Il conflitto in corso nel PD potrebbe essere l’occasione per una trasformazione della qualità del dibattito politico

La Direzione del PD di lunedì 13 febbraio, visibile in streaming su l’Unità TV è stata variamente commentata, ma in generale, le diverse chiavi di lettura la propongono come contrassegnata dall’emersione di una sempre più prossima possibilità di scissione. Lo stessa dicasi  per l’assemblea del 19 febbraio, anch’essa seguita resa visibile in streaming dall’Unità TV .

Riguardo alle vicende interne al Partito Democratico non pochi già la settimana scorsa avevano osservato che nel giorno di San Valentino era ben poco l’amore circolante tra i dem.

Marco Travaglio, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, aveva affermato che il livello di conflitto interno al partito era indicativo di una incapacità politica dei suoi esponenti o addirittura di una volontà di rottura del contenitore-partito, che egli imputa in particolare a Matteo Renzi.

Anche Gianni Cuperlo ospite del videoforum di Repubblica, esprimeva un punto di vista non troppo dissimile nel sostenere che «la responsabilità fondamentale è sempre di chi regge il timone» che, sì, deve avere a cuore le sorti del Paese ma «anche la tenuta dell’equipaggio che sta su quella imbarcazione». E nello stesso videforum aggiungeva: «Mi auguro, io ci provo, che ci sia un sussulto di coscienza di chi ha la responsabilità primaria dell’esito, Renzi in primis. Questo fuorionda è indicativo della consapevolezza della gravità della cosa anche tra i renziani». Com’è noto, «il fuorionda» cui si riferiva Cuperlo è quello del ministro Graziano Del Rio.

Sulle tensioni interne al PD, con toni e con una prospettiva molto diverse da quelle espresse da Marco Travaglio, era intervenuto anche Veltroni, intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere. All’interno di questo blog risultano interessanti alcune sue affermazioni, non tanto nelle parti in cui esprime le sue opinioni sulla gestione renziana del Governo del Paese e del PD («Ha fatto molte cose positive, dalle unioni civili all’elezione di Mattarella… Bisogna riconoscere a Renzi di aver dato una scossa a un Paese fermo da troppo tempo. Quello che è mancato è il disegno d’insieme. La capacità di dire all’Italia dove si andava e sulla base di quali sistema di valori. La guida di un Paese non è mai solitaria; è la guida di una comunità. Tagliar fuori tutte le forme di rappresentanza sociale, dall’associazione magistrati ai sindacati, e presentarle come nemiche, è stato un errore. Ho sempre in mente il modo in cui Ciampi e Prodi affrontarono la politica dei redditi e l’entrata in Europa. Renzi deve riconoscere che la politica è fatica, costruzione, mediazione»), né quelle in cui critica un atteggiamento connotato da un problema di memoria («Non mi piace la damnatio memoriae, è il grande difetto di un Paese che ha l’8 settembre come dna: prima tutti aedi entusiasti, poi tutti contrari»), ma soprattutto nella parte in cui schiettamente si propone come osservatore partecipe, interessato e anche affettivamente coinvolto. Infatti, se dapprima afferma di voler  «guardare alle cose della politica con lo sguardo che suggeriva Vittorio Foa: compassione, compartecipazione, senza invadenza», poco dopo aggiunge: «voglio bene a questa comunità, la vorrei vedere unita e vincente».

Lasciamo perdere l’aggettivo “vincente”, che qui non ci può interessare, e soffermiamoci su quello precedente e sul sostantivo cui si riferisce: “comunità unita”.

Una comunità, com’è noto, soprattutto se è una comunità attiva, non può essere priva di conflitti. Infatti, una comunità che non discute non produce alcunché. Si discute, si litiga anche, proprio perché si cerca di produrre, di fare qualcosa, anzi di fare meglio e di fare del proprio meglio. Allora si dibattono i mezzi e gli obiettivi, si mettono in discussione i compiti e le funzioni, si giudicano e discutono le capacità di ideazione, progettazione programmazione, gestione ed esecuzione dei membri del gruppo. E si discutono anche le capacità relazionali connesse a quelle. Il tutto in un’ottica di assunzione di corresponsabilità verso la comunità di appartenenza.

La comunità unita di cui parlava Walter Veltroni con Cazzullo non è, dunque, una comunità che non produce e non discute, ma una comunità che fa o dovrebbe fare entrambe le cose all’interno di un perimetro di garanzia per tutti. Quale? Quello nel quale si pone una certa attenzione alla qualità della comunicazione e, pertanto, in correlazione con essa, alle rappresentazioni reciproche. Infatti, nella citata intervista afferma non solo che le posizioni di D’Alema «avessero nel PD la giusta cittadinanza», ma, aggiunge, «in clima diverso». E il clima diverso, il perimetro di garanzia per tutti cui allude è proprio quello caratterizzato poco prima e poco dopo. Cioè, a livello di rapporti interpersonali nella misura in cui sono intra-gruppali e politici, auspica da un lato, che Renzi non sia considerato «l’avversario principale»; dall’altro che Renzi dimostri «maggiore capacità di inclusione e accoglienza delle diversità inevitabili in un grande partito». Mentre, rispetto alla qualità della comunicazione ricorda che: «Le parole contano, nella politica come nella vita. E le parole che ci si incrocia, da entrambe le parti, non sono quelle che si possono usare restando nello stesso partito. Si dà un’idea di disarmonia, di conflitto, di scontro anche personale che non aiuta».

In effetti, l’ultima frase, presumibilmente, non va interpretata alla lettera, poiché è assai raro, se non forse impossibile, che non solo un conflitto organizzativo ma un conflitto in generale, se combattuto da esseri umani, sia esente da risvolti personali.

Peraltro, è lecito supporre che la prospettiva di Veltroni risenta, di un aspetto personale, cioè della forza del legame che egli sente per il Partito Democratico («Quando leggo al fianco della parola Pd la parola scissione mi sale una grande angoscia»), tanto che le sue dichiarazioni prendono anche la forma dell’appello accorato («Voglio cogliere l’occasione della posizione in cui mi trovo, di uno che guarda e vive le cose della politica con il cuore, senza parteciparvi e senza avere nulla da chiedere, per rivolgere a tutti i dirigenti del Pd una richiesta: fermatevi un minuto prima che questo avvenga»). Del resto tale è il tono e il contenuto anche dell’intervento di Veltroni all’Assemblea del Pd del 19 dicembre.

Ma è interessante un secondo aspetto del ragionamento svolta da Veltroni con Cazzullo (e poi da lui riproposto in sede assembleare): la connessione tra le tensioni interne e l’esterno. E, a suo giudizio (ed è oggettivamente difficile contraddirlo), tale connessione è tutt’altro che inedita: «Nella storia della sinistra, quasi sempre nelle fasi di crisi si è pensato che la cosa migliore fosse separarsi; e queste separazioni sono sempre nel dichiarato nome dell’unità».

Quel che, dunque, si vuole evidenziare, a questo riguardo è, da un lato, la frequente permeabilità tra i rapporti interni ad una comunità (si tratti di un’associazione, di un’equipe di professionisti, di un reparto di un’organizzazione sanitaria o di un partito) e le sue difficoltà relazionali con l’esterno (i suoi utenti, clienti, pazienti oppure, nel caso di un partito, i suoi elettori e militanti e, in generale, i cittadini del Paese).

Infatti, non sempre, ma spesso, le criticità incontrate da un gruppo nella gestione dei suoi rapporti con gli interlocutori esterni, si traducono in una dialettica interna, sconfinante in conflitto anche esasperato e  lacerante. Così, ad esempio, un’equipe di operatori socio sanitari di una casa di cura può finire con l’adottare dinamiche conflittuali interne al gruppo di lavoro assai simili a quelle sperimentate con gli ospiti e i loro famigliari.

Una prospettiva non tanto dissimile è quella fatta propria da Francesco Bei su La Stampa del 16 febbraio (“L’irresistibile istinto di dividersi”): «C’è forse bisogno della psicoanalisi più che della scienza politica per comprendere come una classe dirigente di persone stia allegramente correndo incontro al suicidio collettivo». Nelle righe seguenti, Bei propone l’interessante paragone con una fabbrica di automobili i cui manager cominciassero a dire ai potenziali acquirenti che il prodotto è scadente, mentre le auto della concorrenza sono valide e si rimproverassero in pubblico l’un l’altro la colpa del deperimento della qualità delle auto messe in produzione dalla loro fabbrica.

Parrebbe, dunque, una situazione paradossale, ma non è detto che sia proprio così. E, d’altronde, da sempre, nelle organizzazioni (si tratti di un’azienda, di una struttura amministrativa, di un esercito, di un’organizzazione di volontariato, di un’organizzazione sindacale o politica, ecc.), le contestazioni rivolte al gruppo dirigente si traducono, in ultima analisi, in una messa in discussione della sua gestione dell’ente sul piano della qualità dei prodotti o dei servizi o delle iniziative che quell’ente è deputato a svolgere.

Succede, quindi, che all’interno del gruppo di lavoro si affaccino comportamenti conflittuali, mutuati dal rapporto con l’esterno, di portata particolarmente dannosa rispetto al senso di appartenenza e allo spirito di squadra. Così, tornando all’esempio della casa di cura, un operatore, per l’invidia (distruttiva) nutrita verso un collega, capace di intrattenere un buon rapporto con un ospite con cui egli non riesce ad interagire senza essere aggredito verbalmente o fisicamente, può arrivare a far circolare il sospetto che quell’operatore abbia dei riguardi eccessivi verso il malato a discapito degli altri. E simili comportamenti, dettati da rivalità e invidie, a seguito di un’accurata osservazione, si possono rivelare analoghi agli attacchi al legame tra operatori e ospiti portati da alcuni parenti, che proiettano sui primi i loro vissuti di figli o mariti, di mogli o fratelli comprensibilmente angosciati e addolorati, ma anche altrettanto comprensibilmente arrabbiati con il loro caro che magari non li riconosce più o li tratta male o li fa involontariamente sentire in colpa, e, invece, va d’amore e d’accordo con l’OSS di turno.

Non si creda che in tali situazioni conflittuali tra colleghi non ci si richiami a principi e valori di alto e nobile profilo. Non tanto per nascondere agli occhi degli altri il proprio livore, quanto perché è un aspetto intrinseco del conflitto che ciascun attore si rappresenti come colui che è dalla parte della ragione e, nel farlo, si appelli, anche in buona fede, a dei contenuti di alto livello morale o etico, ritenendoli assolutamente pertinenti e spesso potendo contare su di una buon aggancio alla realtà. Così, all’interno della casa di cura tutte le parti in conflitto propongono come argomento a favore delle proprie posizioni quello di voler perseguire la miglior tutela e assistenza del malato e tutte rinfacciano alla controparte il tradimento di tale nobile scopo.

Analogamente, si potrebbe supporre, quando un esponente del PD, quale ad esempio, Pierluigi Bersani, afferma che la scissione è già avvenuta nella base, forse, per i suoi detrattori lo fa per addossare la colpa di tale imminente frattura alla leadership attuale, ma altrettanto probabilmente propone un argomento del quale è convinto, ricco di implicazioni di altissimo profilo e contenenti a sua volta un’accusa alla segreteria di tradimento dei fini fondativi e naturali del PD. In tal modo, però, con simili contestazioni, si corre il rischio di assorbire all’interno lo scontento percepito nei rapporti con l’elettorato e con gli iscritti, invece di elaborarlo e trasformarlo in una dialettica interna costruttiva, che aspiri a mutare le cose. Cioè: si spendono energie nella ricerca e nella demonizzazione del colpevole, dando luogo ad  atteggiamenti antitetici e ostativi alla realizzazione di una vera Root cause analysis (RCA); non si assume un atteggiamento informato alla presunzione della buona fede nelle ragioni dell’altro, pur ritenendole eventualmente molto errate, ma se ne assume uno di colpevolizzazione non soltanto degli atti, ma ancor di più delle intenzioni, della cultura e della mentalità che avrebbero plasmato quegli atti. In altre parole, in casi simili, invece di rinvenire “il nocciolo di verità contenuto nell’errore”, cui si riferiva Papa Luciani, e di collaborare in amicizia, aiutando a pensare e superare insieme, sia pur in ruoli e con responsabilità diversi, le cause dello scontento diffuso all’esterno, lo si agisce all’interno.

Ciò, nella dinamica conflittuale, non solo consente di acquisire un po’ di credibilità, agli occhi altrui e ai propri, nel respingere l’accusa di agire per meri rancori e inconfessabili insofferenze personali, ma permette anche di avere argomenti a supporto della delegittimazione dell’altro.

Sulla stessa falsa riga, la leadership del partito costruisce tutte le premesse per rilanciare al proprio interno nei rapporti con l’opposizione, una dinamica di mancato riconoscimento e di mancato ascolto, se sminuisce costantemente la portata delle preoccupazioni, cui dà voce la minoranza, in ordine ai rapporti deteriorati con la base e alla crescente mancanza di fiducia di quello che si ritiene dovrebbe essere l’elettorato di riferimento, a prescindere dal fine per cui quella minoranza leva le sue contestazioni. In talo modo, infatti, inavvertitamente o meno la maggioranza fornisce argomenti alla minoranza che, sentendosi vittima di mancato ascolto all’interno del partito, può asserire che il suo farsi interprete del malcontento popolare è vero e  sincero, ma frustrato dall’indisponibilità ad ascoltare del vertice del partito e i cittadini.

Infatti, ove si desse un simile atteggiamento del gruppo dirigente dell’organizzazione, ne deriverebbe una franca difficoltà per gli altri, soprattutto per la minoranza di un ente di tipo democratico, di concorrere in maniera collaborativa, leale e costruttiva al miglioramento della gestione complessiva. Infatti, la percezione di una mancata legittimazione di sé in quanto voce critica, può, dapprima, scoraggiare dal partecipare costruttivamente e incoraggiare a mugugnare e, poi, indurre a ribellarsi apertamente. Gianni Cuperlo, ad esempio, ha usato la parola “umiliazione” sia prima che durante l’assemblea del PD, nel descrivere quella che, a suo parere, è stata la modalità di rapportarsi del vertice del partito con gli interlocutori interni dissenzienti su alcuni provvedimenti legislativi (quali, tra gli altri il Jobs Act o la legge sulla “buona scuola”).

Lo stress sul fronte esterno, in simili casi, pertanto, è suscettibile di comunicarsi all’interno, anche attraverso queste dinamiche. Ma può naturalmente accadere anche l’opposto: il conflitto interno ad un’organizzazione può dare luogo a performances produttive o a modalità relazionali con la clientela/utenza tali da dare luogo a insoddisfazioni e reclami. Questi ultimi possono incrementare il livello di contrasti interni, che a loro volta si ripercuotono sui rapporti con l’esterno, dando luogo ad un circolo vizioso all’insegna della sfiducia sui vari fronti: quella dei clienti/utenti/pazienti, verso l’ente, e quella degli operatori, nutrita l’uno per l’altro e verso l’organizzazione. Numerosi, infatti, sono gli studi sui costi economici del malessere organizzativo che si producono anche sotto tale riguardo.

Non v’è ragione, pertanto, per non accettare che analoghi fenomeni possano interessare i partiti. E, rispetto al Partito Democratico, si può supporre che non senza fondamento sarebbero le tesi di chi ritenesse la sua conflittualità interna come originata o acuita da difficoltà di rapporto con l’esterno. Con pochi cenni, che lasciano intendere una più complessa analisi, e con rimandi all’esperienza storica della sinistra italiana, questo aspetto parrebbe essere preso in considerazione da Veltroni nell’intervista con Aldo Cazzullo e in maniera più elaborata nel suo intervento all’Assemblea del PD.

Ma neppure infondate potrebbero essere le ipotesi circa una difficoltà di relazione con l’elettorato derivante da una precedente, elevata e diffusa, conflittualità interna. Quante volte, infatti, nella recente storia del centrodestra e del centrosinistra tale condizione si è avverata? E non è anche indicativo di ciò quanto rilevava il sondaggio dell’Istituto di Nicola Piepoli, compiuto per La Stampa nella settimana della Direzione del Pd.

Come per il conflitto interno alle altre organizzazioni, perciò, anche in quelle politiche, essendo popolate e costituite da esseri umani, è naturale che il conflitto ci sia. Allora, è fondamentale tentare di comprendere: a) se è riconosciuto; b) se ha cittadinanza; c) come si sviluppa.

Rispetto ai primi due punti, si deve riconoscere che nel PD il conflitto è certamente riconosciuto e che ha indubbiamente cittadinanza. Lo stesso Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, ha esplicitamente riconosciuto tale caratteristica.

Resta, dunque, il tema del come si sviluppa. Ebbene, a tale riguardo riesce davvero difficile non rilevare una forte somiglianza tra i toni e le forme della dialettica interna e le modalità di espressione del conflitto con gli altri partiti, soprattutto, in questa fase con quello politicamente più competitivo, il Movimento Cinque Stelle.

Questo può forse spiegare come vi sia un dato di realtà nelle parole pronunciate nella Direzione del PD di lunedì 13 febbraio da Matteo Renzi, allorché aveva osservato che gli avversarsi sono soltanto quelli fuori dal PD, sono la destra. Tale osservazione polemicamente indirizzata alla minoranza, forse, in realtà, illustrava fedelmente il livello di escalation conflittuale maturato all’interno del partito. Un’escalation, infatti, che come quella con gli altri partiti e movimenti, si è caratterizzata per la frequenza degli attacchi sul piano personale, all’insegna della svalutazione dell’altro, della sua messa in ridicolo o della sua demonizzazione.

È certamente vero che vi sono in tale conflitto anche momenti caratterizzati da riconoscimenti reciproci e da richiami al comune legame, i quali non sono, invece, frequentemente ravvisabili nella conflittualità tra i partiti. In particolare, ve ne sono stati molti nel corso dell’Assemblea di domenica, che parevano anche sinceramente e profondamente sentiti e sofferti dai relatori. Ma ciò costituisce il naturale correlato di una conflittualità interna ad un’organizzazione, in cui la prospettiva separativa si rivela con tutta la sua forza lacerante e dolorosa. Un’organizzazione, che, per giunta, è anche impegnata a fronteggiare gli attacchi dall’esterno, soprattutto intesi ad approfittare proprio delle tensioni interne per screditare il partito intero e non solo questo o quell’esponente della sua maggioranza o minoranza.

In conclusione, si osservano due cose: la prima è che non c’è alternativa all’attraversamento del conflitto, come del resto, affermava Frost. il conflitto interno al PD – che sia originato dalle difficoltà incontrate dalla mancata vittoria elettorale del 2013 in poi e dalle criticità sperimentate nel governare l’Italia in tali 4 anni, ovvero che nasca da tensioni interne risalenti all’elezione di Renzi a segretario o addirittura a prima, oppure ancora, com’è forse più probabile, che sia frutto di una combinazione tra aspetti e fattori esterni ed interni -, assume rilevanza per la cittadinanza non soltanto in virtù delle conseguenze sulla legislatura, dei temi dibattuti, certamente importanti, e per le idee sulla politica interna ed estera che finiranno con il prevalere in un partito il cui elettorato si aggira per ora attorno al 30%, ma, ancor prima, in virtù della sua capacità di incidere sulla qualità del dibattito politico.

Infatti, da un lato, è possibile che la qualità del confronto tra la maggioranza e la minoranza del PD possa influenzare anche la qualità del dibattito tra tale partito e gli altri con cui è in competizione e anche, chissà?, forse quello interno alle altre forze.

Dall’altro, è altrettanto possibile che, se il conflitto interno al PD si collocasse su livelli qualitativi alti, in termini di contenuti e di modalità di proposizione degli stessi, riallacciandosi così, e in maniera percepibile immediatamente, alla vita e alle preoccupazioni dei cittadini, ne conseguirebbe un riconoscimento nella cittadinanza di un esempio concreto dell’utilità e della potenziale grandezza trasformativa del conflitto politico.

Si può facilmente rilevare come tale conseguenza potrebbe essere di non poco conto rispetto alla questione del rapporto tra cittadini e istituzioni, potendo interrompere quel circolo vizioso all’insegna della sfiducia più sopra proposto, nel caso si fosse innescato, oppure potendo prevenirlo se ancora non si è avviato.

 Alberto Quattrocolo

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