Dalle fiamme del conflitto politico può levarsi una puzza di “fascismo involontario”?
Interrogarsi sulla tenuta della democrazia, a mio parere, in Italia come all’estero, non è mai un esercizio futile, per chiunque l’abbia a cuore e intenda preservarla, ma, tanto per essere chiari, alla domanda contenuta nel titolo di questo post rispondo subito così: per ora, direi di no. Il che non significa che non possa aver avvertito in alcuni fatti, comportamenti o proposte di natura politica la presenza di aspetti echeggianti quell’esperienza storica (tanto per dire, la gestione da parte delle forze dell’ordine e di chi le comandava del G8 di Genova del luglio 2001, mi sembra rientrarvi a pieno titolo). Mi mancano, però, gli strumenti per poterci scrivere sopra con un minimo di competenza.
Quel che, invece, mi pare pertinente con gli aspetti considerati in questo blog, è un altro punto, strettamente correlato alla dinamica dell’escalation conflittuale in ambito politico (più volte presa in considerazione in altri post e sintetizzata in un articolo ad hoc). In particolare, ogni volta che una forza politica o un esponente politico si pone nella dialettica con i suoi avversari sul terreno della più totale squalificazione e della più completa delegittimazione sul piano della loro democraticità, mi pare che, sia pur involontariamente, ponga in essere un comportamento suscettibile di avere implicazioni antidemocratiche, le quali, se assecondate, a lungo andare potrebbero, in effetti, arrivare a procurare qualche similitudine con il fascismo.
Atteggiamenti polemici radicali tra i politici, che l’Italia repubblicana aveva conosciuto nei non pochi momenti di forte tensione e aspra contrapposizione ideologica ai tempi della “Guerra Fredda”, sono entrati senza difficoltà anche nella Seconda Repubblica: si ricorderà il livello di delegittimazione reciproca che contraddistinse il rapporto tra centro-destra e centrosinistra dal ’94 in poi (gli uni definivano gli altri piduisti, illiberali, fascisti-post-fascisti, mafiosi, garantisti a senso unico, razzisti, maschilisti, omofobi, ecc.; gli altri definivano i primi comunisti-post-comunisti, giustizialisti, illiberali, antidemocratici, totalitari, animati dall’odio…). Non sarebbe inutile, forse, recuperare alcune esternazioni dei diversi leader degli anni passati, riportate dai media: si veda, ad esempio, su il Giornale.it, l’articolo Quel vizietto cronico dei razzisti di sinistra: disprezzo per il rivale e, sul giornale online Diritto di critica, Elenco ragionato degli insulti di Berlusconi agli elettori di sinistra (e ai gay).
Questa dinamica contrassegnata da costanti accuse all’altro di essere intrinsecamente antitetico alla democrazia liberale e ai suoi valori, naturalmente poneva non pochi problemi nei momenti in cui le varie forze si trovavano portate dalle circostanze a dover convergere su singoli provvedimenti, a cooperare su specifiche iniziative o, addirittura, a collaborare stabilmente per periodi più o meni lunghi, sostenendo governi “di coalizione” o “tecnici”. Di questo aspetto, del resto, ci siamo già occupati in un altro post, in particolare al terz’ultimo capoverso.
Ma quella tendenza alla qualificazione dell’altro come “pericolo per la democrazia” non si può dire che abbia subito un’interruzione con la comparsa e poi con l’affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle. Anzi, la delegittimazione è stata una costante pressoché irrinunciabile del modo di porsi dei politici pentastellati nei confronti di tutti gli altri partiti e dei loro esponenti, nonché, reciprocamente, di questi ultimi nei confronti di quel movimento.
Il confronto tra le forze in campo, infatti, molto spesso non è all’insegna del “Noi siamo, o sare(m)mo, più bravi a governare di voi”, ma del “Voi siete indegni di governare, anzi perfino di rappresentare”.
In ciò, mi pare che ci siano aspetti anti-democratici. Non intendo affermare, tuttavia, che vi siano nei partiti oggi in campo aspirazioni autoritarie e liberticide (ho già esplicitato che non mi sogno di pensarlo), ma che il pensiero (inconscio?) che precede queste prese di posizione nei confronti degli avversari pare intriso di una tendenza ad aggredire, screditare e, in definitiva, a silenziare politicamente l’altro.
L’utilizzo di espressioni nobilitanti per definire se stessi e sprezzanti per definire l’altro si verifica anche nella vita di tutti i giorni, allorquando il conflitto fa capolino e sterza verso un’escalation all’insegna della mostruosizzazione reciproca. Accade nelle liti di vicinato, sul luogo di lavoro, in famiglia, ecc. A volte, la guerra di parole è seguita dal passaggio alle vie di fatto. E, in effetti, questa transizione si verifica talora anche nelle aule parlamentari e consiliari. Ma, a parte, la traduzione sul piano fisico della violenza verbale, resta il fatto che la guerra verbale esercitata nell’ambito del confronto politico, specie se protratta per lunghi periodi di tempo, produce un effetto di non scarso rilievo sul piano delle rappresentazioni mentali che si veicolano all’opinione pubblica: l’avversario diventa un nemico, e non solo un nemico della mia parte politica e del mio elettorato, ma della collettività tutta, perché è corrotto, perché è populista… In definitiva perché è antidemocratico.
E nel ritrarlo come nemico non ho nemmeno bisogno di argomentare più di tanto. Mi basta prendere spunto da qualche dato di realtà, per poi procedere con l’affondo ai danni dell’altro e, contestualmente, pervenire alla glorificazione della mia parte e della mia persona.
Si pensi, ad esempio, a quando nell’incontro del 2013, visibile in streaming tra Pierluigi Bersani ed Enrico Letta, del Partito Democratico, da un lato, e, dall’altro, Roberta Lombardi e Vito Crimi, del Movimento 5 Stelle, la Lombardi, dopo aver ascoltato l’introduzione di Bersani, dichiarò: «Io l’ho ascoltata e mi sembrava di stare a sentire una puntata di Ballarò, francamente. Sono vent’anni che noi ascoltiamo queste parole. E noi non incontriamo le parti sociali, perché noi siamo quelle parti sociali, quei cittadini, quei lavoratori, qui cassaintegrati, quegli studenti fuori sede, quei disoccupati che vivono tutti i giorni la realtà di questo Paese….». Per quanto il tono di voce fosse pacato, di fatto, la portavoce dei Cinque Stelle annullò ogni dignità politica dei suoi interlocutori e affermò come unica valevole quella del proprio Movimento. Che ne fosse conscia o meno, dalle sue parole poteva tranquillamente farsi derivare, senza forzature, una conclusione di questo tipo: «Solo il Movimento Cinque Stelle ha il diritto di rappresentare il popolo, perché è il popolo e, essendolo, lo rappresenta tutto (e per questo, ad esempio, non ha bisogno di stare a sentire le parti sociali)». Se in qualche misura veniva evocata dalle sue affermazioni, la celebre battuta di Alberto Sordi, nelle vesti del Marchese del Grillo, nell’omonimo film di Mario Monicelli («Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un c…o»), vi è una certa differenza, perché, quella era, appunto, una battuta, mentre le parole della Lombardi, e le altre assai simili spesso scritte e pronunciate da Beppe Grillo (ad esempio, il 17 maggio 2014, a Torino, nel Vinciamonoi Tour: «I primi giorni che andremo a governare questo Paese abbiamo il dovere e abbiamo il diritto di fare un processo pubblico a questa gente qua. Abbiamo la rete e gli faremo un processo pubblico. La Digos è tutta con noi la DIA è tutta con noi, i carabinieri sono con noi. Noi facciamo un appello: basta, non ce la fanno neanche più loro a scortare quella gente lì al supermercato o ai festival rock») e dai politici pentastellati, non erano proposte per fare ridere il pubblico cinematografico.
Analogamente, allorché si definisce il Movimento 5 Stelle un algoritmo, come fece Renzi, parlando con Ezio Mauro, nella sua prima intervista successiva al referendum costituzionale, il 17 gennaio (Renzi: “Sinistra, governo e banche: così riparto dai miei errori. Il M5s è solo un algoritmo”), si nega alla radice ogni legittimità a quell’organizzazione politica. Volontariamente o meno, per i portavoce, i militanti e gli elettori cinque stelle è come se si equiparasse l’organizzazione politica in cui credono e in cui si riconoscono ad una sorta di versione all’amatriciana della Spectre.
Anche in occasione dell’apertura della tre giorni al Lingotto di Torino, che segna l’inizio della sua campagna congressuale, Matteo Renzi ha affermato che «Il Pd in Italia è l’unica alternativa al doppio modello: partito azienda da una parte, partito algoritmo dall’altra. Chi spara contro questa comunità in questo momento indebolisce l’argine della tenuta democratica di questo Paese».
Berlusconi si è posto e ancora si pone, rispetto al Movimento 5 Stelle, su una linea non dissimile: nel presentare a Milano “l’Albero delle libertà”, il nome del programma di Forza Italia in vista delle prossime elezioni politiche, ha descritto il Movimento 5 Stelle come «governato da un dittatore» e «fatto di sottoposti, incapaci, di pauperisti e di giustizialisti».
È noto che il conflitto, qualsiasi sia l’ambito in cui si propone, scatena, quando ne siamo protagonisti, i nostri lati peggiori e che, si potrebbe anche dire, risveglia o slatentizza il “fascista” che dorme, sonnecchia o sta in silente attesa dentro di noi: interrompiamo l’interlocutore e non gli restituiamo la parola finché il fiato ce lo consente, ne denigriamo e distorciamo le opinioni, riformuliamo le sue tesi per ridicolizzarle, produciamo massime e sentenze lapidarie ma siamo avari di dimostrazioni (citando Beaumarchais, «provare che ho ragione significherebbe riconoscere che posso avere torto»), se concediamo attenzione ai suoi discorsi, lo facciamo non per ragionarvi su, ma per prepararci a ribattere efficacemente, per smentirli e smontarli e, quando l’escalation del conflitto si spinge oltre, arriviamo ad azzittire, insultare, minacciare, maltrattare…
Quando il conflitto si esaspera, l’altro, il nostro nemico, ci è insopportabile, vorremmo che sparisse dalla scena per sempre.
Il fatto, dunque, che dinamiche simili possano in qualche misura proporsi anche nell’ambito del confronto tra le forze politiche, non dovrebbe essere particolarmente sconvolgente. Infatti, non lo è. Fa drizzare le antenne, però, la tendenza, diffusa e trasversale, a rappresentare l’altro come il Male e come un pericolo per la democrazia, una minaccia per il bene dei cittadini perbene. Infatti, una volta che si sia ridotto l’avversario al ruolo di minoranza, a seguito di consultazioni elettorali, magari anche solo di quelle amministrative, potrebbe sorgere un quesito non trascurabile, da un certo punto di vista psicologico (o psicologico-politico): perché lasciare al Male la possibilità di riprendersi?
Provo ad immaginare, a seguito del precedente interrogativo, l’avvio di un botta e risposta di questo tipo: “Perché esiste la Costituzione”. “Ok, ma basta la carta costituzionale a frenare la spinta ad eliminare il Male, cioè il nemico della Costituzione stessa?”. “Sì, basta, ed è bastato. Ci sono stati, ad esempio, al governo, prima Berlusconi, che giudicava antidemocratici quelli di centrosinistra, e poi il centrosinistra, che giudicava antidemocratico il centrodestra. Inoltre, noi siamo quelli dalla parte del Bene e, in quanto tali, siamo capaci di sopportare l’esistenza del Male”. “Sarà, ma è un po’ poco. Infatti potrebbe essere fortina la tentazione di far fuori una volta per sempre il Male, cioè di levare dalla faccia della Terra, o almeno dalla faccia dell’Italia, le forze che sono democratiche solo a parole ma antidemocratiche di fatto, anche a costo di qualche provvisorio sacrificio delle prerogative costituzionali”. “In oltre settant’anni di Repubblica non è mai accaduto”. “Be’, più o meno, visto che la democrazia dell’alternanza, in realtà, si è avuta in Italia ben un lustro dopo la caduta del Muro di Berlino”.
Mi fermo qui, perché credo che il concetto sia chiaro.
Infine, può presentare risvolti antidemocratici un certo richiamo al consenso popolare: il popolo sta dalla mia parte, mi dico, magari perché ho vinto un’elezione o ha avuto una certa percentuale di voti, e, siccome il popolo ha sempre ragione, io ho ragione; io sono dalla parte della verità e, se tu mi contraddici, sei contro il popolo, sei contro la democrazia. Vox populi, però, non è vox dei: e se lo si vuol far passare, tale messaggio, allora, sì, che c’è un problema democratico. In tal caso, come notava tra gli altri Giovanni Sartori (Democrazia. Cosa è, 1993), vox populi può facilmente diventare vox diaboli.
Certamente, è normale che chi viene sostenuto dalla maggioranza degli elettori sia propenso a ringraziare coloro che hanno votato a suo favore, nonché ad ingraziarseli e a sollecitarli a tenere alta la guardia dalle lusinghe e dalle perorazioni dell’avversario sconfitto. Ma la democrazia è governo del popolo soltanto nel senso che è presso quello che il potere politico trova la fonte della legittimità, e non significa che il popolo ha sempre ragione ed è sempre dalla parte della verità. Anzi, la democrazia pone proprio il principio che la maggioranza degli aventi diritti al voto ha l’inalienabile diritto di sbagliare (Sartori, 1993).
Siccome tale diritto ce l’ho anche io, qui l’ho esercitato; spero, però, di averlo fatto senza offendere nessuno, avendo inteso, in realtà, porre soprattutto in rilievo quanto l’escalation conflittuale può portarci tutti, anche i politici, ad affermazioni assai lontane dai valori, dagli ideali e dai principi cui più siamo attaccati e in nome dei quali, magari, ci impegniamo ogni giorno, affrontando anche stress, fatiche e rinunce.
Alberto Quattrocolo
ma l’Italia che Renzi vuol rappresentare non è quella che è uscita dalle votazioni per Lotti e Minzolini e quanto tu hai espresso molto bene nel tuo post è l’esatto contrario
Gent.mo Umberto, grazie per il commento. Non sono sicuro, però, di averlo capito fino in fondo. Scusami. Ti spiacerebbe darmi una mano a capirlo meglio, aggiungendo qualcosa in più. Buona serata.