PD a rischio scissione? L’unico modo di superare un conflitto è attraversarlo (R. Frost): ma l’attraversamento richiede tempo.

Su di un Blog come questo, gestito da un’Associazione la cui denominazione è Me.Dia.Re. e che si occupa di gestione dei conflitti in molteplici ambiti (familiare, penale, sanitario, civile e commerciale), è quasi inevitabile porre una particolare attenzione a quanto sta avvenendo all’interno del Partito Democratico e che ha visto nella giornata di domenica 19 febbraio 2017 compiersi un’Assemblea, visibile da chiunque fosse interessato, grazie alla diretta streaming su l’Unità TV e alla copertura offerta dai media, tra cui lo speciale telegiornale su La 7, condotto dal direttore Enrico Mentana.

Il commentare, però, implica il pensare. E il pensiero richiede tempo. I primi non troppo avventati pensieri che vengono in mente riguardo alle vicende in corso, si fermano ad una sorta di constatazione: sono di veloce svolgimento. Di particolarmente veloce svolgimento.

Con ciò non si vuole in alcun modo entrare nel merito del dibattito in ordine ai tempi del Congresso, alla proposta di una Conferenza programmatica, ecc. Ma semplicemente porre in evidenza quel che spesso si produce nello sviluppo dei conflitti, da quelli interni ad una coppia o ad una famiglia a quelli che possono prodursi in ambito lavorativo o all’interno di un’organizzazione di volontariato e, perché no?, in un partito.

Infatti, spesso il conflitto riguardante individui che fanno parte di gruppi (di lavoro, familiari o di altra natura) matura dapprima lentamente e assai spesso sotterraneamente, attraverso interazioni che lasciano, però, via via più insoddisfatte le persone. Si tratta di scambi che segnalano più o meno sommessamente che una pare nutre perplessità, disaccordi o dissensi rispetto alla condotta dell’altra. Vi possono essere alla base malintesi e incomprensioni, però possono anche svilupparsi dubbi sulle motivazioni e sulle intenzioni altrui, e tali dubbi possono essere in realtà circolanti.

Col tempo si procura una dimensione relazionale punteggiata da “non-detti”. Anche se tale non è l’impressione delle parti in gioco, i “non-detti” sono molto più frequenti e condizionanti di quanto non ci si accorga allorché si è all’interno della dinamica. Anzi, il più delle volte non ci si rende affatto conto che si sta dando luogo ad un clima relazionale attraversato da non-detti.

Certamente l’impressione, il convincimento di una parte del gruppo può essere quella di aver sempre parlato chiaro e  di avere invitato la controparte a fare altrettanto, ma spesso e volentieri si tratta di un’impressione che sorge ex post, quando si è arrivati al punto di rinfacciarsi gli errori e di ribattere  alle critiche inerenti la cattiva qualità della comunicazione che avrebbe portato all’escalation conflittuale successiva.

Anche chi ha sottaciuto alcuni argomenti di preoccupazione o perplessità, spesso, adduce a giustificazione di ciò, la mancanza di ascolto della controparte, la sua elusività o la sua indisponibilità ad essere oggetto di critiche.

A tale reazione, la controparte, solitamente ribatte che le critiche ricevute sono state sempre ascoltate, per quanto fossero numerose, anzi perfino rumorose al punto tale da creare disagio ed imbarazzo nei rapporti con il mondo esterno all’organizzazione.

Che tale dinamica sia facilmente riscontrabile nell’ambito dei rapporti tra maggioranza e minoranza all’interno di un gruppo democraticamente costituito e gestito, non esclude che possa avverarsi anche la condizione opposta.

In entrambi i casi, però, la successiva dialettica, connotata da scambi di accuse e da reciproci rimproveri di errori, sgombra dal campo lo scomodo tema dei non-detti, senza, tuttavia, risolverli. Anzi assai spesso lascia che continuino ad esistere e a condizionare l’interazione, a discapito delle possibilità di un chiarimento che valga risolvere il conflitto in termini separativi, senza strascichi conflittuali, o ri-conciliativi nella sostanza e non solo nella forma.

Infatti, una volta che la conflittualità viene corposamente alla luce del sole ed è anche dibattuta sulla pubblica piazza, si crede che il parlarsi, il dirsi le cose in faccia, il superamento del confronto tra pochi davanti ad un caminetto, per sostituirlo con una dialettica fitta e diffusa, valgano a risolvere il problema dei non-detti. Ma ciò non è automatico. Dipende da cosa si dice e da come lo si dice.

Infatti, se in una certa fase del conflitto, soprattutto nella prima, il non-detto può essere anche figlio della paura di compromettere irreparabilmente la relazione e di perderla, nella seconda,  quando la paura di troncare la relazione non inibisce più l’escalation del conflitto, i non-detti possono avere alla radice istanze ancora più profonde, spesso percepite come indicibili e talora come inconfessabili. Ma quelle motivazioni, emozioni e aspettative, che paiono permeate di oscurità sinistre, sono naturali componenti delle relazioni umane, sono un correlato dell’ombra junghiana, componente irrinunciabile e, talvolta, perché no?, anche particolarmente utile non solo dell’essere umano, ma soprattutto dell’essere umano in relazione con gli altri.

E a volte sono proprio queste parti inconfessate, sebbene naturali, che ci fanno reagire e ci riducono lo spazio, o meglio il tempo, per pensare.

Facciamo un esempio: un gruppo di giovani amici parte per una vacanza del tipo “zaino in spalla” in un Paese sudorientale, ma, giunti sul posto, una parte di essi, numericamente minoritaria, patisce il fatto che la vacanza sta prendendo una piega diversa da quella progettata. Poco per volta il loro malcontento emerge e si palesa anche l’insofferenza della maggioranza del gruppo verso la minoranza scontenta. Così una sera si arriva a discutere tutti quanti davanti ad un tavolo. In quella discussione volano parole forti, una parte della maggioranza rinfaccia a qualcuno della minoranza di aver preso parte all’iniziativa comune con scarsa convinzione e con atteggiamento ipercritico fin da prima della partenza, qualcun altro osserva che le critiche fanno bene e bisogna saperle accettare, qualcun altro ancora, sempre, facendo parte della minoranza aggiunge che la maggioranza, e in particolare quello che tutti considerano il suo principale portavoce, non sa ascoltare, ecc. Per farla breve, un parte del gruppo, quella minoritaria, annuncia l’intenzione di separarsi e di proseguire il viaggio autonomamente. Cala il gelo per qualche istante, poi la discussione riprende con toni più accesi e con accuse esplicite di dirigismo autoritario o di dittatura della maggioranza e di ricatto o dittatura della minoranza, arricchendosi di rinfacci reciproci di voler boicottare l’unità del gruppo e la bellezza di una vacanza lungamente attesa e sognata.

Quali sono i non-detti, si potrebbe obiettare, se questi amici si stanno dicendo tutto? Be’, per esempio, il non-detto potrebbe essere che in realtà uno ha sempre nutrito dei dubbi sulla meta, ma ha aderito perché trascinato dall’entusiasmo dei più e ora è arrabbiato con se stesso per avere fatto ciò che non voleva e, piuttosto consapevolmente, sta facendo pagare (proietta) agli altri questo suo vissuto; oppure per un altro può essere l’irrinunciabile propensione a non volersi soffermare sulle cose che non funzionano, preferendo vedere il bicchiere mezzo pieno, perché il posare l’occhio sulla parte vuota significherebbe, per lui, ammettere e assumere la colpa di un fallimento non tollerabile, ecc.

Nel caso di quanto sta avvenendo nel Partito Democratico ovviamente le cose sono infinitamente più complesse e di portata incommensurabilmente superiore all’esempio citato, ma anche in tal caso, all’occhio di un profano, esterno a tutto e sommamente ignorante di quali possano essere le motivazioni di tutti, fatte salve quelle rese pubbliche, sembra che il tempo per pensare stia subendo una contrazione improvvisa, frutto di un’accelerazione fenomenale delle reazioni.

Che i protagonisti possano essere persuasi di aver concesso tempo più che sufficiente alla controparte per discutere e  meditare, è quanto emerge assai spesso nelle dichiarazioni dell’una  e dell’altra parte, però si trascura la possibilità che tale percezione sia figlia di una propensione alla reazione immediata, forse impulsiva, dettata dagli stati d’animo della rabbia, della frustrazione, del disagio, dell’angoscia.

Si può arrivare in un conflitto coniugale, familiare o interno ad un gruppo organizzato a preferire l’azione veloce, per quanto distruttiva, piuttosto che l’attesa. Si preferisce agire in qualche modo, e al diavolo le conseguenze, pur di risolvere la sensazione di impotenza e di porre termine alla sofferenza che la situazione relazionale crea. E,  magari, si crede, rompendo gli indugi posso portare ad un auspicato chiarimento che risolva finalmente questo esasperante disordine.

Tuttavia, raramente, quelli che in psicologia si chiamano agiti risolvono davvero e definitivamente i conflitti. Certo la tensione derivante dall’altalena tra l’andare e il restare, lo stress delle scelte sul punto di essere fatte ma non ancora sottoscritte e la confusione che ammanta il tutto, sono test assai onerosi e provanti. Tanto che può accadere che si dica: ora basta, finiamola qua e occupiamoci di cose più importanti.

Così facendo, però, vi è proprio il rischio di dare libero corso ad un’azione che traduce pulsioni, emozioni e sentimenti in comportamenti non sorretti da un esame accurato delle implicazioni e delle conseguenze di breve, medio e lungo termine che ne potrebbe derivare.

Che l’esito di un conflitto coniugale, tra amici o all’interno di un gruppo di lavoro o di una comunità politica sia di tipo separativo non è necessariamente sinonimo di un peggioramento o di una catastrofe per i suoi attori o per gli altri soggetti interessati (i figli, gli altri amici, la collettività), – come tra gli altri ha sostenuto Achille Occhetto ospite di Gaia Tortora nel programma Omnibus su La 7 -,  né il compromesso che tenga ancora tutti insieme è automaticamente indicativo di un progresso.

Il primo, infatti, potrebbe essere frutto di un accordo basato sul rispetto cui si riferiva Matteo Renzi, il segretario dimissionario del PD, nel suo discorso di apertura dell’Assemblea.

Il secondo potrebbe essere in realtà una finta tregua, nascostamente armata e prodromica ad un più o meno ravvicinato rigurgito di spinte distruttive.

In entrambi i casi, ad essere decisivo sul piano del positivo attraversamento del conflitto, cui si riferisce il celebre aforisma di Robert Frost, è, dunque, l’approdo ad una situazione relazionale in cui tutti interloquiscono, essendosi prima concessi il diritto di ascoltare attentamente e coraggiosamente se stessi, e sono pertanto inclini ad assumersi la responsabilità e l’onere di ascoltare attentamente gli altri: sospendendo il giudizio in entrambe le fasi.

Infatti, questa, per lo più, è la precondizione per approdare al ripristino o alla costruzione ex novo di un patto di fiducia che strutturi, all’insegna del riconoscimento e della legittimazione reciproca, il futuro della relazione, sia, questa, tra “divorziati” o tra “conviventi”.

In mancanza di ciò, è facile profetizzare, con buoni margini di riscontro a breve termine, che si avveri  quel che proponeva la frase di lancio di Alien vs. Predator, un film, vincitore del Razzie Award (peggior film della stagione) nel 2004: «Whoever wins… We lose.».

Alberto Quattrocolo

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