L’integrazione è un processo difficile da attuare, anche tra i partiti e al loro interno.

Sono molti e complessi i fenomeni che richiedono lo sviluppo di processi tesi all’integrazione. E la politica ha anche questa fondamentale funzione, che è complementare a quella di rappresentare particolari interessi, territori, ecc. Cioè, essa deve sapere non solo separare ma anche integrare. Tra le molte e difficili sfide che possono essere ricondotte al tema dell’integrazione vi sono quelle: tra una gestione attenta delle risorse pubbliche e le istanze del welfare, tra la situazione del Nord Italia e quella del Sud, tra lotta alla criminalità e rispetto delle garanzie, tra stranieri e italiani, ecc.

Pare, però, che vi siano problemi di integrazione anche all’interno della sfera strettamente politica. 

Infatti, mentre proseguono le polemiche e le manovre di scomposizione e ricomposizione nel campo della sinistra, in quello del centrodestra vi è un fermento in corso già da tempo, che ora pare subire una certa accelerazione, proprio in parallelo con le vicende del Partito Democratico e gli sviluppi che interessano le formazioni alla sua sinistra.

È del 23 febbraio un’intervista di David Allegranti a, Giovanni Toti, su Il Foglio, in cui il Presidente della Regione Liguria espone la sua idea di costituire «un partito nuovo: i Repubblicani», rispetto al quale propone che sia Silvio Berlusconi il federatore. L’idea sarebbe quella di «superare i vecchi partiti» e di riuscire così a «battere Beppe Grillo».

Intervistata da Lucia Annunziata nella trasmissione In ½ ora del 26 febbraio, Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, ha proposto un “listone” unico già per le elezioni amministrative. Su il Giornale Anna Maria Greco scrive al riguardo che «Giorgia Meloni veste gli abiti della mediatrice, soprattutto tra Fi e Lega, per riavvicinare le diverse anime del centrodestra (…) La Meloni vorrebbe superare gli attriti degli ultimi mesi tra le maggiori forze del fronte moderato, sorvola sulle ruvidezze di Matteo Salvini e sulle repliche irritate di Silvio Berlusconi in competizione per la leadership nazionale, insiste che resuscitare l’alleanza passata è ancora possibile. E che si potrebbe iniziare dal capoluogo ligure, con una lista comune “sui temi della sovranità”». Ma, come si  sottolinea in tale articolo, la Meloni esclude il nuovo polo sovranista di Gianni Alemanno e Francesco Storace, che, a suo avviso, “hanno fatto molte giravolte, non li considero alleabili a noi, non mi paiono molto affidabili nei contenuti”.

In realtà, la strada è fitta di ostacoli poiché la Lega, Fdi, Raffaele Fitto e Stefano Parisi ritengono essenziale svolgere le primarie l’8 aprile, ma Fi non è d’accordo.

L’impresa, perciò, non sembra delle più facili. Sul sito CENTRO-DESTRA.IT, già alcuni giorni fa, Giorgio La Porta, commentava le prese di posizione di Berlusconi, espresse su la Repubblica del 12 febbraio, e del segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, dando voce ad una certa dose di scetticismo.

Su il Giornale del 1° marzo, Francesco Cramer, proponendo un quadro riepilogativo di quanto sta accadendo sul lato destro dello scacchiere politico, esordisce nel suo articolo con le seguenti osservazioni: «Berlusconi non è per nulla pentito. È consapevole che il suo endorsement al governatore del Veneto Zaia ha irritato non poco Salvini. Ma tant’è. Ben gli sta. In fondo sono mesi che, ogni giorno, il leader del Carroccio non risparmia battute al vetriolo contro di lui. Il Cavaliere, quindi, non ha alcuna intenzione di cospargersi il capo di cenere. Non solo: l’ipotesi Zaia non è così peregrina perché rivela il suo reale pensiero che è più o meno il seguente: “I moderati sono la maggioranza del Paese ma non possono essere rappresentati da Salvini. È bravo in televisione ma è giovane, inesperto; e rischia di spaventare l’elettorato moderato. Non può essere lui il leader; serve un vero federatore”».

In realtà, il tema della costruzione di contenitori, più ampi di quelli rappresentati dai singoli partiti politici (si tratti di federazioni, alleanze, unioni, accordi di desistenza, ecc.) di destra, di centro e di sinistra assume un certo rilievo rispetto alle chiavi di letture proposte in questo blog.

Infatti, il tema della federazione proposta da Giovanni Toti, al pari dell’idea di “una proposta ampia e condivisa” di Giorgia Meloni, si staglia su di uno sfondo in cui gioca un ruolo forse non privo di spessore anche la peculiare dinamica circolare di conflitti e riconciliazioni che si è sviluppata, in taluni casi anche nel corso dei decenni tra gli attori di questo particolare scenario.

Infatti, alcune questioni di fondo sono quelle che assumono una qualche rilevanza dal punto di vista dell’elettorato. In particolare:

  • quali istanze e criteri ispirano la contrapposizione tra partiti che si collocano sullo stesso versante dello spettro politico (centro, destra e sinistra)?
  • quali istanze e criteri ispirano la costruzione di alleanze e schieramenti tra i partiti?

Verosimilmente occorrerebbero centinaia di pagine per rispondere compiutamente ad entrambe le questioni. Rispetto alla prima, ad esempio, e limitatamente al periodo della Seconda Repubblica, occorrerebbe prendere in esame una molteplicità notevole di vicissitudini ed esplorarne di volta in volta le ragioni particolari, a partire da quelle proposte pubblicamente a suo tempo dai protagonisti.

Supponiamo che le ragioni delle diverse contrapposizioni, divisioni, spesso, invero, accompagnate da scomuniche e delegittimazioni, verificatesi a destra, al centro e a sinistra, riguardassero esclusivamente divergenze sul piano dei valori, degli ideali e dei programmi per attuarli. Supponiamo, quindi, che ciascun soggetto politico, più che legittimamente, ritenesse di poter aspirare a più compiutamente realizzare il bene comune di quanto non intendesse o fosse in grado di fare il suo “parente” e che da ciò scaturissero le contrapposizioni all’interno della stessa parte dello spettro politico. Per fare un solo esempio, si pensi alla dialettica tra Rifondazione Comunista e PDS/DS degli anni Novanta o quella, sempre a sinistra, in corso oggi.

Tutto ciò rinviava, e ancora rinvia, a questioni identitarie di non poco conto per i singoli partiti e al tema del loro rapportarsi con i cittadini, o con una parte di questi, e di dare voce e rispondere ai loro interessi e aspirazioni, alle loro paure e preoccupazioni, alle loro sofferenze e frustrazioni, alle loro delusioni e rabbie, ecc.

Allora, per venire alla seconda questione, cosa si colloca alla base della costruzione di partnership tra partiti, prossimi, sul piano dell’appartenenza ad un settore dell’arco politico, ma che sono stati distanti a causa di relazioni di carattere conflittuale?

L’impressione, forse superficiale e banale, è che la logica sottesa alla costruzione di alleanze nei diversi schieramenti talune volte sia riassumibile nella seguente formula: “alla fine ciò che conta è contare”.

Come detto, è un’osservazione banale ma del tutto scevra da intenti giudicanti, poiché in democrazia, com’è ovvio, il numero conta e senza la maggioranza non si può governare. Tuttavia, talvolta, l’applicazione concreta di tale criterio produce la declinazione pratica della massima secondo la quale “il nemico del mio nemico è mio amico” e dell’altra per la quale “l’amico del mio nemico è mio nemico”.

Le situazioni nelle quali si arriva a dare corso a tali massime possono essere lette anche come segnali della difficoltà di integrazione tra forze politiche simili, ma soprattutto rilevano sul piano degli effetti. A tale riguardo, infatti, si può osservare come il fatto che il nemico del mio nemico diventi, perciò stesso, mio amico, importi spesso frequenti cambiamenti di toni e di contenuti nelle dichiarazioni politiche. Si pensi a quando Gianfranco Fini, a seguito della sua separazione dal PDL, corse il rischio di essere considerato come un “quasi compagno” dalla sinistra (e, ma con ben altro stato d’animo, dalla destra), e ancor prima a quanto era successo alla Lega, definita da D’Alema “una costola della sinistra”, dopo il “ribaltone” del ’94, che pose fine al primo governo presieduto da Berlusconi.

Talvolta, però, per la base di questo o di quel partito non è facile stare dietro alla logica secondo la quale il nemico del mio nemico è mio amico (o quasi). Spesso, una parte dell’elettorato si irrita e non si adegua facilmente alle alleanze proposte o stipulate dai vertici.

Consapevoli di ciò, i vertici dei partiti modificano le performances conflittuali precedenti, tentando di smussare gli spigoli presenti in precedenti dichiarazioni, di ridimensionare o diversamente interpretare gli elementi di differenziazione o contrapposizioni precedentemente denunciati. Ma non sempre ottengono il completo successo.

Infatti, non fu con particolare entusiasmo, ad esempio, che gli elettori e militanti di sinistra e di destra salutarono prima la formazione del governo D’Alema, sorto nel ’98 dopo la sfiducia a Romano Prodi (votata da Rifondazione Comunista) e le conseguenti dimissioni, grazie all’appoggio di Francesco Cossiga (UDR) e Rocco Buttiglione (CDU), poi dei governi Monti e Letta, sostenuti entrambi da PD e PDL, e dei successivi governi presieduti da Renzi e Gentiloni basati, soprattutto sull’intesa tra PD e NCD; né con intensa gioia molti tra gli elettori e i militanti Cinque Stelle accolsero l’idea che il loro movimento confluisse nell’ALDE (Alleanza dei Democratici e dei liberali per l’Europa) presso l’Europarlamento.

Le ragioni delle reazioni indignate di una parte dell’elettorato possono, allora, essere anche considerate dal punto di vista delle dinamiche conflittuali, e soprattutto di quelle in cui si inseriscono gli accordi sopra citati a titolo esemplificativo. Infatti, sia nel caso degli accordi del PD con parti della destra o, addirittura, come avvenne nel corso dei governi Dini, Monti e Letta, con il nemico di sempre per eccellenza, Silvio Berlusconi, sia nel caso del patto poi risolto tra M5S e ALDE, l’indignazione di porzioni significative dei militanti e degli elettori sono anche suscettibili di essere lette come conseguenze di rappresentazioni reciproche demonizzanti di durata pluriennale (ultraventennale, nel caso del rapporto tra la sinistra e Berlusconi). In parole semplici, per l’elettore il vissuto può essere il seguente: se, caro leader del mio partito/movimento, mi hai trasmesso il tuo conflitto con X, sommergendomi di messaggi polemici verso tale soggetto, tanto da trasformare la mia avversione politica per la sua proposta in qualcosa di più profondo, facendomelo percepire come repellente, o addirittura come un male da estirpare per la democrazia, e oggi tu, grazie alla frequentazione ravvicinata nelle sedi istituzionali e in virtù di una necessità pratica di governo, hai messo da parte tale conflitto con il suddetto X, devi considerare che io tale svolta non l’ho compiuta. Anzi, mi fa sentire tradito il fatto che tu sia disposto ad accordarti con colui che, come mi hai ripetutamente spiegato, è il mio peggior nemico, e ciò mi è ancor più insopportabile, pensando a quei valori che mi vedevano al tuo fianco nella lotta contro il diabolico X.

Naturalmente, gli esponenti politici sono consapevoli di tali eventuali reazioni o di altre simili, nel loro elettorato, e ne tengono conto, talora barcamenandosi con fatica tra opposte istanze, ma così faticando non poco a conseguire quell’integrazione che gioverebbe a promuovere le loro proposte di fondo. Si veda a questo proposito le difficoltà che interessano le forze a sinistra del PD, incluso il nuovo soggetto, “Articolo 1 – Movimento democratici e progressisti” (DP),  sorto a seguito delle scissione avvenuta nel PD.

In conclusione, uno degli elementi di maggiore ostacolo al processo di integrazione in ambito culturale, ad esempio, è proprio costituito dalla difficoltà di rapportarsi all’altro, rispettandone l’alterità e senza essere condizionati dagli stereotipi e dai pregiudizi, dei quali non si è per lo più affatto consapevoli, ritenendoli anzi incontestabili dati di realtà, e dalle aspettative negative, che finiscono con l’auto-avverarsi. Ebbene si direbbe che tali difficoltà siano presenti anche nei rapporti tra le forze politiche o, almeno, che le condizionino, specie allorché, in virtù dell’escalation del conflitto politico da esse sviluppato in precedenza con altri partiti, temono di perdere la fiducia dei loro sostenitori nel momento in cui si propongono di venire a patti proprio con tali partiti, e con ciò di fatto chiedono ai loro elettori e militanti di superarne la visione pregiudiziale e stereotipica precedentemente nutrita.

Alberto Quattrocolo

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