Psiconani ed ebetini, gufi e rottami, rosiconi e alessitimici, infami e bamboline: l’autolegittimazione delle aggressioni verbali nel conflitto politico

Nella vita di tutti i giorni capita che i protagonisti di un conflitto – in famiglia, sul luogo di lavoro, sul pianerottolo, ecc. – assumano atteggiamenti che rasentano il codice penale oppure che varchino decisamente le soglie del lecito, commettendo reati quali: ingiuria (per l’art. 594 del Codice penale, punito con la reclusione fino a sei mesi o la multa fino a 516 Euro), percosse (l’art. 581 prevede la reclusione fino a sei mesi o la multa fio a 309 Euro) e violenza privata (che l’art. 610 punisce tale azione con la reclusione fino a 4 anni ed è perseguibile d’ufficio). Quando tali comportamenti criminosi o comportamenti simili si verificano ai danni di pubblici ufficiali (si veda la definizione data dall’art. 357 del Codice Penale), si concretizzano reati più gravi e più gravemente sanzionati: l’oltraggio a pubblico ufficiale è represso dall’art. 341 bis con la reclusione fino a tre anni, mentre per la violenza o minaccia a p.u. e per la resistenza a p.u. l’art. 336 e l’art. 337 prevedono, in entrambi i casi, la reclusione da sei mesi a  cinque anni.

Che nella realtà quotidiana vengano fatti o meno portate in tribunale, l’ordinamento giuridico prevede e punisce le offese, le minacce e le percosse, e lo fa a prescindere dalle intime ragioni o motivazioni dei loro autori (con qualche eccezione su cui qui non importa soffermarsi). Ma per i loro autori le motivazioni non sono un aspetto irrilevante.

In ambito criminologico, infatti, si prende in considerazione proprio il punto di vista dell’autore della violenza (verbale o fisica) e si cerca di comprendere quali siano i meccanismi mentali ed emotivi che ne sorreggono la condotta lesiva.

L’aspetto interessante di tali meccanismi di auto-giustificazione consistono nella tendenza alla neutralizzazione della consapevolezza circa la portata del proprio gesto: si fa riferimento all’oscuramento della prospettiva delle vittima per distanziarsi emotivamente da essa, fino a ridurla alla consistenza di un oggetto. Il volto umano della vittima della violenza viene oscurato nella mente dell’aggressore, che così la spersonalizza. In effetti, tra i vissuti pesanti della persona che subisce un’aggressione vi è proprio quello di essere stata trattata alla stregua di un oggetto – peggio di un animale, si sente spesso dire dalle vittime quando le si ascolta.

Il processo che si sviluppa nella mente dell’aggressore, quindi, conscio o inconscio che sia, è caratterizzato da un aspetto di non poco conto: l’annullamento dell’umanità della vittima.

Non penso, né sento, nel caso di un’aggressione verbale (quale potrebbe essere l’offesa lanciata direttamente contro l’interessato, in presenza o in assenza di terzi, o alle sue spalle, denigrandolo in pubblico), che le mie parole possano farti male, ferirti, addolorarti.

Secondo la suddetta impostazione criminologica, non mi preoccupo del fatto che posso procurarti una sofferenza, nel momento in cui – pubblicamente – dico che sei un ebetino o una scrofa ferita (Grillo di Renzi), un coglione o uno che si lava poco (Berlusconi su chi vota a sinistra e sugli esponenti della sinistra,) uno psiconano (Grillo su Berlusconi), un rottame, un gufo, un rosicone (Renzi sui dirigenti del PD che lo avevano preceduto e su coloro che avevano espresso critiche e scetticismo, dall’interno e dall’esterno del partito, a proposito degli 80 Euro in busta paga e degli sgravi Irpef), una mezza pippa (Vincenzo De Luca su Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Roberto Fico), un infame da uccidere (De Luca su Rosy Bindi), una bambolina imbambolata (De Luca su Virginia Raggi), un alessitimico (Grillo su Renzi).

Riguardo a quest’ultima espressione viene facile compiere un’associazione mentale: su State of Mind Elisabetta Virginia Marinucci scrive: «Deriva dal greco “Alexis thymos” e letteralmente  significa non avere parole per le emozioni. Nello specifico Peter Sifneos coniò questo termine per indicare un disturbo delle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei pazienti psicosomatici. L’alessitimia si manifesta attraverso una serie di difficoltà rispetto a: identificare, descrivere e interpretare i propri e gli altrui sentimenti; distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche; individuare quali siano le cause che determinano le proprie emozioni; utilizzare il linguaggio come strumento per esprimere i sentimenti, con conseguente tendenza a sostituire la parola con l’azione fisica».

Orbene l’autore dell’aggressione (fisica o verbale)  – ad esempio, colui che dà del rottame, del gufo o dell’alessitimico ad altri -, nel momento in cui aggredisce, non si cura di come si sentirà il bersaglio del suo attacco, cioè non prova la minima prossimità empatica nei confronti di colui che si sta aggredendo.

Può anche darsi, come talvolta si sente affermare, che chi si cimenta nell’arena della politica abbia la corazza ispessita dalla consapevolezza che essere offesi faccia parte del gioco. Un gioco duro, in cui solo i duri possono giocare.

Ma chi in quell’arena non entra da protagonista attivo, ma vuole parteggiare, appoggiare, sostenere moralmente, o anche fattivamente, questo o quel partito e questo o quell’esponente politico, inevitabilmente viene ad essere vittima degli stessi comportamenti che colpiscono i suoi referenti politici. Infatti, in vittimologia si rileva come la vittima non sia solo la persona contro cui l’azione violenta è diretta, ma anche coloro che le sono affettivamente legati. A titolo esemplificativo, si può pensare a: i figli e, in generale, coloro che vogliono bene alla donna vittima della violenza domestica perpetrata contro di lei dal marito, il fidanzato o la fidanzata della persona rapinata e stuprata, la madre e il padre e i fratelli del giovane perseguitato dai bulli a scuola e/o sul web…

Fatte le dovute proporzioni rispetto alla gravità dei fatti considerati, può anche darsi, dunque, che un leader politico non soffra (non troppo) per le diffamazioni di cui è oggetto alla stregua di quanto patirebbero, invece, il mio vicino di casa, mio cognato, il mio collega oppure il passante cui mi rivolgessi con violenza verbale, indirizzandogli insulti o minacce o denigrandolo presso dei terzi. Può darsi che effettivamente il personale politico sia dotato dalla natura di una pelle più dura. Ma può darsi anche che, come gli amici e i famigliari del mio vicino di casa o del mio collega, soffrano gli elettori, gli iscritti, i militanti, i simpatizzanti della parte politica cui appartiene la persona che è stata reso oggetto di offese e diffamazione. Se colui dal quale mi sento rappresentato è definito come un gufo o un rottame, come un ebete, come un alessitimico, come un dittatore, allora, un po’ potrei sentirmi offeso anche io. Se lui è un dittatore, allora io, che credo convincenti le sue tesi, sarei un antidemocratico? Se è un gufo, lo sono anche io perché condivido le sue idee? Se è un coglione… Ci si ricorderà delle magliette e delle felpe su cui era stata stampata la frase “sono un coglione” dopo che Berlusconi il 6 aprile del 2006, a Confcommercio, aveva detto: «Ho troppa stima per l’intelligenza degli italiani per credere che ci possono essere in giro tanti coglioni che votano per il proprio disinteresse».

Tali manifestazioni del conflitto politico, o meglio della sua escalation, presentano inoltre una non trascurabile capacità “infettiva”. Infatti, se mi sento toccato dall’offesa rivolta a coloro da cui mi sento rappresentato (ad esempio, se sono un militante, un elettore o un simpatizzante del M5S o del PD, e sento definire un suo esponente come una mezza pippa, una bambolina o un ebete o un serial killer), non è escluso che sorgano in me l’indignazione, la rabbia e il bisogno di esprimerla, cioè di replicare.

Soprattutto, però, simili manifestazioni conflittuali presentano un costo sociale che andrebbe  considerato: riducono gli spazi di attenzione dedicato al merito delle discussioni, cioè riducono la possibilità dei cittadini di essere informati e di capire la plausibilità, la ragionevolezza e la valenza politico-culturale degli argomenti proposti dalle diverse forze politiche.

Del resto, com’è noto, l’escalation del conflitto isterilisce il confronto e genera e diffonde risentimenti e aggressioni, allargando la cerchia dei belligeranti e riducendo la parola a strumento di offesa e non di conoscenza.

In conclusione, si potrebbe osservare che non a caso, forse, il web rigurgita di botte e risposte che si collocano su tale registro: ma, parafrasando Kipling, questa è apparentemente un’altra storia.

 

Alberto Quattrocolo

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