giorno maledetto

Giorno maledetto

Un lungo giorno maledetto

Tra il 1 gennaio 2015 e il 31 maggio 2017 vi è stato un lungo giorno maledetto.

Il Quarto Libro bianco sul razzismo, Cronache di ordinario razzismo, a cura di Lunaria, documenta che contro gli immigrati sono state commesse: 1197 violenze verbali, 84 fisiche, 44 danni contro proprietà o cose, 158 episodi di discriminazione. Tra queste 1.483 offese, vi sono stati anche undici omicidi: due nel 2015, quattro nel 2016 e cinque nel 2017.

Ecco quel che è successo ad alcune vittime di violenze fisiche:

  • Muhammad Shazad Kan, 28enne pakistano, padre di un bimbo di 4 mesi che non vedrà mai, è stato pestato a morte, a freddo nel quartiere romano di Tor Pignattara, il 28 settembre del 2014. Ad ucciderlo è stato un ragazzo di 17 anni, il cui padre, Massimiliano Balducci, è stato condannato dalla Corte d’appello per istigazione all’omicidio a 10 anni di carcere.
  • a Roberto Pantic, rom 43enne, è stato ucciso con un colpo di pistola alla nuca, nella sua roulotte mentre dormiva, con la moglie e i dieci figli. L’omicida ha dichiarato di aver sparato per spaventarli e farli sgomberare «perché sporcano».
  • Sare Mamadou è stato ammazzato per aver preso un melone marcio da un campo. Lo hanno freddato, dopo avere discusso con lui e aver gettato via il melone, i proprietari del terreno. Lo hanno inseguito in auto e a piedi e poi hanno sparato con un fucile. Un suo compagno, Adam Kadago, preso al petto da un’altra fucilata, si è salvato.
  • Emmanuel Chidi Namdi, richiedente asilo nigeriano, è stato ucciso a Fermo per strada per avere preso le difese della sua compagna dagli insulti di alcuni razzisti. Profughi entrambi, la loro bambina e i loro genitori erano stati uccisi in un attentato di Boko Haram in una chiesa, erano fuggiti in Europa per trovare quell’umanità che i loro persecutori in Nigeria negavano. Ma hanno trovato la disumanità letale di un razzista.
  • Yusupha Susso, studente gambiano, si è preso un proiettile alla nuca. Yusupha si era difeso da un’aggressione razzista contro di lui e alcuni suoi amici. Ma uno degli aggressori era tornato alla carica con una pistola. Yusupha è sopravvissuto solo perché il colpo non ha leso il cervello.
  • Mohammed Habbassi, 34 anni, tunisino, disoccupato, nella notte tra il 9 e il 10 maggio, è stato mutilato e torturato a morte in provincia di Parma, da un vero e proprio squadrone della morte, nell’appartamento di cui non riusciva a pagare la pigione. Questa era la sua “colpa”. Una colpa non diversa da quella degli italiani sfrattati dalle case delle agenzie di edilizia popolare per morosità: quelli che membri e militanti di alcune organizzazioni politiche decidono di tutelare anche con la violenza.

 

Giorno maledetto. Il film

Nel 1955 uscì nelle sale cinematografiche Giorno maledetto (Bad Day at Black Rock), di John Sturges. Un film di suspense, ma anche di impegno civile, come si diceva un tempo, e segnatamente di denuncia non soltanto del razzismo, magari di pochi, ma soprattutto dell’omertà e dell’indifferenza della maggioranza[1].

La trama di Giorno maledetto era piuttosto semplice. Un uomo senza il braccio sinistro, John J. Macreedy (per questo ruolo Spencer Tracy ottenne all’8° Festival di Cannes il premio per la migliore interpretazione), scende dal treno in una cittadina desertica del Sud Ovest degli Stati Uniti. Accolto con diffidenza ostile, cerca informazioni su Komoko, un nippo-americano, che dovrebbe vivere da quelle parti, in un posto chiamato la Steppaia.

Nell’arco di 24 ore Macreedy arriverà a scoprire che Komoko non è stato internato, a seguito del bombardamento di Pearl Harbour e dell’entrata in guerra degli USA, come gli era stato detto inizialmente da alcuni abitanti di Black Rock.

È stato ucciso, orribilmente bruciato vivo, nella sua casa isolata, da alcuni cittadini di Black Rock, guidati e incitati dall’uomo più influente della cittadina, Reno Smith (interpretato da Robert Ryan). Un razzista violento e manipolatore, che, scartato alla visita di leva, reagì alla frustrazione immolando l’anziano giapponese.

Giorno maledetto e A Ciambra: qualcosa è cambiato ne L’ordine delle cose

Giorno maledetto si inseriva in una serie di altre pellicole hollywoodiane, iniziata già negli anni ’30, intese a denunciare il razzismo e le sue brutalità soprattutto verso afroamericani, latinoamericani ed ebrei[2].

Come altre opere antirazziste dell’epoca, Giorno maledetto toccava delle corde sensibili, ed essendo un prodotto di qualità, adeguatamente promosso e distribuito, incassò molto bene[3].

Non si può dire, invece, che oggi riescano sempre a sfondare al botteghino le opere che trattano temi simili a quelle del film di John Sturges.

L’ultima fatica di Andrea Segre, L’ordine delle cose, ad esempio, dal punto di vista degli incassi e dell’attenzione mediatica è ben lontana dal successo conseguito da Giorno maledetto a suo tempo in Italia. E sarebbe riduttivo pensare che sia solo una questione di distribuzione o di mero richiamo commerciale.

Qualcosa è cambiato.  L’unanimità di consensi che accoglieva allora tali opere, oggi non c’è più.

Guardiamo, ad esempio, alla reazione di Matteo Salvini rispetto al film italiano, A Ciambra. Diretto da Jonas Carpignano e prodotto da Martin Scorsese, la designazione di tale film, per concorrere all’Oscar come miglior film non di lingua inglese, è stata duramente contestata dal segretario della Lega[4]. Il suo disappunto era relativo alle persone e alle situazioni che il film racconta e non allo stile di regia.

Del resto, in quei decenni, in Italia, non vi erano soggetti ed enti politici che stimolavano il razzismo verso gli immigrati (del Sud), rinfacciandogli illegalità, insicurezza, ecc.

 

Giorno maledetto:  «La patria si difende a calci e pugni»

Già, all’epoca, in Italia, sostanzialmente nessuno spettatore si schierava dalla parte di Reno Smith, anzi, il suo personaggio suscitava inquietudine e sgomento[5]. Oggi, invece, i Reno Smith ci sono anche in Italia. E anch’essi, dicendosi patriottici, uccidono coloro sui quali hanno proiettato la loro paranoia, la loro frustrazione, la loro impotenza[6].

In altri post ho definito nazionalrazzisti quei soggetti e quei movimenti politici che identificano la nazione con la razza e stimolano, esprimono e agiscono l’odio verso gli immigrati, in nome della difesa della razza italiana[7].

Sulla sua pagina Facebook, Giuliano Castellino – leader di un movimento denominato “Roma ai romani”, che, con CasaPound e Forza Nuova, svolge una “resistenza etnica” per impedire che siano attribuite abitazioni popolari a persone di origine straniera, – ha scritto il 15 giugno che

«La patria si difende a calci e pugni».

Dalle parole ai fatti e viceversa, in effetti.

Non essendo note le motivazioni, è difficile ipotizzare che tipo di giustificazione davano alla loro coscienza e al mondo esterno quei giovani di Rosarno che, nei pressi della tendopoli di San Ferdinando, hanno commesso decine di gravi episodi di violenza razzista contro i braccianti stranieri, colpendoli con con bastoni di legno, spranghe, catene e coltelli

Hanno fatto ricorso a calci e pugni anche i due 17enni di Acqui Terme, che hanno picchiato un richiedente asilo somalo, l’8 di agosto, e i cinque razzisti, tra i 17 e i 19 anni, che a Roma hanno prima insultato e poi picchiato, il 29 ottobre di quest’anno, un bengalese e un egiziano.

 

Black Rock Italia

Non solo nel West degli anni ’50, ma anche nell’Italia di oggi, il fatto di non essere bianchi può fare diventare vittime di vili, meschine, squallide, forme di violenza.

Come quella ai danni di un minorenne egiziano, in provincia di Napoli, oggetto di più aggressioni fino al tentato omicidio, da parte di un 44enne pregiudicato, oppure come quella accaduta a San Cono (CT), contro quattro minori, anch’essi egiziani, assaliti da 5 italiani, armati di mazze da baseball, che ne ridussero uno in pericolo di vita per trauma cranico. Oppure come la violenza contro il 42enne senegalese, addetto alla sicurezza di una sala di slot machine, preso a calci, pugni e colpi di sgabello da cinque aggressori. Oppure, ancora, come l’aggressione ai danni di un richiedente asilo nigeriano, Emmanuel Nnamani, assalito, davanti ad un supermarket, da un uomo che prima lo offese con insulti razzisti, poi lo accoltellò all’addome, infine cercò di investirlo con l’auto mentre Emmanuel tentava di sfuggire alla sua furia.

Per tacere delle violenze pesantissime di cui sono accusati (189 capi d’imputazione) 37 carabinieri delle caserme della Lunigiana. Le vittime di questi abusi sono tutti extracomunitari. Dagli schiaffi, alle scariche elettriche, dalle manganellate alle minacce e alle multe senza motivo, dalla testa sbattuta contro un citofono alle sevizie sessuali su di un arrestato: tutti questi atti parrebbero essere stati dettati esclusivamente o prevalentemente dal razzismo di chi li ha compiuti.

In realtà, a volere fare un’altra associazione cinematografica, quest’ultima serie di violenze richiama, più che Giorno maledetto, il film L.A. Confidential (1997, di Curtis Hanson) e l’omonimo romanzo di James Ellroy da cui è tratto. Con una differenza, però: in L.A. Confindential l’agente Bud White, il più violento dei picchiatori, non sopportava l’idea della violenza sulle donne, mentre i carabinieri di cui sopra sono accusati di essersela presa anche con donne immigrate.

 

Pestaggi, insulti e minacce anche verso le donne

Neanche le donne, infatti, sfuggono alla furia dei razzisti, che, nella loro violenza, sembrano applicare una sorte di perversa parità di genere.

Ad esempio, non è sfuggita alla violenza razzista Florentina Grigore, 44 anni, di origine romena ma da quindici anni in Italia e residente ad Andora (SV), che nel maggio di quest’anno, alle 5 e mezzo del mattino, assopita sull’autobus che la portava al lavoro (una struttura di assistenza per anziani), è stata improvvisamente presa a calci, schiaffi e pugni da un settantenne italiano.

Perché costui, che minacciava di pisciarle addosso se non scendeva dall’autobus, ce l’aveva tanto con Florentina Grigore? Perché non aveva obliterato il biglietto. E ciò aveva scatenato l’italiano, secondo il quale lei era come tutti stranieri: viaggiano sempre gratis.

Florentina, in effetti, non aveva timbrato il biglietto. Aveva l’abbonamento.

Era in regola, sempre sull’autobus, anche Giulia, la quindicenne, promessa del basket, di nazionalità italiana (nata in Italia, figlia di un’italiana e un senegalese), che, a Torino, è stata presa a calci e insultata da un italiano sulla sessantina. Costui, dopo averle sferrato un calcio ad un ginocchio, cui lei non ha reagito, nel tentativo di ignorarlo, ha continuato ad insultarla: “suggerendole” di tornarsene a casa sua e di smettere di andare a scuola, perché tanto finirà a lavorare sul marciapiede.

Era in regola, oltre che incinta al sesto mese, anche la donna di origini africane che, il 16 agosto, accortasi di un tentativo di borseggio su un autobus, a Rimini, da parte di una 19enne di Ancona e di un 22enne di Caserta, dai due è stata aggredita e insultata. «Negri di me**a. Tornate al vostro paese», ha urlato il ragazzo. E, con un «Ti faccio abortire, negra di me**», ha rincarato la dose la ragazza.

 

Un lungo giorno maledetto per i Macreedy di oggi.

Un’altra donna aggredita per ragioni razziste è un’italiana di 59 anni. A settembre, in provincia di Parma, è stata minacciata e insultata da 50 persone. L’hanno bloccata nella sua auto per un’ora e mezzo.

La sua “colpa”? Aver affittato la casa a una cooperativa che ospiterà 20 profughi.

La sua colpa, quindi, è la solidarietà. Perché, se avesse affittato la villetta a dei turisti, verosimilmente nessuno l’avrebbe assalita.

Nel film Giorno maledetto, si spiega che per quattro anni i cittadini benpensanti di Black Rock, pur sapendo, non avevano fatto nulla, oppure avevano finto, anche con se stessi, di credere alla balla che Komoko fosse stato internato in quanto sospettato di essere una spia giapponese.

Poi, un giorno arriva un forestiero che non se la beve, che non gira la testa da un’altra parte. Che ha paura, ma vuole vederci chiaro[8].

Il regista di Giorno maledetto, John Sturges sfruttò il formato del Cinemascope, il colore, le scenografie e i costumi in termini drammatici, per rendere visivamente l’isolamento del protagonista, Macreedy, rispetto agli abitanti del posto[9].

Proviamo, allora, a dare un’occhiata anche a cosa succede a chi oggi, qui, tenta di opporsi alla violenza (nazional)razzista.

Prendiamo il caso di Paolo E., picchiato e preso a cinghiate a Vignanello in provincia di Viterbo da una quindicina di militanti di CasaPound, incluso il loro leader locale, Jacopo Polidori.

Perché Paolo è stato aggredito?

 

«Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, moglie e figli non merita rispetto», recita un manifesto di CasaPound

Perché il 12 febbraio di quest’anno, Paolo osò condividere sui social un post che ironizzava sui manifesti di CasaPound. In questi era scritto:

«Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, moglie e figli non merita rispetto».

Paolo E. ha usato l’ironia per ridicolizzare lo slogan[10]. Uno slogan il cui fine intrinseco è tentare di stroncare sul nascere quel minimo, civile, senso di comprensione e di solidarietà verso chi patisce le pene dell’inferno.

Dal punto di vista vittimologico, il manifesto, in effetti, offende chi espatria proprio per proteggere la vita dei suoi cari, oltre che la propria (e lo sanno bene coloro che ascoltano i rifugiati e i richiedenti asilo, tra i quali figurano anche gli psicoterapeuti dell’Associazione, sul cui sito si trova questo blog).

Si tratta, dunque, di un’offesa, sovrapponibile alle esternazioni dei seguaci del sedicente Stato Islamico o di altre sanguinarie organizzazioni. Infatti, è una denigrazione che risulterebbe gradita anche a quei terroristi, dato che disconosce l’umanità delle loro vittime e che contiene un’ implicita, indiretta, legittimazione delle loro atrocità.

Paolo E. ha reagito con l’ironia di fronte a questa ri-vittimizzazione di milioni di persone, ai quali il manifesto da lui parodiato cerca di negare non solo lo status di vittime, ma anche il rispetto per i loro sentimenti e i loro vissuti (e sono vissuti pesantissimi, poiché certi orrori non si possono mai archiviare, neppure quando si è lontani nel tempo o nello spazio dalle decapitazioni, dagli stupri, dalle mutilazioni, dai roghi umani, dagli spari e dalle esplosioni).

Concepito con l’intento di farle apparire prive di sentimenti umani, quali l’amore verso i loro cari, così da legittimare ogni offesa (a questo proposito mi permetto di rinviare a quelle strategie di legittimazione della violenza razzista trattate in un altro post) e ogni emarginazione nei loro confronti, quel manifesto affisso nelle città ricorda molto da vicino le denigrazioni antisemitiche indirizzate ai sopravvissuti dell’Olocausto nazista.

 

Colpevolizzazione della vittima e altre forme di disimpegno morale

Col senno del poi, allora, stupisce poco che quella quindicina di militanti di CasaPound abbiano messo in atto contro Paolo E. un’intimidazione brutale, tipica sia delle prassi brutalmente liberticide praticate dai fondamentalisti, che dello squadrismo fascista e nazista, a loro volte affini a metodi gangsteristici tutt’ora in voga[11]. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle intimidazioni cui fu sottoposta la giornalista di Repubblica, Federica Angeli, costretta a vivere sotto scorta per le sue inchieste sulle attività criminali del clan Spada ad Ostia [12].

Tenuto conto di ciò, dunque, stupisce poco anche la moderazione con cui nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il 9 novembre, Luca Marsella, leader di CasaPound Litorale, ha preso le distanze dalla violenza di Roberto Spada (fratello del boss Carmine, detto Romoletto), dopo che costui con una testata e con un manganello aveva aggredito il giornalista della Rai Daniele Piervincenzi, rompendogli il setto nasale.

Leggendo quell’intervista, è difficile non pensare, per associazione mentale, a quelli che Albert Bandura (1986), in una prospettiva interazionista, definì meccanismi di disimpegno morale, vale a dire di auto-assoluzione.

Tra questi vi è l’etichettamento eufemestico: che consiste nel ridimensionare la dolorosità delle conseguenze della condotta dannosa, distorcendo, cioè mascherando, il vero significato dell’azione. Definire, come fa Luca Marsella, «non un bel gesto» l’aggressione impressionante di Roberto Spada ai danni di Piervincenzi, sembra davvero un caso di etichettamento eufemistico, per quanto si tratti di un reato non commesso da chi lo ha così commentato.

Un altro meccanismo di disimpegno morale consiste nell’affermare che in qualche misura la vittima se l’è cercata (Bandura parla dell’attribuzione della colpa alla vittima).

Questa, su Facebook, è stata la posizione assunta da Spada, nonché, a meno di fraintendimenti, pare anche essere quella di Marsella, che asserisce di non condividere quell’aggressione, ma afferma che «questa è una situazione che qualcuno stava cercando, ed è arrivata». Che è come dire: “chi cerca trova”. Quindi Piervincenzi non sarebbe vittima di una violenza, perché se l’è cercata.

D’altra parte, quelli di Roberto Spada, sono atteggiamenti non così dissimili da quelli adottati, nel corso dell’aggressione ai danni di Paolo, da coloro che gli hanno rotto il naso e un dente e gli hanno lasciato escoriazioni da cinghiate sulla schiena (queste ultime inflitte da Jacopo Polidori): non prendere mai più in giro CasaPound, gli hanno detto malmenandolo.

Nel suo post su Facebook, sopra citato, Giuliano Castellino aveva scritto: «La patria si difende a calci e pugni». In tal caso la patria era CasaPound.

Si può reagire alle intimidazioni nazionalrazziste contro chi accoglie e contro chi non discrimina

Gli episodi di intimidazioni nazionalrazziste ai danni di chi si rifiuta di dismettere la propria umanità, non riguardano solo Paolo E. e la signora che intendeva affittare la villetta per ospitare dei profughi. Anche in tal caso vi è un elenco tutt’altro che breve.

Per non fare che due esempi si pensi agli ordigni esplosi o piazzati senza miccia presso le chiese della zona di Fermo, per scoraggiarle dall’aiutare migranti e altri in condizioni di disagio. Oppure ai tentativi di intimidire ,  da parte di Generazione Identitaria, Andrea Palladino per le inchieste da lui realizzate su tale organizzazione di estrema destra impegnata in una campagna antimigranti.

Ma oltre a coloro che tentano di aiutare chi ha bisogno, quando si tratta di stranieri, o a coloro che indagano su chi vuole difendere la patria a calci, pugni e minacce, può capitare di subire violenze anche ad altri. Magari solo perché provano un sentimento di amore: infatti, è una forma di violenza anche la discriminazione di cui fu oggetto quest’estate Chiara, rea di amare un ragazzo di origine nigeriana.

Si potrebbero ridurrebbe significativamente sia l’elenco delle intimidazioni, che quello delle violenze razziste, che probabilmente saranno ricapitolate nel prossimo Libro bianco sul razzismo, se, come gli abitanti di Black Rock, noi tutti, qui, ora, comprendessimo che questa violenza, spacciata talora per (grottesco) patriottismo, uccide anche la nostra anima, e se, come lo sceriffo, il medico e l’albergatore di Giorno maledetto, decidessimo di recuperare la nostra dignità.

Se ci teniamo alla nostra libertà, al rispetto per noi stessi, allora, mi sa proprio che ci tocca reagire collettivamente alle prepotenze dei nostri Reno Smith. Anche soltanto disapprovarle apertamente sarebbe molto.

In fondo, a noi italiani l’hanno insegnato la cronaca e la storia della lotta alle mafie.

L’unico modo della società civile per proteggere coloro che si espongono, quelli che si assumono la responsabilità e il rischio di restare umani, è non lasciarli moralmente e materialmente soli. In realtà, è l’unico modo che abbiamo per conservare il rispetto di noi stessi.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Il film citato nel titolo di questo post non è l’unico dai risvolti antirazzisti della cinematografia del regista, John Sturges. Pur dedito a produzioni mainstream di schietto stampo hollywoodiano, qua e là questo regista ha inserito esplicite condanne a varie forme di pregiudizio e di violento razzismo. In ambito western, per dire, si può pensare a Il giorno della vendetta, che inizia con uno stupro ai danni di una ragazza indiana, e alle prime sequenze di I magnifici sette. Del resto, il western in quel periodo fu spesso usato per commentare criticamente la società contemporanea, anche con opere dichiaratamente antirazziste e altre filo-indiane: tra quelle incentrate sul tema del pregiudizio verso gli afroamericani figurano, ad esempio, all’inizio dei ’60, I dannati e gli eroi, del maestro John Ford, e, all’inizio dei ’70, Libero di crepare e Non predicare, spara. Né va sottovalutato che già nel lontano 1936 il genere western aveva offerto al regista William A. Wellman, con Robin Hood dell’Eldorado, l’occasione per una severa e cruda requisitoria sul razzismo, in tal caso verso i messicani, rappresentato dal film come un corollario della politica imperialista USA.

[2] Nell’ambito del cinema sonoro si possono annoverare Black Legion (1937) e Vendetta (1937) tra le prime, durissime, opere di denuncia. Nel primo, diretto da Archie Mayo, Humphrey Bogart (non ancora una star) interpreta un operaio che, surclassato sul luogo di lavoro da un collega di origine straniera, entra a far parte della Legione Nera, organizzazione terroristica di ultra destra, xenofoba e razzista, e giungerà a commettere violenze varie, omicidi compresi. Il secondo è diretto da Mervin LeRoy, già autore di altri film attenti alle tematiche sociali (in particolare, Io sono un evaso e Piccolo Cesare – capostipite gangster movie e cronologicamente primo dei tre capolavori del genere: gli altri due film, di poco successivi, sono Scarface, di Howard Hawks, e l’ancor più efficace Nemico pubblico di William A. Wellaman). Vendetta è forse ancora più disperato e angosciante di Black Legion. Racconta di un giovane afroamericano che, benché processato e prosciolto dall’accusa di aver ucciso una donna bianca, viene linciato dalla folla. Entrambi i film, prodotti e distribuiti dalla Warner Bros., sono esemplificativi dell’attenzione ai temi sociali seguita da questa Major in pieno New Deal. Dopo la parentesi della guerra (periodo nel quale, tuttavia, si colloca una potente denuncia del linciaggio in danni di tre uomini innocenti, ritenuti colpevoli, in fondo, solo perché forestieri: Alba fatale del già citato William A. Wellman), il ciclo sulla violenza razzista si apre con delle pellicole, alcune a basso costo, di rilevante successo commerciale e di critica, anche a livello internazionale, quali Odio implacabile, Linciaggio, Nella polvere del profondo Sud, Uomo bianco tu vivrai, La setta dei tre K, Il sole splende alto, L’imputato deve morire e prosegue negli anni sessanta, con Il buio oltre la siepe, La scuola dell’odio, L’odio esplode a Dallas, La caccia, e propone all’inizio degli anni ’70 Il silenzio si paga con la vita, l’ultima fatica di una leggenda della Hollywood del periodo classico, Wiliam Wyler, Joe – La guerra del cittadino Joe e L’uomo del Klan. Non sono citati nell’elenco precedente alcuni film antirazzisti usciti negli stessi decenni, assai noti, pluripremiati e apprezzati dal pubblico mondiale – quali: Barriera invisibile, Pinky, la negra bianca, La parete di fango, La calda notte dell’ispettore Tibbs e Indovina chi viene a cena? -, perché, a differenza dei titoli sopra riportati, non propongono vicende in cui l’odio razziale assume le forme della violenza fisica letale, individuale o di gruppo.

[3] Al pari di altre pellicole tra quelle citate nella nota precedente, anche Giorno maledetto riscosse un buon successo commerciale a livello internazionale. Non solo negli USA, dunque, ma anche in altri Paesi, Italia inclusa. Grazie anche al premio attribuito a Spencer Tracy, che costituiva ormai una garanzia pressoché costante circa le qualità dei film in cui appariva. Accanto a Tracy, del resto, Sturges aveva diretto un cast di qualità impressionante: Reno Smith era interpretato da Robert Ryan, che sapeva sempre rendere i suoi villain ricchi di sfumature e credibilità. Gli altri attori, superlativi, erano: Walter Brennan, che aveva già ottenuto 4 volte il premio Oscar come miglior attore non protagonista; Lee Marvin, non ancora divo ma già bravissimo; Ernest Borgnine (di origine piemontese), che quell’anno avrebbe meritato l’Oscar come protagonista, nella parte di un italoamericano, in un film a modestissimo budget ma di enorme successo, prodotto dalla società di Burt Lancaster, Marty, vita di un timido (1955, di Delbert Mann), che fu vincitore dell’Oscar come miglior film e della Palma d’oro proprio a quell’8° Festival di Cannes in cui fu premiato Spencer Tracy per Giorno maledetto; Dean Jagger, anch’esso già vincitore dell’Oscar come miglior attore non protagonista; i più giovani ma molto efficaci Anne Francis e John Ericson. A garantire il buon successo dell’opera, inoltre, vi erano alcune scelte produttive, come il fatto di essere girato a colori e con il formato panoramico del Cinemascope. Inoltre anche l’ambientazione western, nel caso di Giorno maledetto, a quei tempi era un fattore capace di spingere il pubblico ad entrare in sala.

[4] L’opera, con un approccio tutt’altro che banale, mette in discussione stereotipi e pregiudizi, in particolare verso i rom.

[5] Roberto Ryan era conosciuto dalle platee per i suoi personaggi ambigui, spesso violenti. Anche per questo, oltre che per la sua bravura, fu una scelta di casting azzeccatissima. Robert Ryan, infatti, 8 anni prima che uscisse Giorno maledetto, aveva già interpretato un antisemita assassino nel noir Odio implacabile (1947, di Edward Dmytryk), vincitore del Grand Prix come miglior film sociale al 2º Festival di Cannes. Il personaggio di Reno Smith richiamava fortemente quello interpretato da Ryan in Odio implacabile. I ragionamenti stereotipici, il senso di superiorità, la paranoia dei due personaggi vengono verbalizzate nei loro dialoghi con gli altri interlocutori con argomenti assai simili. Peraltro, è interessante notare che nel romanzo, da cui è tratta la sceneggiatura (scritto dal futuro sceneggiatore e regista Richard Brooks), la vittima dell’intolleranza omicida di Odio implacabile non era un ebreo ma un omosessuale. Robert Ryan tornerà ad interpretare un razzista, il cui odio ha effetti disastrosi, in un altro celebre noir, il cult Strategia di una rapina.

[6] In Giorno maledetto e nelle altre opere hollywoodiane citate nelle note i razzisti inventavano o strumentalizzavano accuse di terribili misfatti rivolte a membri di una minoranza (messicani, afroamericani ed ebrei, soprattutto), onde sfruttare il pregiudizio diffuso nella popolazione e perseguire inconfessati fini politici o di altra natura, personale o economica. La trama di Giorno maledetto, in effetti, è richiamata da quella di un western di serie B, solo per il carattere contenuto del budget, non certo per la resa. Si tratta di Il ritorno di Joe Dakota del 1957. In tal caso l’omicidio dello straniero si collega ad un interesse economico inconfessabile. Restando in ambito hollywoodiano, ma venendo a film più recenti, la bandiera a stelle e strisce veniva sbandierata dai neonazisti di American History X e, ancor prima, dai baroni del bestiame intenti a massacrare gli immigrati europei nel kolossal western di Micheal Cimino, I cancelli del cielo. In quest’ultimo un gruppo di ricchi allevatori, intenzionati ad impedire agli immigrati dell’Europa centro-orientale di stabilirsi legittimamente nelle terre del Wyoming, in nome della difesa dell’ordine e della legalità, decide l’eliminazione di 125 persone, reclutando a tal fine un piccolo esercito di sicari prezzolati. Ispirato ad un fatto realmente accaduto, il film di Cimino vede sostanzialmente solo lo sceriffo James Averill (interpretato da Kris Kristofferson) rifiutarsi di prendere per buone le motivazioni patriottiche e identitarie proposte dal presidente dell’associazione dei baroni del bestiame, Frank Canton (Sam Waterston). E sarà di fatto il solo a schierarsi in difesa degli immigrati europei. Del resto, al personaggio interpretato da Jeff Bridges, che, appresa la notizia della lista della morte, notava «Maledizione! Diventa pericoloso essere poveri, in questo Paese. Non ti pare?», Averill rispondeva: «Lo è sempre stato». Come dire ne I cancelli del cielo, così come in Giorno maledetto, c’era già tutto. Entrambi i film, pur diversissimi tra di loro, mostravano come il fatto di essere stranieri poteva costare la vita.

[7] I post, pubblicati sul blog Politica e conflitto, dedicati al tema del nazionalrazzismo sono: Autorizzazione della violenza(in)giustizia nazionalrazzista Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista(il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzistaDove eravamoPropaganda nazionalrazzista e WelfareIl nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)Nazionalrazzismo e socialrazzismo

[8] Alla fine del film, Macreedy riuscirà a smuovere dall’omertà, dall’inerzia e dall’indifferenza alcuni degli abitanti di Black Rock, che gli diranno ciò che sanno e lo aiuteranno a far arrestare Smith e i suoi complici. Si scoprirà anche che Macreedy, ex ufficiale e reduce di guerra (da qui la mutilazione), era giunto in quel paese sperduto del West per consegnare a Komoko, padre di uno dei suoi commilitoni, la medaglia alla memoria ottenuta dal figlio, caduto in Italia, combattendo contro i tedeschi.

[9] Macreedy, infatti, è filmato mentre si aggira per le strade di Black Rock con un abito da città, con un cappello nero, un completo scuro e la cravatta nera sulla camicia bianca. Gli abitanti, invece, vestono un po’ da cowboy e sopra i blue jeans portano camicie chiare

[10] Il post ironico era: «Chi mette il parmigiano sulla pasta col tonno non merita rispetto».

[11] Si veda quanto riportato su La Stampa del 6 novembre, relativamente alle intimidazioni di Roberto Manno, un piccolo boss in ascesa, che, a Pioltello, ha costretto una famiglia di ecuadoregni ad andarsene dopo un prestito ad usura facendogli esplodere la porta di casa.

[12] Su la Repubblica del 9 novembre nel commento Noi cronisti nelle strade dei boss, relativo alla notizia sull’aggressione al reporter della Rai Daniele Piervincenzi, da parte di Roberto Spada, di cui si parla più avanti nel testo, Federica Angeli ripercorre sinteticamente la vicenda. Risale al 2013 l’indagine di Repubblica sulla commistione tra clan e politica a Ostia. Scoperto che Armando Spada, cugino del capoclan degli Spada, aveva ottenuto la gestione del lido più bello, affidata ad una società di cui facevano parte il genero del capoclan e Ferdinando Colloca, all’epoca leader di CasaPound, Federica Angeli fu sequestrata in quel lido proprio da Armando Spada e da uno dei suoi per due ore. Registrò tutto con la telecamera. Tra le minacce registrate vi erano quelle che prendevano a  bersaglio i suoi figli. «Pensa ai tuoi figli… dimentica questa storia». Da quel momento, 23 maggio 2013, la giornalista vive sotto scorta. Due mesi dopo, dal balcone di casa fu la sola testimone di una sparatoria tra il clan Spada e quello Triassi (il boss Carmine aveva ordinò a tutti di rientrare in casa) e andò a denunciarli. Roberto Spada, colui che, l’8 novembre, ha preso a testate e manganellate il reporter Piervincenzi, allora, nel novembre 2014, su Facebook minacciò esplicitamente i figli di Federica Angeli («Ora il nostro oggetto sono loro, non tu»). Alcuni giorni dopo le fu versata della benzina sotto la porta di casa.

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