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Autorizzazione della violenza

L’autorizzazione della violenza razzista come aspetto intrinseco del nazionalrazzismo

È in corso da tempo una campagna tesa a generare un’ autorizzazione della violenza. In particolare, un’ autorizzazione alla violenza razzista.

In un precedente post si erano posti in rilievo alcuni tratti della violenza razzista. Quel che si vuol qui aggiungere è un altro aspetto: l’ autorizzazione della violenza razzista è un tratto caratterizzante, connaturato di ciò che in precedenza ho chiamato nazionalrazzismo[1].

In altri precedenti post su questo blog avevo definito nazionalrazzismo quell’insieme di movimenti, organizzazioni e soggetti politici che, a volte esplicitamente altre volte in maniera implicita, sostengono non solo che esistano le razze, ma stabiliscono anche una gerarchia tra di esse, in termini morali, etici, culturali, ecc. Dunque, tali organizzazioni politiche possono essere descritte come nazionalrazziste, perché, ponendo mente a quelle operanti in Italia, affermano che esiste la razza nazionale degli italiani, la descrivono come superiore e la contrappongono alle altre.

 

Attenzione alla vittima

Quando si parla di violenza, oltre a porre l’attenzione su chi la commette e su chi la istiga, la sollecita o la dispone, occorrerebbe porre anche non minore attenzione su chi la subisce.

Prendere in considerazione la vittima è essenziale sotto molteplici profili. Tra questi ve n’è uno che vale la pena qui porre in risalto: la relazione tra la rappresentazione della vittima nella mente dell’aggressore, la reazione della società e i vissuti della vittima stessa.

Questa relazione, infatti, è di particolare rilievo ai fini dell’autorizzazione della violenza. Anche di quella razzista.

Emilio C. Viano[2] ha affermato che lo “status di vittima” si realizza attraverso un preciso processo, di autopercezione e di eteropercezione, distinto in una serie di autonomi stadi:

1° la presenza di un danno: la vittima percepisce un danno, che può essere fonte di sofferenza fisica e /o morale, procurato dall’azione altrui

2° l’autopercezione come vittima: la vittima realizza che il fatto lesivo è ingiusto e si riconosce come vittima di tale condotta dannosa

3° la condivisione della vittimizzazione: la vittima, attraverso la denuncia, il resoconto, la confidenza, ecc., rende noto ad altri quanto le è accaduto

4°il riconoscimento: altri soggetti le riconoscono il carattere ingiusto del danno subito e le procurano una “convalida” dello status di vittima. In tale ambito si colloca l’ufficializzazione, cioè il sostegno da parte della comunità, il riconoscimento da parte di agenzie ufficiali e, laddove esiste, l’aiuto da parte di strutture di sostegno specializzate.

 

I risvolti dannosi del mancato riconoscimento della vittima come tale

Questi stadi sono costitutivi del processo di vittimizzazione. E sono particolarmente importanti per la persona colpita da un crimine e per coloro che ad essa sono affettivamente legati.

Infatti, senza il riconoscimento da parte della comunità della vittimizzazione avvenuta, alla persona colpita da un reato, è come se venisse comunicato che essa non è stata vittima di un atto ingiusto, ma di qualcosa di meritato, di dovuto, di inevitabile, di necessario, di sacrosanto.

Ciò può avere conseguenze nefaste, come dimostrano molte situazioni legate ad abusi e maltrattamenti.

Accade, infatti, che alcune vittime, in mancanza del riconoscimento e della convalida dello status di vittima, finiscano non solo con il sentirsi isolate, indifese e rimosse dalla considerazione della comunità, patendo nuovamente quel trattamento disumanizzante che già connotava il reato subito, ma arrivino anche a convincersi che quel che è loro accaduto in qualche misura è naturale o meritato.

L’ autorizzazione della violenza come legittimazione culturale

Se quanto sopra descritto dovesse apparire non solo ingiusto ma anche infrequente e improbabile, occorrerebbe ricredersi.

Alcuni reati, a causa della considerazione sociale dei soggetti contro cui sono commessi, non suscitano particolare sdegno o allarme. Correlativamente non vi è alcun significativo riconoscimento da parte della società della gravità dell’offesa e quindi della vittima come tale.

Per fare alcuni esempi: non vi è convalida dello status di vittima verso il ladro a sua volta derubato dei propri beni, come non vi è nei confronti del borseggiatore o del rapinatore uccisi per un eccesso di difesa da parte delle loro vittime; analogamente è assai poco considerata la violenza sessuale subita da chi esercita la prostituzione.

Negli esempi citati la reazione della collettività è di indifferenza o di condanna molto contenuta verso l’autore della violenza e, correlativamente, di scarsissime vicinanza, comprensione e solidarietà verso le vittime. Si pensa che quanto accaduto a costoro se lo siano meritato, come una sorta di rischio della carriera illegale seguita o del disprezzato “mestiere” svolto.

Ultimamente anche la violenza commessa contro esponenti politici non suscita unanime riprovazione e preoccupazione, anzi molti commenti sui social indicano una sorta di approvazione verso gli autori delle aggressioni (ne avevo fatto cenno in Le aggressioni a Roberto Speranza e ad Osvaldo Napoli: la radicalizzazione del conflitto dal vertice alla base e ritorno).

L’assenza di reazione negativa da parte dei consociati costituisce, però, in molti casi una sorta di garanzia di impunità morale, se non anche legale, per gli autori della violenza. Quanti sono, infatti, coloro che vengono condannati per violenza sessuale ai danni di prostitute? Quante di queste, sapendo cosa le attende, denunciano?

Quel che si profila rispetto agli immigrati è un vertiginoso incremento della legittimazione culturale alla violenza nei loro confronti. Un’ autorizzazione della violenza razzista, cioè ad aggredirli in vari modi, che si fonda su una peculiare legittimazione culturale. Di matrice politica.

Il fine politico dell’ autorizzazione della violenza razzista

La comunicazione nazionalrazzista è costantemente intenta nel trasmettere l’idea che il principale nemico degli italiani, afflitti dalla decennale crisi economica e da altri più o meno endemici mali, è costituito dagli immigrati stranieri.

Impedendo a migranti di arrivare e scacciando quelli già presenti, secondo la comunicazione nazionalrazzista, gli italiani di “pura razza”, oggi mal messi, dopo staranno meglio. Molto meglio.

Sostenendo queste posizioni, i nazionalrazzisti si propongono come gli unici veri e capaci difensori del popolo, cioè della razza nazionale, giacché, per essi, questa esaurisce la nozione di popolo.

È indispensabile pertanto al nazionalrazzismo assicurarsi che vi sia un nemico rispetto al quale essere considerato un baluardo. Avendo scelto a tale scopo gli immigrati stranieri, sono costoro quelli che vanno demonizzati.

Per il nazionalrazzismo è una necessità vitale, dunque, rappresentarli con caratteristiche minacciose e inquietanti.

Così facendo, però, il nazionalrazzismo, oltre a commettere un’azione violentissima, diretta contro qualche milione di persone, pone in essere anche un’altra forma di violenza, apparentemente indiretta: la diffusione di sentimenti funzionali a far pensare e sentire che vi sia un’ autorizzazione della violenza razzista.

Anche l’ autorizzazione della violenza razzista passa attraverso la legittimazione culturale di tale violenza.

La promozione della paura (xenofobia), della ripulsa e dell’odio (razzismo) verso gli immigrati, quindi, è in relazione circolare con l’opera di legittimazione culturale tesa all’ autorizzazione della violenza. Un’attività condotta dal nazionalrazzismo attraverso tutti gli strumenti con tutte le risorse di cui dispone. E sono ragguardevoli gli uni e le altre.

Nel caso del nazionalrazzismo la legittimazione culturale della violenza verbale, in primis, ma anche fisica, verso gli immigrati consiste nel diffondere la svalutazione di un gruppo di persone (che in verità l’unica cosa che hanno in comune è quella di non essere nate in Italia, data l’estrema varietà di condizioni, provenienze, motivi dell’espatrio, ecc.) fino a deumanizzarle.

Tale esito è perseguito attraverso una serie di operazioni.

  • Uno costante evocazione dello spettro dell’invasione: gli immigrati stranieri, in verità, sono poco più di 5 milioni su oltre 60 milioni di italiani, quindi non il 30% come gli italiani, in virtù di menzognere propagande, credono, ma l’8,3%. E quelli sbarcati sulle nostre coste sono stati al massimo 200.000, cioè un po’ meno degli italiani emigrati all’estero in cerca di lavoro.
  • L’insistente tentativo di fare percepire gli immigrati come elementi parassitari rispetto ai corpi sani e produttivi della nazione italiana, cioè gli italiani di pura razza: in realtà il costo dell’accoglienza è lievemente inferiore alla ricchezza generata in Italia dall’immigrazione (si veda il Dossier Statistico Immigrazione 2017 del Centro Studi e Ricerche IDOS).
  • La rappresentazione degli immigrati come criminali o come attuali o potenziali terroristi: la comunicazione nazionalrazzista cita solo dati parziali, tacendo sempre quelli che disconfermano tale messaggio xenofobo, dato che, in realtà, dati completi alla mano, il tasso di delittuosità degli stranieri regolari è più basso di quello degli italiani. Per una descrizione corretta qualitativa e quantitativa dei reati commessi dagli immigrati si possono consultare i dati di Eurostat o il già citato Dossier sull’immigrazione. Quest’ultimo è particolarmente efficace anche nel porre in evidenza le lacune informative su cui si basa la strumentalizzazione razzista della percentuale degli stranieri sulla popolazione carceraria: in sintesi, tra le altre cose, si ricorda che gli immigrati sono più facilmente arrestati e sottoposti a carcerazione preventiva rispetto agli italiani, ma che man mano che il processo procede vengono scarcerati per l’infondatezza delle accuse. Rispetto all’equiparazione immigrato-musulmano-terrorista, la bassezza è tale da lasciare senza parole, soprattutto di fronte alle dimensioni impressionanti degli attentati commessi ai danni di fedeli dell’Islam proprio dai fondamentalisti (si pensi ai recenti attacchi in Afghanistan – 72 morti solo in nei due attentati del 22 ottobre condotti presso due moschee  e altri 9 in quello del 31 ottobre – e in Somalia – 189 morti nel primo attacco e 23 nel secondo). Inoltre, tanto per restare a quanto scritto su questo blog si possono leggere, al riguardo: (il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzista.
  • La descrizione degli immigrati stranieri come agenti volontari o involontari di una colonizzazione culturale e religiosa: mettendo da parte la difficoltà di contrapporre razionalità a paranoia, viene da chiedersi: occorre ancora ricordare, ad esempio, che il 53% degli stranieri immigrati è di fede cristiana e che i musulmani sono un milione in meno dei cristiani stranieri, essendo appena il 32,6% degli immigrati?

Così, colpevolizzandoli tutti, per gli illeciti commessi da alcuni, demonizzandoli per come sono, anzi per come sono descritti, si arriva a deumanizzarli fino al punto che per una parte rilevante della società ospitante non è considerato riprovevole, bensì inevitabile o perfino meritorio, offendere, umiliare, maltrattare tali persone.

 

Aspetti criminosi dell’ autorizzazione della violenza razzista

Il fine dell’ autorizzazione della violenza razzista, pertanto, consiste proprio nel privare gli immigrati della tutela dell’incolumità fisica e morale.

In particolare, il nazionalrazzismo cerca di indurre la società italiana a spogliarli non (almeno non direttamente) della tutela assicurata dalle forze dell’ordine, ma, in una prima fase, di un’altra importantissima difesa. Mi riferisco alla tutela sociale, culturale, morale, etica e psicologica, di tipo preventivo, consistente nella consapevolezza diffusa e profonda che denigrare, umiliare, calunniare, offendere, picchiare, bastonare, sfruttare, derubare o discriminare qualcuno è considerato inammissibile e riprovevole dal 99% e più dei cittadini.

Se rispetto ad un gruppo di esseri umani viene meno nella coscienza collettiva il principio dell’inviolabilità assoluta della loro persona, qualsiasi offesa verso di essi cessa di essere moralmente disapprovata, non venendo più considerata ingiusta, incivile, bestiale.

L’eliminazione di tale remora nei potenziali aggressori verbali e fisici degli immigrati, naturalmente aumenta significativamente la loro esposizione al pericolo di essere vittime di reato. Sia da parte di chi è animato da obiettivi politici o da odio razziale, sia da parte di chi persegue altre finalità illecite (economiche o di altra natura).

Per una panoramica, indignata e polemica, sulla possibile efficacia criminogenetica dell’ autorizzazione della violenza razzista si può leggere Fuoco e botte contro gli immigrati, il pogrom silenzioso che va avanti da mesi (e la politica dorme) di Francesco Cancellato. Ma, in realtà, andrebbe distribuito casa per casa e inserito nei libri di testo nelle scuole il Quarto Libro bianco sul razzismo, Cronache di ordinario razzismo a cura di Lunaria.

I vantaggi politici dell’ autorizzazione della violenza razzista

Naturalmente, oltre al fine suddetto, l’ autorizzazione della violenza razzista, verbale e fisica, permette al nazionalrazzismo di conseguire dei vantaggi di non poco conto nel perseguimento della sua strategia politica.

  • Più si estende e radica la percezione che contro gli immigrati stranieri tutto è lecito, trattandosi di mostri, più il nazionalrazzismo ha la possibilità di incrementare il tasso di volgarità e parzialità della sua comunicazione. E di farlo senza correre il rischio di suscitare una corposa e inibente reazione avversa da parte della cosiddetta società civile. In tal modo, l’incremento costante della rozzezza e della natura palesemente razzista dei suoi attacchi agli immigrati, gli assicura un consenso e un’approvazione crescenti.
  • Più gli immigrati sono considerati temibili e dannosi e più è considerato naturale, o perfino doveroso, denigrarli e aggredirli, meno avranno voce e attenzione coloro che non sono razzisti. In termini di competizione elettorale, il vantaggio politico di tale promozione della violenza contro gli immigrati non andrebbe minimamente sottovalutato, dal momento che essa permette di azzerare, o almeno ridurre alla percezione che siano solo un mugugno, un brontolio, i discorsi di coloro che contrastano la propaganda di odio nazionalrazzista. Costoro, infatti, si ritrovano ad essere rappresentati, dal nazionalrazzismo alla stregua di traditori, antipatriottici complici di pericolosissimi criminali.
  • Più l’immigrato in quanto tale è considerato dal pensiero dominante come socialmente pericoloso, più si riduce lo sdegno, per le violenze messe in atto direttamente dalla parte più estremista dei nazionalrazzisti verso gli immigrati e verso coloro che difendono i loro diritti fondamentali di esseri umani (per una rassegna si veda il servizio Nazitalia su L’Espresso del 30 luglio, e ancora Il vento fascista dalle periferie al Parlamento. Gli squadristi sono tornati in strada: gli episodi lì citati e altri ancora, in realtà meritano una trattazione più approfondita, anche per i risvolti inquietanti, un po’ squadristi e un po’ mafiosi, delle varie prepotenze, aggressioni, ricatti e intimidazioni).
  • Più cresce e si diffonde nella società l’autorizzazione alla violenza razzista, più il nazionalrazzismo ha la certezza di essere riuscito a trasformarne i valori fondamentali di quell’identità europea che sostiene di volere difendere (libertà, uguaglianza davanti alla legge, rispetto della dignità di ogni essere umano, pari opportunità, ecc.).

Alberto Quattrocolo

 

[1] I post dedicati al tema del nazionalrazzismo sono: (in)giustizia nazionalrazzista,  Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista(il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzistaDove eravamoPropaganda nazionalrazzista e WelfareIl nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)Nazionalrazzismo e socialrazzismo

[2] Criminologo e vittimologo di origine torinese, docente all’Università di Washington, a lungo consigliere statunitense in materia di analisi politica, di difesa e di sicurezza e consulente di istituzioni internazionali impegnate nella lotta al crimine e nella tutela delle vittime.

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