Distanziamento spaziale e distanziamento umano

Per quasi due mesi abbiamo osservato le norme sul cosiddetto distanziamento sociale, ma, da un certo punto di vista, sarebbe preferibile e piuttosto rassicurante se potessimo affermare che si è trattato di un distanziamento spaziale e non di un distanziamento umano.

Anche Dario Fortin (docente e ricercatore in Educazione professionale sociosanitaria presso l’Università di Trento) ha scritto il 30 aprile su Avvenire che «il distanziamento non è “sociale” ma solo fisico» e che bisogna tenerlo a mente.

Distanziamento spaziale e distanziamento umano non coincidono

La distinzione tra distanziamento spaziale e distanziamento sociale non è solo una questione di puntiglio terminologico. Fortin ha ricordato che la parola “sociale” «oggi si riferisce a un mondo concreto fatto di 5 milioni di volontari e di decine di migliaia di giovani in Servizio civile e di professionisti dedicati a prendersi cura delle persone». Tuttavia, poiché l’espressione “sociale” rinvia anche alla dimensione dei rapporti tra le persone,  il “distanziamento sociale” può evocare una sorta di distanziamento umano su larga scala. E, a sua volta, il distanziamento umano rimanda a qualcosa di inquietante: in quanto parente prossimo della de-umanizzazione dell’Altro e in quanto affine dell’odio, in effetti, il distanziamento umano non serve a prevenire contagi, anzi è un potente fattore di diffusione di altre patologie alquanto dannose. Come, del resto, abbiamo sperimentato da quando il distanziamento umano si è radicato nel nostro mondo: cioè, ben prima della comparsa del Coronavirus [1].

I dogmi del distanziamento umano

Negli ultimi anni, infatti, il distanziamento umano su vasta scala aveva ottenuto notevole successo in un’ampia parte della società.

Il dogma della scorrettezza

Declinata dapprima come una sorta di ribellione liberatoria, la scorrettezza, spesso sfacciata, aveva contribuito potentemente a far avanzare il distanziamento umano, suscitando tanta di quella approvazione da imporsi come una nuova forma di correttezza politica e da riuscire a relegare la correttezza orginaria nell’angolino negletto dell’ipocrisia, marchiandola, per giunta, con l’etichetta di “sinistroide”. Quasi contestualmente la stessa violenza verbale era stata spacciata come capacità (e come dovere) di saper “parlare chiaro”, venendo così elevata al rango di franchezza e trascinandosi dietro lo sdoganamento dei peggiori disvalori. Tra i principali, naturalmente, rientrava a pieno titolo quello del razzismo, che era rimasto un dogma implicito, per una sorta di sopravvissuto, per quanto lacero e malconcio, senso del pudore, tanto che si era preferito travestirlo da patriottismo, e come tale venderlo al dettaglio, rendendo ovviamente l’antirazzismo il principale equivalente dell’antipatriottismo e perfino del tradimento.

Il dogma dell’antibuonismo

Erano state declassate a buonismo la solidarietà e l’empatia verso i cosiddetti soggetti vulnerabili, a partire dai rifugiati, richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale o umanitaria, e dagli immigrati in generale, i quali, nella versione antibuonista, ovviamente, perdevano ogni connotato di fragilità, e perfino di umanità. Il buonismo, quindi, era divenuto il peggiore dei tradimenti, secondo i dogmi del nuovo pensiero mainstream: infatti, per rendere rifugiati e richiedenti asilo degli esseri minacciosi e detestabili agli occhi della popolazione, era stato loro imposto, grazie ad un martellamento incessante, il nome spregiativo e calunnioso di clandestini, sicché chiunque fosse incline a riconoscerne e a rispettarne l’umanità, automaticamente era iscritto nella lista dei complici dell’illegalità [2]. Del resto non migliore trattamento era stato indirizzato alle persone senza fissa dimora (si veda, in questa rubrica, il post di Vera Barzizza La deumanizzazione delle persone senza fissa dimora) e a tutti coloro che erano colpiti dal disagio sociale, fossero essi vecchi o nuovi poveri. Infatti, non poteva di certo definirsi un atteggiamento solidale o altruistico, e men che meno empatico, quello largamente abusato di citare, strumentalizzandole, le sofferenze degli italiani in difficoltà al solo fine di sostenere il proprio rifiuto verso le più elementari politiche di accoglienza [3].

Il dogma del “Prima io” e la trasformazione dell’egoismo in virtù civile e politica

L’istanza egoistica del “Prima io” era stata fatto oggetto di un tentativo di elevazione al rango di legge naturale e di aurea regola morale, nel tentativo di celarne l’intrinseca disumanità, ricoprendola, appunto, con posticce nobilitazioni. Così, il “Prima noi” era proposto non soltanto nei termini di diritto sacrosanto a proteggersi se stessi, ma soprattutto come diritto-dovere di preservare i propri “simili” dalle supposte mire perverse, predatorie, parassitarie o colonizzanti dei “dissimili”.  Ma la lista dei “dissimili”, oggetto di incessanti campagne di de-umanizzazione, non si limitava alle persone straniere o di origine straniera, poiché vi figuravano  anche: le già citate persone senza fissa dimora, le persone appartenenti alle comunità Rom e Sinti, le persone e i movimenti LGBT, le persone e le associazioni favorevoli al mantenimento e all’applicazione della legge 194, quelle impegnate nella promozione delle pari opportunità e del contrasto alla violenza di genere, i lavoratori e i responsabili delle organizzazioni del Terzo Settore, l’A.N.P.I., la Caritas, Papa Francesco, Liliana Segre, Ilaria Cucchi, Greta Thunberg, Carola Rackete, George Soros

Il dogma del distanziamento dalla cultura e dalla scienza

Ma, se scrivere “restiamo umani” era diventato, per una parte consistente della politica e del suo elettorato, l’equivalente di un’eresia e di un lampante segno di anti-italianità, era perché prima si erano scavati abissi di distanziamento umano e sociale anche sul piano della cultura e della conoscenza, presupposti fondamentali della convivenza civile e della partecipazione alla cosa pubblica.

Il distanziamento dai fatti

Non si può non ricordare quanto le analisi (o la semplice esposizione) dei dati di fatto, da parte di persone dedite da decenni allo studio di determinate e complesse materie, venissero liquidate, davanti alle telecamere o sui social, da chi non possedeva un grammo di quelle competenze, con uscite sconcertanti come: «questo lo dice lei!». Perfino nei talk-show politici e nei telegiornali l’esame puntuale dei problemi era stato spesso derubricato a insopportabile tecnicismo, quasi che le spiegazioni dei fenomeni dibattuti, e l’esposizione dei fatti a fondamento di quelle spiegazioni, fossero considerate una sorta di arsenico per l’audience e un formidabile corrosivo per l’informazione [4].

Il distanziamento sociale dalla competenza

Più in generale, lo studio, l’approfondimento e la competenza erano stati declassati al livello di snobistici atteggiamenti elitari e condannati come sfoggi di privilegi immeritati: in un brevissimo arco temporale avevano subito una radicale svalutazione sia l’adozione di approcci complessi a problemi complessi sia l’adesione al principio di realtà – entrambi i quali presuppongono l’esatto contrario del distanziamento umano visto che richiedono quel minimo di riconoscimento reciproco indispensabile per dialogare e discutere capendo di che cosa si sta parlando.

Un New Deal per rendere compatibile il distanziamento spaziale con la vicinanza umana

Venendo all’oggi, rispetto a questa intimidita e incerta Fase 2, in linea teorica, anche a causa dei disagi derivanti dal distanziamento spaziale cui siamo stati (e ancora in larghissima parte siamo) sottoposti, è possibile ipotizzare che lo sperimentare quotidianamente quanto abbiamo bisogno di vicinanza umana – e quanto sia vero che nessuno di noi si salva da solo – possa farci gradualmente abbassare mura e reticolati di ostilità e pregiudizio: quelle difese, cioè, dietro alle quali ci siamo fin qui illusi di poterci proteggere da quei nemici immaginari subdolamente prefabbricati a nostro uso e consumo.

Un New Deal per ridurre il distanziamento umano

In altri termini, se davvero c’è, in conseguenza della crisi complessiva innescata dal COVID 19, una piccola possibilità di riuscire ad accorciare un po’ il distanziamento umano, non ci si può illudere che ciò avvenga per magia. È plausibile ritenere, infatti, che occorra, ad esempio, “cambiare rotta verso un futuro di emancipazione sociale“, come viene sostenuto e spiegato in un recente documento del Forum Diseguaglianze e Diversità. Più in generale, appare improcrastinabile l’adozione di programmi politici capaci, come recita l’art. 3 della nostra Costituzione, di

rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Ciò, verosimilmente, non basterebbe a produrre come effetto (almeno non nel breve termine e forse neppure nel medio), il superamento del distanziamento umano radicatosi nelle nostre comunità, però toglierebbe molti appigli a coloro che ne hanno fatto, davvero con incredibile successo, la loro bandiera. Una bandiera che continuano a sventolare senza perdere troppa approvazione, neppure dopo due mesi di sottomissione collettiva ad un severo distanziamento spaziale [5].

Un New Deal culturale e relazionale

Il distanziamento umano, quindi, non sembra essere colmabile soltanto con politiche economico-sociali. Occorrono probabilmente anche politiche culturali e un più diretto aiuto alla riflessione e alla costruzione (o alla riparazione) dei legami sociali: in entrambi i casi si tratterebbe di offrire un aiuto a pensare. Ma, mentre il primo riguarda più direttamente il tentativo di contrastare l’impoverimento culturale, incluso l’analfabetismo funzionale, cercando, come suggeriva Don Milani in Lettera ad una professoressa, di trasmettere la voglia di apprendere, il secondo rinvia alla dinamica dei rapporti e dei legami sociali, la quale implica anche una riflessione sui propri vissuti. Un Nuovo Patto in tale ambito, dunque, non può tradursi nella costituzione di un nuovo ente – né nella creazione di un’applicazione o di un algoritmo – che si metta a pensare al posto delle persone. In altri termini, servirebbe avviare un Nuovo Corso che ci veda tutti – non soltanto, coloro che hanno responsabilità di governo e, in generale, responsabilità politiche – impegnati nel tentativo di ascoltare se stessi e gli altri sia con  con il cuore che  la testa, per cercare di sentire e di ragionare [6].

Un New Deal che dia alle emozioni un diritto di cittadinanza ma non i pieni poteri

Viviamo delle e con le nostre emozioni, certo, ma, in quanto esseri umani, abbiamo anche il dono di non subirle e basta, ma di saperle pensare. Abbiamo, cioè, la libertà e la responsabilità di essere padroni delle nostre menti: abbiamo la facoltà di non lasciarle in preda all’ansia, alla frustrazione e alla rabbia; abbiamo il diritto-dovere di non lasciarle in ostaggio all’odio, trasformandoci in burattini di coloro che, proprio con la manipolazione delle nostre emozioni, aspirano (e tante volte riescono) ad assumere il controllo politico della nostra comunità e delle nostre vite. Un New Deal di questo tipo, dunque, dovrebbe saper evitare il più proverbiale degli errori: rilevare la pagliuzza nell’occhio altrui senza scorgere la trave nel proprio. Quindi, a proposito di emozioni e di sentimenti cui dare riconoscimento e cittadinanza (ma anche contenimento, onde “non mandarle al governo”), se in cima alla lista si collocano la rabbia, la paura e l’odio, occorrerebbe anche l’accortezza di non farsi comandare sotterraneamente proprio da quei vissuti: neppure dall’odio indirizzato verso quelli che hanno diffuso e che ancora adesso, tutti i giorni, spingono verso il distanziamento umano.

Un New Deal permeato di Ascolto e Mediazione

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Ma, se è facile svolgere considerazioni come queste (ammesso che abbiano senso), difficilissimo è metterle in pratica. Perché? Perché è proprio quando abbiamo più bisogno di lucidità e di capacità analitiche che queste facoltà, tante volte, se ne vanno a spasso Allora, in una prospettiva di “New Deal relazionale“: da un lato, non sarebbe male moltiplicare e rendere accessibili alla cittadinanza anche quei servizi, inclusi quelli da remoto, che, offrendo ascolto e contenimento alle persone e ai loro vissuti più dolorosi e disturbanti, ne gestiscono i conflitti in ambito familiare, culturale, sociale, ecc. (nel suo piccolo, Me.Dia.Re., da quasi dieci anni, eroga gratuitamente il sostegno di SOS CRISI e, con l’emergenza Coronavirus, ha attivato il servizio gratuito Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione); dall’altro, come già sostenuto in un altro post, andrebbero stimolati progetti di Social Media Conflict Management, perché quel che accade in termini relazionali sui social probabilmente avrà un’importanza e un’influenza crescenti.

Un esempio vale più di mille parole

Nel corso del convegno alla base del post sopra ricordato era stato affermato:

Rispondiamo all’odio con un altro odio, che è frutto della paura e dell’angoscia che quell’odio ci suscita? Reagiamo con la violenza verbale alla violenza verbale? Demonizziamo chi comunica in modo violento, finendo così con il contribuire anche noi alla legittimazione culturale della violenza, mentre ci illudiamo di risolverla? Certo questa opzione esiste ed è la più largamente usata. È, però, una risposta conflittuale. E come tale viene vissuta dall’altro cui si indirizza la nostra risposta indignata, il quale, a guardarlo da vicino, non è tanto diverso da noi. Nel senso che, molto spesso, non si sente un aggressore ma un aggredito. Il suo è un meccanismo di auto-giustificazione? Può darsi, ma… e allora? Il fatto è che ci crede. Si sente una vittima non un carnefice. Resta, perciò, in campo un’altra opzione: quella della de-escalation, la quale, infatti, tenta proprio di disinnescare le premesse della violenza, a partire dalla de-umanizzazione, e tenta di restituire la capacità di pensare e di pensarsi.

Un New Deal relazionale, quindi, implica progetti ed iniziative, auspicabilmente sostenuti e promossi con politiche ad hoc, ma presuppone anche la declinazione di atteggiamenti quotidiani che, attraverso l’esempio, concorrano a rafforzare la capacità di pensare. E il più significativo, il più esemplare, degli esempi è quello offerto dai rappresentanti delle istituzioni (inclusi e per primi, i politici) e, in generale, da chi contribuisce alla creazione dell’opinione pubblica: quale prezioso contributo fornirebbero alla riduzione del distanziamento umano, pur in presenza del distanziamento spaziale, quelli convinti di non aver cavalcato le paure, di non aver alimentato rancori, di non aver sfruttato lo scontento, se ammettessero di aver anch’essi contribuito in modo formidabile alla propagazione dell’odio politico. E soprattutto, se smettessero di demonizzare i loro avversari politici sul piano personale (anziché discutere di contenuti), offendendo così, senza trarne il minimo vantaggio politico, anche i loro elettori. Un New Deal relazionale, basato sul rancore e sulla criminalizzazione dei seminatori di odio (politici, giornalisti, opinionisti, troll, ecc.), in fondo, finirebbe col negare se stesso e spaccherebbe ancor di più la nostra già divisa, sfiduciata e litigiosa comunità.

Alberto Quattrocolo

[1] Se è arduo negare che ci eravamo già rinchiusi in confini stretti, che escludevano l’Altro, spersonalizzandolo, e che eravamo ipernutriti di odio e paranoia, sembra che neppure con l’inizio e con la prosecuzione dell’epidemia abbiamo cambiato dieta: si pensi all’impressionante quantità di aggressioni verbali e fisiche, razziste, in danno, soprattutto, ma non solo, di persone di origine africana, mediorientale, asiatica, est-europea e latino-americana compiute prima del Coronavirus, e a quelle messe in atto, all’inizio dell’epidemia, in danno di persone cinesi e perfino di coloro che non lo erano ma venivano scambiate per tali. Oppure, si pensi alla violenza verbale indirizzata a Silvia Romano, finalmente liberata 18 mesi dopo essere stata rapita in Kenya o alla ministra Teresa Bellanova

[2] Contestualmente ha preso piede qualcosa di definibile come cattivismo, che, strettamente correlato non soltanto all’esaltazione di un egoismo sfrenato, ma anche al cinismo più esibito, alla dietrologia pregiudiziale e alla sfiducia generalizzato, è stato proposto come il più razionale e il più sano dei modi di guardare e di stare al mondo.

[3] Ad esempio, troppe volte, senza alcun ritegno, sono state sventolate le sofferenze dei terremotati di Amatrice a mo’ di giustificazione della propria indifferenza, o perfino del proprio compiacimento, per la morte dei migranti: di quelli annegati nel Mediterraneo o schiantati dalla sete e dal caldo o dalle violenze nel deserto; di quelli accoppati dalla denutrizione, dalle mostruose condizioni igieniche, dal disumano sovraffollamento, dalla crudeltà quotidiana, punteggiata da esecuzioni e torture da parte dei carcerieri nei lager libici.

[4] Sicché trasmissioni televisive, anche molto seguite, nominalmente deputate a “fare informazione”, tutto facevano tranne che informazione, a meno di voler considerare tale la messa in scena di battibecchi sfrontati e di altre performances sguaiatamente aggressive tra i partecipanti.

[5] Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al presumibilmente consistente plauso popolare riscosso dall’ottuso e suicida rifiuto della (peraltro moderatissima) proposta di rilasciare permessi di soggiorno temporanei ai lavoratori stranieri, appoggiata, oltre che dai sindacati, dall’associazione dei coltivatori diretti, consapevole del rischio tracollo per l’agricoltura, uno dei pochi settori non ancora devastati dagli effetti della pandemia.

[6] Circa tre anni fa su questa rubrica, Politica e Conflitto, si erano dedicati alcuni post al tema del rapporto della politica con la pancia della cittadinanza e più di uno al tema dell’ascolto politico. Ma, oggi, non è più possibile attribuire la funzione e l’onere dell’ascolto politico soltanto agli esponenti politici.

La deumanizzazione delle persone senza fissa dimora

In questo post si propongono delle riflessioni sulla de-umanizzazione in generale e, in particolare, sulla deumanizzazione di cui sono fatte oggetto le persone senza fissa dimora (ancora più in particolare, la deumanizzazione rivolta alle persone senza fissa dimora di Torino).

Non è un caso che la parola “persone” sia scritta in neretto. Perché l’auspicio è che l’attenzione sia rivolta al fatto che coloro che non hanno una dimora sono in primo luogo delle persone.

La situazione delle persone senza fissa dimora in Piemonte e a Torino

In Piemonte le persone senza fissa dimora sono 2.259, di queste 1.729 vivono a Torino. In linea con il dato nazionale, l’84,5% delle persone senza dimora a Torino sono uomini, hanno un’età media di 46 anni, da circa due anni non possiedono un’abitazione stabile e, pertanto, vivono per la strada, in solitudine.

Le cause scatenanti la loro condizione sono le seguenti:

  • la separazione dal coniuge e/o dai figli,
  • la perdita dell’occupazione lavorativa.

La rete dei servizi mensa e di ospitalità notturna di Torino è tutt’altro che sguarnita ed è decisamente frequentata: ben l’81,9% delle persone senza fissa dimora ha pranzato almeno una volta presso la mensa e il 71,5% ha dormito in una struttura di accoglienza notturna.

La situazione delle persone senza fissa dimora si collega strettamente alla tematica della deumanizzazione, purtroppo: con questo termine, secondo Volpato, in psicologia sociale, si indica una strategia di delegittimazione tendente all’esclusione di individui singoli o di gruppi dall’umanità [1].

È una forma radicale di deprezzamento e ostracismo che, nel corso della storia, ha costantemente accompagnato conflitti e stermini.

Essa si avvale di strategie esplicite volte a negare apertamente l’umanità dell’altro, ed altresì di strategie sottili, le quali erodono in modo consapevole l’altrui partecipazione all’umanità, queste ultime presentano forme più variegabili e molteplici ed il loro successo dipende sia dal contesto sociale che dallo spirito culturale.

Le strategie esplicite della deumanizzazione

La deumanizzazione rappresenta la forma più estrema di pregiudizio e di discriminazione. Se ne individuano 5 forme diverse.

Animalizzazione

Questo tipo di deumanizzazione nega ad individui e a gruppi le qualità che sanciscono la superiorità dell’uomo sugli altri esseri viventi. Gli individui assimilati agli animali sono percepiti come esseri irrazionali, immaturi, privi di cultua ed incapaci di autocontrollo. L’animalizzazione suscita in chi la subisce sentimenti di degradazione ed umiliazione, chi la agisce prova disprezzo e disgusto, cioè sentimenti ed emozioni frequentemente collegate alla percezione di animalità. (si pensi a Hitler che paragonava gli ebrei a topi e scarafaggi).

Demonizzazione

Le metafore sovraumane trasformano l’Altro in un demone, diavolo o strega, gli attribuiscono poteri magici, che ne accentuano la pericolosità e ne rendono possibile l’eliminazione. La genesi di tali rappresentazioni è nel concetto di “mostro”, colui che mostrano uno scarto dalle norme naturalistiche che regolano i rapporti tra specie animali e genere umano, scarto che può assumere la forma dell’eccesso, del difetto, della malformazione o dell’aggiunta aberrante di membra appartenenti a specie diverse. Così, durante il Medioevo, la demonizzazione servì a contenere la ribellione femminile, mediante la “Caccia alle streghe”.

Biologizzazione

Le metafore utilizzate dalla deumanizzazione mediante biologizzazione hanno conosciuto un ampio sviluppo del corso dell’800. Si tratta di metafore legate allo sviluppo delle malattie, alla protezione dell’igiene e alla purezza, tendenti a trasformare l’altro in microbo, virus, bacillo, morbo, pestilenza, tumore, sporcizia. Tale modalità ha sostituito la demonizzazione, allo scopo di produrre gli stessi effetti e risultati: cioè: suscitare paura e disgusto e rappresentare le persone-bersaglio come qualcosa da eliminare, da estirpare e purificare.

Meccanizzazione

Essa considera l’altro come un organismo meccanico, un automa, un robot, incapace di provare emozioni e di aprirsi agli altri. Gli individui rappresentati con questo tipo di metafora sono giudicati indifferenti, freddi, rigidi, privi di curiosità, immaginazione e profondità. In atre parole, gli individui sono considerati macchine, non suscitano affetto, compassione o empatia. A titolo esemplificativo, si può pensare ad alcuni risvolti del Taylorismo.

Oggettivazione

In questa forma di deumanizzazione l’individuo è considerato come un oggetto, uno strumento, una merce. Diverse riflessioni sull’oggettivizzazione sono state svolte da diversi autori:

– Kant usò questo termine per indicare la riduzione dell’essero umano a mero strumento sessuale, in Fondazione della metafisica e dei costumi;

– Marx utilizzò questo termine in relazione allo stato di alienazione del lavoro e del lavoratore all’interno del sistema capitalista, in Manoscritti economico-filosofici;

recentemente il termine è stato considerato dal Pensiero Femminista, in merito alla riduzione della figura femminile a mero oggetto sessuale, come si può leggere nella Teoria dell’oggettivazione sessuale di Fredrickson&Robert (1998).

La deumanizzazione per invisibilità nella nostra società

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Alla luce di quanto sopra descritto c’è da domandarsi se noi siamo immuni dall’adottare delle condotte deumanizzanti, o dal subirle.

La nostra società esercita quotidianamente una deumanizzazione per invisibilità, che si declina attraverso il silenzio, la disattenzione, la non curanza, nonché mediante il ricorso al dato statistico che annulla l’importanza dell’identità personale e sociale.

Tale forma di deumanizzazione si basa sulla collusione tra elementi di deumanizzazione esplicita, voluta dalle istituzioni, ed elementi di deumanizzazione sottile, che permettono alla società civile di distogliere lo sguardo: fa più o meno finta di non vedere, decide di nascondersi dietro il “così vanno le cose”, evitando di assumersi le proprie responsabilità di fronte alla deprivazione di umanità che colpisce i meno fortunati.

Le diverse forme di deumanizzazione delle persone senza fissa dimora

Il Dot. Aragona, in un suo breve scritto, riporta importanti considerazioni in merito alle reazioni di fronte alle persone senza fissa dimora, presenti nei propri punti di stazionamento (panchine, marciapiedi, portici).

“Ogni giorno, passiamo davanti ai cartoni su cui sono stese persone, avvolte di stracci per difendersi dal freddo…” [2].

Le reazioni di fronte alle persone senza fissa dimora

Le persone possono mettere in atto una deumanizzazione avente il carattere della biologizzazione, sognando di ergersi a tutori dell’ordine e di realizzare un ripristino di quel marciapiede una volta pulito e non occupato. La persona senza fissa dimora, quindi, viene considerata una malattia in carne e ossa, per la quale si rende necessaria la disinfezione e la purificazione.

Altre persone, appena incappano in un soggetto senza fissa dimora, provano un sentimento di paura e decidono di cambiare lato della strada, tale reazione scaturisce dal fatto che questa persona, che sta occupando il posto del marciapiede, posto pertanto non idoneo alla quotidianità di vita, oltre ad essere un soggetto sporco, puzzolente, vestito male, potrebbe anche mettere in atto, se io incappo in lui, un atteggiamento imprevedibile. L’autore, considera però, che il sentimento di paura in una situazione del genere, sarebbe da considerarsi normale e significativa, se a provarla fosse la persona occupante il marciapiede, la quale ha più probabilità di essere vittima di atti di violenza, essendo la parte più vulnerabile.

Un’altra reazione è l’indifferenza che permette di girarsi dall’altra parte o di proseguire dritto, come se sul quel marciapiede non ci fosse proprio nessuno.

Riprendendo l’ultima reazione descritta da Aragona, è bene essere consapevoli del fatto che sempre di più la nostra società presenta indifferenza al fenomeno descritto. Si è reso concreto, quindi, il pericolo di vivere e di pensare come “normale” la condizione di marginalizzazione sociale.

È talmente normale, dunque, che i nostri sentimenti appaiono come anestetizzati: non proviamo più nemmeno indignazione per il fatto che vi siano delle persone costrette a dormire per la strada, anzi, percepiamo quella situazione come se fosse una condizione naturale, se non addirittura una colpa di chi finisce per strada.

Queste righe sono un caldo invito a riflettere su come sia possibile rivolgere uno sguardo diverso al nostro quotidiano e, in particolare, a quelle persone che, oggi più che mai, sono lì sulle nostre strade familiari. È un invito a cogliere qualsasi loro dettaglio, anche il più minimo: una posizione, un gesto, uno sguardo…

Vera Barzizza

[di Vera Barzizza (assistente sociale, mediatrice familiare e penale e molto altro ancora!) abbiamo pubblicato, in questo sito, nella rubrica Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, Penale…, sia la tesi di mediazione familiare (che propone un confronto sul lavoro del servizio sociale e quello di mediazione familiare, concentrandosi sull’importanza dell’ascolto empatico nelle due professioni), sia la tesi di mediazione penale (centrata su “l’interfacciarsi con la violenza”). Inoltre, è possibile seguire la sua intervista inserita nella rubrica Interviste ad ex corsisti]

 

[1] C.Volpato, “Negare l’altro. La deumanizzazione e le sue forme”, in Psicoterapia e Scienze Umane, 2013, XLVII, 2:311-328

[2] M.Aragona, “Torniamo umani”, disponibile online, formato pdf

Distanziamento sociale per l’ odio politico

Suggerire un distanziamento sociale per evitare il contagio da odio politico non significa, sia chiaro, sostenere la necessità di mettere il bavaglio all’espressione di principi, valori, idee, programmi, opinioni, ecc. Si tratta, infatti, di un distanziamento sociale per l’odio politico e non per il dibattito politico, quindi non per le discussioni, i dissensi, né le critiche aspre, severe e senza sconti.

Espressioni di odio politico come modalità relazionali divenute “normale”

Il distanziamento sociale per l’ odio politico è riferito ad un insieme enorme di rapporti caratterizzati da aggressività e faziosità, da dogmatismo e ottusità, da pregiudizi e diffidenze: insomma da una dinamica in cui l’Altro, quello che non la pensa come noi, quello che consideriamo diverso da noi, è il Nemico. Non è un interlocutore con cui discutere, ma un’entità da delegittimare, screditandola e criminalizzandola. Non è un soggetto ma un qualcosa che abbiamo mentalmente de-umanizzato, da demonizzare ulteriormente, anche attraverso diffamazioni e calunnie. È un essere rappresentato e trattato come una realtà maligna, come un mostro di perversione e cattiveria. È descritto e raccontato come un essere diabolico che non sa far altro che cospirare, da quel doppiogiochista infido, bugiardo e traditore che appare ai nostri occhi e/o che vogliamo appaia agli occhi degli altri. E questi “altri” sono sia coloro che stanno già dalla nostra parte sia coloro che vogliamo guadagnare alla nostra causa.

Negli ultimi anni, questa tendenza del confronto politico a trasformarsi in conflitto ha vissuto una radicalizzazione e un’impennata esasperate ed esasperanti nella nostra società. Ogni asserzione o dichiarazione del concorrente politico e, talora, perfino dell’alleato, è fatta oggetto di interpretazioni e distorsioni all’insegna della delegittimazione o, peggio, della criminalizzazione. Lo spazio per la critica costruttiva è stato semplicemente annullato, venendo soppiantato dalla diffusione di rappresentazioni caricaturali del concorrente, da una sistematica manipolazione e strumentalizzazione di fatti e notizie, dalla produzione industriale di stimoli alla rabbia, al risentimento e alla paranoia [1]. E, purtroppo, questa dinamica relazionale non ha interessato soltanto il confronto tra gli esponenti politici nei luoghi nei quali costoro tipicamente si confrontano: vale a dire, i luoghi istituzionali (il Parlamento e le altre assemblee), gli studi televisivi e le piazze virtuali. Tale modalità aggressiva e squalificante di rapportarsi gli uni agli altri è diventata la normale interazione anche tra i non politici, tra le persone comuni [2].

È più facile comprare tonnellate di odio politico che chili di proposte, programmi e contenuti

Ma questa infezione non è arrivata dalla natura come quella del Coronavirus [3]. La diffusione di questa sorta di virus relazionale – se come tale vogliamo considerare l’odio politico – è stata il frutto di un felicissimo incontro tra domanda e offerta sul mercato politico.

Sul lato dell’offerta, non si può negare che vi sia stata  – e, malgrado la pandemia, che ci sia ancora – una deliberata e sistematica offerta di una comunicazione politica in cui l’ odio politico era il principale ingrediente: questa politica ultra-conflittuale, posta in essere con metodi sofisticati, costosi e di livello industriale, è stata condotta con enorme successo da non poche forze politiche, le quali, adattando noti e raccapriccianti esempi storici di manipolazione collettiva alle peculiarità della nostra epoca, hanno seminato una propaganda tutta tesa a stimolare rancore e rabbia. Cercando di fare credere al maggior numero possibile di persone di essere vittime innocenti e ingenue sia della cattiveria sopraffina e cospirativa di alcune entità spersonalizzate, sia dell’inguaribile perversione di alcuni leader, descrivendoli come se fossero stati gli unici o i maggiori colpevoli del disagio sociale, della crisi economica e di tutto ciò che procurava un vissuto di frustrazione, insicurezza e paura [4].

Sul lato della domanda, si potrebbe facilmente osservare che una rilevante maggioranza degli elettori italiani non ha resistito all’offerta sventolatagli sotto il naso e si è precipitata ad acquistare complotti, capri espiatori e altri artifici retorici deresponsabilizzanti, senza badare alla esorbitante entità del prezzo – economico, sociale, politico e umano – pagato. Del resto, è più facile vendere rabbia e intolleranza, veicolate con slogan facili da afferrare, che vendere programmi e proposte basate sulla complessità della realtà, quindi sulla necessità di ingaggiarsi in percorsi di conoscenza. È più agevole, per chi vende, mettere in commercio odio e timore, proiettandoli su bersagli ad hoc trasformati in una specie di beni di consumo, perché, per chi compra, è più semplice acquistare quei prodotti di facilissimo consumo. Mentre più impegnativo e faticoso è acquistare occasioni di investimento intellettuale, le quali costringono a leggere, informarsi, confrontarsi, studiare, mettersi in discussione, verificare le proprie e altrui responsabilità ed errori. In sintesi, è immensamente più facile commercializzare l’odio che indurre il prossimo a pensare.

Una perfetta intesa tra spacciatori di odio politico e consumatori

L’ odio politico si vende e si compra facilmente anche perché chi lo vende non lo definisce come tale; né chi lo compra lo riconosce come tale. Il venditore lo propone come il sacrosanto diritto ad essere indignati, offesi, arrabbiati e risentiti; chi compra l’odio politico acquista anche, se già non ne è adeguatamente fornito di suo,  alcuni di quelli che Bandura, analizzando il bullismo, chiamava i meccanismi di disimpegno morale. In sostanza, si tratta di quei meccanismi mentali che consentono di non avere problemi di coscienza, sentendosi e pensandosi vittime di comportamenti ingiusti commessi da coloro contro i quali si rivolgono disprezzo e odio e si esercita la violenza. Così, si crea una perfetta intesa tra lo spacciatore di odio politico e il suo consumatore, i quali, infatti, mai, neppure per un momento, si sentono in colpa per la violenza dei loro comportamenti pubblici.

Ciò rende l’interruzione di questa dinamica decisamente difficile, quasi una missione impossibile. Perché chiunque la focalizzi viene visto come un nemico, come un membro della cospirazione, intento a collaborare al complotto.

Invece di gestire il conflitto ne siamo gestiti

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Però, l’ odio politico non è un’esclusiva degli iscritti o militanti di destra, di centro o di sinistra, di questa o di quella forza politica: è stato assunto o è penetrato nella pressoché totalità delle forze politiche, giovandosi di una fertilità di fondo (risalente a decenni di storia politica all’insegna della squalificazione dell’avversario). Sprizzare l’ odio politico è divenuto, quindi, un modo comune di esprimere il proprio parere su questo o quell’argomento di rilevanza pubblica. Non si argomentano le proprie opinioni, né ci si sforza di capire di capire le ragioni dell’altro. Anzi, spesso neppure ci si degna di considerare l’argomento di cui l’interlocutore sta parlando. Non leggiamo o non ascoltiamo il contenuto proposto dall’altro, reagiamo solo all’emozione che associamo alla persona che propone quel parere o suggerimento. In altri termini, i nostri stati d’animo nel partecipare o nel seguire il dibattito sono quelli governati dalla dinamica del conflitto più parossistico.

Ci troviamo, così, a vivere il presente e a guardare al futuro con sentimenti e pensieri latamente paranoici, i quali non ci permettono di avvicinarci alla comprensione della realtà, ma ci fanno reagire, un po’ come il cane di Pavlov, a certi particolari stimoli, all’apparire dei quali siamo stati condizionati a schiumare rabbia.

La spirale autodistruttiva dell’ odio politico

Ora, se questa condizione è estremamente funzionale a sistema politici illiberali e autoritari, in quelli democratici, invece, essa è decisamente disfunzionale e autodistruttiva. I sistemi democratico-liberali, infatti, funzionano ed evitano il collasso, se c’è la condivisione da parte di tutti gli attori politici di alcuni comuni principi di base e soprattutto se c’è una minima reciproca legittimazione. Quest’ultima, naturalmente, non esclude il conflitto, ma esclude da parte di un soggetto politico la rappresentazione come Nemico Pubblico Numero Uno di coloro che hanno una visione, una proposta o una sensibilità politica diversa: un simile atteggiamento, infatti, è logicamente prodromico a tentazioni, e perfino a tentativi, di svolte autoritarie [5]. La trasformazione dell’interlocutore in un essere minaccioso, infatti, lo delegittima e lo squalifica dal gioco, autorizzando il soggetto delegittimante a proporsi e ad essere considerato come il solo attore legittimato a stare sulla scena politica. È una tendenza che abbiamo già visto tante volte in Italia, ma forse mai con una tale radicata diffusione. È una febbre insidiosa, potenzialmente letale per la libertà e la democrazia, la cui temperatura può essere misurata in tanti modi e con tanti termometri. Uno di questi è quello che rileva quanto nelle piazze – oggi soprattutto in quelle virtuali – si arriva a detestare, come se fosse il peggiore dei nemici, non soltanto l’appartenente allo schieramento politico concorrente, ma anche chi, appartenendo al nostro, ogni tanto, osa rompere gli schemi conflittuali e, guardando oltre il reticolato, dice:

«Forse il nostro avversario questa volta ha detto una cosa su cui può valere la pena discutere».

Chi si azzarda a compiere un tale gesto nel migliore dei casi viene accusato di buonismo o di correttezza politica, che sono ormai considerati due delitti gravi (ne avevamo parlato all’interno di questa rubrica in alcuni post, tra cui La politica della scorrettezza politica).

La misura privata del distanziamento sociale per l’ odio politico

Per contrastare il diffondersi della pandemia un elevato numero di governi, a partire dal nostro, hanno fatto ricorso alla misura del distanziamento sociale, con diversi livelli di severità. L’efficacia di tali provvedimenti, almeno negli stati democratici, è assicurata in larghissima parte dall’adesione della gran parte dei cittadini. Se i cittadini in massa si rifiutassero di osservare tali vincoli, questi in un baleno diverrebbero lettera morta. Di fatto, quello a cui stiamo assistendo è una condizione di auto-isolamento, che, ovviamente, è allo stesso tempo individuale e collettivo. Ed è frutto di una collettiva e individuale assunzione di responsabilità.

Ebbene, la proposta di un distanziamento sociale per l’ odio politico si colloca su questo registro. Non come invito a tenere un comportamento di censura da indirizzare agli altri, ma come atteggiamento interno, individuale – anzi, decisamente personale -, ma non per questo nascosto. La presa di distanza, in altri termini, andrebbe declinata in primo luogo dentro di sé: attivata coscientemente una risposa intimamente espulsiva ogni volta che ci si imbatte in un articolo, una dichiarazione, un commento, un post, ecc. schiumanti di rabbia e tesi stimolare l’ odio politico all’indirizzo di qualcuno, si tratta poi di prendere le distanze in termini relazionali dall’ hater, magari spiegandogliene il perché. Non occorrerebbero, infatti, poi, molte parole, basterebbe dirgli o scrivergli che quel violento modo di comunicare non ci piace, che ci interessano le discussioni sui temi e non gli attacchi ad personam.

I politicanti-spacciatori e i sudditi-consumatori pensano alle prossime elezioni, gli statisti e i cittadini pensano alle prossime generazioni

Se vogliamo davvero che i nostri rappresentanti politici tentino di affrontare con intelligenza lungimirante la sfida immensa rappresentata dalla pandemia e dai suoi effetti, occorre aiutarli e motivarli a compiere questo notevolissimo sforzo e sostenerli nell’essere all’altezza di quel compito. Il che presuppone che anche noi si sia all’altezza della sfida, nei più contenuti limiti delle nostre possibilità. Perché è vero che in un sistema democratico-liberale sta agli eletti discutere e decidere, ma non si può scordare che gli eletti sono il nostro specchio: ci piaccia ammetterlo oppure no, ci rappresentano anche nel senso ci riflettono (visto che, tra l’altro, non arrivano da Marte e che siamo noi ad averli votati senza che nessuno ci costringesse a farlo con una pistola alla tempia o minacciandoci di spedirci in carcere o al confino). Certo non passeranno mai di moda le citatissime parole di De Gasperi:

«i politici pensano alle prossime elezioni, gli statisti alle prossime generazioni».

Ma, non possiamo scordarci che c’è un doppio legame tra rappresentanti e rappresentati: se questi ultimi non sanno o non vogliono pensare alle prossime generazioni, anzi se non sono disposti a pensare ma preferiscono comprare odio e spargerlo in giro, difficilmente stimoleranno i politici che li rappresentano a volgere il pensiero alle prossime generazioni. Detto a mo’ di slogan:

«i politicanti-venditori e i sudditi-consumatori pensano alle prossime elezioni e ai sondaggi, gli statisti e i cittadini pensano alle prossime generazioni».

Alberto Quattrocolo

[1] Forse anche noi di Me.Dia.Re. siamo rimasti intrappolati in tale situazione, senza riuscire a divincolarci. In questa rubrica, infatti, dal suo apparire e per un certo periodo, direi fino al 2018, sono stati pubblicati molti post sul tema della conflittualità in ambito politico e della sua possibile gestione, poi abbiamo riposta carta e penna nel cassetto, limitandoci ad un paio di articoli. Perché? Per mancanza di tempo, per scarsità di riscontri e per altre svariate ragioni, incluso, e probabilmente per primo, il fatto che dall’inizio del 2018 si è passati da un’elezione all’altra: prima le politiche del marzo 2018, poi le europee, poi le regionali, poi di nuovo le regionali…  E, pensavamo, non sarebbe stato “carino” continuare a scrivere post che, come gran parte di quelli dedicati al tema del nazionalrazzismo, finivano con l’essere di fatto una sorta di presa di posizione nelle competizioni elettorali. Oggi, però, francamente, quello scrupolo è diventato obsoleto.

[2] All’inizio di un post del 26 gennaio 2017 avevamo ricordato che nel messaggio agli italiani del 31/12/2016 il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella  aveva proposto la seguente riflessione: «Internet è stata, e continua a essere, una grande rivoluzione democratica, che va preservata e difesa da chi vorrebbe trasformarla in un ring permanente, dove verità e falsificazione finiscono per confondersi». Queste parole chiudevano il suo commento preoccupato circa l’impiego dell’«odio come strumento di lotta politica». Oggi, oltre tre anni dopo, l’odio come strumento di lotta è ancor più capillarmente diffuso e intensamente potenziato di quanto non fosse allora. Più di quanto accadesse prima, la violenza verbale – aspetto intrinseco dell’inesorabile escalation del conflitto politico e manifestazione comportamentale dell’ odio politico – dilaga sui social, essendo diventata un modo “normale” di esprimersi e relazionarsi con chi ha un punto di vista diverso.

[3] Tre anni fa, il 19 aprile del 2017 avevamo pubblicato un post sulla violenza verbale nella rete come crescente modalità di partecipare al dibattito politico: C’è in giro un virus di cui non si parla (abbastanza)

[4] Così si sono condotte capillari e martellanti campagne d’odio contro bersagli ben precisi: gli immigrati e coloro che sono favorevoli al riconoscimento e al rispetto della loro vita e della loro dignità umana; alcune categorie sociali e professionali, come i politici di lungo corso, i sociologi, gli storici, gli economisti, i politologi, i virologi, gli epidemiologi, gli assistenti sociali, ecc.; alcuni gruppi di enti, come le organizzazioni non governative (ONG), le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, le imprese bancarie, le aziende farmaceutiche; le istituzioni appartenenti, o comunque ricondotte dal pensiero comune, all’Unione Europea; alcuni leader di altri Paesi come Macron e la Merkel; alcuni leader nostrani, e qui l’elenco è lungo e va almeno dalla B, di Laura Boldrini alla R di Matteo Renzi; il Papa; George Soros…

[5] Il 13 marzo 2017 era stato pubblicato un post intitolato Dalle fiamme del conflitto politico può levarsi una puzza di “fascismo involontario”?

La campana della solidarietà sociale

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te».

John Donne,
Da Meditazione XVII

Esistono dei rintocchi di campana che tutti sono chiamati ad ascoltare. Sono rintocchi di campana udendo i quali occorre destarsi e rispondere. E tale incombenza grava anche su coloro che sono imparziali e neutrali per professione.

Il mediatore non dà consigli quasi mai

In ogni percorso di mediazione familiare o di mediazione dei conflitti in altri contesti, in ogni percorso formativo per acquisire le competenze di mediatore familiare, penale o in altri ambiti, e in ogni corso sulla prevenzione e gestione dei conflitti, si ripete che il mediatore non dà consigli né propone esortazioni ad agire in un determinato modo, così da restare davvero completamente esterno al conflitto [1]

Il limite (ovvio) all’imparzialità del mediatore

Quest’estraneità al conflitto, quale fondamento dell’imparzialità del mediatore, però, non è inderogabile in modo assoluto.

Così, ad esempio, la mediazione familiare non è percorribile nei casi in cui quello interno della coppia non sia un rapporto conflittuale e basta, ma un rapporto – che lo si voglia o meno considerare conflittuale – caratterizzato da violenza (al tema abbiamo dedicato alcuni post nella rubrica Riflessioni e, in particolare, i seguenti: La mediazione familiare e la violenza e La mediazione familiare va sospesa nei casi di violenza psicologica). Perché, in tal caso, la vita, la sicurezza, l’integrità e la libertà della persona prevalgono sulla ratio soggiacente alla regola dell’imparzialità e della neutralità e quindi a quella del non dare consigli alle parti, nel predetto senso, appunto, di non prendere posizione rispetto al merito della questione.

Sono le situazioni nelle quali sull’aspetto professionale, e sulle sue regole e logiche sottostanti e sovrastanti, prende il sopravvento un’altra dimensione: l’appartenenza del mediatore ad una comunità, quella costituita dal consorzio umano.

Quella dell’emergenza da Coronavirus costituisce, senza dubbio, una situazione nella quale  sopra ogni altra istanza s’impone l’appartenenza al consorzio umano anche per i professionisti della mediazione, si tratti di mediatori familiari, penali o civili e commerciali, ecc.

Il che significa, in concreto, non soltanto che anch’essi sono tenuti a rispettare nella loro attività professionale i limiti e gli accorgimenti dettati dalle disposizioni normative vigenti nella particolare condizione di questo momento, ma che, al pari di altri professionisti, hanno la facoltà – viene voglia di dire: l’onere – di prendere posizione (e di farlo pubblicamente e non soltanto nell’ambito della loro attività al cospetto delle parti), cioè: di  associarsi alla raccomandazione di rispettare le misure normative adottate per prevenire l’estendersi del contagio.

I doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale

È quasi pleonastico ricordare che tutti noi, come cittadini, oltre ai diritti, abbiamo anche i doveri. Non per caso tra i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana ci sono quelli di cui all’art.2.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”

Tocca a noi, quindi, a tutti noi, nessuno escluso, di essere artefici, in questa occasione dell’attuazione della Costituzione repubblicana. Cioè, ci tocca adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà che la Costituzione richiede a tutti noi. Non sollecita, ma richiede.

“Non mandare a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te.”

In effetti, se non vogliamo essere affetti da imperdonabile e irreparabile ottusità autolesiva, questa volta ci tocca riconoscere quel che troppe volte non abbiamo voluto ammettere, cioè: citando e parafrasando spudoratamente John Donneogni morte d’uomo ci diminuisce, perché nessun essere umano è un’isola, perché ogni uomo è parte della terra, una parte del tutto. Quindi, dato che la morte di ciascun uomo ci diminuisce, visto che facciamo parte del genere umano, non chiediamoci per chi suona la campana. Questa volta, inequivocabilmente, suona per noi. E sta suonando.

D’altra parte, vale la pena sottolineare che il passo citato di John Donne è una meditazione compresa in un’opera intitolata “Devozioni per occasioni d’emergenza”.

Alberto Quattrocolo

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[1] Perché? Per diverse ragioni di natura relazionale, connesse per lo più ai diversi risvolti delle dinamiche relazionali, inclusi quelli che rinviano al rischio di un suo coinvolgimento nel conflitto. Quindi, ad esempio, in sede formativa, si mette in guardia dalla possibilità che la proposta di un’esortazione, di un consiglio o di un suggerimento, comunicata ad una parte in conflitto equivalga a farla sentire giudicata negativamente, dato il rischio che ad essa, attraverso questa o quella indicazione, possa giungere anche un’implicita disapprovazione per la sua condotta. Sebbene i mediatori, quindi, non possano e non debbano dare consigli, né sbilanciarsi, prendendo posizione, ci sono situazioni nelle quali possono legittimarsi a derogare alla regola. Si tratta di situazioni particolari, fuori dall’ordinario. Situazioni, nelle quali sono in gioco temi o aspetti fondamentali della convivenza. Sono quelle situazioni nelle quali il mediatore si misura con il dato di fatto che Nessun uomo è un’isola e, in qualche misura, non può, e/o non deve, chiamarsi del tutto fuori dal conflitto che gli sta davanti. A questo proposito, sono diversi i post  della rubrica Politica e Conflitto nei quali abbiamo preso posizione rinunciando esplicitamente ad ogni pretesa di imparzialità, che, a nostro parere (sarebbe equivalsa a biasimevole indifferenza) rispetto a condotte e fenomeni che ritenevamo intesi a sgretolare le più basilari fondamenta della convivenza civile, sicché il presente post non costituisce di per sé una vera novità rispetto alla “politica” di Me.Dia.Re.

 

Non sono pazzi, ma razzisti pieni di odio

Oggi, in Nuova Zelanda, non si sono svolte le bellissime manifestazioni, stimolate da Greta Thunberg e da altri giovani leader ambientalisti, per chiedere politiche determinanti contro il riscaldamento globale. In Nuova Zelanda, a Christchurch49 delle persone intente a pregare in due moschee sono state massacrate in quello che la premier Ardern ha definito un attacco terroristico pianificato, inteso a colpire migranti e rifugiati. Uno dei killer in un manifesto pubblicato online, “The great replacement”, ha sostenuto che

è in corso un «genocidio dei bianchi» e che, pertanto, egli è «costretto a combattere» chi cerca di «sostituire e soggiogare la mia gente e fare la guerra al mio popolo».

È un’applicazione sanguinaria della fasulla tesi della sostituzione etnica, che include la spudorata balla complottista del cosiddetto Piano Kalergi. Ma sarebbe da ottusi pensare che si tratti di un pazzo invasato. Come le altre analoghe stragi, neppure questa è il sanguinoso gesto di qualche semplice “lupo solitario”. Questi lupi, tutt’altro che solitari, infatti, prima di avventarsi vigliaccamente sulle loro vittime inermi, si nutrono di abbondanti porzioni di odio e di razzismo, somministrati sempre più su vasta scala da altri. Essi assumono in dosi massicce la rabbia e il rancore diffusi da seminatori di odio professionisti. Quelli che usano sistematicamente tutti i mezzi possibili per spargere paura e per alimentare il disprezzo e l’ostilità verso l’Altro, criminalizzandolo e demonizzandolo. Insomma, per rappresentarlo come un soggetto subumano e pericoloso.

Questa costante propaganda, com’è noto a tutti coloro che non si ostinano nel rifiuto di guardare, non è priva di conseguenze dannosissime. Anche in senso fisico: perché essa permette a chi insulta e discrimina, offende e umilia, picchia e uccide l’Altro, non soltanto di non sentirsi in colpa per la propria violenza razzista, ma, anzi, di credersi dalla parte giusta e di convincersi che le sue vittime non solo tali, essendo in realtà meritevoli di essere colpite brutalmente. Non a caso gli autori della strage di oggi in Nuova Zelanda, si sentono eroi patriottici. Non diversamente da come si si rappresentavano Luca Traini o Anders Behring Breivik, l’autore della più grave strage (77 vittime) commessa in Norvegia dai tempi dell’occupazione nazista. Costui si definiva «salvatore del cristianesimo» e «il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950» [1].

Il presidente Mattarella ha fatto notare che gli assassini neozelandesi

«sulle loro armi hanno messo come riferimento e simbolo alcuni nomi. Tra questi quello di Luca Traini, l’uomo che pochi mesi fa a Macerata ha sparato a casaccio contro ogni immigrato che incontrava per strada. Hanno messo anche il nome di un canadese che due anni fa in Canada ha ucciso alcune persone in una moschea. Questi due nomi i terroristi li hanno affiancati, nella loro dissennatezza, al Doge di Venezia della battaglia di Lepanto di cinquecento anni fa, e a Carlo Martello, vincitore a Poitiers 1300 anni fa. Questo cancellare la storia, questo rifiutare la storia, questa condizione che cancella la civiltà che la storia ha costruito è il pericolo che abbiamo di fronte».

Nel nostro piccolo, noi dell’Associazione Me.Dia.Re. cerchiamo quotidianamente di sciogliere alcuni di quei nodi dai quali inizia il processo di disumanizzazione dell’altro. Lo facciamo sia nei nostri Servizi gratuiti (in quelli di Ascolto e Mediazione, quelli di Mediazione Familiare e di Mediazione Penale, come anche, in qualche misura, in quelli di ascolto, mediazione e sostegno per le vittime della Crisi, quelli di ascolto e supporto per le vittime di reato, per le donne vittime di violenza, ecc.), sia attraverso iniziative formative e culturali.

Tra queste ultime rientra la rubrica quotidiana Corsi e Ricorsi. Al suo interno tentiamo di ricordare i fatti, i progressi e i regressi, accaduti dall’anno 1900 in poi, includendovi, ad esempio, anche le più o meno recenti stragi da parte di estremisti di destra [2].

Siamo convinti, infatti, che occorra ricordare (e discutere) per diverse buone ragioni, non ultima quella di evitare che si affermi una rilettura della storia con le lenti dell’odio e del pregiudizio. Una rilettura, in realtà, molto comoda per chi volesse, manipolando valori e coscienze, assicurarsi un crescente consenso culturale e morale, oltreché politico, nel presente e nel futuro.

Alberto Quattrocolo

[1] Il suo programma politico prevedeva lo scioglimento dell’Unione Europea, la creazione di un’alleanza con la Russia di Putin, la cacciata dall’Europa tutti gli immigrati entro il 2083, la condanna a morte di tutti coloro (intellettuali, politici, giornalisti, docenti…) che si sono macchiati della colpa dell’antirazzismo, poiché, secondo lui, hanno tradito le loro patrie favorendo “il genocidio culturale” degli europei.

[2] In particolare quelle commesse: il 22 luglio 2011, in Norvegia (77 morti, la maggior parte dei quali ragazzi), il 12 dicembre nel Connecticut (26 vittime, di cui 20 bambini tra i sei e sette anni) e il 22 luglio 2016 a Monaco di Baviera (9 vittime). Senza scordare, oltre al ferimento di 6 persone a Macerata, da parte di Luca Traini, tra le altre, quella del liceo di Parkland, del 14 febbraio del 2018 (17 vittime, di cui 14 di età compresa tra i quattordici e diciotto anni), e quella del 1° ottobre del 2017, a Las Vegas (58 morti).

Sostituzione (ir)razionale

È in corso un tentativo di sostituzione (ir)razionale ?

Se sì, da chi è posto in essere tale tentativo? A cosa mira? E in cosa consisterebbe questa sostituzione (ir)razionale?

A simili quesiti si può tentare di rispondere partendo dall’espressione che ha ispirato quella di sostituzione (ir)razionale : la sostituzione etnica.

La sostituzione (ir)razionale interna alla “teoria” della sostituzione etnica?

Sostituzione etnica è un’espressione usata frequentemente dal segretario della Lega, Matteo Salvini, che, ad esempio, quando venne intervistato da Maria Latella, specificava che si tratta di

«un arrivo di una massa di o nulla facenti o delinquenti, che non scappano dalla guerra, ma la guerra ce la portano in casa».

Ma Salvini non è il solo parlare di sostituzione etnica. Lo ha fatto anche Magdi Cristiano Allam su Il Giornale, affermando che la sostituzione etnica deriva dall’impegno dell’Italia sul fronte dell’accoglienza e che è frutto di una strategia deliberata, pianificata e finanziata, che interessa l’intera Europa.

Tra i sostenitori della tesi della sostituzione etnica vi sono quella quindicina di naziskin del Veneto Fronte Skinhead, che hanno fatto irruzione in un’assemblea della Rete Como Senza Frontiere. Inoltre la stessa tesi è affermata continuamente da CasaPound e Forza Nuova.

Ad esempio, Roberto Fiore, leader di quest’ultima, l’ha riproposta rivendicando il blitz davanti alla sede de La Repubblica e L’Espresso.

«Da oggi inizia il boicottaggio sistematico e militante contro chi diffonde la sostituzione etnica e l’invasione».

Sullo stesso registro, del resto, si colloca la teoria complottista che denuncia il cosiddetto Piano Kalergi.

Sul sito identità.com si legge che il “piano Kalergi”, ideato negli anni Venti del secolo scorso da Richard Coudenhove Kalergi, sarebbe stato appoggiato da Winston Churchill, dalle logge massoniche, dal New York Times e, infine, dal Governo USA. Lo scopo del fantomatico Piano Kalergi sarebbe stato quello di dare luogo ad un «genocidio programmato dei popoli europei».

Se questa affermazione è, a dir poco, intrisa di fasulla paranoia, non meno pregna di xenofobia e odio razziale è quella secondo la quale, il piano Kalergi, attraverso l’immigrazione di massa, avrebbe avuto lo scopo di «distruggere completamente il volto del Vecchio continente».

L’obiettivo finale di quel piano, infatti, sarebbe l’incrocio dei «popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’élite al potere»[1].

La sostituzione (ir)razionale si fa strada mediante la bufala della sostituzione etnica.

Si potrebbe pensare che la balla della sostituzione etnica non convinca che pochi sprovveduti e una manciata di estremisti. Sì, si potrebbe pensarlo, ma si sbaglierebbe.

È più facile trarre in inganno una moltitudine che un uomo solo, scrisse, infatti, Erodoto [2].

Che tale comunicazione, paranoica e mendace, funzioni e favorisca effettivamente una sostituzione(ir)razionale nel modo di vedere, leggere e interpretare la realtà sembra dimostrato dal fatto che gli italiani pensano che gli immigrati in Italia siano il 30% e che siano prevalentemente africani, o asiatici, di fede islamica.

In realtà, in termini di banale razionalità, non occorrerebbe alcuna competenza specifica per sapere che la teoria della sostituzione etnica è una balla colossale. Basterebbe fare due semplicissime operazioni aritmetiche. Operazioni, queste, che, se svolte dai più, svelerebbero e vanificherebbero i tentativi di sostituzione (ir)razionale in corso.

Si ripete la balla dell’invasione per perseguire la sostituzione (ir)razionale

Quindi facciamo un po’ di addizioni e sottrazioni, tenendo a mente che i cittadini italiani sono 55 milioni e 551mila e che il totale dei residenti in Italia è poco più di 60 milioni. Gli immigrati residenti regolarmente in Italia, infatti, sono 5.029.000, secondo i dati Istat, aggiornati al 1 gennaio 2017 [3]. Di questi 5 milioni e rotti, gli stranieri non comunitari regolarmente residenti sono circa 3 milioni 500 mila. Il che vuol dire circa il 6% del totale dei residenti (60 milioni e mezzo).

Vi sono poi poco più di 400 mila stranieri regolari ma non residenti[4].

Gli stranieri, comunitari e non comunitari, residenti regolarmente in Italia, dunque, ammontano a 5,4 milioni.

Tale dato comprende anche coloro che hanno ottenuto l’asilo (i rifugiati), che sono 147 mila [5]

Ma si devono aggiungere 200 mila richiedenti asilo e 435 mila immigrati irregolari (i cosiddetti clandestini) [6].

In sostanza, facendo l’addizione che più interessa ai sostenitori della sostituzione etnica, in Italia ci sono:

  • 3 milioni e 500 mila immigrati residenti regolarmente provenienti da Paesi extra UE, inclusi i rifugiati
  • 410 mila regolari non residenti (con permesso di soggiorno)
  • 435 mila irregolari
  • 200 mila richiedenti asilo

ll totale è di 4 milioni e 445 mila persone.

È questa la sostituzione etnica? Quattro milioni e mezzo di immigrati – di cui una larga parte, ma non la totalità, proviene da paesi non europei – riuscirebbero a sostituire etnicamente 55 milioni e mezzo di italiani?

O, forse, la sostituzione etnica – inventata dagli artefici della sostituzione (ir)razionale – è quella consumatasi lo scorso anno, nel 2017? Nell’anno, cioè, che ha registrato oltre un terzo in meno degli arrivi di quello precedente: 119.310 persone sbarcate, il 34,24% in meno del 2016 (quando erano state 181.436).

Ma neanche se avessero i superpoteri!

Salvini il 10 dicembre, in Piazza Santi Apostoli, per la manifestazione contro lo ius soli, ha detto:

«Per me gli italiani non sono solo quelli che hanno la pelle bianca, ma anche gli immigrati regolari e per bene, che portano un contributo alla nostra società».

Gli immigrati regolari, anche escludendo i richiedenti asilo, sono poco meno di 4 milioni. Poiché, secondo Salvini, sono anch’essi da considerare come se fossero italiani, non dovrebbero essere visti come rientranti nel piano di sostituzione etnica. Non sarebbero, cioè, una minaccia per la pura razza italiana.

Quindi, restano mezzo milione di persone, cioè i 435 mila irregolari. Sono costoro quelli che rendono «i padani discriminati, vittime di pulizia etnica, di sostituzione di popoli», per citare le parole dette da Salvini a Radio Padania nel 2015?

La sostituzione etnica, di cui il segretario della Lega ha parlato, davanti alle telecamere di SkyTg24, forse, oltre che dai 435 mila immigrati irregolari (i cosiddetti clandestini) è rappresentata anche da 200 mila richiedenti asilo, quindi da 635 mila individui in tutto?[7]

Più di 58 milioni di persone sarebbero a rischio di sostituzione etnica da parte di 635 mila persone.

Ma neanche se quei 635 mila fossero dotati di superpoteri!

Il punto è che la sostituzione (ir)razionale (in realtà, è anche e soprattutto una “sostituzione etica”), perseguita dai sostenitori della teoria complottista della sostituzione etnica, consiste nel sostituire la verità con le fandonie. E per propagare questa sostituzione (ir)razionale non occorrono 635 mila complici, ne bastano molti di meno, purché abbiano i mezzi e le risorse per convincere milioni di persone.

L’invenzione dell’islamizzazione dell’Italia

La portata assurda della sostituzione etnica – cioè della trasparente, a ben guardare, operazione di sostituzione (ir)razionale – del resto, trova una conferma sul piano del, tanto sbandierato, “pericolo di islamizzazione” dell’Italia e dell’Europa. Un’altra bugia di proporzione colossali, ma assolutamente coerente con la visione conflittuale esasperata e con la mentalità paranoica che intende diffondere chi si adopera per diffondere una sostituzione (ir)razionale nella mente di milioni di persone.

In primo luogo, va detto che l’unico modo per calcolare quanti sono i musulmani in Italia è quello di contare il numero di coloro che provengono da Paesi che sono abitati prevalentemente da islamici. Quindi, è un’approssimazione per eccesso, poiché non sono pochi coloro che fuggono da regimi islamici o dal terrorismo islamico verso l’Europa, proprio perché sono di un’altra fede religiosa (cristiana per lo più). Ciò premesso, i presunti musulmani sono 2.500.000 [8].

Ciò significa che non tutti gli immigrati sono musulmani, anzi! Ben il 53% degli stranieri immigrati è di fede cristiana, mentre i presunti musulmani sono un milione in meno dei cristiani stranieri, essendo appena il 32,6% degli immigrati. Infatti, come nel 1993, così ancora oggi gli immigrati che si suppone siano di fede islamica, in considerazione del loro Paese di provenienza, sono rimasti fermi al 32%.

Quanti di questo sono osservanti? Impossibile dirlo come è impossibile dirlo per i cattolici (70%), gli ebrei, i protestanti, ecc., italiani.

Le reali “sostituzioni”, in fondo note a tutti, ma taciute o negate dai sostenitori della sostituzione etnica, artefici di un’articolata opera di sostituzione (ir)razionale

Le reali sostituzioni – di effettiva sovranità sul proprio territorio, di vera indipendenza politica, di piena gestione delle proprie risorse, dei diritti politici, civili e sociali di interi popoli, dei valori culturali … – sono proprio quelle che la propaganda della sostituzione etnica nega, o su cui sorvola.

Tali “sostituzioni”, però, sono, in fondo, note a tutti. E quando si pubblica qualche notizia su di esse, non ci sorprendiamo granché, perché, in realtà, sono cose che sappiamo già. Da sempre.

Le vere invasioni già avvenute

Ad esempio, non stupisce più di tanto l’inchiesta del New York Times, ripresa da La Stampa, sulla vendita di armi, da parte di una società tedesca, che le produce in Sardegna, all’Arabia Saudita, per essere impiegate da questa impiegate per massacrare civili in Yemen.

Come non ci spiazzano le riflessioni di Giorgio Vittadini sui brutti e oscuri rapporti tra USA e terrorismo islamico, oppure quelle di Domenico Quirico sulla politica francese nel Sael e sulla missione italiana in Niger.

Siamo tutti capaci di vedere, per dire, che dall’Afghanistan alla Siria, passando per l’Iraq, e dalla Somalia al Mali, le guerre si fanno nei luoghi e lungo i percorsi in cui si trovano gas, petrolio e minerali strategici.

In maniera “spettacolare”, del resto, l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, sotto forma di “guerre preventive” o per “esportare la democrazia”, hanno posto in rilievo che, a differenza dei conflitti precedenti, l’obiettivo non è più quello di conservare un territorio coloniale o di mantenere o insediare dei governi-fantoccio Il fine dei bombardamenti e delle occupazioni armate, parrebbe, anzi, essere la completa disintegrazione, visto che l’esito di tali guerre è stato quello di polverizzare tali paesi fino a renderli ingovernabili.

In Afghanistan, Somalia, Iraq e Sudan l’esito delle guerre è invariabilmente la distruzione delle fondamenta, l’annullamento di ogni possibilità di (auto)governo effettivo, il caos.

Anche se tale effetto non fosse premeditato, è comunque ricorrente e presenta dei costi (a partire da quelli umani) sbalorditivi. In parte calcolabili (numero dei morti e dei feriti, dei profughi, danni patrimoniali…), ma difficili da mentalizzare per quanto sono enormi, profondi e duraturi.

Sfruttamento neocoloniale e immigrazione

Ancora a proposito del Niger, a titolo esemplificativo, un dossier di cinque anni fa (Areva en Afrique. Une face cachée du nucléaire français, Raphaël Granvaud, Agone, 2012) descriveva il modus operandi della società che gestisce le centrali nucleari francesi (Areva) e controlla direttamente le miniere di uranio in Africa, soprattutto, in quel paese.

In Niger vi sono i più ricchi giacimenti mondiali di uranio del mondo, eppure è al 187° nell’indice di sviluppo umano dell’ONU, cioè tra i più poveri. L’attività di Areva, si legge nel dossier (pp. 157-187), genera una «triplice catastrofe»: «ambientale, sanitaria e sociale». La società francese avrebbe:

  • contaminato le già scarse risorse di suolo e di acqua per diversi chilometri intorno ai luoghi di estrazione, procurando sia l’impoverimento delle campagne che un aumento delle malattie legate alla radioattività;
  • lasciato le briciole” al Niger, dato che appena poco più del 10% del valore dell’uranio estratto rimarrebbe nel paese;
  • di fatto, eliminato l’economia di sussistenza, così favorendo la migrazione interna, dalle campagne alle città, e internazionale, in particolare, attraverso la Libia e, per quelli che ci riescono, attraverso il Mediterraneo.

Oltre a questo esempio, mille altri se ne possono fare circa le conseguenze del neocolonialismo posto in essere dalle potenze nazionali e dalle multinazionali, europee, nordamericane e non solo, dopo l’ottenimento dell’indipendenza da parte delle ex colonie.

Il nazionalrazzismo, oggi, predica ancora che occorre “aiutare gli africani a casa loro” [9] .

In altri precedenti post su questo blog si sono proposti esempi piuttosto noti di “aiuto a casa a loro” molto discutibili e all’insegna del neocolonialismo più sfacciato. La Stampa documenta un altro esempio di “aiuto”, stavolta cinese, in Africa, in particolare in Kenya.

Chiedono giustizia? E allora giustiziamoli

La propaganda nazionalrazzista preferisce prendersela con gli immigrati, negare che profughi e richiedenti asilo siano costretti ad espatriare da guerre e violenze di varia natura: sfruttamento coloniale diretto e indiretto; terrorismo e fondamentalismo, dietro i quali, al di là di distorsioni ideologiche-religiose introiettate dagli esecutori materiali, si concentrano e premono ben più concreti, prosaici e inconfessabili, interessi politico-economici; regimi autoritari, supportati, più o meno occultamente, da società e/o governi stranieri.

Tale atteggiamento nazionalrazzista, di incitamento all’odio , ricorda una celebre battuta di Roberto Benigni, «Avevano fame, li abbiamo diffamati», compatibile anche con una variante del tipo: «Chiedevano giustizia, così li abbiamo giustiziati».

Ma la retorica nazionalrazzista della sostituzione etnica, in realtà, richiama da vicino anche la politica di John Magufuli, presidente della Tanzania. Costui, per fermare le gravidanze precoci, ha disposto prima, nel 2015, l’espulsione dalle scuole delle ragazzine incinta, e, ora, ne ha previsto anche l’arresto. In Tanzania, il governo, dunque, punisce le ragazzine le cui gravidanze, in realtà, sono conseguenza di stupri e violenze: cioè, se la prende con le vittime, come fa, in Europa (Italia inclusa) e in USA, il nazionalrazzismo.

In un caso come nell’altro, si nega che le vittime di insopportabili ingiustizie siano tali. Ciò, in qualche modo, autorizza il poterle emarginare, demonizzare, criminalizzare e perseguitare, qui da noi, e saccheggiare e, talora, ammazzare impunemente, a casa loro.

Che sia proprio questo il senso, lo scopo, della sostituzione (ir)razionale ?

Alberto Quattrocolo

 

[1] Secondo Salvini, ancora oggi il piano sarebbe in corso, a distanza di quasi un secolo, e sarebbe l’Europa a coordinare tale sostituzione di popoli. Lo sostenne già nel 2015 in un’intervista su Radio Padania. In realtà, il conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, un austro-giapponese (1894- 1972) fu probabilmente uno dei primi uomini politici a proporre il progetto di un’Europa unita. Lo fece nei primi anni Venti del Novecento, allorché pubblicò il manifesto Pan-Europa e fondò l’associazione Unione Paneuropea. In altre opere successive, scritte mentre in Europa si affermavano i totalitarismi nazionalisti, specificò la sua idea di un’Europa confederata in Stati, che si sarebbe poi integrata “all’interno di un’organizzazione mondiale politicamente unificata”. Kalergi non parlò mai di genocidio dei bianchi europei, anzi, si opponeva al sogno millenario del Terzo Reich, intento ad affermare il suprematismo della razza ariana e l’asservimento, nonché lo sterminio, delle altre. E fu per reazione a quel genocidio, che il nazismo pianificò ed eseguì, che Kalergi coltivò l’idea di un’umanità che, grazie al completo rimescolamento, si sarebbe ritrovata a convivere in pace, senza massacri e nel reciproco rispetto e riconoscimento. Lungi dal mirare al «genocidio programmato dei popoli europei», Kalergi, in realtà, mirava proprio a impedire i massacri che, poi, purtroppo i regimi totalitari, nazisti e comunisti, perpetrarono. L’ideale, il progetto, cioè, di Kalergi, semmai, aveva qualche similitudine con quello internazionalista dei movimenti socialisti dell’epoca, ma, a differenza dell’Internazionale Socialista, la prospettiva pan-europeista di Kalergi non prevedeva né rivoluzioni, né dittature del proletariato, né purghe o altre azioni violente. Kalergi, peraltro, non era un comunista. Il paradosso, dunque, è che oggi si cerca di far passare le sue idee come se fossero state allora o potessero essere oggi, una pericolosissima minaccia, mentre si trascura la situazione storica in cui sorsero e in cui continuarono ad essere coltivate: l’affermazione del nazifascismo in Europa, la Seconda Guerra Mondiale, gli accordi di Yalta, la costituzione del Patto di Varsavia, la Guerra Fredda…

[2] L’ex responsabile della comunicazione al Senato del M5S, Claudio Messora, ad esempio, ha parlato di sostituzione etnica sul suo blog e – soprattutto – durante la trasmissione televisiva La Gabbia. Idee non anto dissimili sembrano essere state fatte proprie, almeno in parte, da un altro politico pentastellato, Carla Ruocco, che sulla sua pagina Facebook ha postato il servizio di La Gabbia: il piano della Boldrini per la grande invasione.

[3] Si tratta di un dato indiscutibile, essendo basato sulle persone registrate alle anagrafi comunali aventi una cittadinanza diversa da quella italiana.

[4] Sono persone che hanno un regolare permesso di soggiorno, ma non sono iscritti all’anagrafe di nessun comune italiano. Ammontano a 410.000 secondo i calcoli del Ventiduesimo Rapporto sulle Migrazioni 2016 di Fondazione ISMU.

[5] Pari, cioè, agli abitanti di un paio di circoscrizioni del comune di Torino. I rifugiati ospitati nei paesi europei sono 1,8 milioni. Si può immaginare che tutti gli abitanti di Milano e tutti quelli di Genova messi insieme, siano sparsi nel continente europeo (va detto che l’Italia è agli ultimi posti in Europa per incidenza dei rifugiati sulla popolazione totale: i primi in classifica sono la Svezia con il 17,4 ogni 1000, Malta con il 16,5, la Norvegia con il 9,8 e la Svizzera con l’8,9). Del resto le statistiche ufficiali confermano quello che chiunque sappia ragionare con la propria testa, dovrebbe sapere: le persone costrette a fuggire dai loro Paesi di origine si orientano per lo più verso i Paesi limitrofi al proprio, e non verso l’Europa. Nel 2015 degli oltre 65 milioni di individui nel mondo (un po’ di più dei residenti in Italia) costretti ad espatriare, l’86% resta nei pressi del loro Paese, cioè, nelle regioni più povere del pianeta. Infatti, arriva in Europa solo il 6% dei migranti forzati, mentre: il 39% resta in Medio Oriente e in Nord Africa, il 29% rimane nel resto Africa, il 14% in Asia e nel Pacifico, il 12% nelle Americhe. Di questi 65,3 milioni la metà sono bambini. E tanto per non procedere a sostituzioni lessicali, si tratta non di migranti economici ma di migranti forzati: che diventano non solo rifugiati, ma anche sfollati interni, persone, cioè, che lasciano la propria casa ma non lasciano il proprio Paese. Gli Stati che “producono” più migranti forzati sono Siria (5 milioni), Afghanistan (2,7) e Somalia (1,1). E tra i Paesi che accolgono più migranti forzati vi sono: la Turchia, anche in seguito agli accordi tra Erdogan e la comunità internazionale, in cui si trovano 2,5 milioni; ve ne sono più di un milione sia in Pakistan che nel Libano (dove il rapporto popolazione immigrati è di 1/3) e in Iran. Come si diceva, sono i Paesi limitrofi ai luoghi di emigrazione quelli in cui si sposta chi scappa da guerre, terrore, sfruttamento e persecuzioni. Perché? Perché chi lascia la propria casa, spera, prima o poi, di tornarci.

[6] L’Italia è agli ultimi posti in Europa per incidenza dei rifugiati sulla popolazione totale. I primi in classifica sono: la Svezia, con 17,4 ogni 1000; Malta con il 16,5; la Norvegia, con il 9,8; la Svizzera con l’8,9.

[7] Poco meno degli abitanti di Palermo.

[8] Di questi due milioni e mezzo  di presunti musulmani, il 43% è cittadino italiano (in larghissima parte persone che hanno acquisito la cittadinanza italiana secondo la legislazione vigente). I dati sono quelli delle ricerche della Fondazione ISMU, svolte in collaborazione con Orim Lombardia, rielaborati ed integrati da Fabrizio Ciocca per lenius.it, con i dati aggiornati dell’ISTAT e del Ministero dell’Interno al 1 gennaio 2017

[9] In altri precedenti post su questo blog avevo definito nazionalrazzismo quell’insieme di movimenti, organizzazioni e soggetti politici che, a volte esplicitamente altre volte in maniera implicita, sostengono non solo che esistano le razze, ma stabiliscono anche una gerarchia tra di esse, in termini morali, etici, culturali, ecc. Dunque, tali organizzazioni politiche possono essere descritte come nazionalrazziste, perché, ponendo mente a quelle operanti in Italia, affermano che esiste la razza nazionale degli italiani, la descrivono come superiore e la contrappongono alle altre. Gli altri post sul tema o ad esso implicitamente correlati sono: Giorno maledetto, Autorizzazione della violenza, (in)giustizia nazionalrazzista, Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista(il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzistaDove eravamoPropaganda nazionalrazzista e WelfareIl nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)Nazionalrazzismo e socialrazzismo.

pieta è moribonda

La pietà è moribonda?

La pietà è moribonda ? È un interrogativo che potrebbe sorgere leggendo alcuni fatti di cronaca.

Sembrano non avere avuto molta pietà il 17enne e il 15enne che, a Nardò (provincia di Lecce), all’inizio di dicembre, sono stati accusati di rapina, sequestro di persona, violenza sessuale, pornografia minorile e tentata estorsione, ai danni di un quindicenne.

Infatti, i due ragazzi hanno rinchiuso in un bagno pubblico il loro coetaneo, lo hanno picchiato, costretto a masturbarsi, riprendendolo in un video, postato su WhatsApp ad altri ragazzi, e lo hanno minacciato di non restituirgli scarpe e giubbotto, se non avesse loro corrisposto il giorno seguente la somma di 10 euro.

Pietà l’è morta era un canto della Resistenza, composto da Nuto Revelli nella primavera del ’44. Terminava così:

Tedeschi e fascisti

per sempre fuori d’Italia

gridiamo a tutta forza

pietà l’è morta!

Era un canto di guerra, di guerra partigiana, di guerra di Liberazione. E non concedeva pietà al nemico, la Germania nazista e la Repubblica Sociale Italiana.

La pietà è moribonda quando si considera l’altro meno di niente

Erano in guerra anche i quattro minorenni con  il liceale, 17enne, che hanno accoltellato nel rione Sanità (tre coltellate: una al fianco, una alla schiena, che gli ha perforato un polmone, e una, per «finirlo», alla gola, che gli ha quasi trafitto la giugulare, ma ha inciso per fortuna solo due millimetri)? Erano così in conflitto con lui da colpirlo «senza alcuna pietà», per citare le parole del Questore di Napoli?

Probabilmente, no. Non prima di somministrargli quel trattamento, in ogni caso. Forse, hanno semplicemente messo in atto uno di quei meccanismi di de-umanizzazione dell’altro che consentono a noi esseri umani di compiere inganni, ricatti, soprusi, abusi, crudeltà ed efferatezze varie ai danni di altri. “Altri”, che, per gli autori delle violenze, si meritano quanto gli fanno.

Ad esempio, forse i due giovani aggressori di Nardò ritenevano il ragazzino meritevole di una tale violenza, perché più ricco e benestante di loro, oppure perché meno ricco e meno benestante. Quale che sia la ragione, non lo vedevano come un soggetto simile a loro.  Non lo pensavano come una persona, non lo sentivano come un essere umano.

Forse, la pietà è moribonda – o almeno lo era – anche nell’animo dei membri della gang di bulli (tutti di buona famiglia), che, a Cologno Monzese, umiliavano, pestavano, derubavano e ricattavano altri minori, incluso un ragazzino disabile. Lo facevano per noia, hanno detto, «per ammazzare il tempo».

Analogamente, si può ipotizzare che avessero “spento” dentro di sé ogni forma di empatia i tre tredicenni, di Bagno a Ripoli (Firenze), che, negli spogliatoi della società sportiva dove si allenano, hanno costretto un ragazzino, tredicenne, disabile, a mangiare un pezzo di schiacciata, dopo averla gettata nell’acqua delle docce. Un suo amico ha tentato di difenderlo, di fermarli, ma quelli lo hanno costretto a sedere e guardare. Il giorno dopo sarà questo amico a parlarne con l’insegnante di sostegno.

A volte la pietà è moribonda anche verso i poveri

Ma non capita solo a qualche minorenne di mettere in stand by la pietà, cioè, il sentimento di partecipazione, anche dolorosa e premurosa, all’infelicità altrui. Succede anche agli adulti.

Per restare nell’ambito delle violenze ai danni di minori, si può pensare alle violenze sessuali, commesse da un anziano agricoltore di Oristano, ai danni di un sedicenne, in cambio di un lavoro in campagna, pagato 30 Euro al giorno. Oppure si può pensare alla tredicenne, costretta a prostituirsi, a Gibellina, da un allevatore sessantunenne.

Oppure si può pensare a quanto successo a Como. Qui, in ottemperanza dell’ordinanza del sindaco, Mario Landriscina, contro i mendicanti del centro storico, la polizia municipale ha impedito ai volontari di dare da mangiare ai senza tetto, italiani e stranieri, che dormono all’aperto, sotto l’ex chiesa di san Francesco.

Così, applicando l’ordinanza intesa a ripristinare «la tutela della vivibilità e il decoro del centro urbano», a tali volontari, che, da oltre sette anni, distribuiscono la colazione alle persone costrette a dormire in strada, è stato detto di non portare più il cibo fino al 10 gennaio.

Come spiega l’Avvenire, «A continuare a mandare via i poveri non si elimina la povertà, la si amplifica, la si fa diventare un nemico da combattere – hanno scritto i volontari del “Gruppo Colazioni”–. Vorremmo che il Natale fosse occasione per la ricerca di un’umanità più dignitosa».

In tal caso, si potrebbe supporre che le persone costrette a dormire per strade siano state considerate dall’amministrazione comunale alla stregua di spazzatura. Delle non-persone.

Dunque, se non proprio morta, a volte, la pietà è moribonda, anche verso costoro, i poveri.

Poveri, che sono sottoposti ad abusi sessuali in cambio di un lavoro, o che non hanno diritto di esistere, perché la loro vista può turbare l’estetica di una città addobbata a festa.

Non è un paese per poveri, verrebbe da osservare.

Quando la pietà è moribonda (o morta) per ragioni di business

Non sembrano avere suscitato empatia gli anziani, nel cuore di un barelliere legato alla mafia, che pare averli uccisi con aria iniettata in vena, a Catania, allo scopo di vendere ai familiari i servizi di onoranze funebri a pagamento.

La prospettiva del profitto è stata più forte anche della pietà per i defunti, nel caso dei furti sui cadaveri e delle truffe di cui sono accusati alcuni necrofori dei cimiteri di Torino.

Uno degli slogan più ricorrenti sulla scena politica, in riferimento al fenomeno migratorio, è “aiutiamoli a casa loro”.

È un argomento proposto non raramente per supportare prese di posizione avverse all’accoglienza di migranti, inclusi i richiedenti asilo e coloro ai quali l’asilo (o altra forma di protezione) è stata concesso.

Un articolo di Pietro Frattini (Aiutiamoli a casa loro, la diga di Gibe), su ilmemoriale.it, ci ricorda un servizio della Cnn sui risvolti spietati di un’operazione di aiuto a casa loro.

Undici anni fa, due mesi prima che la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni fosse adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la EEPC (Ethiopian Electric Power Corporation) appaltò direttamente, senza bando di gara, alla Società italiana Salini Costruttori la costruzione di una diga, con fondi garantiti dal governo Cinese, mentre le infrastrutture elettriche sono garantite dalla Banca Mondiale.

Ma la legge etiope prevedeva che il governo prima di dare l’approvazione ad un progetto dovesse valutare l’impatto ambientale e sociale. E questo impatto c’era e c’è!

Mezzo milione di abitanti erano contrari a subire quel che diventerà un vero e proprio trasferimento forzato in campi di reinsediamento. Il rastrellamento, come documenta la Cnn, portò alla distruzione di un intero villaggio e dei suoi abitanti: di 154 ne sopravvissero solo 7.

Ma fu tutta l’operazione ad essere svolta con violenza agghiacciante: bambini e bestiame scaraventati nel fiume, gli adulti legati agli alberi per essere fucilati, cadaveri dati in pasto alle iene.

La diga venne inaugurata nel dicembre 2016.

Quelli la cui la pietà è moribonda verso gli immigrati, perché bisognerebbe aiutarli – anzi, fregarli – a casa loro

In un altro post (Dove eravamo) su questo blog, si era scritto che, ancor prima di «aiutarli a casa loro», sarebbe gentile, oltre che utile, necessario e improcrastinabile, «smetterla di fregarli a casa loro».

Parrebbe confortare la fondatezza di quella banale osservazione il recente rinvio a giudizio del numero uno dell’Eni. L’accusa è di avere pagato tangenti a uomini del governo nigeriano, in cambio dello sfruttamento di uno dei più grandi giacimenti di petrolio al mondo da parte di Eni e Shell.

Tanto per non scordarsene, la Nigeria è quel luogo in cui l’organizzazione fondamentalista Boko Haram fa stragi continue e in cui c’è un devastante conflitto con le forze governative. La Nigeria è quel paese in cui ci sono oltre due milioni di persone in fuga e che dal ’97 al 2015 ha avuto oltre 50.000 vittime della violenza armata.

In un altro post ancora (Illegalità nazionalrazzista), era stato ricordato che con Isaias Afewerki, il feroce dittatore dell’Eritrea, l’ex colonia italiana, in cui giunsero a suo tempo oltre centomila immigrati nostri connazionali, collaborava, tra gli altri, Pier Gianni Prosperini.

Costui, ex assessore di AN della giunta Formigoni, come ricordava Gian Antonio Stella sul Corriere, non soltanto definiva il dittatore Afewerki «un uomo capace e sagace», un leader dalla «mano ferma e paterna», ma qualificava anche come traditori coloro che fuggivano dalla violenza della regime dittatoriale, sostenendo che erano balle le notizie sulle torture e sulle violenze messe in atto sistematicamente da quella dittatura.

La pietà è moribonda (o morta) quando si considera l’altro come un animale

Prosperini, che è stato condannato per aver rifornito di  armi e munizioni proprio il regime di Isaias Afewerki, eludendo i controlli internazionali e violando gli embarghi, in cambio di  un’entrata illecita semestrale, in ogni occasione ripeteva:

«Camèl, barchèta e te turnet a ca’. Capì? Possono restare da noi solo quelli che condividono i nostri valori e rispettano le nostre leggi. Non ti va bene? Camèl, barchèta e te turnet a ca’».

Nel 2009 Prosperini era stato arrestato per avere incassato una tangente da 230.000 euro su un appalto da 7,5 milioni di euro (richiese un patteggiamento).

Vittorio Mussolini, nel suo Voli sulle Ambe (Firenze, 1937), così commentava l’attività svolta da lui e dal fratello Bruno nella 14esima squadriglia, durante l’invasione italiana dell’Etiopia:

«È un lavoro divertentissimo, tragico ma bello».

Il lavoro di cui scriveva consisteva nello sganciare bombe incendiarie e gas tossici. L’uso di questi mezzi vietati dalla convenzione di Ginevra era stato autorizzato esplicitamente dal loro papà, Benito Mussolini, capo del Governo.

Vittorio Mussolini, in quel libro, aggiungeva che l’abissino «è un animale».

Ecco, basta vedere l’altro come un animale, che anche un’azione mostruosa, come quella di far piovere gas tossici e bombe incendiarie, non soltanto sulle armate del Negus, messe in rotta e prive di aerei e di contraerea, ma anche sulla popolazione civili (bambini inclusi) di villaggi e città, diventa «un lavoro divertentissimo, tragico ma bello».

La pietà è moribonda quando si prova rabbia

Il sentimento della pietà, cioè della partecipazione al dolore altrui, si spegne quando si è arrabbiati o indignati.

Rispetto al ragazzino vittima di atti di grave bullismo a Nardò, è interessante leggere alcuni commenti a tale notizia.

Un’insegnante scrive: È uno schifo…bisogna dare un segnale forte. (…). Pena di morte

Una mamma a tempo pieno lascia questo commento: (…) Brutti bastardi… sono d’accordo per una pena adeguata di pari violenza… In piazza nudi… ripresi e mandati su internet mentre si masturbano e vengono picchiati e derisi dalla folla!! Voglio vedere se vengono ripagati con la stessa moneta se avranno voglia di rifare un simile gesto!! Vergogna!!!

Un’altra commentatrice scrive: Non devo lavorare x sostenere questi vandali in carcere (…). Pena di morte… scusatemi, è ora di grandi punizioni.

Oggi pietà l’è morta ma un bel giorno rinascerà

Fa riflettere il fatto che la mamma del tredicenne di Bagno a Ripoli, verso i tre coetanei che hanno maltrattato suo figlio, non abbia invocato alcuna sanzione violenta. Ha postato la faccia del ragazzino che per la prima volta con l’aiuto del papà si taglia i baffi e ha scritto:

«La risposta ai tre compagni di squadra s…..i che negli spogliatoi del calcio ti hanno fatto uno scherzo orribile, anzi un vero e proprio atto di bullismo, è la tua faccia amore mio! Alta, fiera e timida come sei tu, che chiami amici anche quei tre che amici non sono!».

Forse, allora, la pietà non è morta ovunque, e forse neanche è moribonda. O, come cantava Francesco De Gregori (San Lorenzo),

Oggi pietà l’è morta, ma un bel giorno rinascerà.

Sì, ma quando? Quando rinascerà?

Se la nostra pietà è moribonda, potrebbe riprendersi con una cura di razionalità

Forse, se la nostra pietà è moribonda, potrebbe riprendersi un po’, con una cura a base di razionalità.

Forse si riaccenderà quando, usando i nostri occhi e il nostro cervello, ci accorgeremo che non vi è alcuna invasione [1]. E che non vi è alcuna islamizzazione dell’Italia o dell’Europa [2]. Quando punteremo lo sguardo su qualcos’altro, che non è una panzana propagandistica, di becero livello razzista, tesa a distrarre la nostra attenzione, ma che, invece, è drammaticamente vero. Qualcosa, che da sempre infetta, intossica, imbratta, corrompe il nostro territorio, il nostro futuro, i nostri diritti, i nostri corpi e la nostra moralità: le mafie.

Infatti, è appena il caso di ricordare non solo che sono 290 i comuni sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose in 26 anni, ma anche che il controllo mafioso del territorio si è radicato ormai indubitabilmente anche nel Nord (si pensi alle infiltrazioni della’ndrangheta in ambito politico e imprenditoriale in Lombardia).

Forse, dunque, quando sapremo guardare ai mali che, da sempre, affliggono la Repubblica, e cesseremo di scaricarne la colpa sugli altri, grazie a questo esame di realtà, potremo anche rivitalizzare la nostra capacità di provare pietà.

Se la pietà è moribonda, potrebbe rianimarsi, comprendendo che quando si comincia a discriminare e ad emarginare non ci si ferma più

Forse, se la nostra pietà è spenta, è perché ci rifiutiamo di capire che negare la dignità ad uno – emarginandolo, denigrandolo, umiliandolo, respingendolo – vuole dire toglierla a tutti, come dimostra, tra gli altri, il caso di Como, precedentemente citato.

Forse un giorno realizzeremo che la pietà è moribonda anche perché – non solo durante le campagne elettorali – si diffondono parole che cercano di assassinarla nei nostri cuori. Parole, che servono a farci vedere l’altro non per come è – un essere umano –, ma come un oggetto ingombrante, scomodo, inquietante, pericoloso, minaccioso.

Forse la nostra pietà rinascerà, quando ci accorgeremo che non vi alcuna differenza tra il comportamento di quell’autista di un autobus, che, in Val d’Aosta, ha tentato di costringere un ragazzo disabile, figlio di allevatori, a scendere lontano da casa, paragonandolo alle mucche, dicendogli che «puzza come loro» e che avrebbe dovuto andare a «zappare le patate invece di frequentare la scuola», e quello dell’anziano torinese, che, su un autobus, ha aggredito una giovanissima studentessa italiana, solo perché di pelle scura, “suggerendole” di tornarsene a casa sua (cioè in Africa) e di smettere di andare a scuola, perché tanto finirà a lavorare sul marciapiede. O dell’altro, sempre anziano e sempre italiano, che ha preso a calci, schiaffi e pugni Florentina Grigore, una quarantaquattrenne di origine rumena, minacciandola di pisciarle addosso se non scendeva dall’autobus, perché non aveva obliterato il biglietto. Florentina non aveva timbrato il biglietto perché aveva l’abbonamento [3].

Se la nostra pietà è moribonda, è anche perché una sorta di neo-negazionismo le impedisce di destarsi

Forse, se davvero la nostra pietà è moribonda, si riprenderà quando ci cadrà il velo dagli occhi. E, cadendo, ci lascerà vedere non solo il razzismo (vi sono diversi post su questo blog dedicati al nazionalrazzismo e al socialrazzismo), ma anche il neo-negazionismo implicito in chi, definendosi patriottico, ricorre allo slogan “Prima gli italiani”.

Il negazionismo, cioè di chi non tiene in alcun conto il fatto incontrovertibile che, alla base del fenomeno migratorio, vi sono guerre e terrorismi, persecuzioni e dispotismi, carestie e miseria, malattie e sfruttamento. E che, questi flagelli sono, in larghissima parte, direttamente collegati ai colonialismi di ieri e di oggi: colonialismi, questi ultimi, posti in essere dalle “nostre” multinazionali e dai “nostri” governi.

Forse la nostra capacità di sentire e di sentirci risorgerà quando recupereremo la capacità di pensarci nei panni dell’altro

Forse, la nostra capacità empatica avrà un sussulto di vitalità, quando capiremo che, in quanto esseri umani, non siamo diversi da chi accetta, o è costretto ad accettare, il rischio di morire di sete nel deserto, annegato nel Mediterraneo o assiderato sulle Alpi. Quando recupereremo quel pizzico di razionalità utile a sapere che al posto loro faremmo la stessa cosa.

Insomma, se veramente la nostra pietà è moribonda, potrà guarire quando sapremo guardare a noi stessi per come siamo, con le nostre luci – che sono tante – e le nostre ombre – che non sono poche, e smetteremo questa tendenza a proiettare le nostre ombre sull’altro.

 Alberto Quattrocolo

 

[1] I residenti in Italia sono poco più di 60 milioni. Di questi i cittadini italiani sono 55 milioni e 551mila. Gli immigrati residenti regolarmente in Italia, infatti, sono 5.029.000, secondo gli ultimi dati Istat, aggiornati al 1 gennaio 2017. Questo dato è indiscutibile, essendo basato sulle persone registrate alle anagrafi comunali aventi una cittadinanza diversa da quella italiana. Tale dato, però, comprende tutti gli stranieri, inclusi quelli provenienti da altri stati dell’Unione Europea. Gli stranieri non comunitari, infatti, sono circa 3 milioni 500 mila. Il che vuol dire circa il 6% del totale dei residenti (60 milioni e mezzo). A costoro si aggiungono gli stranieri regolari ma non residenti, quelli, cioè, che hanno cioè un regolare permesso di soggiorno, ma non sono iscritti all’anagrafe di nessun comune italiano. Secondo i calcoli del Ventiduesimo Rapporto sulle Migrazioni 2016 di Fondazione ISMU, si tratta di 410 mila persone (dato riferito al 1 gennaio 2016).

Gli stranieri provenienti dall’Unione Europea e quelli non comunitari, presenti regolarmente in Italia, dunque, ammontano a 5,4 milioni. Si noti che tale dato comprende anche coloro che hanno ottenuto l’asilo (i rifugiati), che sono 147 mila. Ai 5,4 milioni di stranieri legalmente presenti in Italia, si devono aggiungere:

Riassumendo in Italia ci sono 3 milioni 500 mila immigrati regolari provenienti da Paesi extra UE, inclusi i rifugiati, 410 mila regolari non residenti (con permesso di soggiorno, di cui, in realtà, una parte minoritaria è composta presumibilmente da originari dell’Unione Europea), 435 mila irregolari e 200 mila richiedenti asilo, per un totale di 4 milioni e 445 mila persone extra comunitari.

[2] L’unico modo per calcolare il numero dei musulmani presenti in Italia è contare il numero di coloro che provengono da Paesi abitati prevalentemente da islamici. Si tratta, perciò, di un calcolo viziato da un’approssimazione per eccesso, poiché non sono rari coloro che fuggono da regimi islamici o dal terrorismo islamico verso l’Europa, proprio perché sono di un’altra fede religiosa (cristiana per lo più). Ciò premesso, i presunti musulmani sono 2.500.000, di cui il 43% è cittadino italiano (in larghissima parte si tratta di persone che hanno acquisito la cittadinanza italiana secondo la legislazione vigente). Due milioni e mezzo su oltre sessanta milioni. E sono soltanto il 32,6 % dei migranti, essendo il 53% di essi di fede cristiana.

[3] Di questi e altri più violenti, anche con esiti letali, episodi di razzismo si è trattato nel post Giorno maledetto.

altraviolenza

Un’altra violenza sulla vittima

Non vi è soltanto quella derivante dal reato, vi è anche un’ altra violenza sulla vittima. Un’ altra violenza sulla vittima, tanto dannosa quanto sottovalutata e raramente riconosciuta.

L’ altra violenza sulla vittima è una violenza diversa e aggiuntiva

La vittima di una violenza, spesso, è oggetto di un’ altra violenza, cioè di una violenza ulteriore, successiva alla violenza commessa dal reo. Si tratta di comportamenti, per lo più, non sanzionati e, del  resto, difficilmente sanzionabili, dal punto di vista giuridico, che, tuttavia, in termini psicologici, danno luogo, appunto, ad un’altra violenza sulla vittima [1].

Quest’ altra violenza sulla vittima, che può assumere forme diverse, in ambito vittimologico, è indicata come post-crime victimization.

Si usa quell’espressione, soprattutto, rispetto alle situazioni nelle quali istituzioni diverse (amministrazione della giustizia e forze dell’ordine, in primis, ma anche operatori e operatrici sociali e dei media), spesso involontariamente, fanno sentire la vittima oggetto di una colpevolizzazione per quanto le è accaduto [2].

 

Quell’ altra violenza sulla vittima derivante dal mancato, incompleto o tardivo riconoscimento da parte dello Stato

Un’ altra violenza sulla vittima si produce, però, anche quando lo Stato pare non  pienamente riconoscere il carattere ingiusto e illegale del danno che essa ha subito, oppure quando non è in grado di condannare gli autori del delitto [3].

Un esempio recentemente portato all’attenzione della cronaca riguarda una giovane di Novara, disabile, che ha atteso 18 anni perché l’autorità giudiziaria riconoscesse definitivamente che essa, quando andava alle medie, veniva “affittata” dai suoi genitori a loro amici e conoscenti per fare sesso con lei (era stata abusata, peraltro, anche dai nonni).

Racconta La Stampa che è stato punito un solo colpevole: il padre, dato che la madre nel frattempo è morta e che gli altri uomini, cui la giovanissima era ceduta dai genitori, se la sono cavata (perché non identificati alcuni, per prescrizione altri).

Una testimonianza, tanto efficace e completa quanto dolorosa e angosciante, di come la risposta giudiziaria possa tradursi in un’ altra violenza sulla vittima, è costituita anche dalla lettera che Stella ha indirizzato al Presidente della Repubblicain occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, affidandone la lettura alla scrittrice Cristina Obber, all’interno dell’evento #InQuantoDonna (l’apertura della Camera dei Deputati soltanto alle donne che hanno subito la violenza e che con essa hanno avuto a che fare).

Definire la violenza sessuale come una ragazzata significa procurare un’ altra violenza sulla vittima

Stella, allora quindicenne, durante un’assemblea di classe, nel liceo artistico di Besana Brianza, fu attaccata da due compagne e un compagno: dapprima le fecero il solletico, e lei rise, poi le due ragazze la bloccarono sul pavimento e il ragazzo la violentò. Gli altri restarono allibiti ma non intervennero. In aula non c’erano insegnanti.

La sentenza, che arrivò 8 anni dopo, definì, secondo le parole di Stella, quel fatto una ragazzata, punì gli autori della violenza con qualche mese di attività di volontariato e le negò il diritto al risarcimento.

Quella sentenza ha comunicato a Stella che quanto ad essa inflitto

«è stata una ragazzata», perciò, «se riaccade, non è la fine del mondo. (…). Invece, Presidente, quanto ti capita, è la fine di un mondo che non sarà mai più come prima, è il sipario che cala, è il buio».

Scrisse ancora Stella:

«Quella sentenza mi ha fatto sentire in colpa (…) Succede così quando vieni umiliata nel profondo, pensi di non meritarti niente di che».

Leggendo la sua lettera, si direbbe che, per Stella, ciò che conta non è l’entità della pena, cioè che venga inflitta una maggiore sofferenza al ragazzo che la violentò e alle sue complici. Ciò che le preme pare, piuttosto, stare su questo duplice piano:

  • Il riconoscimento inequivocabile, da parte dell’istituzione, del carattere ingiusto e profondamente lesivo del fatto subito. Un fatto disumano, non una ragazzata, in quanto, realizzandolo, i suoi tre compagni l’avevano disumanizzata.
  • Un’azione tesa a far sì che quei tre ragazzi si rendano conto di quanto è grande e duraturo il male che le hanno procurato [4].

«Una voragine, Presidente, di rabbia, impotenza, abbandono. La sensazione di non valere niente. Perché io non cercavo vendetta, io cercavo una giustizia che mi dicesse che non era giusto quello che mi era stato fatto», è scritto in un altro passaggio della lettera.

Il mancato, o un tenue, riconoscimento, da parte dello Stato, del carattere ingiusto di una violenza, come spiegano le parole di Stella, procura un’ altra violenza sulla vittima, la quale sente confermare dall’autorità quel “messaggio” inviatole dall’autore della prima violenza: non meriti alcun rispetto, perciò ti si può stuprare e umiliare. Sei un oggetto, non sei umana.

Anche per il profugo il mancato riconoscimento ufficiale produce un’ altra violenza sulla vittima

Il riconoscimento da parte dello Stato ha una valenza così potente e profonda, perché le decisioni dei suoi tribunali sono pronunciate “in nome del popolo italiano”. Le decisioni delle autorità, le loro parole, quindi, anche sotto questo aspetto, pesano. Sono pietre.

Lo sono anche per coloro che presentano richiesta di protezione internazionale nel nostro e in altri Paesi.

Anche per costoro, le attese per le convocazioni, prima, e per le risposte, poi, da parte delle commissioni territoriali deputate ad accogliere o respingere le loro domande di asilo, sono fonti di stress e di angoscia.

Da quelle decisioni derivano, infatti, non soltanto le più ovvie e fondamentali conseguenze pratiche, legali ed esistenziali, connesse alla concessione o al diniego dell’asilo, ma anche altri implicazioni.

Si tratta di una risposta ad un riconoscimento, chiesto dall’individuo, all’Italia o ad un altro paese europeo, con l’idea che quello stato e, più in generale, l’Europa, rispetti e tuteli quei diritti inviolabili dell’uomo che nel suo paese sono stati violati.

Ad esempio, una donna che è stata stuprata davanti al marito e a uno dei suoi bambini, oppure l’uomo che, dopo aver visto massacrare e violentare moglie e figlie, è stata fucilato e, creduto morto, è stata gettato in una fosse comune dalle milizie jihadiste, attribuiscono un significato speciale alla decisione della commissione territoriale: qualcosa che non attiene solo alla concessione dell’asilo e alla futura possibilità di potersi ricongiungere un giorno con qualche famigliare, nascosto provvidenzialmente da altri parenti o da degli amici.

È l’attesa del riconoscimento ufficiale, da parte del popolo e del governo italiani, che quanto è stato fatto a loro, ai loro cari e agli altri abitanti del quartiere o del villaggio, è una mostruosità inammissibile, è un crimine contro l’intera umanità.

Lo stesso può dirsi per chi fugge dalle bombe, per chi è stato torturato, ingiustamente carcerato, o esposto ad altre forme di violenza.

Si registra costantemente il valore di questa ufficializzazione dello status di vittima, quando si ascoltano queste persone (come accade nei nostri servizi di sostegno psicologico per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale), così come quando si ascoltano le persone vittime di reati diversi, commessi qui in Italia, incluse le donne vittime di violenza e i loro bambini (come accade nei nostri Servizi gratuiti di Ascolto e Sostegno Psicologico per le vittime di reato e le persone ad esse affettivamente legate).

 

Anche il mancato riconoscimento sociale può essere un’ altra violenza sulla vittima

Un’ altra violenza sulla vittima, però, che in quei servizi si riscontra con elevatissima frequenza, può consistere nel suo mancato riconoscimento da parte delle persone ad essa vicine o da parte di una porzione della comunità.

In un precedente post (Autorizzazione della violenza) era stato scritto che senza il riconoscimento da parte della comunità della ingiusta vittimizzazione avvenuta, alla persona colpita da un reato, è come se venisse comunicato che essa non è stata vittima di un atto iniquo, ma di qualcosa di inevitabile, di meritato, di dovuto, di sacrosanto.

Ad esempio, secondo le indagini, quest’ultimo aggettivo (“sacrosanto”) potrebbe applicarsi alla qualifica che pare sia stata data da padre Pio Guidolin al suo stesso comportamento. In particolare, secondo l’inchiesta, non solo costui, ma forse anche una parte della comunità dei fedeli, nel quartiere Villaggio Sant’Agata, di Catania, interpretava la sua pedofilia come “sacrosanta”.

Significativa in tale senso, infatti, è la reazione della comunità dei fedeli nei confronti del ragazzino che rese noti – dopo essersi rifiutato di sottostarvi – i “riti”, cioè gli abusi sessuali, di padre Pio Guidolin su altri ragazzini (tutti minori di 14 anni), affidatigli dalle famiglie: quel ragazzino venne isolato dai devoti del prete [5].

Un altro vissuto doloroso e deprimente – cioè un’ altra violenza sulla vittima – è anche quello dei beneficiari e dei richiedenti la protezione internazionale quando si sentono definiti come «falsi profughi».

Di fronte a tali definizioni sprezzanti sperimentano, nella realtà, qualcosa di simile all’incubo dei deportati nei campi nazisti. Lo illustrò Primo Levi ne I sommersi e i salvati : la devastante angoscia e l’inesprimibile desolazione del sopravvissuto che non viene creduto [6].

Alberto Quattrocolo

 

[1] In particolare, si tratta di un’ altra violenza sulla vittima, perché è diversa dalla prima e perché è ulteriore. Infatti:

  • è un’ altra violenza sulla vittima, nel senso che è diversa dalla prima, poiché è realizzata, in modo diverso e da persone diverse dagli autori di quella violenza che ha vittimizzato inizialmente la persona.
  • è un’ altra violenza sulla vittima, in quanto ulteriore, poiché è successiva alla prima e ne incrementa il danno, nella misura in cui acuisce e approfondisce la sofferenza procurata dalla prima vittimizzazione.

[2] Di questi aspetti si occupavano anche alcuni precedenti post: non solo quello dedicato al Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le Vittime di Reato e le persone ad esse legate, ma anche Colpa della vittima?, presente su questo blog.

[3] Rispetto alle vittime rimaste senza giustizia o con una risposta frammentata in Italia il pensiero corre anche a fatti come quelli di Ustica, alle tante, troppe, stragi della strategia della tensione e ai tanti altri delitti irrisolti in cui sono coinvolti mafie, servizi e poteri deviati.

[4] Ciò rinvia a quel che gli addetti ai lavori definiscono Giustizia Riparativa, che include interventi di mediazione penale, ma non si risolve soltanto in questi.

[5] Uno degli effetti più tragici del mancato riconoscimento sociale della vittima, può essere quello per cui la vittima finisce per credere di non essere vittima di un fatto dannoso ingiusto, ma di qualcosa che, in fondo, è naturale, che si è meritato. Nell’ambito della violenza interna a relazioni affettive è spesso il maltrattante a persuadere la vittima di meritarsi il maltrattamento (psicologico o anche fisico) che le infligge. Per limitarsi ad un recente esempio, si può considerare uno dei pensieri che, secondo quanto riporta il Corriere della Sera del 27 novembre (Merito le botte, è colpa mia) Emily Douet, prima di suicidarsi, scrisse alle sue amiche: «È colpa mia. L’ho fatto arrabbiare troppo. Me lo merito». Essendo convinta che fosse “colpa sua”, credette che non vi fosse una via d’uscita, se non quella di togliersi la vita. Spesso succede che a rinforzare questo pensiero, auto-colpevolizzante, della vittima siano altri (amici, famigliari, colleghi…).

[6] Ne ha parlato la dott.ssa Simona Corrente, psicoterapeuta, coordinatrice di uno dei progetti di sostegno psicologico per rifugiati e richiedenti asilo gestiti da Me.Dia.Re., nell’ambito del convegno Stand by me. A tale riguardo, peraltro, meriterebbe davvero un maggiore approfondimento, soprattutto in sede istituzionale, il modo in cui i richiedenti asilo sono esaminati dalle commissioni territoriali. Infatti, andrebbe seriamente considerata la possibilità che anche in tale sede si proponga nell’interlocuzione con il richiedente asilo, qualcosa di particolarmente rilevante, anche in termini di ri-vittimizzazione.

 

colpa della vittima

Colpa della vittima?

 Per il reo è tutta colpa della vittima

Perché si dovrebbe sostenere che è per colpa della vittima se essa ha subito della violenza? In realtà, non si dovrebbe, punto e basta.

Su alcuni media e, soprattutto, sui social, però, con notevole frequenza si manifesta qualcosa di tanto antico quanto scorretto, anzi ingiusto: la tendenza a cercare in qualche presunta colpa della vittima le ragioni della violenza che le è stata inflitta.

Dire che è per colpa della vittima se ha subito una violenza è un atteggiamento frequente del reo

Dire che la colpa è tutta della vittima, in effetti, è esattamente ciò che fa il reo. È uno dei meccanismi di auto-assoluzione[1].

La funzione psichica dei meccanismi di auto-assoluzione è consentire all’autore di un reato di neutralizzare, dentro di sé, la portata dell’azione che sta per compiere (così da riuscire a realizzarla, senza avere, esitazioni che potrebbero trasformarsi in rinunce ad agire dannosamente contro altri), o che ha già compiuto (così da poter dormire, poi, sonni tranquilli).

Tra tali meccanismi auto-giustificativi, quello della colpevolizzazione della vittima è tutt’altro che secondario. Il reo, ancora prima che agli altri, dice a se stesso:

«La vittima non è una vittima, perché, quel che le è successo se l’è meritato».

Occhio! Il reo non dice che la vittima si è meritata quel che lui le è fatto, ma quello che le è successo. Come se la violenza inflitta fosse stata predisposta da una volontà superiore, da un fato, dalle circostanze, cioè da forze esterne al reo. Il quale, dunque, rappresenta se stesso come mero esecutore di un’azione, violenta, che alla vittima era, in qualche modo, dovuta: ad esempio, perché “se l’è cercata”, oppure perché lo “ha provocato”.

Sostenere che è tutta colpa della vittima serve ad auto-assolversi così da poter portare a compimento la violenza e non avere rimorsi poi

Non sono poche, anche leggendo la cronaca, le situazioni in cui l’aggressione sembra essere vissuta da parte dell’aggressore come una reazione ad una qualche colpa della vittima.

Tra i fatti recenti, vi sono due aggressioni che, dall’esterno, risultano essere, in termini razionali, del tutto incomprensibili.

Il primo caso riguarda l’aggressione a due donne anziane a Busto Arstizio (una di 63 e una di 84 anni), accaduta il 17 novembre, per strada, da parte di un ubriaco, un romeno 26enne, con precedenti per rissa e furto. Costui le ha prese a pugni, mandandone una in coma, a causa dell’urto della testa contro il marciapiede a seguito del suo spintone. Per qualche sconosciuta ragione, quell’uomo ha aggredito, così violentemente, proprio quelle due signore e non altri passanti. Per l’espressione del viso o per un fremito nelle spalle di una di loro? Naturalmente, è difficilissimo, se non impossibile, sapere cos’ha “provocato” quell’attacco, cos’ha visto in tali donne quel ventiseienne ubriaco.

L’altro fatto è quello che vede due ragazzi e una ragazza italiani accusati di avere aggredito, la sera del 17 novembre, un 19enne di Lanzo, che, tornava a casa dopo le lezioni sul treno Torino-Ceres.

Si può ipotizzare che, per questi tre giovani, in quel momento, non fossero immotivati i pugni e i calci in testa somministrati allo studente, dopo averlo schernito e insultato.

In virtù di qualche tipo di “ragionamento”, si sono legittimati a malmenare, in tre, all’interno di un vagone deserto, quello studente [2]. Quale ragionamento? Occorrerebbe chiederglielo per saperlo.

Il punto è che, mentre lo picchiavano, non si sentivano in colpa. Non pensavano:

«Sto facendo una cosa orribile: sto picchiando qualcuno! Di più, sto picchiando, spaventando e umiliando uno che non mi ha fatto nulla!».

L’impressione comune ad entrambi gli episodi, così come a tantissimi altri casi di violenza, è che gli aggressori avessero nella loro mente completamente oscurato l’umanità delle persone aggredite.

In fondo, da un certo punto di vista, la colpevolizzazione della vittima, permette di de-umanizzarla e così di attaccarla senza scrupoli e senza esitazioni.

Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni.

Commentando diverse brutte azioni, un personaggio di La regola del gioco (1939, di Jean Renoir) osserva:

«Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni» [3].

I due uomini che hanno sferrato pugni, allo stomaco e in faccia, e preso a calci il regista Sebastiano Riso, il 2 ottobre, a Roma, nell’androne di casa, dove lo stavano aspettando, coprendolo di insulti omofobi, ritengono, probabilmente, di avere fatto una cosa buona e giusta.

Può darsi, cioè, che ritenessero l’ agguato un’azione dovuta, poiché, per loro, la colpa della vittima, Sebastiano Riso, era tale da autorizzare l’aggressione. Il regista, secondo loro, infatti, era colpevole di avere girato Una famiglia, che racconta della vendita clandestina di bambini partoriti da una donna (interpretata da Micaela Ramazzotti) a delle coppie etero e ad una coppia gay.

Ciò, almeno, è quanto si può dedurre dall’intervista che Riso ha concesso a La Repubblica del 4 ottobre.

È importante, dunque, comprendere le ragioni degli autori degli atti violenti, non per farle proprie (ci mancherebbe altro!), ma per altri scopi.

  • Per capire cosa c’è dietro la loro violenza esplicita e cosa li ha sorretti nell’attuarla e nel conviverci poi: ciò che Bandura chiamò anche meccanismi di disimpegno morale. [4]  
  • Per avere qualche informazione su cosa arriva alla vittima di questo loro atteggiamento mentale: ad esempio, può trattarsi di un vissuto di de-umanizzazione  [5]. 
  • Per valutare se c’è un rapporto tra la loro condotta violenta e come la società reagisce ad essa: rientra in questa dimensione il tema della legittimazione culturale della violenza  [6].

Perché le molestie sessuali nella nostra società sono così tante, così… troppe? Perché le vittime temono, con ragione, di essere incolpate per le molestie subite

Dirsi che è colpa della vittima è anche l’atteggiamento di chi violenta, molesta o abusa sessualmente di un’altra persona. In tal modo, l’offender può agire indisturbato. Non disturbato, cioè, da dubbi, incubi e rimorsi.

Ma questo atteggiamento non è proprio soltanto di colui che commette violenze. Sulla rubrica Sette e mezzo, del settimanale 7 del Corriere della Sera, Lilli Gruber, alcune settimane fa, aveva ricordato come il fenomeno delle molestie sessuali fosse oggetto di costante minimizzazione.

«Molestie che sono diventate “normali” per strada, nei luoghi pubblici e di lavoro, tra le pareti domestiche, sui social network».

Aveva poi aggiunto:

«Recenti studi dimostrano che in Italia, in Europa e negli Stati Uniti metà dell’universo femminile ha avuto a che fare almeno una volta nella vita con avances minacciose e sgradevoli».

Naturalmente, Lilli Gruber aveva anche precisato che tali dati includono soltanto i casi denunciati e riconosciuti, mentre restano ignote le vere dimensioni del fenomeno, visto che vergogna e paura rendono difficile alle vittime accusare gli aggressori.

Non casualmente la Gruber impiega il termine “vittima” e fa esplicito riferimento alla vergogna e alla paura. Emozioni, molto ingombranti e inibenti, che impediscono alla vittima di parlare, di condividere e di denunciare.

La colpa della vittima consisterebbe nell’essersela “cercata”

Lavorando in un’associazione che si occupa anche di violenza sulle donne (e sui loro bambini) e che offre un più generale Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno psicologico per le vittime di reato e le persone ad esse affettivamente legate, si riscontra, con drammatica frequenza, uno dei più importanti ostacoli, non solo per la denuncia, ma ancor prima per la condivisione della vittimizzazione subita: nel mondo che circonda la vittima della violenza, anche da vicino (parenti, amici, colleghi), troppo spesso, si tende a giudicarla, ad attribuirle la responsabilità per quanto subisce, invece di ascoltarla a-valutativamente, così da sostenerla e aiutarla a tutelarsi.

La persona oggetto di violenza si sente chiedere:

«Ma tu cos’hai fatto per provocarlo?»

Tale quesito, implicitamente colpevolizzante, così ricorrente nei casi di molestie sessuali, si propone anche in altre situazioni di violenza.

È un quesito, quello, che, dichiarando implicitamente la colpa della vittima, la costringe ad ammutolire o a tentare una disperata difesa argomentativa. Disperata, perché il suo interlocutore, tante volte, non è, in realtà, interessato ad ascoltarla davvero.

Quelli che ragionano come il molestatore, lo stupratore…

Così, la vittima, non riconosciuta come tale, si ritira in se stessa. Si chiude. Subisce, se non riesce a sottrarsi, continuando a soffrire in silenzio, perché ha verificato che la sua voce resterà inascoltata. E, talora, può arrivare a credere che sia normale, dolorosamente normale, che il mondo giri così. A volte, giunge a pensare che, forse, gli altri hanno ragione, quando le dicono che lei esagera, quando minimizzano la sua sofferenza, quando edulcorano la condotta del reo o quando, addirittura, lo giustificano.

In tal modo, l’autore del crimine sa di potere contare su una certa complicità morale. Una complicità, presumibilmente, nella gran parte dei casi, involontaria e inconsapevole, che, però, gli assicura una possibile garanzia di impunità, proprio nella misura in cui vi è chi, sostenendo la teoria della colpa della vittima, si schiera, di fatto, dalla parte del reo.

Quest’estate aveva sollevato molta indignazione un post pubblicato su Faebook da un mediatore culturale di Crotone, di origini pachistane, che, commentando gli stupri commessi a Rimini, affermava:

«Lo stupro? Peggio solo all’inizio, una volta si entra il pisello poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale».

Per questa agghiacciante riproposizione del raccapricciante detto latino, ispirato ad un verso dell’Ars amatoria di Ovidio (Liber I, l. 673-674), “vis grata puellae” (la violenza è gradita alla fanciulla), quest’uomo è stato denunciato ed è indagato per istigazione alla violenza.

Quelli che dicono alla vittima (donna): «Ma dai che ti è piaciuto!»

Uno dei meccanismi di auto-giustificazione del reo consiste nel pensare che la sua azione non procura alcun reale danno, sicché, secondo lui, la vittima non avrebbe nulla di cui lamentarsi.

Questo atteggiamento mentale, questo tipo di narrazione, però, come si è visto, non è proprio solo dell’autore del crimine.

Nel 1979, il 26 aprile, venne trasmesso sulla Rai il documentario Processo per stupro, recentemente richiamato in molti articoli di giornale, sul processo a carico degli autori di uno stupro di gruppo, avvenuto a Nettuno. Erano accusati di avere violentato, per 4 giorni, una 18enne, Fiorella, una lavoratrice in nero, attratta nella loro trappola da una proposta di colloquio di lavoro.

Sì, il processo era a carico dei quattro imputati (tutti, grosso modo sulla quarantina), ma in aula i ruoli furono ribaltati: sotto accusa finì la vittima. Un difensore, per sostenere il carattere consensuale dei rapporti sessuali, affermò, tra le altre cose, che la fellatio, cui Fiorella era stata costretta, era incompatibile con la violenza: secondo l’avvocato, da parte di lei sarebbe bastato «un morsetto» per interromperla. E per interrompere la propria vita, aggiungerebbe chiunque altro, purché dotato di normale senso della realtà [7].

Erano, quelli, altri tempi? Ora non accadrebbe più una cosa simile in un’aula di tribunale o altrove?

Ad entrambe le questioni temo che la risposta sia: “no”. O, almeno, “non proprio”.

Si pensi a quanto riferito da La Repubblica, in ordine all’incidente probatorio teso a valutare le accuse a carico dei due carabinieri indagati per violenza sessuale ai danni di due studentesse americane. Si riferisce nell’articolo che il giudice avrebbe respinto alcune delle domande dei difensori degli indagati, per i toni accusatori e insinuanti dei quesiti da essi posti alle ragazze. Respingendo una di tali domande, avrebbe affermato:

«Questa non la ammetto, non intendo tornare indietro di 50 anni».

 Quelli che…: «Quale molestia? E comunque è tutta colpa della vittima».

Su Facebook ho letto un post scritto da una donna. Una donna italiana:

«Ma è mai possibile che tutto di un colpo sono state tutte molestate, ecc… Ma dai per favore! Come se nessuno sapesse come sia il Mondo dello Spettacolo, Teatro, Cinema, Musica. Prima la date e poi la rivolete indietro»

Occorre fare attenzione all’inversione contenuta nel testo del post citato: “darla via”. Non si fa cenno, nel post di questa donna italiana, all’essere sottoposte al ricatto di “darla” se si vuole lavorare, se si vuole ottenere un contratto, ecc. No, la signora in questione dice che la si dà via.

Come se quello della vittima di una molestia fosse, in realtà, un tentativo di corruzione.

Da vittime a colpevoli. Anzi, le donne che denunciano di essere state molestate, non soltanto, sarebbero colpevoli, perché, non avrebbero subito alcuna reale molestia, essendo consenzienti, secondo quanto scritto da costei, ma sarebbero anche colpevoli d’ipocrisia [8].

Cosa c’è dietro l’attribuzione della colpa alla vittima?

Perché, non solo l’autore del reato, ma anche altri, al pari di quello, pensano che quel che le è accaduto sia conseguenza di una qualche colpa della vittima ?

Perché si incolpano Asia Argento e tutte coloro che hanno affermato di avere subito le violenze del produttore hollywoodiano?

Perché, molto spesso, vi è così tanta rabbia, veicolata attraverso una vera e propria violenza verbale, nel dare la colpa alla vittima?

Vi è chi afferma che è colpa della vittima, credendo di esprimere un pensiero controcorrente o per difendersi dall’angoscia

A volte si direbbe che, più che il sottile piacere derivante dal dire qualcosa di provocatorio, vi sia una sorta di furia iconoclasta. Una rabbia che sembra indurre ad aggredire tutto ciò che ha le sembianze del politicamente corretto.

Allora, per differenziarsi, per ergersi al di sopra di quella che si crede essere la massa priva di pensiero critico, si rivolgono attacchi verbali violentissimi alla vittima di una violenza, ri-vittimizzandola.

Si scrive sui social, ad esempio, che è colpa della vittima se è stata molestata, stuprata, truffata, ricattata, sequestrata, ecc. E lo si fa con leggerezza, senza indugi e senza rimorsi. Nella più completa indifferenza per il dolore che quella arrogante colpevolizzazione può procurarle.

Non va dimenticato, d’altra parte, che può avere una valenza ansiolitica il sostenere che la violenza si sia verificata per colpa della vittima. Addossarle l’errore di essere stata imprudente, rinfacciarle un’eccessiva fiducia in se stessa o negli altri, definirla troppo ingenua, imprudente, avventata o spericolata, può servire a tranquillizzarsi.

Se ci convinciamo che è colpa della vittima, esorcizziamo il timore del “poterebbe capitare anche a me”. Scacciamo questa angosciante prospettiva, dicendoci che noi mai ci metteremmo in una situazione così pericolosa.

Chi dà la colpa alla (donna) vittima (di violenza) perché, essendo troppo libera, avrebbe provocato l’aggressione.

Nella sua arringa, l’avvocato Giorgio Zeppieri, nel ’78, a mo’ di difesa dei 4 imputati di sequestro e stupro ai danni della diciottenne Fiorella, affermava:

«Se questa ragazza fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».

Dunque, secondo questo avvocato, la giovane stuprata per 4 giorni era colpevole di essere stata troppo “libera” di muoversi. Ed erano colpevoli i suoi famigliari di averla lasciata libera di circolare.

Si direbbe che 39 anni siano passati invano, pensando a quanto scritto sulla sua pagina Facebook da don Lorenzo Guidotti, come racconta il Fatto quotidiano.

«Non posso provare pietà per chi vive da barbara con i barbari e poi si lamenta perché scopre di non essere oggetto di modi civili. Chi sceglie la cultura dello sballo lasci che si “divertano” anche gli altri».

È difficile non pensare al film Sotto accusa (1988. Di Jonathan Kaplan), che valse il Golden Globe e il premio Oscar a Jodie Foster, nella parte della protagonista.

La sceneggiatura era ispirata allo stupro compiuto in un bar di New Bedford, Massachusetts, nel 1983, di cui era stata vittima una giovane, Cheryl Arauj.

Il film, durissimo, non casualmente s’intitolava Sotto accusa (Accused, in originale), poiché ad essere posta sotto accusa era proprio la vittima, interpretata dalla Foster: una ragazza dalla “pessima reputazione”, violentata nel locale dopo essersi ubriacata, mentre gli avventori incitavano i tre stupratori.

La colpa della vittima consiste, secondo don Lorenzo Guidotti, più di trent’anni dopo, nell’essersela cercata.

Se un maschio si ubriaca e viene violentato, verrebbe da chiedere a questo parroco, sarebbe altrettanto privato del diritto di lamentarsi e dovrebbe accettare che altri si divertano con il suo corpo?

Quando la colpa della vittima consiste nell’aver dato confidenza al “nemico”

Tuttavia, nelle parole di questo parroco, oltre ad un filo di maschilismo, pare esservi dell’altro. Nel suo post, infatti, egli ravvisa una supplementare colpa della vittima di genere femminile: l’essersi mescolata ai barbari. E, secondo il suo ragionamento, i barbari agiscono come tali.

È naturale, anzi fatale, che si comportino così, poiché sono barbari, sostiene don Lorenzo Guidotti. Perciò, in un certo senso, il vero colpevole non sarebbe il ragazzo di origine magrebina cui la giovane, ubriaca, fidandosi, aveva chiesto aiuto, ma lei stessaIl giovane magrebino – supponendo che egli abbia realmente commesso il reato di cui è stato accusato -, secondo il parroco, avrebbe solo tradotto in azione le inclinazioni della sua natura.

Che capolavoro di ribaltamento! Il colpevole non è chi approfitta della fiducia e dell’estrema vulnerabilità, di matrice alcolica, di una giovane, ma la giovane stessa. Di nuovo, è per colpa della vittima (donna) se qualcuno (uomo) l’ha violentata.

A volte, quindi, anche l’ostilità verso il gruppo cui appartiene il reo porta alcuni a colpevolizzare la vittima con parole particolarmente violente [9].

Infatti, per don Lorenzo Guidotti, la colpa della vittima non è solo di essersi fidata di un magrebino, avendo già bevuto troppi alcolici, ma, ancora prima, di aver bevuto

«tutta la tiritera ideologica sull’accogliamoli tutti».

Quando l’ostilità verso il gruppo cui appartiene l’aggressore porta a strumentalizzare la vittimizzazione

Il vicesindaco leghista, Isabella Tovaglieri, ha commentato l’aggressione alle due donne di Busto Arstizio, cui si è fatto cenno nella prima parte di questo post, con queste parole: 

«Il vero problema di fondo è che si tratta di culture inconciliabili con cui non c’è dialogo. La cultura dell’integrazione è fallita bisogna prenderne atto e riflettere sul fatto che a commettere un reato così grave sia stato uno straniero presente illegalmente sul territorio, non è mai successo che un bustocco abbia compiuto un fatto del genere».

Anche qui, come nel caso del post di don Lorenzo Guidotti, pare esservi la strumentalizzazione di un reato violento. Anzi, violentissimogratuito, come si suole dire quando non ne sono comprensibili le motivazioni.

L’impressione che (anche da parte di altri esponenti della forza politica cui appartiene la vicesindaco di Busto Arstizio) si strumentalizzino queste tragedie è, anche, procurata dal fatto che simili reazioni (e altre ancora più forti: si veda in nota) non si registrano per le aggressioni gratuite commesse da italiani, incluse quelle cui si è fatto cenno in tale post [10].

Non vi è una questione culturale anche in quelle violenze? Sono integrati i loro autori italiani?

Quando la strumentalizzazione della vittima consiste nel sostenere che, ancor prima di essere vittima di un reato, è stata vittima dell’accoglienza

La cultura dell’integrazione è fallita anche nel caso dell’incubo decennale, fatto vivere da un catanzarese, cinquantaduenne, all’ex badante della sua precedente compagna, una romena di 29 anni e ai figli di 9 e 3 anni?

La donna romena è stata segregata, violentata, maltrattata e schiavizzata per 10 anni da quell’italiano (con precedenti penali per reati sessuali). Quando l’hanno trovata, viveva con i due bambini, nati dagli stupri commessi su di lei da questo suo padrone-carceriere, in una baracca fatiscente, invasa da topi, con fogli di cartone al posto dei letti e sacchi della spazzatura al posto del wc.

Era stata stuprata, da quell’uomo, ripetutamente per 10 anni. Veniva spesso ferita, anche durante le gravidanze. A volte, lui l’aveva suturata con del filo da pesca.

Se l’era cercata anche lei? Era colpevole anche lei di aver frequentato i barbari? Perché di questo episodio quasi non si parla? Forse perché ribalta alcuni stereotipi? [11]

Si tratta anche in tal caso di una violenza riconducibile ad un problema di culture inconciliabili?

Parrebbe di no, visto che non vi sono tracce di commenti sulla stampa e sui social aventi un tono paragonabile a quelli sui delitti commessi da stranieri.

Perché, allora, interpretare come un problema di inconciliabilità culturale l’aggressione ai danni di quelle due anziane signore a Busto Arstizio, peraltro da parte di un uomo con precedenti per reati violenti?

Per ragioni politiche, forse? Credo sia lecito supporlo.

Sulle ragioni politiche, in sé, a dire il vero, non vi sarebbe nulla da eccepire. E, magari, i commenti sopra citati (e quelli riportati nella nota 10) sono vissuti da chi li ha pronunciati come se fossero ispirati da un’ alta e nobile visione politica.

Ma, anche in tal caso, resta il fatto che quei commenti tolgono ai protagonisti della vicenda (le vittime e l’autore del reato) ogni spessore umano, rendendole simboliche, astratte. Le parole di Isabella Tovaglieri, come quelle di don Lorenzo Guidotti, magari inavvertitamente, rendono, di fatto, le persone e le loro dolorose vicende degli argomenti da usare nella lotta politica.

C’è chi dice: «Non usare il mio dolore per crearne dell’altro»

Il 15 ottobre, a Torino, Maurizio Gugliotta, di 52 anni, è stato accoltellato da un ambulante nigeriano, al mercato del “libero scambio” di via Carcano. La coltellata alla gola è stata inferta da un ventisettenne nigeriano, con il quale, secondo alcune ricostruzioni, discuteva per avere spazio sufficiente per sistemare la sua roba.

Matteo Salvini aveva commentato:

«Altro sangue sulle coscienze sporche di quelli che hanno spalancato i confini italiani».

Ma qualcuno non ci sta. Qualcuno vuole mettere un altolà alle strumentalizzazioni del dolore.

Si tratta dei famigliari di Maurizio Gugliotta, che hanno fatto un appello «a non usare il loro dolore per prediche razziste», secondo quanto riportato da La Repubblica.

Hanno esplicitamente chiesto che l’omicidio di Maurizio «non diventi la bandiera di qualcuno per andare sui giornali a predicare odio e razzismo».

Queste persone hanno sentito necessario dire ciò che dovrebbe essere ovvio per tutti. Cioè, che le responsabilità, come hanno affermato i famigliari della vittima, «sono sempre individuali e mai collettive».

Perché? Per quale ragione questa famiglia ritiene di dover tentare di prevenire la criminalizzazione di altri popoli, o di altre culture, per i reati commessi da singoli individui?

Perché vuole che il suo «dolore non diventi strumento per crearne altro».

Si tratta di una preoccupazione comprensibile per chiunque sia attento a ciò che si muove nella nostra società, inclusa una preoccupante violenza razzista. Una violenza, questa, che, per autolegittimarsi e per riscuotere consensi, cerca di strumentalizzare tragiche vicende come quelle vissute da Maurizio Gugliotta e dalla sua famiglia.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Su questo blog, si è fatto riferimento ad essi anche in Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima. Inoltre, sia pure da un’angolazione diversa, i meccanismi di auto-giustificazione sono stati considerati rispetto alla legittimazione culturale della violenza razzista (Autorizzazione della violenza) e alla sua concreta realizzazione in danno degli immigrati, di coloro che li aiutano e di chi indaga su alcune organizzazioni che li demonizzano (Giorno maledetto).

[2] Per restare in ambito torinese e a fatti recenti, il 16 novembre, in Piazza della Repubblica, a Porta Palazzo, una donna è stata aggredita nella sua auto da un’altra donna, una trentaseienne, italiana, che l’ha picchiata per derubarla (è stata salvata dall’intervento di una giovane ciclista, che poi ha fornito informazioni tali da consentire l’arresto dell’autrice dell’aggressione). È ipotizzabile che per l’autrice di tale crimine, la sua violenza, mentre la realizzava, le sembrasse “giusta”. La vittima, probabilmente, dal suo punto di vista, “per qualche ragione”, meritava quel trattamento. Era per colpa della vittima, secondo l’autrice dell’aggressione, se lei la stava picchiando per derubarla?

[3] Per fare un altro esempio, è possibile che quei carabinieri della Lunigiana accusati di abusi, violenze varie (anche sessuali) e vessazioni ai danni di cittadini stranieri, commessi «senza ragione alcuna se non razziale», abbiano ragionato in termini auto-assolutori nel compiere quelle azioni. Si dicevano, forse, che le persone da essi abusate e maltrattate, si meritavano quanto loro inflitto. I reati contestati a questi uomini dell’Arma sono: falso in atti, abuso d’ufficio, sequestro di persona, rifiuto di denuncia, possesso illegale di armi (coltelli sequestrati nelle perquisizioni domiciliari); di schiaffi ad un marocchino per obbligarlo ad aprire un appartamento privato chiuso a chiave; di una contravvenzione elevata ad una donna straniera, per aver guidato senza cintura di sicurezza, mentre la cintura l’aveva allacciata; minacce come «Se parli ti stacco la testa», «Ti spezzo le gambe»; manganellate sulle mani appoggiate alle portiere delle auto durante i controlli; lesioni personali e contusioni multiple ai danni di un immigrato, cui avrebbero sbattuto la testa contro il citofono della caserma; scariche elettriche, mediante l’uso di due storditori, per obbligare un presunto spacciatore straniero a rivelare dove erano tenute le sostanze stupefacenti; sevizie, anche sessuali, ai danni di un giovane marocchino.

[4]  I meccanismi di disimpegno morale sono citati anche nel post Giorno maledetto.

[5]. Rispetto al vissuto di de-umanizzazione sperimentato dalla vittima rimando al post Ascolto e sostegno per le vittime di reato – che si riferisce al Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le Vittime di Reato, gestito dall’Associazione Me.Dia.Re. – ai post Violenza razzista e Razzismo e terrorismo.

[6]. Con particolare riguardo alla legittimazione culturale della violenza razzista, rinvio al post Autorizzazione della violenza, mentre rispetto alla legittimazione culturale della violenza quale conseguenza del conflitto politico rimando alla Criminalizzazione dell’avversario politico.

[7] L’avvocato della vittima, Titta Mazzucca, replicò: «Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia. […] Ho letto sul giornale di un’ulteriore violenza fatta ad una ragazza di 17 anni, che non dirà bugie perché è sordomuta, e che è stata molto, molto malmenata perché forse ha fatto quella resistenza che qui si nega. Io mi chiedo, quale sarebbe stata la reazione? Sono quattro uomini. Certo, uno può dare un morsico, può rischiare la vita, e l’avrebbe rischiata. Ed ognuna delle donne ricorda quello che è successo a chi ha cercato di ribellarsi, a chi cerca di ribellarsi alla violenza. Ed ecco che violenza vi è anche se non vi sono reazioni di questo tipo, perché non ci si può aspettare che tutte siano delle Sante Goretti».

[8] A proposito di inversione di ruoli, rispondendo alla lettera di un lettore sulla sua rubrica Sette e mezzo, del settimanale 7 del Corriere della Sera, rispetto al caso Weinstein, Lilli Gruber osserva: «continuiamo a spostare l’attenzione. Vorrei ricordare a tutti di cosa stiamo parlando: un uomo molto potente ha imposto le sue voglie e le sue fantasie sessuali a donne che non intendevano compiacerlo. Le giovani che hanno finito per soccombere possono averlo fatto per mille motivi: per paura, per un tornaconto personale, per soldi, magari erano ubriache e troppo stanche per resistere. Volevano una parte in un film di Hollywood e la mamma ha spiegato loro che il mondo gira così: apri le gambe e pensa ad altro. Ma ripeto: non è questo il punto. Il punto è che un uomo ha violato la privacy del corpo di una donna senza che lei fosse consenziente, precondizione minima per un incontro tra due esseri umani. E quando manca l’assenso si parla di aggressione sessuale, punita per legge in tutti i Paesi civili. Non vorrei che la libertà di abuso e prevaricazione diventasse la “nuova normalità” in un mondo dominato da maschi squilibrati alla Weinstein». La Gruber afferma anche che: «Spesso gli uomini non capiscono neanche cosa significhi una molestia: le battute pesanti, gli ammiccamenti ambigui, i palpeggiamenti, gli sguardi osceni sono gesti violenti, a meno che non facciano parte di un gioco condiviso di seduzione». Il suo ragionamento si fa ancora più esplicito quando asserisce che vi è una «cultura maschilista e prevaricatrice che tollera e giustifica questi atti sessisti e umilianti. Se la legge punisse severamente chi è colpevole o complice, le donne sarebbero certamente più motivate a denunciare». Su tali aspetti si è espresso anche Frans Timmermann, primo vicepresidente della Commissione europea. Dopo aver riconosciuto la sofferenza e la solitudine della vittima e la sua difficoltà di denunciare – ha anche dichiarato di essere stato molestato da ragazzo – , l’ex ministro degli Esteri dei Paesi Bassi ha affermato: «Non ci si può affidare soltanto a una la legge per cambiare modelli culturali, ma è possibile aumentare la consapevolezza su quanto questi modelli culturali producano diseguaglianze che poi danneggiano la nostra società».

[9] Il parroco nel suo post aggiunge: «Tesoro mi dispiace. Ma 1) frequenti piazza Verdi (che è diventato il buco del cu*o di Bologna, e a tal proposito Merola sempre sia lodato!) 2) Ti ubriachi da far schifo! Ma perché? 3) E, dopo la cavolata di ubriacarti, con chi ti allontani? Con un magrebino?!? Notoriamente (soprattutto quelli in Piazza Verdi) veri gentlemen, tutti liberi professionisti, insegnanti, gente di cultura, perbene. Adesso capisci che oltre agli alcolici ti eri già bevuta tutta la tiritera ideologica sull’accogliamoli tutti». Il post di Guidotti si conclude così: «Svegliarti seminuda direi che è il minimo che potesse accaderti».

[10] Su Il Populista si legge che l’assessore leghista alla Sicurezza Max Rogora avrebbe affermato: «È la goccia che fa traboccare il vaso. Non è possibile riempire la nostra città di ‘robe’ così, che nemmeno definisco persone, senza che le forze dell’ordine abbiano i mezzi per intervenire. – spiega al quotidiano varesino – Questa gente deve andarsene fuori dai coglioni: si facciano un esame di coscienza i signori politici che hanno in mano i bottoni e che, come Renzi a Busto ma vale per tanti altri, girano con le scorte».

[11] Come fa notare Karima Moual su La Stampa, nello stesso giorno si discettava su una fake news relativa ad un’immaginaria bimba musulmana che sarebbe stata sposata ad un adulto della stessa religione? Una bufala creata per potere ancora una volta criminalizzare gli stranieri. E immediatamente usata per inveire contro l’immigrazione (Salvini, ad esempio, ha commentato: «cosa mostruosa, non c’è spazio in Italia per questo multiculturalismo»). Il  24 novembre esce un’altra notizia ancora più raccapricciante: un’undicenne nigeriana, che i genitori, entrambi lavoratori, spesso, affidavano ad un connazionale vicino di casa, sarebbe stata ripetutamente abusata e messa in cinta da costui. Si spera che, prima di spargere commenti razzisti, chi è sul punto di farlo conti fino a dieci, pensi per un momento, almeno, a questa bambina e poi si astenga.

giorno maledetto

Giorno maledetto

Un lungo giorno maledetto

Tra il 1 gennaio 2015 e il 31 maggio 2017 vi è stato un lungo giorno maledetto.

Il Quarto Libro bianco sul razzismo, Cronache di ordinario razzismo, a cura di Lunaria, documenta che contro gli immigrati sono state commesse: 1197 violenze verbali, 84 fisiche, 44 danni contro proprietà o cose, 158 episodi di discriminazione. Tra queste 1.483 offese, vi sono stati anche undici omicidi: due nel 2015, quattro nel 2016 e cinque nel 2017.

Ecco quel che è successo ad alcune vittime di violenze fisiche:

  • Muhammad Shazad Kan, 28enne pakistano, padre di un bimbo di 4 mesi che non vedrà mai, è stato pestato a morte, a freddo nel quartiere romano di Tor Pignattara, il 28 settembre del 2014. Ad ucciderlo è stato un ragazzo di 17 anni, il cui padre, Massimiliano Balducci, è stato condannato dalla Corte d’appello per istigazione all’omicidio a 10 anni di carcere.
  • a Roberto Pantic, rom 43enne, è stato ucciso con un colpo di pistola alla nuca, nella sua roulotte mentre dormiva, con la moglie e i dieci figli. L’omicida ha dichiarato di aver sparato per spaventarli e farli sgomberare «perché sporcano».
  • Sare Mamadou è stato ammazzato per aver preso un melone marcio da un campo. Lo hanno freddato, dopo avere discusso con lui e aver gettato via il melone, i proprietari del terreno. Lo hanno inseguito in auto e a piedi e poi hanno sparato con un fucile. Un suo compagno, Adam Kadago, preso al petto da un’altra fucilata, si è salvato.
  • Emmanuel Chidi Namdi, richiedente asilo nigeriano, è stato ucciso a Fermo per strada per avere preso le difese della sua compagna dagli insulti di alcuni razzisti. Profughi entrambi, la loro bambina e i loro genitori erano stati uccisi in un attentato di Boko Haram in una chiesa, erano fuggiti in Europa per trovare quell’umanità che i loro persecutori in Nigeria negavano. Ma hanno trovato la disumanità letale di un razzista.
  • Yusupha Susso, studente gambiano, si è preso un proiettile alla nuca. Yusupha si era difeso da un’aggressione razzista contro di lui e alcuni suoi amici. Ma uno degli aggressori era tornato alla carica con una pistola. Yusupha è sopravvissuto solo perché il colpo non ha leso il cervello.
  • Mohammed Habbassi, 34 anni, tunisino, disoccupato, nella notte tra il 9 e il 10 maggio, è stato mutilato e torturato a morte in provincia di Parma, da un vero e proprio squadrone della morte, nell’appartamento di cui non riusciva a pagare la pigione. Questa era la sua “colpa”. Una colpa non diversa da quella degli italiani sfrattati dalle case delle agenzie di edilizia popolare per morosità: quelli che membri e militanti di alcune organizzazioni politiche decidono di tutelare anche con la violenza.

 

Giorno maledetto. Il film

Nel 1955 uscì nelle sale cinematografiche Giorno maledetto (Bad Day at Black Rock), di John Sturges. Un film di suspense, ma anche di impegno civile, come si diceva un tempo, e segnatamente di denuncia non soltanto del razzismo, magari di pochi, ma soprattutto dell’omertà e dell’indifferenza della maggioranza[1].

La trama di Giorno maledetto era piuttosto semplice. Un uomo senza il braccio sinistro, John J. Macreedy (per questo ruolo Spencer Tracy ottenne all’8° Festival di Cannes il premio per la migliore interpretazione), scende dal treno in una cittadina desertica del Sud Ovest degli Stati Uniti. Accolto con diffidenza ostile, cerca informazioni su Komoko, un nippo-americano, che dovrebbe vivere da quelle parti, in un posto chiamato la Steppaia.

Nell’arco di 24 ore Macreedy arriverà a scoprire che Komoko non è stato internato, a seguito del bombardamento di Pearl Harbour e dell’entrata in guerra degli USA, come gli era stato detto inizialmente da alcuni abitanti di Black Rock.

È stato ucciso, orribilmente bruciato vivo, nella sua casa isolata, da alcuni cittadini di Black Rock, guidati e incitati dall’uomo più influente della cittadina, Reno Smith (interpretato da Robert Ryan). Un razzista violento e manipolatore, che, scartato alla visita di leva, reagì alla frustrazione immolando l’anziano giapponese.

Giorno maledetto e A Ciambra: qualcosa è cambiato ne L’ordine delle cose

Giorno maledetto si inseriva in una serie di altre pellicole hollywoodiane, iniziata già negli anni ’30, intese a denunciare il razzismo e le sue brutalità soprattutto verso afroamericani, latinoamericani ed ebrei[2].

Come altre opere antirazziste dell’epoca, Giorno maledetto toccava delle corde sensibili, ed essendo un prodotto di qualità, adeguatamente promosso e distribuito, incassò molto bene[3].

Non si può dire, invece, che oggi riescano sempre a sfondare al botteghino le opere che trattano temi simili a quelle del film di John Sturges.

L’ultima fatica di Andrea Segre, L’ordine delle cose, ad esempio, dal punto di vista degli incassi e dell’attenzione mediatica è ben lontana dal successo conseguito da Giorno maledetto a suo tempo in Italia. E sarebbe riduttivo pensare che sia solo una questione di distribuzione o di mero richiamo commerciale.

Qualcosa è cambiato.  L’unanimità di consensi che accoglieva allora tali opere, oggi non c’è più.

Guardiamo, ad esempio, alla reazione di Matteo Salvini rispetto al film italiano, A Ciambra. Diretto da Jonas Carpignano e prodotto da Martin Scorsese, la designazione di tale film, per concorrere all’Oscar come miglior film non di lingua inglese, è stata duramente contestata dal segretario della Lega[4]. Il suo disappunto era relativo alle persone e alle situazioni che il film racconta e non allo stile di regia.

Del resto, in quei decenni, in Italia, non vi erano soggetti ed enti politici che stimolavano il razzismo verso gli immigrati (del Sud), rinfacciandogli illegalità, insicurezza, ecc.

 

Giorno maledetto:  «La patria si difende a calci e pugni»

Già, all’epoca, in Italia, sostanzialmente nessuno spettatore si schierava dalla parte di Reno Smith, anzi, il suo personaggio suscitava inquietudine e sgomento[5]. Oggi, invece, i Reno Smith ci sono anche in Italia. E anch’essi, dicendosi patriottici, uccidono coloro sui quali hanno proiettato la loro paranoia, la loro frustrazione, la loro impotenza[6].

In altri post ho definito nazionalrazzisti quei soggetti e quei movimenti politici che identificano la nazione con la razza e stimolano, esprimono e agiscono l’odio verso gli immigrati, in nome della difesa della razza italiana[7].

Sulla sua pagina Facebook, Giuliano Castellino – leader di un movimento denominato “Roma ai romani”, che, con CasaPound e Forza Nuova, svolge una “resistenza etnica” per impedire che siano attribuite abitazioni popolari a persone di origine straniera, – ha scritto il 15 giugno che

«La patria si difende a calci e pugni».

Dalle parole ai fatti e viceversa, in effetti.

Non essendo note le motivazioni, è difficile ipotizzare che tipo di giustificazione davano alla loro coscienza e al mondo esterno quei giovani di Rosarno che, nei pressi della tendopoli di San Ferdinando, hanno commesso decine di gravi episodi di violenza razzista contro i braccianti stranieri, colpendoli con con bastoni di legno, spranghe, catene e coltelli

Hanno fatto ricorso a calci e pugni anche i due 17enni di Acqui Terme, che hanno picchiato un richiedente asilo somalo, l’8 di agosto, e i cinque razzisti, tra i 17 e i 19 anni, che a Roma hanno prima insultato e poi picchiato, il 29 ottobre di quest’anno, un bengalese e un egiziano.

 

Black Rock Italia

Non solo nel West degli anni ’50, ma anche nell’Italia di oggi, il fatto di non essere bianchi può fare diventare vittime di vili, meschine, squallide, forme di violenza.

Come quella ai danni di un minorenne egiziano, in provincia di Napoli, oggetto di più aggressioni fino al tentato omicidio, da parte di un 44enne pregiudicato, oppure come quella accaduta a San Cono (CT), contro quattro minori, anch’essi egiziani, assaliti da 5 italiani, armati di mazze da baseball, che ne ridussero uno in pericolo di vita per trauma cranico. Oppure come la violenza contro il 42enne senegalese, addetto alla sicurezza di una sala di slot machine, preso a calci, pugni e colpi di sgabello da cinque aggressori. Oppure, ancora, come l’aggressione ai danni di un richiedente asilo nigeriano, Emmanuel Nnamani, assalito, davanti ad un supermarket, da un uomo che prima lo offese con insulti razzisti, poi lo accoltellò all’addome, infine cercò di investirlo con l’auto mentre Emmanuel tentava di sfuggire alla sua furia.

Per tacere delle violenze pesantissime di cui sono accusati (189 capi d’imputazione) 37 carabinieri delle caserme della Lunigiana. Le vittime di questi abusi sono tutti extracomunitari. Dagli schiaffi, alle scariche elettriche, dalle manganellate alle minacce e alle multe senza motivo, dalla testa sbattuta contro un citofono alle sevizie sessuali su di un arrestato: tutti questi atti parrebbero essere stati dettati esclusivamente o prevalentemente dal razzismo di chi li ha compiuti.

In realtà, a volere fare un’altra associazione cinematografica, quest’ultima serie di violenze richiama, più che Giorno maledetto, il film L.A. Confidential (1997, di Curtis Hanson) e l’omonimo romanzo di James Ellroy da cui è tratto. Con una differenza, però: in L.A. Confindential l’agente Bud White, il più violento dei picchiatori, non sopportava l’idea della violenza sulle donne, mentre i carabinieri di cui sopra sono accusati di essersela presa anche con donne immigrate.

 

Pestaggi, insulti e minacce anche verso le donne

Neanche le donne, infatti, sfuggono alla furia dei razzisti, che, nella loro violenza, sembrano applicare una sorte di perversa parità di genere.

Ad esempio, non è sfuggita alla violenza razzista Florentina Grigore, 44 anni, di origine romena ma da quindici anni in Italia e residente ad Andora (SV), che nel maggio di quest’anno, alle 5 e mezzo del mattino, assopita sull’autobus che la portava al lavoro (una struttura di assistenza per anziani), è stata improvvisamente presa a calci, schiaffi e pugni da un settantenne italiano.

Perché costui, che minacciava di pisciarle addosso se non scendeva dall’autobus, ce l’aveva tanto con Florentina Grigore? Perché non aveva obliterato il biglietto. E ciò aveva scatenato l’italiano, secondo il quale lei era come tutti stranieri: viaggiano sempre gratis.

Florentina, in effetti, non aveva timbrato il biglietto. Aveva l’abbonamento.

Era in regola, sempre sull’autobus, anche Giulia, la quindicenne, promessa del basket, di nazionalità italiana (nata in Italia, figlia di un’italiana e un senegalese), che, a Torino, è stata presa a calci e insultata da un italiano sulla sessantina. Costui, dopo averle sferrato un calcio ad un ginocchio, cui lei non ha reagito, nel tentativo di ignorarlo, ha continuato ad insultarla: “suggerendole” di tornarsene a casa sua e di smettere di andare a scuola, perché tanto finirà a lavorare sul marciapiede.

Era in regola, oltre che incinta al sesto mese, anche la donna di origini africane che, il 16 agosto, accortasi di un tentativo di borseggio su un autobus, a Rimini, da parte di una 19enne di Ancona e di un 22enne di Caserta, dai due è stata aggredita e insultata. «Negri di me**a. Tornate al vostro paese», ha urlato il ragazzo. E, con un «Ti faccio abortire, negra di me**», ha rincarato la dose la ragazza.

 

Un lungo giorno maledetto per i Macreedy di oggi.

Un’altra donna aggredita per ragioni razziste è un’italiana di 59 anni. A settembre, in provincia di Parma, è stata minacciata e insultata da 50 persone. L’hanno bloccata nella sua auto per un’ora e mezzo.

La sua “colpa”? Aver affittato la casa a una cooperativa che ospiterà 20 profughi.

La sua colpa, quindi, è la solidarietà. Perché, se avesse affittato la villetta a dei turisti, verosimilmente nessuno l’avrebbe assalita.

Nel film Giorno maledetto, si spiega che per quattro anni i cittadini benpensanti di Black Rock, pur sapendo, non avevano fatto nulla, oppure avevano finto, anche con se stessi, di credere alla balla che Komoko fosse stato internato in quanto sospettato di essere una spia giapponese.

Poi, un giorno arriva un forestiero che non se la beve, che non gira la testa da un’altra parte. Che ha paura, ma vuole vederci chiaro[8].

Il regista di Giorno maledetto, John Sturges sfruttò il formato del Cinemascope, il colore, le scenografie e i costumi in termini drammatici, per rendere visivamente l’isolamento del protagonista, Macreedy, rispetto agli abitanti del posto[9].

Proviamo, allora, a dare un’occhiata anche a cosa succede a chi oggi, qui, tenta di opporsi alla violenza (nazional)razzista.

Prendiamo il caso di Paolo E., picchiato e preso a cinghiate a Vignanello in provincia di Viterbo da una quindicina di militanti di CasaPound, incluso il loro leader locale, Jacopo Polidori.

Perché Paolo è stato aggredito?

 

«Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, moglie e figli non merita rispetto», recita un manifesto di CasaPound

Perché il 12 febbraio di quest’anno, Paolo osò condividere sui social un post che ironizzava sui manifesti di CasaPound. In questi era scritto:

«Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, moglie e figli non merita rispetto».

Paolo E. ha usato l’ironia per ridicolizzare lo slogan[10]. Uno slogan il cui fine intrinseco è tentare di stroncare sul nascere quel minimo, civile, senso di comprensione e di solidarietà verso chi patisce le pene dell’inferno.

Dal punto di vista vittimologico, il manifesto, in effetti, offende chi espatria proprio per proteggere la vita dei suoi cari, oltre che la propria (e lo sanno bene coloro che ascoltano i rifugiati e i richiedenti asilo, tra i quali figurano anche gli psicoterapeuti dell’Associazione, sul cui sito si trova questo blog).

Si tratta, dunque, di un’offesa, sovrapponibile alle esternazioni dei seguaci del sedicente Stato Islamico o di altre sanguinarie organizzazioni. Infatti, è una denigrazione che risulterebbe gradita anche a quei terroristi, dato che disconosce l’umanità delle loro vittime e che contiene un’ implicita, indiretta, legittimazione delle loro atrocità.

Paolo E. ha reagito con l’ironia di fronte a questa ri-vittimizzazione di milioni di persone, ai quali il manifesto da lui parodiato cerca di negare non solo lo status di vittime, ma anche il rispetto per i loro sentimenti e i loro vissuti (e sono vissuti pesantissimi, poiché certi orrori non si possono mai archiviare, neppure quando si è lontani nel tempo o nello spazio dalle decapitazioni, dagli stupri, dalle mutilazioni, dai roghi umani, dagli spari e dalle esplosioni).

Concepito con l’intento di farle apparire prive di sentimenti umani, quali l’amore verso i loro cari, così da legittimare ogni offesa (a questo proposito mi permetto di rinviare a quelle strategie di legittimazione della violenza razzista trattate in un altro post) e ogni emarginazione nei loro confronti, quel manifesto affisso nelle città ricorda molto da vicino le denigrazioni antisemitiche indirizzate ai sopravvissuti dell’Olocausto nazista.

 

Colpevolizzazione della vittima e altre forme di disimpegno morale

Col senno del poi, allora, stupisce poco che quella quindicina di militanti di CasaPound abbiano messo in atto contro Paolo E. un’intimidazione brutale, tipica sia delle prassi brutalmente liberticide praticate dai fondamentalisti, che dello squadrismo fascista e nazista, a loro volte affini a metodi gangsteristici tutt’ora in voga[11]. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle intimidazioni cui fu sottoposta la giornalista di Repubblica, Federica Angeli, costretta a vivere sotto scorta per le sue inchieste sulle attività criminali del clan Spada ad Ostia [12].

Tenuto conto di ciò, dunque, stupisce poco anche la moderazione con cui nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il 9 novembre, Luca Marsella, leader di CasaPound Litorale, ha preso le distanze dalla violenza di Roberto Spada (fratello del boss Carmine, detto Romoletto), dopo che costui con una testata e con un manganello aveva aggredito il giornalista della Rai Daniele Piervincenzi, rompendogli il setto nasale.

Leggendo quell’intervista, è difficile non pensare, per associazione mentale, a quelli che Albert Bandura (1986), in una prospettiva interazionista, definì meccanismi di disimpegno morale, vale a dire di auto-assoluzione.

Tra questi vi è l’etichettamento eufemestico: che consiste nel ridimensionare la dolorosità delle conseguenze della condotta dannosa, distorcendo, cioè mascherando, il vero significato dell’azione. Definire, come fa Luca Marsella, «non un bel gesto» l’aggressione impressionante di Roberto Spada ai danni di Piervincenzi, sembra davvero un caso di etichettamento eufemistico, per quanto si tratti di un reato non commesso da chi lo ha così commentato.

Un altro meccanismo di disimpegno morale consiste nell’affermare che in qualche misura la vittima se l’è cercata (Bandura parla dell’attribuzione della colpa alla vittima).

Questa, su Facebook, è stata la posizione assunta da Spada, nonché, a meno di fraintendimenti, pare anche essere quella di Marsella, che asserisce di non condividere quell’aggressione, ma afferma che «questa è una situazione che qualcuno stava cercando, ed è arrivata». Che è come dire: “chi cerca trova”. Quindi Piervincenzi non sarebbe vittima di una violenza, perché se l’è cercata.

D’altra parte, quelli di Roberto Spada, sono atteggiamenti non così dissimili da quelli adottati, nel corso dell’aggressione ai danni di Paolo, da coloro che gli hanno rotto il naso e un dente e gli hanno lasciato escoriazioni da cinghiate sulla schiena (queste ultime inflitte da Jacopo Polidori): non prendere mai più in giro CasaPound, gli hanno detto malmenandolo.

Nel suo post su Facebook, sopra citato, Giuliano Castellino aveva scritto: «La patria si difende a calci e pugni». In tal caso la patria era CasaPound.

Si può reagire alle intimidazioni nazionalrazziste contro chi accoglie e contro chi non discrimina

Gli episodi di intimidazioni nazionalrazziste ai danni di chi si rifiuta di dismettere la propria umanità, non riguardano solo Paolo E. e la signora che intendeva affittare la villetta per ospitare dei profughi. Anche in tal caso vi è un elenco tutt’altro che breve.

Per non fare che due esempi si pensi agli ordigni esplosi o piazzati senza miccia presso le chiese della zona di Fermo, per scoraggiarle dall’aiutare migranti e altri in condizioni di disagio. Oppure ai tentativi di intimidire ,  da parte di Generazione Identitaria, Andrea Palladino per le inchieste da lui realizzate su tale organizzazione di estrema destra impegnata in una campagna antimigranti.

Ma oltre a coloro che tentano di aiutare chi ha bisogno, quando si tratta di stranieri, o a coloro che indagano su chi vuole difendere la patria a calci, pugni e minacce, può capitare di subire violenze anche ad altri. Magari solo perché provano un sentimento di amore: infatti, è una forma di violenza anche la discriminazione di cui fu oggetto quest’estate Chiara, rea di amare un ragazzo di origine nigeriana.

Si potrebbero ridurrebbe significativamente sia l’elenco delle intimidazioni, che quello delle violenze razziste, che probabilmente saranno ricapitolate nel prossimo Libro bianco sul razzismo, se, come gli abitanti di Black Rock, noi tutti, qui, ora, comprendessimo che questa violenza, spacciata talora per (grottesco) patriottismo, uccide anche la nostra anima, e se, come lo sceriffo, il medico e l’albergatore di Giorno maledetto, decidessimo di recuperare la nostra dignità.

Se ci teniamo alla nostra libertà, al rispetto per noi stessi, allora, mi sa proprio che ci tocca reagire collettivamente alle prepotenze dei nostri Reno Smith. Anche soltanto disapprovarle apertamente sarebbe molto.

In fondo, a noi italiani l’hanno insegnato la cronaca e la storia della lotta alle mafie.

L’unico modo della società civile per proteggere coloro che si espongono, quelli che si assumono la responsabilità e il rischio di restare umani, è non lasciarli moralmente e materialmente soli. In realtà, è l’unico modo che abbiamo per conservare il rispetto di noi stessi.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Il film citato nel titolo di questo post non è l’unico dai risvolti antirazzisti della cinematografia del regista, John Sturges. Pur dedito a produzioni mainstream di schietto stampo hollywoodiano, qua e là questo regista ha inserito esplicite condanne a varie forme di pregiudizio e di violento razzismo. In ambito western, per dire, si può pensare a Il giorno della vendetta, che inizia con uno stupro ai danni di una ragazza indiana, e alle prime sequenze di I magnifici sette. Del resto, il western in quel periodo fu spesso usato per commentare criticamente la società contemporanea, anche con opere dichiaratamente antirazziste e altre filo-indiane: tra quelle incentrate sul tema del pregiudizio verso gli afroamericani figurano, ad esempio, all’inizio dei ’60, I dannati e gli eroi, del maestro John Ford, e, all’inizio dei ’70, Libero di crepare e Non predicare, spara. Né va sottovalutato che già nel lontano 1936 il genere western aveva offerto al regista William A. Wellman, con Robin Hood dell’Eldorado, l’occasione per una severa e cruda requisitoria sul razzismo, in tal caso verso i messicani, rappresentato dal film come un corollario della politica imperialista USA.

[2] Nell’ambito del cinema sonoro si possono annoverare Black Legion (1937) e Vendetta (1937) tra le prime, durissime, opere di denuncia. Nel primo, diretto da Archie Mayo, Humphrey Bogart (non ancora una star) interpreta un operaio che, surclassato sul luogo di lavoro da un collega di origine straniera, entra a far parte della Legione Nera, organizzazione terroristica di ultra destra, xenofoba e razzista, e giungerà a commettere violenze varie, omicidi compresi. Il secondo è diretto da Mervin LeRoy, già autore di altri film attenti alle tematiche sociali (in particolare, Io sono un evaso e Piccolo Cesare – capostipite gangster movie e cronologicamente primo dei tre capolavori del genere: gli altri due film, di poco successivi, sono Scarface, di Howard Hawks, e l’ancor più efficace Nemico pubblico di William A. Wellaman). Vendetta è forse ancora più disperato e angosciante di Black Legion. Racconta di un giovane afroamericano che, benché processato e prosciolto dall’accusa di aver ucciso una donna bianca, viene linciato dalla folla. Entrambi i film, prodotti e distribuiti dalla Warner Bros., sono esemplificativi dell’attenzione ai temi sociali seguita da questa Major in pieno New Deal. Dopo la parentesi della guerra (periodo nel quale, tuttavia, si colloca una potente denuncia del linciaggio in danni di tre uomini innocenti, ritenuti colpevoli, in fondo, solo perché forestieri: Alba fatale del già citato William A. Wellman), il ciclo sulla violenza razzista si apre con delle pellicole, alcune a basso costo, di rilevante successo commerciale e di critica, anche a livello internazionale, quali Odio implacabile, Linciaggio, Nella polvere del profondo Sud, Uomo bianco tu vivrai, La setta dei tre K, Il sole splende alto, L’imputato deve morire e prosegue negli anni sessanta, con Il buio oltre la siepe, La scuola dell’odio, L’odio esplode a Dallas, La caccia, e propone all’inizio degli anni ’70 Il silenzio si paga con la vita, l’ultima fatica di una leggenda della Hollywood del periodo classico, Wiliam Wyler, Joe – La guerra del cittadino Joe e L’uomo del Klan. Non sono citati nell’elenco precedente alcuni film antirazzisti usciti negli stessi decenni, assai noti, pluripremiati e apprezzati dal pubblico mondiale – quali: Barriera invisibile, Pinky, la negra bianca, La parete di fango, La calda notte dell’ispettore Tibbs e Indovina chi viene a cena? -, perché, a differenza dei titoli sopra riportati, non propongono vicende in cui l’odio razziale assume le forme della violenza fisica letale, individuale o di gruppo.

[3] Al pari di altre pellicole tra quelle citate nella nota precedente, anche Giorno maledetto riscosse un buon successo commerciale a livello internazionale. Non solo negli USA, dunque, ma anche in altri Paesi, Italia inclusa. Grazie anche al premio attribuito a Spencer Tracy, che costituiva ormai una garanzia pressoché costante circa le qualità dei film in cui appariva. Accanto a Tracy, del resto, Sturges aveva diretto un cast di qualità impressionante: Reno Smith era interpretato da Robert Ryan, che sapeva sempre rendere i suoi villain ricchi di sfumature e credibilità. Gli altri attori, superlativi, erano: Walter Brennan, che aveva già ottenuto 4 volte il premio Oscar come miglior attore non protagonista; Lee Marvin, non ancora divo ma già bravissimo; Ernest Borgnine (di origine piemontese), che quell’anno avrebbe meritato l’Oscar come protagonista, nella parte di un italoamericano, in un film a modestissimo budget ma di enorme successo, prodotto dalla società di Burt Lancaster, Marty, vita di un timido (1955, di Delbert Mann), che fu vincitore dell’Oscar come miglior film e della Palma d’oro proprio a quell’8° Festival di Cannes in cui fu premiato Spencer Tracy per Giorno maledetto; Dean Jagger, anch’esso già vincitore dell’Oscar come miglior attore non protagonista; i più giovani ma molto efficaci Anne Francis e John Ericson. A garantire il buon successo dell’opera, inoltre, vi erano alcune scelte produttive, come il fatto di essere girato a colori e con il formato panoramico del Cinemascope. Inoltre anche l’ambientazione western, nel caso di Giorno maledetto, a quei tempi era un fattore capace di spingere il pubblico ad entrare in sala.

[4] L’opera, con un approccio tutt’altro che banale, mette in discussione stereotipi e pregiudizi, in particolare verso i rom.

[5] Roberto Ryan era conosciuto dalle platee per i suoi personaggi ambigui, spesso violenti. Anche per questo, oltre che per la sua bravura, fu una scelta di casting azzeccatissima. Robert Ryan, infatti, 8 anni prima che uscisse Giorno maledetto, aveva già interpretato un antisemita assassino nel noir Odio implacabile (1947, di Edward Dmytryk), vincitore del Grand Prix come miglior film sociale al 2º Festival di Cannes. Il personaggio di Reno Smith richiamava fortemente quello interpretato da Ryan in Odio implacabile. I ragionamenti stereotipici, il senso di superiorità, la paranoia dei due personaggi vengono verbalizzate nei loro dialoghi con gli altri interlocutori con argomenti assai simili. Peraltro, è interessante notare che nel romanzo, da cui è tratta la sceneggiatura (scritto dal futuro sceneggiatore e regista Richard Brooks), la vittima dell’intolleranza omicida di Odio implacabile non era un ebreo ma un omosessuale. Robert Ryan tornerà ad interpretare un razzista, il cui odio ha effetti disastrosi, in un altro celebre noir, il cult Strategia di una rapina.

[6] In Giorno maledetto e nelle altre opere hollywoodiane citate nelle note i razzisti inventavano o strumentalizzavano accuse di terribili misfatti rivolte a membri di una minoranza (messicani, afroamericani ed ebrei, soprattutto), onde sfruttare il pregiudizio diffuso nella popolazione e perseguire inconfessati fini politici o di altra natura, personale o economica. La trama di Giorno maledetto, in effetti, è richiamata da quella di un western di serie B, solo per il carattere contenuto del budget, non certo per la resa. Si tratta di Il ritorno di Joe Dakota del 1957. In tal caso l’omicidio dello straniero si collega ad un interesse economico inconfessabile. Restando in ambito hollywoodiano, ma venendo a film più recenti, la bandiera a stelle e strisce veniva sbandierata dai neonazisti di American History X e, ancor prima, dai baroni del bestiame intenti a massacrare gli immigrati europei nel kolossal western di Micheal Cimino, I cancelli del cielo. In quest’ultimo un gruppo di ricchi allevatori, intenzionati ad impedire agli immigrati dell’Europa centro-orientale di stabilirsi legittimamente nelle terre del Wyoming, in nome della difesa dell’ordine e della legalità, decide l’eliminazione di 125 persone, reclutando a tal fine un piccolo esercito di sicari prezzolati. Ispirato ad un fatto realmente accaduto, il film di Cimino vede sostanzialmente solo lo sceriffo James Averill (interpretato da Kris Kristofferson) rifiutarsi di prendere per buone le motivazioni patriottiche e identitarie proposte dal presidente dell’associazione dei baroni del bestiame, Frank Canton (Sam Waterston). E sarà di fatto il solo a schierarsi in difesa degli immigrati europei. Del resto, al personaggio interpretato da Jeff Bridges, che, appresa la notizia della lista della morte, notava «Maledizione! Diventa pericoloso essere poveri, in questo Paese. Non ti pare?», Averill rispondeva: «Lo è sempre stato». Come dire ne I cancelli del cielo, così come in Giorno maledetto, c’era già tutto. Entrambi i film, pur diversissimi tra di loro, mostravano come il fatto di essere stranieri poteva costare la vita.

[7] I post, pubblicati sul blog Politica e conflitto, dedicati al tema del nazionalrazzismo sono: Autorizzazione della violenza(in)giustizia nazionalrazzista Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista(il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzistaDove eravamoPropaganda nazionalrazzista e WelfareIl nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)Nazionalrazzismo e socialrazzismo

[8] Alla fine del film, Macreedy riuscirà a smuovere dall’omertà, dall’inerzia e dall’indifferenza alcuni degli abitanti di Black Rock, che gli diranno ciò che sanno e lo aiuteranno a far arrestare Smith e i suoi complici. Si scoprirà anche che Macreedy, ex ufficiale e reduce di guerra (da qui la mutilazione), era giunto in quel paese sperduto del West per consegnare a Komoko, padre di uno dei suoi commilitoni, la medaglia alla memoria ottenuta dal figlio, caduto in Italia, combattendo contro i tedeschi.

[9] Macreedy, infatti, è filmato mentre si aggira per le strade di Black Rock con un abito da città, con un cappello nero, un completo scuro e la cravatta nera sulla camicia bianca. Gli abitanti, invece, vestono un po’ da cowboy e sopra i blue jeans portano camicie chiare

[10] Il post ironico era: «Chi mette il parmigiano sulla pasta col tonno non merita rispetto».

[11] Si veda quanto riportato su La Stampa del 6 novembre, relativamente alle intimidazioni di Roberto Manno, un piccolo boss in ascesa, che, a Pioltello, ha costretto una famiglia di ecuadoregni ad andarsene dopo un prestito ad usura facendogli esplodere la porta di casa.

[12] Su la Repubblica del 9 novembre nel commento Noi cronisti nelle strade dei boss, relativo alla notizia sull’aggressione al reporter della Rai Daniele Piervincenzi, da parte di Roberto Spada, di cui si parla più avanti nel testo, Federica Angeli ripercorre sinteticamente la vicenda. Risale al 2013 l’indagine di Repubblica sulla commistione tra clan e politica a Ostia. Scoperto che Armando Spada, cugino del capoclan degli Spada, aveva ottenuto la gestione del lido più bello, affidata ad una società di cui facevano parte il genero del capoclan e Ferdinando Colloca, all’epoca leader di CasaPound, Federica Angeli fu sequestrata in quel lido proprio da Armando Spada e da uno dei suoi per due ore. Registrò tutto con la telecamera. Tra le minacce registrate vi erano quelle che prendevano a  bersaglio i suoi figli. «Pensa ai tuoi figli… dimentica questa storia». Da quel momento, 23 maggio 2013, la giornalista vive sotto scorta. Due mesi dopo, dal balcone di casa fu la sola testimone di una sparatoria tra il clan Spada e quello Triassi (il boss Carmine aveva ordinò a tutti di rientrare in casa) e andò a denunciarli. Roberto Spada, colui che, l’8 novembre, ha preso a testate e manganellate il reporter Piervincenzi, allora, nel novembre 2014, su Facebook minacciò esplicitamente i figli di Federica Angeli («Ora il nostro oggetto sono loro, non tu»). Alcuni giorni dopo le fu versata della benzina sotto la porta di casa.