La criminalizzazione dell’avversario

L’esperienza di Ilaria Capua (sospettata di avere commesso crimini abominevoli, punibili con l’ergastolo, e poi riconosciuta del tutto innocente), da essa raccontata in diverse occasioni, nonché in un libro appena uscito e nell’intervista condotta il 9 aprile da Giovanni Minoli nel suo programma Faccia a faccia, in onda su La 7, non è un caso isolato. La storia degli scontri politici a tutte le latitudini, anche in ordinamenti democratico-liberali, caratterizzati cioè dalla separazione dei poteri, è punteggiata di vicende in cui esponenti politici, accusati di aver commesso dei reati e poi rivelatisi innocenti, sono stati criminalizzati dai loro avversari.

Di fatto, questa demonizzazione è una forma di vittimizzazione, poichè la criminalizzazione (anche sui social media o proprio a partire da quelli) può produrre contemporaneamente un danno primario e un danno secondario.

Il danno primario è quello che in tutte le vittime di un reato deriva immediatamente e direttamente dal fatto lesivo, ed è fisico (le conseguenze fisiche clinicamente accertabili), materiale (i danni alle cose o quelli economicamente valutabili) e psicologico (che spesso dura assai più del danno fisico o materiale). Quest’ultimo, in particolare, consisterebbe in: senso di insicurezza, di vergogna, d’impotenza, di colpa e di inadeguatezza, una caduta dell’umore… E può dare luogo a patologie vere e proprie. Anche per il diffamato o il calunniato le conseguenze possono essere gravi: si pensi alle vicissitudini giudiziarie di Enzo Tortora e alla sua morte provocata dalla malattia  sviluppatasi a seguito dell’ingiusta accusa, della altrettanto ingiusta detenzione e della spietata e diffusa diffamazione di cui fu oggetto (Massimo Giusio in Giusio M., Quattrocolo A., 2014).

Oltre ai pregiudizi fisici, materiali e psicologici, la vittima di un reato affronta un possibile ulteriore tipo di danno, quello secondario (psicologico, ma che può avere pesantissime ricadute sul corpo), derivante da atteggiamenti di svalorizzazione, incomprensione e complessiva mancanza di tutela da parte delle agenzie di controllo sociale formale. Un esempio di “rivittimizzazione processuale”, nel caso dei reati sessuali, si ha quando l’interrogatorio della vittima è caratterizzato dal tentativo di colpevolizzarla e delegittimarla moralmente.

In realtà, un aspetto centrale del danno primario e del danno secondario è il mancato riconoscimento della vittima come essere umano. Il vissuto di chi subisce una violenza (fisica, psicologica, ecc.), infatti, è quello di non essere stato considerato come un essere umano (mi ha trattato peggio di un cane, si sente dire da molte vittime nei nostri servizi gratuiti di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato doloso e colposo e per i loro famigliari, per le donne vittime di violenza e per richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione internazionale). Un aspetto fondamentale, però, per l’elaborazione e il superamento del danno primario, nonché per supportare le possibilità di autotutela della vittima, è proprio quello del riconoscimento da parte degli altri e delle istituzioni della natura ingiusta del danno inflittole (si pensi al giovane vittima di bullismo, alla vittima di violenza domestica o al minore vittima di maltrattamenti o abusi sessuali, che faticano a “legittimarsi” il passo decisivo della denuncia).

Nel caso di chi è indagato o accusato ingiustamente di un crimine, il paradosso è che proprio l’iter giudiziario produce un danno alla persona e le nega quel riconoscimento. Ma, se si tratta di una personalità pubblica, in certa misura, il riconoscimento dell’ingiustizia patita (la falsa o gravemente errata accusa) è ancor di più intaccato, anzi, talvolta, negato in maniera drammatica, dai media e dai commenti sui social.

L’emarginazione sociale procurata dalla campagna di screditamento, lo stigma, il biasimo e il disprezzo collettivo sollecitati mediante i media, infatti, possono produrre nell’interessato una solitudine, un’amarezza, un dolore e un senso di isolamento e accerchiamento, che si aggiungono agli stress, alle ansie e alle sofferenze legate al traumatico rapporto con la giustizia.

Del resto, lo scopo di una campagna criminalizzante è far sì che quell’individuo sia considerato dai cittadini come un appestato, come un soggetto spregevole  da evitare. Pertanto, sebbene tale demonizzazione non sia intesa ad autorizzare moralmente e socialmente in maniera diretta il compimento di atti violenti a loro danno (sul piano fisico e morale, per esempio in termini di offese alla reputazione), nondimeno favorisce un clima culturale in cui quel tipo di atti non verrebbero inequivocabilmente e incondizionatamente condannati, cioè favorisce il diffondersi di un sentimento in base al quale potrebbe essere se non moralmente lecito, facilmente  perdonabile offendere senza tanti riguardi questo o quell’individuo o gruppo, non essendo meritevoli di alcun riguardo.

Sotto questo punto di vista, la criminalizzazione dell’avversario politico coinvolto in indagini giudiziarie, presenta non poche affinità con la cosiddetta legittimazione culturale e sociale della vittimizzazione. Ad esempio, certe rappresentazioni presenti in una società relative a determinati gruppi o categorie di persone, riducendone o annullandone l’umanità, favoriscono la commissione di reati nei loro confronti, poiché riducono le possibilità di empatia nei loro riguardi e, quindi, l’attivazione di freni inibitori ad essa correlati in chi commette abusi e violenze (si pensi alla violenza contro chi appartiene ad una minoranza disprezzata o derisa). Però, normalmente, questa legittimazione sociale è una ulteriore perversione degli stereotipi negativi e dei pregiudizi esistenti nella società, mentre la criminalizzazione dell’avversario politico, attraverso le dichiarazioni sui social media, le interviste, i dibattiti nei talkshow, può sviluppare il disprezzo o l’odio di tutti i cittadini nei confronti di determinate persone, e delle forze politiche cui appartengono o sono vicine, e sfrutta vecchi stereotipi e pregiudizi o ne crea altri ad hoc. E, così facendo, dà luogo ad uno sfondo di potenziale legittimazione alla violenza verbale (che è anche morale e può essere perfino violenza psicologica) nei riguardi del soggetto criminalizzato. Il quale, infatti, viene spersonalizzato e deumanizzato.

Si pensi, ad esempio, alla straordinaria quantità di commenti offensivi e denigratori (anche se non vengono tutti querelati – sarebbe impossibile farlo – costituiscono in ogni caso concretizzazione di almeno una fattispecie penale sanzionata dal nostro codice sotto la definizione di diffamazione) indirizzati alle personalità pubbliche interessate da vicende giudiziarie e poi, magari, scagionate.

Più in particolare, rispetto al caso di Ilaria Capua, i politici di altri partiti o movimenti, i commentatori e i cittadini comuni che l’hanno infangata e offesa potrebbero non avere in alcun modo pensato all’impatto che le loro parole avrebbero avuto su di lei e su coloro che l’amano, cioè non l’avrebbero riconosciuta come un essere umano simile a loro, proprio poiché circolava una legittimazione di fondo ad aggredirla. Infatti, poteva non essere considerata in alcun modo come ipotetica vittima di una falsa accusa, dandosi per acquisita la certezza della sua colpevolezza: ecco, dunque, rispuntare la colpevolizzazione della vittima come meccanismo mentale di neutralizzazione della consapevolezza circa il danno che si va a fare o che si è fatto.

Un effetto non secondario della gogna mediatica (anche nel senso dei social media), che tanto ricorre nel conflitto politico (si veda al riguardo i post su questo blog del 7, 8 e 15 febbraio 2017) con notevole trasversalità (non occorre qui citare l’esperienza di Stefano Graziano, gli attacchi di cui fu oggetto la sindaca di Roma, Virginia Raggi, né quelli legati al caso, per fortuna velocemente risolto, che in quell’inchiesta riguardava gli sms di Luigi di Maio), dunque,  potrebbe essere una forma di legittimazione morale, culturale e politica ad aggredire l’indagato o l’imputato (a volte anche la persona offesa da un reato), senza alcun riguardo per la sua umanità e trascurando radicalmente il fatto che è presunto non colpevole e non presunto reo.

Spesso, però, a supporto di un atteggiamento colpevolista e criminalizzante si richiama il principio della responsabilità politica, considerandolo come un aspetto disgiunto dalla responsabilità penale, il cui acclaramento spetta, invece, alla magistratura ed è sottoposta alla presunzione di non colpevolezza.

In effetti, quello della responsabilità politica, in generale, non è un argomento di poco conto. Però, se si vuole evitare di dare luogo alla colpevolizzazione di una possibile vittima di un’accusa ingiusta (penalmente e sotto altri aspetti) ed essere rispettosi della sua umanità a livello elementare, cioè onde non incappare in qualcosa di simile alla criminalizzazione spietata dell’altro, occorrerebbe considerare le implicazioni derivanti dal fondare le accuse di inadeguato comportamento politico soltanto su fatti appresi dall’unica fonte delle ipotesi accusatorie formulate nell’iter giurisdizionale. Inoltre, sarebbe bene accorgersi del fatto che si può correre il rischio di avvalersi consapevolmente della teoria della responsabilità politica mentre inconsapevolmente si sta attivando qualcosa di simile a quei meccanismi di disimpegno morale  messi in atto dai delinquenti per non sentirsi responsabili delle azioni delittuose e dei loro effetti (Bandura A., Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, 1986). In particolare: la giustificazione morale, consistente nel richiamarsi ad un ideale superiore (la lotta alla disonestà, alla corruzione e all’illegalità) per giustificare gli insulti e le offese alla reputazione o le illazioni sull’immoralità dell’indagato e dei suoi compagni di partito; l’etichettamento eufemistico, che in tal caso non consiste nell’uso di termini quali “bombe intelligenti” o “pulizia etnica”, ma, ad esempio, “pulizia morale”; il confronto vantaggioso, con cui il reo trasforma comportamenti lesivi in azioni morali e che, in tal caso, si può riassumere nel minimizzare il danno all’immagine dell’indagato ponendo sull’altro piatto della bilancia la portata devastante e la quantità di vittime indirette provocate dall’illegalità diffusa nel mondo degli affari e della politica («tanto è più oltraggioso l’operato confrontato, tanto è più probabile che la nostra condotta deplorabile appaia irrilevante o addirittura benevola», sottolinea Bandura); la diffusione della responsabilità per cui “se tutti sono responsabili allora nessuno è responsabile”, come accade quando a ledere la dignità di una persona sono una pletora di individui; la non considerazione o distorsione delle conseguenze, cosicché i soggetti danneggianti possono autoassolversi dicendo, ad esempio, che quell’indagato è ricco e può pagarsi le cure psicologiche o psichiatriche; la deumanizzazione della vittima, che agisce sulla capacità empatica del danneggiante e consiste nel “degradare” l’accusato dal suo stato di essere umano, e l’attribuzione di colpa, in virtù della quale un espediente utile per trovare una giustificazione alla propria azione diffamatoria o ingiuriosa è quella di prendersela con l’avversario che ne è oggetto, sostenendo che se lo merita.

In conclusione, mi pare che si possa osservare che quanto sopra proposto sia un aspetto, una conseguenza, dell’escalation del conflitto politico, tante volte presa in considerazione su questo blog.

 

Alberto Quattrocolo

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