vicendevole rappresentazione astratta dell’altro. Costui diventa, infatti, agli occhi della mente della sua controparte, il nemico. Cessa di essere percepito e pensato come un essere umano in carne e ossa, per diventare una sorta di precipitato di malignità, un concentrato di vizi morali, capace di compiere le peggiori nefandezze. E come tale viene non soltanto pensato, ma anche descritto ai terzi, cioè: a coloro che, ancora tentennanti o già convinti, si cerca di persuadere a sposare la propria (giusta e perfino santa) causa o che si vuole fidelizzare ad essa, a coloro che si teme possano essere sedotti dalla perfida abilità oratoria dell’avversario e a coloro che, per ruolo, attitudine, scelta del momento o altro, si astengono dal parteggiare.

Tra questi ultimi, ovviamente, figurano sia coloro hanno un ruolo formale o informale di arbitro o di giudice, e quelli che svolgono una funzione di mediazione. Il tutto con buona pace dei principi e dei doveri di fair play, anche, anzi soprattutto, quando esplicitamente richiamati.

Anche i mediatori (familiari, penali, civili e commerciali, ecc.), quindi, hanno la frequentissima esperienza di imbattersi in narrazioni reciprocamente demonizzanti dei protagonisti del conflitto, impegnati a tratteggiarsi l’un l’altro a tinte fosche, non disdegnando di ricorrere ad ogni mezzo pur di screditare la controparte. Sicché i tentativi di levare ogni traccia di attendibilità alla versione dei fatti proposti dal nemico – giacché l’escalation del conflitto diventa una vera e propria opera di costruzione dell’immagine del nemico – si sostanziano anche in più o meno giuridicamente rilevanti comunicazioni diffamatorie.

In certi casi trova inveramento puntuale nelle dinamiche conflittuali afferenti la sfera dei rapporti privati (ad esempio, nei conflitti interni a gruppi di lavoro o in altre comunità ristrette) qualcosa di simile alla deplorevole moralmente e intrinsecamente antidemocratica opera di “character assassination” alla quale assistiamo nel conflitto politico tanto spesso e, forse, in misura crescente.

Le licenze dalla verità e la sospensione della sincerità

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Infangare la controparte, poi, significa anche infischiarsene del rispetto per la verità. E anche qui il fair play va a farsi benedire.

L’abbandono della correttezza del comportamento, in ordine al mancato rispetto per la verità, cui ci si riferisce non riguarda il registro dell’obiettività. È chiaro, infatti, che se si è di parte (se si è parte di un conflitto) l’obiettività ne risente. L’indifferenza al fair play rispetto al tema della verità riguarda piuttosto la possibilità – tutt’altro che rara – che i confliggenti: omettano coscientemente di dire qualcosa di poco conveniente alle loro tesi; edulcorino a bella posta la gravità delle loro azioni aggressive, o degli effetti nocivi di queste; ancora, sempre per infangare o ridicolizzare l’immagine del nemico, distorcano i fatti e i loro significati, oppure s’inventino cose mai inveratesi. La prima vittima del conflitto è la verità, infatti, è il titolo di un post pubblicato su questo sito, anch’esso, come il presente, nella rubrica Riflessioni. Si spiegava lì che

«ciascuna delle parti è convinta di averne il monopolio [della verità] e rigetta i contenuti e gli argomenti della controparte, in quanto falsi. Essere dalla parte della verità, del resto significa anche essere dalla parte giusta, cioè della giustizia. Quindi, anche se si dovesse mentire, inventando dei fatti o alterandone la dinamica o il significato, magari nel tentativo di persuadere altre persone della validità e giustezza delle proprie idee e comportamenti, ci si può sentire, comunque, dalla parte della verità: infatti, la menzogna proposta verrebbe considerata solo come uno strumento al servizio del superiore fine della vittoria sulla controparte, che costituirebbe l’affermazione della giustizia sull’ingiustizia, del vero sul falso… ».

La mancanza di riguardo per le vittime casuali

Le ultime considerazioni citate rinviano ai diversi sofisticati modi con i quali, confliggendo, ci capita di azzittire la nostra coscienza, quella vocina interna che ci lancia, inascoltati ma variamente molesti, appelli al fair play e, ancor più basicamente ai principi della morale comune, codificati anche da diversi precetti religiosi. Siamo dotati, infatti, di un’abilità talmente formidabile nell’eludere quei vincoli morali, quando ci troviamo impegnati in una schermaglia diretta o indiretta con il nostro nemico, che riusciamo molto spesso a negare anche le nostre responsabilità rispetto ai danni che derivano ai terzi dalla nostra condotta conflittuale. In tali casi, la neutralizzazione della responsabilità può consistere nell’attribuirla alla controparte, nell’escludere l’effettività dei disagi e delle sofferenze procurate agli “innocenti”, o nel ridurre la gravità,  oppure nel sostenere che i terzi, in realtà, non sono affatto innocenti e che gli effetti dannosi da essi patiti patiti sono, a ben vedere, più che meritati.

In fondo, è in considerazione di tali risvolti dei conflitti tra genitori interessati da una vicenda separativa che si è affermata la mediazione familiare. Cioè, per prevenire e contenere le sofferenze dei figli. Ma, tanto per non dare (solo) la croce addosso alle coppie genitoriali in conflitto, si potrebbe porre mente alla sfrontata violenza verbale dilagante tra politici e tra elettori, spesso con il contributo determinante di giornalisti, opinionisti e influencer vari, sui social media e altrove, nei confronti degli avversari, ai cui famigliari non viene dedicato neppure il più sbiadito pensiero. Come, del resto, si può pensare alla sfacciataggine del ricorso metodico alla produzione e alla sistematica diffusione delle cosiddette fake news nel dibattito pubblico.

Il lato oscuro che il mediatore non deve giudicare, ricordando che, forse, neanche egli è sempre stato un campione di fair play

«La guerra tira fuori sempre il peggio dalle persone. Mai il meglio.», dice Oskar Schindler (Liam Neeson) in “Schindler’s List” (1993, di Steven Spielberg).

Sia pure in termini meno cruenti e devastanti, lo stesso può dirsi molto spesso degli ordinari conflitti della nostra quotidianità. Quei conflitti – in famiglia, sui luoghi di lavoro, in sanità, nonché nei rapporti conflittuali esitati in un reato o nei conflitti sorti dalla commissione di un reato (quelli gestiti dalla mediazione penale) -, cioè, di cui si occupa la mediazione nei suoi diversi campi applicativi.

Il mediatore, pertanto, una certa dimestichezza con tale lato oscuro dovrebbe avercela fin dall’inizio della propria carriera. Perché, se, da un lato, è astrattamente vero che, parafrasando Mao Tse Dong, non soltanto la rivoluzione ma anche un conflitto tra vicini di casa, o tra coniugi, non è un pranzo di gala, dall’altro, c’è un’altra più banale realtà da affrontare: noi mediatori non siamo antropologicamente diversi dai confliggenti che ascoltiamo. Navighiamo sugli stessi mari e sulla stessa barca. Anche a noi, verosimilmente, è capitato, e capiterà ancora, di tentare di comunicare ad altri l’immagine negativa che abbiamo della nostra controparte. E, se, nel farlo, ricorreremo a premesse e postille autodenuncianti esplicitamente la nostra parzialità, non dovremmo escludere che proprio quelle accortezze siano in realtà finalizzate a dare prova della nostra onestà intellettuale e, quindi, a fornire indirettamente una più forte solidità alle nostre successive affermazioni lesive della reputazione dei nostri nemici.

Insomma, anche chi per lavoro si occupa di mediazione può subire quella sorta di sotterranea dittatura del conflitto, che sottrae ai confliggenti una porzione rilevante della loro intelligenza emotiva (si veda il post Il “sequestro emozionale” del conflitto e l’ “intelligenza emotiva” della mediazione) e, di conseguenza, anche della capacità di avere il controllo sulle loro azioni e reazioni e sulla loro relazione.

Alberto Quattrocolo

[1] Huizinga J. (2004), Homo ludens, Einaudi, Torino, p. 117.

L’esperienza di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid

Dopo oltre un anno di pandemia durante il quale abbiamo continuato, anzi abbiamo dovuto ampliare, l’erogazione dei nostri tradizionali Servizi gratuiti, che sono, di fatto diventati dei Servizi gratuiti di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid (servizi svolti da remoto mediante videochiamate o conversazioni telefoniche, su appuntamento), ci sembra che valga la pena di dare conto di quanto abbiamo ascoltato dalle persone rivoltesi ai nostri servizi in questi 15 mesi abbondanti [1].

In estrema sintesi, gli interventi offerti si sono concretizzati: in una prima fase (quella corrispondente grosso modo al cosiddetto primo Lockdown), in forme di supporto erogate al fine della facilitazione della comunicazione interpersonale e della de-tensione dei rapporti principalmente per persone e famiglie che, a causa delle misure restrittive della circolazione finalizzate al contenimento dell’epidemia da Coronavirus, si sono trovate a vivere situazioni di criticità relazionali e difficoltà di comunicazione o di aperta conflittualità; in una seconda fase (il periodo estivo), in attività, sempre di ascolto e mediazione e di sostegno emotivo, indirizzate soprattutto a coloro che avevano subito gli effetti più dirompenti sul piano economico del Lockdown; nella terza fase (coincidente con la cosiddetta terza ondata), in attività di sostegno mediativo ed emotivo erogate in misura assai significativa a supporto di famiglie interessate da lutti dovuti al COVID, da esperienze di malattia con conseguente messa in quarantena presso il proprio domicilio e anche da ricoveri in terapia intensiva di uno o più membri del nucleo famigliare o di persone affettivamente significative facenti parte del gruppo famigliare più esteso.

I principali stati d’animo accolti nei Servizi gratuiti di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid

In generale, i principali vissuti emersi nei fruitori dei nostri servizi gratuiti sono stati quelli dell’impotenza e dell’insicurezza, acuiti dalla sensazione di non potersi porre come soggetti attivi ma solo come vittime della situazione di disagio. Ciò quasi sempre si è accompagnato a vissuti di colpevolizzazione o inadeguatezza. In alcuni casi questa condizione emotiva ha portato all’innescarsi di meccanismi di auto-isolamento dalla famiglia, come modalità di evitamento rispetto alla situazione. Così, si è riscontrato come la mancanza di comunicazione e di attenzione tra i membri della famiglia abbia talora provocato all’intero sistema familiare uno stato di confusione e disorganizzazione, creando un ambiente pervaso dall’ansia e dall’insicurezza. Più in generale, si è riscontrato come le accresciute difficoltà dei membri della famiglia nel continuare a supportarsi a vicenda abbiano spesso dato luogo ad un incremento della conflittualità.

La traduzione dell’angoscia e dell’impotenza in rabbia verso l’altro

Uno degli aspetti positivi che i percorsi hanno rivelato possedere riguarda l’elaborazione della rabbia: al termine del percorso svolto le persone hanno superato la tendenza a scaricare sull’altro la rabbia, scaturita da frustrazioni, angosce e dolori. In particolare, si è consapevolizzato che la rabbia, proiettata all’esterno crea lontananza, sia nel senso che tiene lontani gli altri, sia nel senso che ci si allontana dall’altro. Alimentando quella solitudine, fonte di ulteriore incrementi di dolore e rabbia.

Più nel dettaglio si è osservato quanto segue:

  • nella prima fase, le gran parte dei problemi relazionali ed emotivi gestiti erano legati soprattutto alla costrizione alla permanenza in casa, che aveva prodotto l’innesco di difficoltà di comunicazione, nei termini di un’esasperazione di dinamiche conflittuali preesistenti, oppure di una slatentizzazione di quelle fino a quel momento controllate. Più raramente sono state gestite tensioni tra famigliari, i quali, non trovandosi nella stessa abitazione, proprio per l’impossibilità di incontrarsi e frequentarsi, avevano sviluppato rilevanti difficoltà di dialogo;
  • nella seconda fase, sono prevalsi i conflitti e i disagi riconducibili agli effetti lungo termine del cosidetto Lockdown. In particolare, si è trattato di dinamiche conflittuali e di sofferenze dovute al fatto che lo stress, le paure e le frustrazioni, anche e soprattutto legate alle ricadute economico-occupazionali dell’epidemia, hanno dato luogo a difficoltà di condivisione e di supporto reciproco, traducendosi in fattori emotivi favorenti, appunto, l’assunzione di atteggiamenti risentiti o di condotte conflittuali;
  • nella terza fase, si è spesso appurato come moltissime situazioni conflittuali riproducessero nella sfera privata (famigliare) il conflitto manifestatosi sulla scena pubblica: coloro i quali sono stati denominati “negazionisti”, “no mask” e “minimizzatori” versus coloro cui è stata appioppata dai primi l’etichetta di “allarmisti”, “ipocondriaci”, “creduloni”, “complici della dittatura sanitaria”. Infatti, all’interno delle coppie e delle famiglie interessate da tale conflitto le tensioni si collegavano alle diverse modalità di reagire alle misure di prevenzione del contagio, come in parte riscontrato anche nei periodi precedenti, ma con un sovrappiù di ideologizzazione del conflitto. In ordine a tali situazioni, la criticità più ovvia per i mediatori è stata la conservazione di atteggiamenti di imparzialità (specie in rapporto alle più urlate prese di posizione negazioniste), rispetto alla quale si è rivelato provvidenziale, per presidiare quell’irrinunciabile aspetto dell’atteggiamento del mediatore, la forma supportiva costituita dalla supervisione. Va tuttavia segnalato che, in tutti i casi affrontati l’ideologizzazione del conflitto in questione era più apparente che sostanziale e, in ogni caso, costituiva una modalità reattiva rispetto all’angoscia e alla frustrazione, talché la stessa gestione di tali contrapposizioni, a prima vista caratterizzate da impressionante estremismo, è stata meno ardua di quanto inizialmente temuto.

Una contraddizione profonda sullo sfondo

In termini più generali, facendo ricorso a concetti psicoanalitici, può dirsi che, nello svolgere quest’attività gratuita di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid, si è rivelata la costanza di una irrisolta tensione interiore tra i freudiani “istinto di vita” (Eros) e “istinto di morte” (Thanatos), cioè tra le pulsioni di vita, quelle costruttive e vivificanti, che inglobano le pulsioni sessuali e sono alla base dei comportamenti mirati alla conservazione e allo sviluppo della vita, e la pulsione di morte, che rappresenterebbe la tendenza umana verso l’aggressività, la stagnazione e la distruzione. Infatti, negli ambiti più importanti dell’esistenza le persone si sono trovate a vivere una condizione fortemente contraddittoria: per seguire l’istinto di vita (Eros), ossia per tutelare la propria e l’altrui salute, hanno dovuto osservare dei comportamenti, di per sé, sarebbero etichettabili come depressivi e simbolicamente associabili a Thanatos: tenere le distanze, mascherarsi il viso, mortificare la propria spontaneità affettiva, reprimere la propria operosità, porre un freno allo spirito di iniziativa in ambito commerciale, ecc. (su tale chiave di lettura ci siamo soffermati nel post La mediazione tra Eros e Thanatos durante la pandemia pubblicato il 21 aprile del 2020 su questa rubrica).

Lutti, quarantene e solitudini

La sofferenza personale e relazionale, spesso foriera di disagi profondi su vari membri delle famiglie, dovuta alla  difficoltà di risolvere tale contraddizione, si è spesso associata all’angoscia legata ad una minaccia invisibile, in alcuni casi anche ai lutti sofferti a causa dell’epidemia o all’esperienza della malattia e/o della messa in quarantena: in non pochi degli ultimi casi gestiti da professionisti di Me.Dia.Re. i beneficiari avevano contratto il virus ammalandosi seriamente, pur senza necessitare di ricovero in ospedale. Anche rispetto a costoro, nel momento in cui si sono trovati costretti alla quarantena all’interno della propria stanza tra le mura domestiche, il servizio gratuito offerto è stato di fatto uno spazio in cui dare cittadinanza anche assai spesso a vissuti di solitudine, in cui poterli verbalizzare e rifletterci sopra, elaborandoli, nei limiti del possibile.

Ferite e sofferenze di lenta guarigione

Si potrebbe pensare che attualmente, grazie alla sempre più rilevante vaccinazione di massa e alla conseguente riduzione dei decessi e dei ricoveri, il tema della sofferenza legata alla pandemia possa essere messo discretamente da parte. Tuttavia, questa, pur comprensibile, tentazione di lasciarsi questo doloroso e angoscioso passato alle spalle, cozza con una realtà granitica: ci vuole tempo per riprendersi da simili batoste. Senza trascurare la diffusa persistente sensazione che il flagello sia tutt’altro che risolto ma solo sospeso.

I nostri Servizi gratuiti, infatti, continuano ad erogare prevalentemente un’attività di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid poiché il dolore, in tutte le sue forme, continua a circolare, così come continua, per ora, circolare il virus. Le perdite sofferte, sia quelle di persone care (famigliari, partner, amici) che quelle di natura economica e lavorativa, non sono solchi che possa richiudersi velocemente. Anzi, in molti casi il dolore emerge in tutta la sua potenza proprio nel momento in cui la minaccia esterna si fa meno opprimente e la necessità di reagirvi si attenua. Sono quelli i momenti nei quali le nostre difese psicologiche si abbassano e i sentimenti più ingombranti fin lì tenuti a bada affiorano con acuta intensità lacerante.

Non è casuale, quindi, che quei Servizi di Ascolto e Mediazione al tempo del Covid siano fruiti anche come luogo in cui, per così dire, leccarsi le ferite. Cioè, per ascoltarsi, per entrare in contatto con le sofferenze fin lì un po’ represse, con il supporto esterno di mediatori e psicologi.

Alberto Quattrocolo

[1] In primo luogo, però, è doveroso ricordare grazie al sostegno di quali enti tali Servizi hanno potuto essere offerti gratuitamente: la Fondazione CRT, la fondazione Compagnia di San Paolo, la Città di Torino, la Circoscrizione 7 e la Circoscrizione 8 della Città di Torino.

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Intervista a Mariagrazia Bertini

L’avv. Mariagrazia Bertini, che è anche mediatrice familiare, affronta il tema della mediazione familiare con un approccio che coniuga i punti di vista e le competenze accumulate in entrambe le professioni, ponendosi così in linea con lo spirito che sottende il convegno del 19 maggio 2021, “La mediazione familiare: una risorsa di gestione dei conflitti”, organizzato da Aiga Ivrea, Aiaf sezione di Ivrea e Associazione Me.Dia.Re. (questo è il link al quale iscriversi).

In particolare, in questa videointervista Mariagrazia Bertini (di cui abbiamo pubblicato la tesi di fine corso di mediazione familiare, sui ruoli dell’avvocato e del mediatore), dopo aver soffermato l’attenzione sul fatto che “la mediazione familiare si può applicare a qualunque tipo di relazione affettiva, che siano quelle riguardanti coppie coniugate o non coniugate, coppie eterosessuali o omosessuali, oppure inerenti i rapporti intergenerazionali”, sottolinea che i due approcci (quello dell’avvocato e quello del mediatore familiare) possono essere complementari, perché non sempre i conflitti che i clienti portano nello studio legale “sono risolvibili attraverso la legge e l’intervento di un giudice”. Spesso e volentieri, aggiunge, “è necessario che si intervenga prima e con strumenti più vicini ai bisogni delle persone”.

 

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Intervista alle avv. Patricia Proshwitz Cester, Franca Sapone e Silvia di Nunno

Sono particolarmente interessanti le riflessioni, proposte in questo video sulla mediazione familiare e sui rapporti tra quell’attività e la professione legale, svolte dall’avv. Patricia Proschwitz Cester (Referente AIAF sez. di Ivrea), dall’avv. Franca Sapone (socia dell’AIAF sez. di Ivrea) e dall’avv. Silvia Di Nunno (Segretaria AIGA sez. Ivrea), che abbiamo intervistato in relazione al convegno del 19 maggio 2021, “La mediazione familiare: una risorsa di gestione dei conflitti“, organizzato da Aiga Ivrea, Aiaf sezione di Ivrea e Associazione Me.Dia.Re. (questo è il link al quale iscriversi)

L’avv. Patricia Proschwitz Cester, infatti, oltre a spiegare come per l’AIAF l’avvocato debba essere consapevole del preminente interesse del minore, auspica anche l’avvio di un approccio mediativo di tipo formativo che aiuti, preventivamente, le coppie a gestire le vicende separative, contenendo le spinte radicalmente conflittuali.  Anche l’avv. Franca Sapone (che è anche mediatrice dal 2010) svolge le sue considerazioni a partire dall’esperienza pratica accumulata intervenendo professionalmente nelle situazioni di conflittualità familiare e sottolinea come lo sviluppo di una collaborazione tra professionisti del diritto e mediatori costituisca una risorsa importante per le famiglie interessate da tali vicende conflittuali, sia nella fasi antecedenti all’iter giudiziario che durante o dopo la sua conclusione. L’avv. Silvia Di Nunno, infine, non soltanto ricorda come nello Statuto dell’AIGA, tra gli scopi istituzionali, sia specificato quello di rafforzare la funzione difensiva sia nelle giurisdizioni statali che nelle modalità alternative di risoluzione delle controversie, ma aggiunge anche, come, soprattutto, “in un contesto delicato come quello della famiglia, in cui i conflitti da gestire spesso riguardano aspetti della vita quotidiana, non sempre strettamente giuridici, sia utile interfacciarsi con un mediatore che abbia specifiche capacità di ascolto e che sappia agevolare la comunicazione”.

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La tensione tra pensiero scientifico e pensiero anti-scientifico nella terza intervista a Maurizio D’Alessandro

Intervistiamo Maurizio D’Alessandro su di un tema che in questo momento storico a ppare sempre più ingombrante: la tensione tra pensiero scientifico e pensiero anti-scientifico. Anche in tal caso, come nelle due precedenti interviste (si possono vedere qui e qui), Maurizio D’Alessandro fa ricordo al suo sapere in campo filosofico ( oltre ad essere mediatore familiare e penale, formatore, supervisore, è anche dottore di ricerca in filosofia e autore di diversi testi filosofici, tra cui è Ermeneutica, saggezza e filosofia pratica, Nuova Trauben, 2020):

per sviluppare tale tema è necessario partire da due autori Cartesio e Galileo. Entrambi si pongono come uno snodo fondamentale all’interno del cosiddetto dibattito sul metodo avvenuto nella prima metà del ‘600. Con Galileo il metodo scientifico trova nella matematica e nella quantità un linguaggio certo per confermare (o disconfermare), attraverso ipotesi e esperimenti, le nuove scoperte della scienza. Il dibattito dell’inizio del ‘600 ritorna attuale in questo momento storico in cui l’umanità riversa tutte le proprie speranze sulla scienza e sul suo sapere.

Naturalmente questo discorso suscita nuovamente l’interrogativo sul rapporto tra linguaggio e verità.

Diversi sono, invece, il linguaggio politico, etico e giuridico perché questi si avvalgono di criteri non quantificabili che si prestano maggiormente al dialogo tra le parti in una tensione spesso ancora maggiore poiché vengono a mancare oggetti  “consistenti” e quantificabili.

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Il rapporto tra il linguaggio e la verità nella seconda intervista a Maurizio D’Alessandro

Perché il linguaggio è così importante? Che rapporto c’è tra linguaggio e verità? Cosa ci insegna la filosofia riguardo al linguaggio come mezzo per accedere alla verità o per manipolarla e distorcerla? Cos’è la phronesis (traducibile come saggezza) e qual è il suo rapporto con la prassi e  l’applicazione? Cosa intendeva Gadamer sostenendo che «comprendere significa sempre applicare»?

Su questi temi si sofferma Maurizio D’Alessandro (mediatore familiare e penale, formatore, supervisore, nonché dottore di ricerca in filosofia e autore di diversi testi, di cui l’ultimo  è Ermeneutica, saggezza e filosofia pratica, Nuova Trauben, 2020), nella seconda intervista che proponiamo sulla rubrica Riflessioni (l’altra, la prima, è visibile qui).

 

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Intervista a Maurizio D’Alessandro: la filosofia di fronte all’avversione al pensiero scientifico

Intervistiamo Maurizio D’Alessandro, membro di Me.Dia.Re. fin dal 2005, mediatore familiare e penale, supervisore professionale A.I.Me.F., formatore, autore di diverse pubblicazioni sulla mediazione dei conflitti, ma anche dottore di ricerca in filosofia (e autore, in ambito filosofico, di diversi testi, tra cui, l’ultimo, è Ermeneutica, saggezza e filosofia pratica, Nuova TRauben, 2020), sul dibattito filosofico contemporaneo. In particolare, a partire dalla “alternativa tra Nietsche e Aristotele“, Maurizio D’Alessandro ci accompagna, attraverso Hans-Georg Gadamer e Rüdiger Bubner, ai concetti di phronesis (saggezza), ethos (cioè, usi, abitudini, da cui l’etica) e prassi.

Naturalmente, poiché ci occupiamo di conflitti, non ci si può sottrarre dal collegare queste riflessioni alla crescente insofferenza, per non dire, al rifiuto del pensiero scientifico.

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Il “sequestro emozionale” del conflitto e l’ “intelligenza emotiva” della mediazione

Lo psichiatra Bessel Van Der Kolk sostenne che, di fronte a certe situazioni di natura minacciosa, come quelle conflittuali, si verifica una sorta di “sequestro emozionale” o “amygdala hijack”. In particolare, nell’amigdala, cioè quella parte del nostro cervello in cui si attivano risposte istintive ed emozionali a certi stimoli, scatta l’allarme e si ha il rilascio di adrenalina e cortisolo. In altri termini, l’organismo si predispone a reagire, irrigidendo i muscoli, tendendo i nervi e alterando la pressione e la circolazione sanguigna, tanto che ci accorgiamo che, in quelle circostanze il collo e la mandibola si tendono, abbiamo una certa sensazione di calore diffuso, anche a livello lombare, mentre sentiamo il sangue affluire alle guance.

Il “sequestro emozionale” durante il conflitto

Ma, mantenendo per un attimo in vigore, un’impropria distinzione tra corpo e mente, la reazione dell’amigdala, si fa sentire anche al livello di quest’ultima, procurando, appunto, il suddetto “sequestro emozionale”.

Tale sequestro agisce sulle nostre facoltà intellettuali, incidendo, ad esempio, in termini negativi sulla nostra memoria e sulla nostra capacità di organizzare i pensieri e la loro esposizione verbale.

Nelle situazioni conflittuali, in effetti, non è raro riscontrare come proprio ciò che ci servirebbe di più, ovvero una certa capacità nel verbalizzare argomenti, sentimenti e ragioni, diventa fallace o addirittura latitante. Quando, come suole dirsi, ci va il sangue alla testa, il nostro eloquio ne risente, diventiamo confusi e anche la nostra capacità di ordinare i ricordi zoppica. Accade che aggiungiamo dettagli imprecisi, ricordiamo fatti o particolari diversi da quelli accaduti, rammentiamo male le esatte parole dette da altri.

L’esplosione del conflitto, dunque, incide sulla nostra capacità di impiegare al meglio la nostra intelligenza. Ma ad essere toccata è anche una particolare forma di intelligenza, la cosiddetta “intelligenza emotiva”.

L’intelligenza emotiva di Goleman

Nel 1995  Daniel Goleman, nel proporre la sua teoria dell’intelligenza emotiva, specificò che essa non va confusa con il QI (quoziente intellettivo) e che, a differenza di quello, ha una maggiore attinenza con il latino intelligere, cioè, “intŭs legĕre”, capire le cose che stanno dentro, sotto, oltre, la superficie. Secondo la sua teoria, l’intelligenza emotiva, che va intesa come la capacità di rilevare le proprie emozioni, di gestirle, di motivarsi, di riconoscere le emozioni altrui e di dare luogo a rapporti interpersonali di qualità, si fonda su cinque pilastri:

L’intelligenza emotiva si basa su cinque pilastri: la self awareness, che è la capacità di essere consapevoli di ciò che si prova, cioè dei proprio sentimenti e delle proprie emozioni; la self regulation, che consiste nella capacità di gestire sentimenti ed emozioni; la motivation, la quale va intesa come attitudine ad assumere comportamenti e atteggiamenti conformi alla propria autonoma volontà e non alle aspettative o alle indicazioni di altri o ai condizionamenti di particolari situazioni; l’empathy, vale a dire la capacità di sentire e riconoscere emozioni e sentimenti altrui; la socialization, che, può essere considerata la capacità di declinare, in pratica, le suddette quattro disposizioni nelle situazioni di tipo sociale.

Gli effetti del conflitto sull’intelligenza emotiva

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Una condizione conflittuale particolarmente accesa tra due o più persone, è esperienza comune, vede intaccate le capacità cognitive ed emotive dei suoi protagonisti. Sul primo registro, capita frequentemente di realizzare in seguito, se ci si prende la briga di ripassare certi passaggi degli scontri, di avere detto cose che, in altri momenti non si sarebbero dette e neppure pensate; ci si accorge, poi, di aver svolto ragionamenti dalla logica stiracchiata, di avere proposto argomenti traballanti e avanzato prove tutt’altro che conclusive a supporto delle proprie tesi urlate, delle proprie dimostrazioni, in realtà non così compiutamente dimostrate, delle proprie convinzioni, aventi, in effetti, non pochi risvolti dogmatici. Sul piano emotivo, ci si avvede di avere perso il controllo sulle proprie reazioni emotive, di essersi scaldati troppo. O, magari, di aver perso l’uso della parola, di essere rimasti ammutoliti, congelati (nel 18° appuntamento di Note di mediazione, Daniela Meistro Prandi si è soffermata sugli aspetti e sui risvolti dell’emozione della paura nella mediazione dei conflitti e nel 19° video ha preso in considerazione la rabbia).

Com’è noto, l’escalation conflittuale si palesa su molteplici registri personali e interpersonali (si potrebbe dire, intra-psichici e inter-psichici), tra di loro collegati. Ed è a tale livello che, se vogliamo utilizzare a fini descrittivi le suggestioni provenienti dai contributi di David GolemanBessel Van Der Kolk, che la nostra intelligenza emotiva subisce degli effetti e si verifica il sopra citato sequestro emozionale.

Il sequestro emozionale e la de-umanizzazione dell’altro.

Nella progressione del conflitto, infatti, accade che l’altro cessa di essere una persona con la quale si interloquisce per diventare un nemico: da soggetto umano in carne e ossa, dotato di pensieri, interessi, sensibilità e sentimenti, diventa qualcosa di assai poco concreto. Diventa un nemico. Ai nostri occhi e alle nostre orecchie, assume forme e suoni più o meno mostruosi: è l’entità che ci infligge sofferenze evitabili, ingiustificate e crudeli; è l’essere che ci perseguita e cospira contro di noi; è la causa dei nostri disagi, guai e dolori. Non abbiamo più nulla da dirgli, se non rinfacciargli le sue colpe. Non ha più niente da dirci, perché ogni sua parola è un concentrato di falsità, un distillato di distorsioni. Non ha alcuna maggiore conoscenza da trasmetterci, poiché il suo rapporto con i fatti è contraddistinto dall’assenza o dalla manipolazione. Non può insegnarci nulla, perché è un concentrato di ottusità, allergica alla verità. Non ha nulla su cui farci riflettere, perché nella sua comunicazione la buona fede, la trasparenza e l’onestà non hanno mai fatto capolino. Non può commuoverci, perché, in realtà, la sua sofferenza ha la consistenza di una simulazione mal recitata, i suoi lamenti riguardano danni in realtà non sofferti e, in ogni caso, pienamente meritati, anzi cercati. Non abbiamo più nulla da aspettarci, se non un ulteriore, e più devastante, male, che presto o tardi la sua cattiveria ci infliggerà.

Il conflitto e il sequestro emozionale  delle capacità dell’intelligenza emotiva

Va da sé, a ben vedere, che, in tali circostanze, fatichiamo parecchio non soltanto a cogliere cognitivamente la prospettiva dell’altro ma anche, e ancor di più, a metterci emotivamente nei suoi panni. Il sequestro emozionale, infatti, come incide sulla nostra consapevolezza  e sulla nostra gestione delle emozioni e dei sentimenti che stiamo vivendo, così inibisce o annulla la capacità di sentire e riconoscere le emozioni del nemico. Del resto, in tali condizioni, i nostri comportamenti e atteggiamenti non sono il frutto di una nostra autonoma determinazione, ma sono il risultato del condizionamento operato dalla dinamica conflittuale.

Lo scioglimento del sequestro emozionale da parte della mediazione dei conflitti

Rispetto alla dinamica de-privativa, caotica e costrittiva del sequestro emozionale procurato dall’escalation del conflitto, la mediazione può fare qualcosa. Se declinata, infatti, con la dovuta attenzione agli aspetti emotivi e affettivi, la mediazione ha una notevole capacità di ripristinare le libertà che il sequestro emozionale ha sottratto alle persone coinvolte nel conflitto.

Il mediatore, infatti, come abbiamo tante volte ricordato in questa rubrica, Riflessioni, non si limita a udire, ma ascolta. Cioè, comunica ciò che ascolta, ciò che avverte, in termini emotivi, da coloro con i quali si relaziona. Il suo ascoltare, quindi, è un comunicare. Quando il mediatore dice ad un confliggente che “lo sente” arrabbiato (oppure angosciato, deluso, stanco, addolorato, triste…) agisce proprio a rinforzo della self awarness. E il graduale e progressivo ripristino di quella facoltà, che il conflitto aveva sequestrato nel confliggente, insomma, la sua riattivazione, grazie alla messa in pratica da parte del mediatore della propria capacità empatica, costituisce la premessa anche per la liberazione dell’empathy, della motivation e della  socialization.

Affinché tale capacità della mediazione di agire sul sequestro emozionale si verifichi, naturalmente, occorre che l’empatia del mediatore non sia condizionata dal fine conciliativo che eventualmente lo muove. Cioè, occorre che il mediatore (come abbiamo sostenuto nel post L’empatia non è una passeggiata) sappia accogliere e riconoscere anche emozioni e sentimenti pervasi di ostilità, di rigidità e di chiusura al dialogo e perfino al confronto.

Alberto Quattrocolo

 

L’empatia non è una passeggiata

L’empatia non è una passeggiata tra prati in fiore o sul lungomare, se è declinata all’indirizzo di persone in conflitto. In tal caso, infatti, la passeggiata empatica non si svolge in piano, attraversando luoghi ridenti e luminosi, ma su percorsi ripidi, accidentati, cioè, in mezzo a pensieri, sentimenti e stati emotivi spesso ingombranti, dolorosi e angoscianti.

Sull’empatia sono d’accordo tutti

Non si contano i contributi che sono stati scritti a proposito dell’empatia nell’attività di mediazione. Anche in questa rubrica, Riflessioni, abbiamo pubblicato numerosi post sull’empatia, e non meno numerosi sono le pubblicazioni di cui sono stati autori membri dell’Associazione Me.Dia.Re. che si soffermano su tale aspetto: sostanzialmente tutte. Altrettanta attenzione all’importanza dell’empatia nell’attività di mediazione è riscontrabile nelle tesi dei nostri corsisti pubblicate nella Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare.

Del resto, non per caso i nostri servizi sono denominati e declinati come Servizi di Ascolto e Mediazione (familiare, penale, sanitaria, organizzativo-lavorativa…). Abbiamo affrontato questo tema già in altri post (ad esempio, Perché “Ascolto e Mediazione” e non soltanto “Mediazione”?La mediazione come ascolto e confrontoL’ascolto empatico: un ingrediente irrinunciabile dei percorsi di mediazione dei conflittiSi fa presto a dire “emozioni”: la paura nella mediazioneIl bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus) e non ci torniamo su.

Ma, in realtà, sostanzialmente tutte le scuole di pensiero e le relative metodologie nel campo della mediazione (da quella civile e commerciale a quella familiare, da quella penale a quella sociale o scolastica) condividono l’idea che l’empatia sia una risorsa fondamentale.

L’empatia, in effetti, è una risorsa nella vita di tutti i giorni; forse è quella capacità grazie alla quale non soltanto non ci sbraniamo l’uno con l’altro, ma soprattutto riusciamo a vivere in gruppi e a supportarci a vicenda.

Siamo tutti dotati di un’attitudine empatica di fondo, dunque, ma un conto è riuscire ad essere empatici con un conoscente, un amico, un partner, un famigliare, ecc., un altro è applicare tale disposizione per ragioni “di lavoro”, a beneficio di persone “che non abbiamo scelto”, e farlo con consapevolezza e determinazione. Non è che sia necessariamente una faccenda più difficile, è, però, un’altra cosa. Come ben sanno coloro che svolgono attività caratterizzate da un’importantissima componente relazionale (professionisti della salute, avvocati, assistenti sociali, educatori, insegnanti, ecc.).

L’empatia va comunicata

I mediatori, naturalmente, fanno parte di questa schiera di professionisti. Ne fanno parte a pieno titolo, perché tutti i loro “strumenti” e tutte le loro risorse sono di natura esclusivamente relazionale. E, come accade agli altri professionisti, anche ai mediatori diventa molto presto evidente che l’empatia non è una passeggiata.

Se medici e infermieri si misurano, in primo luogo, con emozioni e sentimenti profondi e, spesso, intensi (non raramente pesantissimi da sostenere), legati alla malattia e alle sue possibilità e modalità di cura, i mediatori familiari, penale, sociali, sanitari, ecc., si confrontano con stati d’animo legati al conflitto. Quelli che lo hanno generato o quelli che lo caratterizzano e influenzano nel suo sviluppo. Ed è per questo che i mediatori sperimentano prestissimo (auspicabilmente già e reiteratamente durante il loro percorso di formazione professionale) che l’empatia non è una passeggiata.

Ma l’empatia che dispiega il mediatore non è soltanto una dimensione interna, un comprendere la realtà emotiva e affettiva dei suoi interlocutori in conflitto tra di loro. Non basta che il mediatore familiare senta cosa provano i due genitori o che il mediatore penale riesca a riconoscere i vissuti della vittima e dell’autore del reato. Il mediatore non può limitarsi ad esercitare un’empatia silenziosa. Occorre anche che comunichi la propria comprensione e che tenga conto nel suo parlare con le parti, di ciò che ha avvertito in loro.

Ora, se per il mediatore non è troppo difficile sentire, definire e comunicare stati d’animo e sentimenti che sono in linea con possibilità di riconoscimento reciproco, di ripristino del dialogo o addirittura di immedesimazione vicendevole, quando, invece, si trova davanti i contrasti e i tormenti della contrapposizione, dell’ostilità, del risentimento, della sfiducia, la situazione si complica.

L’empatia è strettamente legata alla neutralità e alla sospensione del giudizio

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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La situazione si complica per tanti motivi. Alcuni riguardano gli aspetti, per così dire, più palesemente contro-transferali: ad esempio, può risultare difficile essere equi-prossimi, internamente, per molte ragioni e una di queste può riguardare, magari, la più evidente indisponibilità di uno dei protagonisti del conflitto ad abbassare le armi. Può essere complicato, cioè, sentire i vissuti e le ragioni della parte che resta pervicacemente avversa ad ogni prospettiva di de-escalation.

Tuttavia è noto che il mediatore non soltanto sospende il giudizio su torti e ragioni, ma anche (almeno finché non si superi o non sia già stato superato il limite della violenza) quello sull’esistenza di quel conflitto. In altri termini, il mediatore non giudica male le parti per il fatto che sono in conflitto. E non dovrebbe giudicarle negativamente per il fatto che dal conflitto non vogliono o faticano ad uscire (si è affrontato questo aspetto in diversi post incluso questo: La mediazione familiare è laica)

Tale sospensione del giudizio nella pratica esperienziale è quanto mai ardua di raggiungere e conservare, ma, come spiega ogni buon formatore dotato di adeguata esperienza mediativa, è possibile non farsi condizionare da tali difficoltà nel relazionarsi con gli attori del conflitto, se si fa ricorso, appunto, all’empatia. Infatti, è fondamentalmente grazie a questa che riusciamo a porci con atteggiamento neutrale e a-valutativo: perché sentiamo sentimenti, emozioni e ragioni di tutti gli attori del conflitto.

L’empatia non è una passeggiata ma non è detto che sia un viaggio (dentro di sé) orribile o poco istruttivo

Per concludere, il mediatore dovrebbe, quindi, accogliere e riconoscere anche i sentimenti delle parti che paiono chiudere le porte a delle possibilità di mediazione. Il non farlo, infatti, significherebbe prestare a quelle persone un’attenzione selettiva, guidata soltanto dai propri obiettivi o desideri. E potrebbe creare una relazione ambigua tra il mediatore e le parti: una relazione, cioè, nella quale, queste ravvisano o sospettano che il mediatore abbia un atteggiamento di superiorità (morale, intellettuale, psicologica). Il ché sarebbe quanto mai deleterio.

Il mediatore, infatti, non è più saggio dei mediati, non ha una maggiore conoscenza delle cose della vita, e l’unica differenza che lo “avvantaggia” – fatta salva “la preparazione tecnica” – è che il conflitto che si trova a gestire non gli appartiene. Ed è ciò che gli consente di relazionarsi in modo empatico con gli attori del conflitto. A condizione, però, che il conflitto davvero non gli appartenga, cioè che non si senta in conflitto con il loro essere in conflitto 

Se questa eventualità dovesse darsi, allora, è bene realizzarlo. Empatizzare con se stessi, ascoltarsi, gestire quelle emozioni o quei sentimenti di rifiuto della conflittualità tra quei confliggenti e tornare a concentrarsi su di loro.

Alberto Quattrocolo

La mediazione familiare è laica

Non sarebbe male sottolineare ad ogni occasione che la mediazione familiare è laica. Non sarebbe inutile farlo anche e soprattutto nell’attività di promozione.

Nello svolgere quest’ultima, infatti, solitamente si mettono in rilievo degli aspetti molto importanti: la mediazione familiare consente di gestire il conflitto con una spesa molto contenuta rispetto ai costi del contenzioso giudiziario; hai dei tempi assai più brevi del procedimento giurisdizionale; restituisce agli attori del conflitto il potere e la responsabilità di assumere delle decisioni su aspetti fondamentali della loro esistenza, anziché delegarli ad autorità terze; previene o contiene gli effetti lesivi sui figli di una conflittualità esasperata e permanente tra i genitori…

Ebbene, tutti questi elementi portati a supporto della promozione della mediazione familiare, per quanto veri, rischiano di lasciare sullo sfondo il loro intento relazionale di sciogliere dei blocchi. Quali? Be’, quelli della diffidenza e della paura degli attori del conflitto (di qualsiasi conflitto) nei confronti della prospettiva della mediazione. Una diffidenza, a ben guardare, che spesso si nutre del sospetto che essa possa non essere laica. Cioè, che intenda imporre alle parti in conflitto una qualche propria superiore norma morale. Ad esempio, quella per la quale il conflitto è sinonimo di Mal, mentre la pace, quindi l’accordo, è sinonimo di Bene.

Sono blocchi connessi all’irrigidimento delle contrapposizioni, all’escalation del conflitto, all’inclinazione dei suoi protagonisti a cercare una vittoria campale e definitiva nelle aule dei tribunali civili o, perfino, penali. Ma sono anche blocchi collegati alla convinzione di essere dalla parte giusta  – o, almeno, quella meno sbagliata – e di aver subito più torti di quanti ne sono stati inflitti. E, se parliamo di mediazione familiare, tra gli ostacoli alla ricezione della sua offerta, non bisogna nasconderselo, c’è spesso anche la convinzione di ciascun confliggente di essere un genitore decisamente più adeguato della controparte. Sicché, la proposta della mediazione familiare, vissuta come un iter teso a stabilire o a far rivivere una co-genitorialità, può suscitare un moto di rifiuto, proprio nella misura in cui è questa co-genitorialità prospettata a far paura e a suscitare rabbia e preoccupazione.

Insomma, i vantaggi della mediazione vengono posti in risalto da noi mediatori familiari, come avviene per altri tipi di mediazione (penso ad esempio a quella civile e commerciale), con l’obiettivo e con la speranza che i diretti interessati riconoscano come essa sia per loro più vantaggiosa della contrapposizione guerreggiata.Tuttavia, proprio alcuni di questi vantaggi, nei frequenti casi di conflittualità più profonda e risentita, possono essere avvertiti e intesi come elementi minacciosi.

C’è, quindi, una tensione di fondo, in moltissime situazioni, tra l’offerta della mediazione familiare e il conflitto che quella si propone di gestire.

Se e quando ciò accade, si è in presenza di un fatto insopprimibile e ineludibile, che può determinare un rifiuto dell’offerta mediativa, proprio nella misura in cui non si è raggiunti dal messaggio che la mediazione familiare è laica.

Perciò, è davvero un peccato che non si veicoli anche un altro messaggio, mentre la si promuove o la si propone. Un messaggio, in effetti, che risponde al senso profondo e ai presupposti di base della mediazione familiare. Di tutta la mediazione familiare, quale che sia la scuola di pensiero, la pratica applicativa, il modello teorico-operativo adottati.

La mediazione, infatti, in tutti i suoi eterogeni paradigmi, si fonda sul presupposto della a-valutatività.

Quest’ultima, quindi, come noi di Me.Dia.Re. abbiamo già osservato più volte in diverse pubblicazioni, in post pubblicati sulla rubrica Riflessioni del nostro sito (ad esempio, questo), e anche in molti video di Conflitti in corso, (come il 29°), non significa soltanto non giudicare chi ha torto e chi ha ragione, ma significa ancor prima non giudicare negativamente i confliggenti per il fatto che sono in conflitto. E ciò vale anche per i genitori.

In breve, e per concludere: la mediazione familiare è laica perché è a-valuativa ed è a-valuativa perché è laica.

La mediazione familiare è laica, infatti, se e in quanto si fa carico delle persone, non lasciandosi vincolare da un qualche principio di fede che cerca di imporre, sia pure con dolcezza, ai suoi fruitori; non è portatrice di una morale superiore. Pertanto, è anch’essa in qualche modo figlia di Emmanuel Kant, nel senso che anche per il mediatore familiare gli esseri umani con cui professionalmente interagisce sono un fine e non possono essere mai trattati come un mezzo. Neppure, per raggiungere un fine che è costituito da altri esseri umani, cioè i figli (vale a dire, il loro benessere, inteso come salvaguardia dagli effetti dannosi del conflitto nella coppia genitoriale).

Quindi, anche l’eventuale morale sottesa alla mediazione familiare (o, per meglio dire, la principale ragione della sua esistenza: prevenire e contenere la sofferenza dei figli dovuta alla conflittualità tra i genitori) dev’essere a misura d’uomo e non il contrario. Del resto, Gesù aveva chiarito che il sabato è fatto per gli uomini e non gli uomini per il sabato.

Alberto Quattrocolo

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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