Scissioni e separazioni, fuoriuscite e difficoltà di integrazione nei partiti e negli schieramenti. Come nelle separazioni coniugali c’è un problema di patti espliciti ed impliciti nel PD?

Scrive Massimo Recalcati su La Repubblica di oggi «che la scissione del Pd non ha il carattere improvviso del trauma, quanto piuttosto, come spesso accade nelle separazioni della vita individuale e di quella collettiva, quello di un lento logoramento che non è stato trattato nei tempi giusti. La scissione in corso non è il prodotto di una frattura violenta, ma di un processo che ha origini lontane legate addirittura, per alcuni, all’atto stesso di fondazione del partito diviso in due anime tra loro culturalmente inconciliabili: quella cattolica sociale e quella socialista-comunista».

Poco più avanti aggiunge: «In realtà la psicoanalisi insegna a leggere il dramma della separazione anche da tutt’altra prospettiva. Per esempio, quella dell’impossibilità della separazione. Questo vale per i legami familiari, quelli amorosi e anche quelli gruppali e istituzionali. In molti casi restare insieme, non separarsi, è il vero problema che può ostacolare un progetto di crescita e di autonomia. Il legame che si è leso, che ha perso forza generativa, si trasforma allora in un laccio mortale. Io credo, come molti elettori del Pd, che anche la separazione in corso può non essere solo una sciagura, una maledizione da tamponare ad ogni costo, ma diventare un’occasione (certamente dolorosa e angosciante) per ritrovare le ragioni di una convivenza possibile e non avvelenata da continue aggressioni intestine. Se per un verso l’azione politica degna di questo nome mira sempre alla mediazione tra le parti, essa dà prova di maturità anche quando deve prendere atto di una differenza che è divenuta insormontabile».

Le considerazioni di Recalcati rivestono particolare interesse nella prospettiva di questo blog, perché implicitamente riconoscono il conflitto come una condizione naturale, perché si soffermano sul tema del legame conflittuale e, infine, perché propongono una certa nozione di mediazione: «Laddove l’opera di mediazione (che entrambi i fronti rivendicano, in questo caso specifico, di avere esercitato) incontra una barriera, un limite invalicabile, cosa resta da fare?»

In realtà, se intendiamo la mediazione come processo di gestione, anzi di aiuto alla gestione del conflitto, come, ad esempio, accade per la mediazione familiare, il permanere di un legame conflittuale non segna necessariamente il fallimento definitivo dell’attività mediativa, ma ne costituisce il presupposto, la condizione che ne fa apparire probabile l’utilità della sua reale attivazione o della sua prosecuzione, in presenza di un bisogno riconosciuto come tale da almeno qualcuna delle parti in gioco. La mediazione (in termini di intervento professionale svolto da un terzo), infatti, è anche intesa e operativamente declinata proprio come strumento per la gestione di un conflitto che le parti fino a quel momento non sono riuscite a governare. Si propone perciò la mediazione familiare proprio in relazione a vicende separative che interessano coppie che mantengono, sì, un legame, ma di tipo conflittuale.

Quel che sta accadendo nel campo del PD e della sinistra da alcune settimane, sotto questo profilo, non pare troppo diverso da quanto accaduto in più di una fase in seno al centrodestra: si pensi, ad esempio, alle separazioni tra Berlusconi, Casini e Fini e a quando si verificò il passaggio dal Popolo della Libertà (che aveva messo insieme diverse anime del centro destra, tra cui Forza Italia e Alleanza Nazionale) a Forza Italia con la nascita del Nuovo Centro Destra. E, se nel campo del centro destra, pur in presenza di processi e tentativi di integrazione delle diverse forze e prospettive, rimangono per ora presenti non pochi distinguo e non trascurabili distanze, per quanto riguarda il Movimento Cinque Stelle, che sembra essere attraversato da tensioni paragonabili a quelle in corso nel PD, è facile rammentare che anch’esso ha vissuto separazioni di rilievo: quella che ha coinvolto il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, costituisce soltanto l’esempio più noto.

Tornando al caso del PD, preso in esame dal prof. Massimo Recalcati, per ora si direbbe che l’interruzione della «convivenza forzata», per usare le parole dello psicoanalista, rischi ancora «di alimentare una pulsione di morte», che gli attori non abbiano ancora cessato la «ruminazione su se stessi» e che la differenza tra «scissione esterna» e «scissione interna» sia ancora di là da venire.

Quanta fretta hai!, si potrebbe osservare, è appena successo!

In effetti, è vero, è appena successo. E quindi molte delle parole pronunciate ieri da Enrico Rossi, Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, ad esempio, ospiti di tre diverse trasmissioni andate in onda in prima serata (Rossi era ospite di Lilli Gruber ad Otto e Mezzo, D’Alema di Bianca Berlinguer a Carta bianca, Bersani di Giovanni Floris su Di martedì), alcune tra le frasi scritte da Renzi sul suo Blog ieri e le affermazioni pronunciate da Michele Emiliano all’ultima Direzione del PD, andrebbero interpretate come influenzate dalla recente esperienza stressante e dolorosa della scissione (non verificatasi poi nel caso del presidente della Regione Puglia).

Tuttavia, non sarebbe del tutto infondata l’impressione che tale condizione di conflittualità permanente sia in realtà suscettibile di permanere a lungo, anche molto a lungo, e di procurare ricadute di non poco conto sulla base.

Infatti: riguardo agli “strappi” tra i leader, può essere di qualche utilità svolgere un parallelo con le separazioni coniugali?

Forse. Proviamoci, allora.

Bohannan (1973) e Kaslow (1981) rispetto alla separazione della coppia prevedevano alcuni stadi da attraversare. Bohannan definiva “divorzio emotivo” il primo stadio. E forse si può rinvenire qualcosa di simile anche nelle vicende interne ai partiti. In tale fase, infatti, vi è un’oscillazione tra aggressività e riappacificazione che si propone all’interno di una relazione deteriorata e che sfocia poi nella cronicizzazione del conflitto, cioè in una sorta di punto di non ritorno, da cui matura la certezza dell’impossibilità di restare insieme, almeno in capo ad un membro della coppia. Kaslow a tale riguardo considera come prima fase quella dell’alienazione: si profilano incompatibilità insanabili e si verifica un allontanamento progressivo, che poi sfocerà nella separazione anche fisica e legale, implicando una positiva elaborazione di sentimenti di perdita, delusione, ecc., che però, specie nella fase del contenzioso legale, non sempre avviene, dando luogo, invece, al dolore, alla rabbia, alla denigrazione e svalutazione dell’altro.

Guardando a ciò che sta accadendo nel PD, gli atteggiamenti di denigrazione e svalutazione reciproci non sono né infrequenti né difficili da rilevare, sebbene coloro che li mettono atto possano non considerarli come tali, per risentirsene, invece, quando ne sono fatti oggetto. Si pensi al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, che in relazione all’Assemblea del PD di domenica scorsa ha parlato di bastonatura organizzata in danno suo e degli altri (tra cui Emiliano, Speranza, Bersani, D’Alema, si può supporre), e che in un post della sua pagina Fb scrive: «Bene…piano piano tutto si chiarisce. Lo scontro sarà tra Renzi e Emiliano. Uno spettacolo senza contenuti, una giostra populista, né di destra né di sinistra. Chi accetta questo gioco non può rappresentare gli interessi dei ceti popolari e si destina all’irrilevanza. Ecco perché io ne sto fuori e mi impegno a costruire una forza politica nuova, seria, coerente, non subalterna, autenticamente di sinistra».

Oppure alla ancora più recente polemica tra Roberto Giachetti e Massimo D’Alema.

Per ora si può dire che, metaforicamente parlando, dunque, si è ben lontani dal “divorzio psichico” di cui parla Bohannan. Cioè, la dialettica tra fuoriusciti e maggioranza interna del PD parrebbe essere tutt’altro che prossima alla fase in cui si supera il conflitto, rielaborando il cambiamento intervenuto nei rapporti: una fase sostanzialmente coincidente con una particolare declinazione del compimento del processo di separazione richiamato da Recalcati e che si traduce nell’approdo alla capacità di accordarsi sul prosieguo dei rapporti mutati, comprendendo le cause del fallimento del precedente rapporto, assumendosene le responsabilità e smettendo di attribuirne la colpa alla controparte.

Del resto anche i rapporti tra il Movimento Cinque Stelle e suoi ex membri paiono spesso caratterizzato da un’incompleta separazione, essendo rintracciabili comportamenti e comunicazioni permeate da collera, colpevolizzazioni, ecc. Si direbbe fuor di dubbio, però, che la dimensione del “legame disperante” (Cigoli F. – Galimberti C. – Mombelli M., 1988) sia maggiormente ravvisabile nel caso del PD, dove collera e sensi di colpa (provati o instillati da altri), speranza e rancore paiono circolare con particolare intensità nella fase attuale.

Se queste sono considerazioni, anche un po’ ovvie, sugli aspetti esteriori, quelli cioè riguardanti i comportamenti manifesti, più interessanti, sempre in termini di parallelismo tra divorzi e scissioni o separazioni nei partiti, sono i ragionamenti inerenti il tipo di legame, e ancor prima quelli sulla natura del contratto, su cui si fondano la costruzione di un partito o di un movimento e la successiva adesione ad esso.

Sempre citando Cigoli (Scabini E. – Cigoli V., 2000), si potrebbe supporre che anche in tali casi, come nella relazione coniugale, vi sia l’incastro fluido e dinamico tra un patto esplicito e un patto implicito. Il primo è la dichiarazione di impegno reciproco formulata esplicitamente e che è formalizzata per iscritto. Tale patto può essere stipulato da una o da entrambe le parti solo in termini formali, senza essere in realtà sentito o, all’opposto, può essere interiorizzato perché fortemente voluto dai sottoscrittori. Può anche essere voluto sul momento, per effetto di un’emozione, però, di carattere meramente transitorio: una sorta d’infatuazione.

Nel caso di molti fuorusciti dal Movimento Cinque Stelle, come da Forza Italia o, adesso, dal PD, è alquanto probabile che il patto esplicito fosse particolarmente sentito e interiorizzato dagli interessati. Tuttavia, vi è anche chi come Massimo Cacciari, anch’egli ospite della Gruber a Otto e Mezzo del 2 febbraio, arriva a obiettare a quanto espresso da Piero Fassino, intervistato da Giancluca Luzi su La Repubblica, che c’è ben poco di incomprensibile nella scissione del PD (che Cacciari ribattezza “frantumazione”), essendo stata la sua fondazione, a parer suo, una «fusione a freddo» tra componenti fondamentalmente inconciliabili. Impiegando la terminologia di Cigoli, la valutazione di Cacciari, dunque, potrebbe essere riformulata come constatazione di un partito sorto di un patto meramente formale, quindi fragile.

Però, il patto esplicito nella coppia si accompagna con il “patto implicito”. E questo si colloca a cavallo tra il conscio e l’inconscio e rappresenta i bisogni, anche psicologici, i desideri, gli interessi, le paure, le speranze che i sottoscrittori del patto esplicito mettono nella relazione, aspettandosi di trovarvi risposte appaganti. Nella vita coniugale il patto implicito può adattarsi ai diversi cambiamenti cui la coppia va incontro, venendo rilanciato e riformulato, in base alle variazioni nei bisogni e nelle attese, alle crisi, ai nuovi compiti, alle sfide e così via, che la vita propone.

Ma non sempre ciò accade, talora in luogo dell’intesa tra i partner si si sviluppa l’incomprensione, poi la frustrazione, la delusione, l’amarezza, la rabbia… Ora, ammesso che una sorta di patto implicito sia ravvisabile anche nel partito o nel movimento politico, è chiaro che l’andamento di questo può ripercuotersi significativamente sulla tenuta del patto esplicito.

In sintesi, è possibile che ciò a cui si sta assistendo oggi nel PD – e ieri, in modi diversi, in altri partiti – sia anche riconducibile ad un mancato funzionamento del cosiddetto patto implicito. Cioè, sui ruoli, poteri, funzioni, regole, si è stati pressoché tutti d’accordo, però, sul piano delle spinte ideali e motivazionali, sul piano dei bisogni e degli interessi, sul piano dei sentimenti nutriti l’uno verso l’altro, il patto implicito non ha più funzionato.

Non ha più funzionato, in realtà, perché non ha mai funzionato, essendo il PD in realtà solo il frutto di una necessità del momento, una reazione alla realtà in atto – quindi, una costruzione politica fondata su di un patto esplicito non profondamente voluto e interiorizzato dai suoi sottoscrittori – oppure, nel dare luogo alla conflittualità attuale ha avuto una certa influenza il patto inconscio?

Stando al livello di tensione e alla reattività attualmente in atto, verrebbe da supporre che il patto implicito abbia svolto un ruolo non da poco nel suo non riuscito processo di adattamento: è difficile, per fare un solo esempio, sospettare Pierluigi Bersani, segretario del PD prima di Matteo Renzi, di essere stato un sottoscrittore poco convinto del patto costitutivo.

Perciò, non è del tutto campata in aria l’ipotesi che quanto accade nelle coppie quando il patto implicito non funziona, si sia anche verificato nel PD. Dopo aver sperimentato una fase caratterizzata dal rispetto solo formale dei ruoli e delle norme (il patto esplicito), mentre in realtà, si cercava di approfittare della altrui debolezza del momento ai fini dell’esautorazione di chi era avvertito come partner-compagno deludente, sgradito o sgradevole, si è approdati ad una fase di conflittualità aperta (in particolare durante la campagna sul referendum costituzionale), per poi arrivare a deprezzare il patto esplicito stesso, in un duplice senso: in certi casi, rimproverandosi reciprocamente di avervi aderito solo formalmente, ma tradendone o travisandone lo spirito fin dall’inizio; in altri meno frequenti casi, contestando il valore, la qualità stessa del partito che su quel patto esplicito è stato costituito.

Tutto ciò non lascia presagire una breve durata del carattere conflittuale della separazione, anzi, francamente lascia intravvedere un’estensione della mappa dei conflitti in corso.

Infatti, non è tanto la ri-articolazione del quadro politico ad essere interessante per questo Blog, quanto lo sviluppo di una nuova area conflittuale, che pare caratterizzarsi per un’escalation di rilevante intensità, caratterizzata com’è da delegittimazioni e da squalificazioni che passano continuamente dal piano personale (perciò, ad esempio, cacciando Renzi, si risolverebbe tutto) al piano istituzionale (deprezzamento degli altrui progetti e contenitori politici).

Insomma, si direbbe che i toni e le forme delle definizioni svalutanti, riservate fin qui dagli esponenti PD ai contenuti e ai contenitori politici dei Cinque Stelle e della Lega Nord, un po’ meno all’indirizzo di Forza Italia, siano stati applicati dapprima con qualche moderazione agli scambi comunicativi interni, poi senza più alcuna moderazione, ed ora danno l’impressione di essere diventati la sostanza della comunicazione tra dem ed ex-dem.

Il che non è privo di ripercussioni aventi una portata ben più ampia di quella delle ricadute sugli umori e sui rapporti personali degli esponenti politici di sinistra e di centrosinistra.

Tuttavia, come afferma Fassino nell’intervista citata, nulla è irreparabile. E sussiste sempre la possibilità  di fermare la spirale distruttiva e autodistruttiva di un conflitto politico, che (come già sostenuto in un altro post sul conflitto nel PD) invece di arricchire il dibattito  lo immiserisce, facendo perdere di credibilità a tutti i suoi protagonisti, alle loro idee e ai loro programmi.

Tra le opzioni possibili si può anche annoverare l’impiego delle risorse proprie del Political Conflict Management. E, in realtà, nel post precedente a questo, pur non esplicitandolo, proprio a tale possibilità si faceva indiretto riferimento.

Alberto Quattrocolo

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