Affronte, Zanni, Battistini, Pizzarotti e Grillo. D’Alema, Emiliano, Cuperlo e Renzi. Berlusconi e Fini, ecc.: la radicalizzazione del conflitto come fabbrica del “tradimento”

Alcune vicende politiche – quali quelle dell’uscita dell’eurodeputato Marco Affronte dal Movimento 5 Stelle, e ancor prima, sempre in riferimento alla stessa forza politica, quella del Sindaco di Parma, Federico Pizzarotti – rinviano ad una dinamica relazionale piuttosto frequente nelle organizzazioni coinvolte in situazioni di conflitto.

Affronte, nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, ha affermato: «Per me sì, è stata una decisione che mi ha provocato una grande sofferenza. Ho pianto, non mi vergogno a dirlo. Adesso sono sereno anche se so che riceverò molti insulti. Con i Cinque Stelle è così, quando sei dentro, sei molto dentro, quando sei fuori, sei fuori davvero».

Pare, dunque, che anche all’interno delle organizzazioni politiche e non solo in quelle di altra natura, la dimensione della relazione interpersonale conti, anzi possa contare molto. Tale aspetto emerge, sia pure meno esplicitato anche nelle parole di un altro eurodeputato Cinque Stelle, Marco Zanni, anch’egli intervistato dal Corriere.

Sul suo blog, Beppe Grillo ha chiesto ad Affronte e Zanni di «dimettersi», annunciando che pretenderà il pagamento della penale che sottoscrissero, 250.000 Euro.

Sullo stesso Blog viene ricordata la battuta che costò a Grillo l’ostracismo dalla RAI, ai tempi della Prima Repubblica: la battuta sui socialisti.

Sembrerebbe esservi una contraddizione, ma è bene andare oltre le apparenze, se si vuole tentare di comprendere.

È vero che ad un parlamentare europeo che, dissentendo dalle decisioni del suo gruppo, vi si contrappone criticamente e si dissocia da un comportamento che non condivide, si chiedono le dimissioni, oppure il versamento di una penale cospicua, e contemporaneamente si ricorda, con giustissima indignazione, l’antidemocratico allontanamento dall’emittente televisiva pubblica di un comico, “reo” di aver espresso una certa “contrarietà” rispetto ai comportamenti di una forza politica al vertice del Governo del suo Paese. In entrambi i casi si potrebbe asserire che non si sia data cittadinanza alla critica, al dissenso, all’indignazione.

Certo tra le due situazioni vi sono differenze enormi sul piano delle implicazioni e dei risvolti, ma ciò che apparentemente potrebbe accomunarle sarebbe la difficoltà vissuta da chi è al governo (dello Stato o del Movimento) di tollerare il dissenso.

Si parlò di tendenze autoritarie e liberticide al tempo in cui il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi da Sofia accusò Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e Michele Santoro di uso criminoso della tv pubblica: era il cosiddetto editto Bulgaro.

Ma tali vicende, dal punto di vista del conflitto politico e della sua escalation, diventano rilevanti su un altro registro: quello degli aspetti emotivi e relazionali. Infatti, è possibile, prendere spunto da tali fatti, sperando di non risultare sgradevoli nei confronti di nessuna delle persone coinvolte, per svolgere un ragionamento di carattere più generale: nel momento in cui siamo protagonisti di una lotta in cui sono in gioco elementi di rilevantissimo valore per noi, ci può risultare intollerabile la presa di distanza dalle nostre scelte e posizioni da parte di chi nominalmente e sostanzialmente fa parte della nostra fazione, del nostro gruppo o della nostra comunità. Possiamo considerare tale presa di distanza come un tradimento. Un tradimento, che procura vantaggi ai nostri nemici, che minaccia di indebolirci, almeno in termini di immagine. E che può costituire anche un elemento preoccupante. Cioè può insorgere il timore che il dissenso di questo o quel membro del gruppo produca una crepa, l’inizio di un’emorragia di fuoriusciti o, peggio, il principio di una piccola o grande rivolta. Quante volte in fondo si sono riproposti nella storia politica e nelle esperienze di tutti i giorni, le idi di Marzo? Potrebbe, quindi, sorgerci angosciati e angoscianti dubbi, come: se altri tra i miei sodali pensassero che forse il traditore ha ragione? Se altri tra i nostri dicessero tra loro che, magari, anche io ho un po’ di colpa per il suo tradimento?

A volte, per azzittire tali dubbi nella nostra mente e prevenirne l’insorgere in quella degli altri, sferriamo attacchi vigorosi, carichi di accuse e che ambiscono a delegittimare “il traditore”, così da depotenziarne le possibilità argomentative.

Certamente il Movimento 5 Stelle e il suo portavoce si sentono ingaggiati in una lotta vitale. Tanto che sul Blog Beppe Grillo, il 9 gennaio, ha scritto: «L’establishment ha deciso di fermare l’ingresso del MoVimento 5 Stelle nel terzo gruppo più grande del Parlamento Europeo. Questa posizione ci avrebbe consentito di rendere molto più efficace la realizzazione del nostro programma. Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi. Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima. Grazie a tutti coloro che ci hanno supportato e sono stati al nostro fianco».

Quando ci si sente in lotta contro il Leviatano, chi dall’interno del nostro schieramento dei “buoni contro i cattivi” esprime dubbi o contrarietà, assume atteggiamenti critici e adotta comportamenti divergenti, rapidamente slitta ai nostri occhi nello schieramento nemico. Non siamo, infatti, facilmente propensi a considerarne le ragioni e le motivazioni, perché troppo ci brucia la ferita procurata dal suo disaccordo manifestato al mondo, di cui probabilmente vorrebbero avvantaggiarsi “i cattivi”, nella loro azione di screditamento delle nostre ragioni e della nostra persona.

Il fatto che, magari come ha fatto Zanni in chiusura dell’intervista a Emanuele Buzzi del Corriere della Sera, il “traditore” dica «La mia è una svolta di coscienza» potrebbe anche lasciarci indifferenti.

Infatti, cosa accadrebbe alla nostra titanica lotta, se ci fermassimo a meditare sulle sue ragioni?

In tali situazioni, inevitabilmente, vengono ad essere coinvolti principi e valori di carattere fondamentale: libertà, trasparenza, partecipazione, da un lato; lealtà, coerenza, rispetto dei patti, dall’altro.

A fronte del contestatore interno, che si propone come paladino della democrazia interna, ci viene da ricordargli che stiamo lottando proprio per dare realizzazione al nostro ideale di democrazia, contrapponendoci contro chi intende impedirci di cambiare le cose, e che egli con il suo comportamento si sta oggettivamente schierando proprio con tali forze («Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi», ha scritto il garante del M5S, e altrove non sono mancati gli accenni all’esigenza di condurre riservatamente le trattative per prevenire l’avverarsi di temute contromosse di un nemico così potente quale è l’establishment).

Qualcosa di simile potrebbe essere rinvenuto rispetto al deferimento dei probiviri del M5S del consigliere regionale ligure Francesco Battistini, secondo quanto ha affermato La Repubblica, ma pare accadere anche all’interno del Partito Democratico: nelle tensioni interne che hanno tra i principali protagonisti Michele Emiliano e Massimo D’Alema, da un lato, e il Segretario del PD, Matteo Renzi, dall’altro, spicca fra le tante una dichiarazione del Presidente del PD, Matteo Orfini, nell’ambito dell’Assemblea degli amministratori del Partito Democratico svolta a Rimini il 29 gennaio. La riporta anche Il Sole24Ore: «ieri Massimo D’Alema ha detto che ora arrivano i riservisti, che sono pronti a dare una mano. Ora, a noi serve il contributo di tutti. Ma siamo un partito strano perché siamo l’unico partito in cui i riservisti invece di dare una mano al partito vengono chiamati in guerra e danno una mano all’esercito avversario». E presa di posizione espressa da Michele Emiliano, intervistato da Lucia Annunziata nella trasmissione In mezz’ora, Orfini ha replicato: «Io credo che in questo momento il nostro popolo voglia unità, stiamo provando a praticarla. Veniamo da due giorni a Rimini in cui abbiamo discusso insieme con gli amministratori di tutte le anime del partito, sindaco, presidenti di regione. Mi spiace che qualcuno invece di venire a discutere con noi abbia preferito andare in televisione ad attaccare, accusare, dire bugie, e provare a dividere il partito».

Del resto è già accaduto che i dissidenti interni ad un partito o ad uno schieramento siano finiti definitivamente o provvisoriamente nel campo avversario. Non soltanto Tabacci e Baccini e poi Follini, nonché successivamente Alfano e Casini, si sono allontanati dal fronte berlusconiano, ma anche Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Monica Gregori, Carlo Galli, Vincenzo Folino e Giovanna Martelli sono usciti dal PD e alla Camera hanno costituito, insieme a 25 deputati di SEL e a Claudio Fava (già eletto con SEL e poi passato al Gruppo Misto), “Sinistra Italiana – Sinistra Ecologia Libertà”, mentre due eletti Cinque Stelle, cinque di SEL e Corradino Mineo hanno costituito un analogo gruppo al Senato.

In breve è l’escalation del conflitto il principale fattore produttivo di dinamiche relazionali in cui si sviluppano le accuse di tradimento. E non è peregrino ricordare che non sono unilaterali: quante volte, infatti, chi si pone in disaccordo con il leader di un gruppo (un’organizzazione politica, in questi casi) ed è da questi accusato di favorire il nemico, ribatte con un’identica accusa, rimproverando la leadership di avere tradito le proprie radici, venendo meno ai principi e ai valori sulla cui condivisione si era sviluppato il legame. Il dissenziente, cioè, ribatte alla leadership, che lo taccia di eresia, di essere egli il vero custode dell’ortodossia.

Si pensi a quanto riporta la Stampa rispetto alle “bordate” del prof. Aldo Giannulli, il quale rimprovera al M5S un comportamento assai peggio che eretico: un comportamento da Democrazia Cristiana. Ma ancor prima viene alla mente il Sindaco Federico Pizzarotti, che, anche nel suo libro Una rivoluzione normale, accusava il M5S di essere venuto meno ai suoi principi fondamentali, tra cui quello “uno vale uno”, e la cui polemica continua ancora ad inizio 2017, come racconta, tra gli altri, il Giornale. E come del resto si rileva da un suo post sulla sua pagina Facebook del 2 gennaio: «Il punto è semplice: chi fa notare le incongruenze e i gravi errori di una forza politica non è un traditore, né un infiltrato, ma una persona che con onestà intellettuale dice le cose esattamente come stanno, proponendo giuste soluzioni e senza aver paura delle conseguenze di tenere la testa alta. Chi tace, piega la testa e non sa formulare un benché minimo pensiero critico è solo uno yesman. E oggi continuo a vedere molti yesman, ma pochi politici con una loro coerenza e una loro autonomia».

Anche nel campo del centro destra, sia pure con toni e sfumature diverse circolano ragionamenti che potrebbero essere apparentati agli episodi prima citati.

Già a suo tempo, Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi si trovarono a sperimentare sulla loro pelle qualcosa di simile nel 2010. Nella ricostruzione fatta allora da Repubblica si legge: «Avrei preferito che dicesse ‘me ne vado’ – dice in serata il Cavaliere ai suoi – invece non ci pensa proprio: vuole restare e logorarmi. Ma non ho nessuna intenzione di lasciarglielo fare e ora, con il documento approvato dalla Direzione Nazionale, abbiamo lo strumento per sbattere fuori dal partito chi non si allinea alle decisioni». Mentre Fini sosteneva il suo diritto ad avere idee diverse da quelle dominanti nel partito.

Un’esperienza non tanto dissimile pare sia stata quella che ha riguardato l’uscita di Flavio Tosi e Matteo Salvini: su il Post se ne può trovare una sintesi.

Qualcosa di non troppo diverso, sembra che si sia affacciato all’orizzonte di Gianni Cuperlo, almeno stando ad alcune interviste, tra cui quella ad Alessandro De Angelis dell’Huffington Post allorché, raggiunto l’accordo e ottenuta la firma di Renzi sull’impegno a modificare l’Italicum, facendo venire meno la principale ragione di indisponibilità della minoranza PD a votare a favore della riforma costituzionale, ha dovuto fare i conti con la contrarietà proprio della “sua parte”, cioè la sinistra PD, rispetto alla sua decisione di votare Sì. Ma, come si rileva dalla sua intervista, l’ex Presidente del Partito Democratico, si è mantenuto su un registro comunicativo di costante riconoscimento delle ragioni e dei vissuti altrui, di sobria ma non reticente esplicitazione dei propri, senza arretrare dalla decisione assunta, ma contenendo la radicalizzazione dello scontro o, almeno, limitandone le ricadute distruttive sui rapporti con gli altri soggetti.

In chiusura di questi ragionamenti ci scusiamo con le persone qui citate per l’ “uso” che abbiamo fatto delle loro esperienze, ribadendo che l’intento è soltanto quello di riflettere sull’esistenza di processi relazionali che possono accadere nei più diversi contesti, incluso quello della politica.

 

Alberto Quattrocolo

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