9° rapporto tra gli italiani e le Stato di Demos & Pi: le difficoltà dell’ascolto politico e il divario (conflitto?) tra politica e società

Il IX RAPPORTO GLI ITALIANI E LO STATO curato da Demos & Pi è stato pubblicato, e subito accompagnato dai commenti di alcune autorevoli firme, sulla Repubblica di sabato 7 gennaio 2017.

Nel paragrafo GLI ITALIANI NELLO SPAZIO PUBBLICO del Rapporto, Luigi Ceccarini evidenzia che nella graduatoria del consenso sociale alle organizzazione pubbliche il fanalino di coda è costituito dalle «istituzioni della rappresentanza: Parlamento (11%) e partiti (6%). Entrambe accennano una timida crescita (+1) rispetto al 2015 e ad un leggero calo rispetto al 2010. Di fatto, restano stabili in fondo alla graduatoria. Considerate nel loro assieme, però, le istituzioni della politica sembrano avere esaurito quella perdita di credito cui lo scoppio della crisi globale ha contribuito: nel 2005 l’indice di fiducia globale nelle istituzioni politiche si attestava al 41% ed è sceso linearmente fino al 2014 dimezzandosi (21%). Nelle ultime due rilevazioni si riassesta intorno al 25-26%. Difficile dire se si tratta dell’inizio di un ritorno al passato. Certo è che il coinvolgimento pubblico dei cittadini, mostrato anche di recente con l’elevata partecipazione referendaria, appare considerevole. Praticamente, tutte le forme di impegno considerate mostrano segni positivi. Cresce l’indice di partecipazione politica (+7). Crescono le “nuove” forme di coinvolgimento attraverso la rete Internet o il consumerismo politico (+8). Appaiono stabili le modalità di impegno sociale. Dunque, gli italiani si mostrano cittadini critici, esigenti nei confronti delle istituzioni della democrazia rappresentativa. Ma al tempo stesso attenti. E disponibili a coinvolgersi attraverso forme articolate, e flessibili, di impegno, anche politico».

L’analisi di Stefano Folli, a pagina 4 della Repubblica del 7 gennaio, si apre con l’affermazione «gli italiani vorrebbero avere fiducia nella politica e nelle istituzioni ma non ci riescono» e prosegue: «La crisi di credibilità delle classi dirigenti ha frantumato le antiche certezze e creato una frattura profonda che non è ancora stata riparata: né sappiamo se e quando lo sarà. L’ampia ricerca di Ilvo Diamanti e dei suoi collaboratori in parte conferma le più malinconiche considerazioni già note sui rapporti fra cittadini e cosa pubblica, ma in buona misura va oltre, suggerendo temi nuovi a chi avrà capacità di ascolto».

Sempre in riferimento allo stesso rapporto Concita De Gregorio scrive: «La fiducia è un bene delicatissimo e fragile, per sua natura anti-autoritario. Difatti, come l’amore, non si può pretendere, chiedere, intimare, pietire. Si può solo suscitare. Non è soggetto alla volontà ma all’esperienza. È uno stato di moto, mai di quiete: è sentimento maratoneta che costantemente va e torna fra noi e chiunque altro, fa la spola. Nella relazione la fiducia si nutre e quando cresce – cresce in una ininterrotta valutazione di fatti, circostanze anche minime, a volte impercettibili o dilazionate negli anni, che nel tempo concorrono a costruire l’immagine dell’altro così come noi la percepiamo. È un sentimento-castello, come i bambini sanno, ci vuole tanto a costruirlo e un attimo a distruggerlo. Il suo contrario, la diffidenza, è ugualmente figlia dell’esperienza. Spesso indiretta: quando molte volte si è patita un’ingiustizia, una frustrazione, una delusione si è portati a diffidare, appunto. A generalizzare». E poi ancora: «la fiducia è un sentimento personale, sta con gli occhi negli occhi e appassisce nella folla. Muore nella moltitudine. Non si addice alle categorie. Fidarsi o non fidarsi degli uomini – dei cinesi, dei benzinai, dei politici – non significa niente. È delle persone che ci si fida, una per una».

Crisi di credibilità, bisogno di fidarsi, sfiducia, diffidenza, frustrazioni, delusioni… Ci pare che vi siano un bel po’ di argomenti a favore di un ascolto politico, per quanto sia ovvio che non si intende qui sostenere che questo basti a procurare il lavoro che non c’è, né a rimediare alla Tangentopoli infinita di cui nello stesso quotidiano parla, a pagina 5, Massimo Giannini, o creare quell’integrazione la cui mancanza spiegherebbe la paura del 40% degli italiani verso gli immigrati, secondo Gianluca Di Feo, nella stessa pagina.

Appare scontato rilevare che il mancato ascolto della politica – anche e, forse, soprattutto, quando inconsapevole o parzialmente tale – può facilmente dare luogo a risposte inadeguate da parte dei rappresentanti rispetto ai bisogni percepiti dai rappresentati, con ciò generando o incrementando il distacco tra i due gruppi.

Agire senza avere prima davvero ascoltato, senza avere davvero compreso i bisogni dei cittadini (si tratti di singoli o di gruppi di varia grandezza), può facilmente portare a formulare risposte o a introdurre soluzioni che nulla, oppure non abbastanza, hanno a che fare con le esigenze da essi vissute.

Incidentalmente, inoltre, si potrebbe notare che assai spesso le criticità nei rapporti tra politica e cittadini, riconducibili alle difficoltà di ascolto, sono l’anticamera dell’insorgere di conflitti di complessa gestione. Ad esempio il politico, il cui ascolto dei cittadini fosse orientato solo a ciò che egli è interessato o disponibile a sentire del loro vissuto,  presto o tardi procurerà, con tale atteggiamento, una delusione negli interlocutori-cittadini, cioè uno stato d’animo che è frequentemente fonte di conflitto, latente o manifesto: una condizione relazionale, dunque, che può prendere le forme del discredito e del rigetto  da parte dei cittadini non ascoltati nei confronti di quel politico, del suo partito, o perfino della politica e della quasi totalità dei suoi esponenti.

Il non sapere di essere stati ascoltati, dunque, sia sul piano dei rapporti personali che su quello di quelli sociali e politici, equivale al non esserlo stati: infatti, i cittadini, spesso, possono essere indotti a non apprezzare correttamente la portata delle risposte politiche, legislative e amministrative fornite dai loro rappresentanti di quartiere, comunali, regionali o nazionali, proprio perché non sanno se, o dubitano che, siano connesse con la comprensione delle loro istanza (per loro non verificatasi).

Una certa circolarità tra un inadeguato ascolto dei vissuti dei cittadini da parte della politica e il condizionamento di tali vissuti sulle decisioni politiche

 Soprattutto, però, il mancato ascolto da parte di coloro che rappresentano le istituzioni politiche comprime, o addirittura azzera, la possibilità dei rappresentati, dei cittadini, di essere supportati nel compiere un’elaborazione dei vissuti individuali e collettivi che ne influenzano pensieri, atteggiamenti e comportamenti. Si pensi a come sovente talune angosce, delusioni, frustrazioni e sentimenti di solitudine, di confusione, di smarrimento e di insicurezza presenti nella cittadinanza manifestino una tendenza a tradursi anche in paure, sospetti, fobie e rabbia indirizzati verso obiettivi specifici (normalmente verso minoranze religiose, etniche, culturali o politiche, o verso  categorie, professionali o di altro tipo, oppure verso organizzazioni specifiche, fatte oggetto di categorizzazioni e stereotipi negativi), spesso, in verità, alieni da ogni reale nesso causale con le autentiche fonti del disagio patito, oppure solo parzialmente collegabili con esso. Si possono citare, a titolo esemplificativo, gli stereotipi e l’ostilità di cui sono o sono stati fatti segno gli stranieri, i meridionali, i nomadi, i dipendenti pubblici, le banche, i sindacati, gli imprenditori, i magistrati, gli operatori sanitari, i politici di questo o quello schieramento, o di tutti gli schieramenti. E si potrebbe porre mente a come, non raramente, in mancanza di un’elaborazione da parte della leadership politica (di maggioranza e di opposizione, a livello nazionale e locale), le suddette rappresentazioni mentali stereotipiche, i pregiudizi e i sentimenti ostili, coltivati da una parte della popolazione – spesso su proposta, incoraggiamento e rinforzo di alcuni partiti -, finiscano poi con il condizionare larga parte della politica, almeno sul piano della comunicazione.

Infatti, tra gli esiti derivanti dalla difficoltà della leadership di supportare e accompagnare l’elaborazione delle ansie, delle frustrazioni e delle angosce, ridimensionandole alfine, se e quando necessario, e, comunque, collocandole nella corretta cornice eziologica, il rischio più grave, spesso inverato, è il seguente: che tali vissuti si traducano in azioni, in “agiti” si direbbe in gergo psicodinamico, posti in essere proprio da alcuni o molti esponenti politici, o addirittura da leader. Che sia per il timore di perdere consensi e potere o per attenuare la frustrazione e l’impotenza del non riuscire a trasformare i pregiudizi e le paure dei cittadini, o che sia per entrambe le ragioni, non raramente sulla scena politica italiana e internazionale sono apparse e appaiono dichiarazioni di rappresentanti istituzionali e, addirittura, interi programmi politici, o singole proposte o disposizioni di natura normativa, permeati dai sentimenti più pericolosi e meno razionalizzati presenti nella popolazione. Presenti, cioè, nella maggioranza della popolazione, oppure anche solo in una sua parte, magari numericamente minoritaria, ma, proprio perché alterata ed esasperata, particolarmente capace di attrarre l’attenzione e di estendere la propria influenza in senso orizzontale e verticale.

D’altra parte, anche il mondo occidentale ha visto diversi movimenti politici non soltanto compiere gli “agiti” suddetti, ma indurre e stimolare, sfruttare e strumentalizzare le passioni e le pulsioni, anche le più oscure, presenti nelle fasce più frustrate e meno ascoltate della popolazione, per raccogliere i consensi necessari ai loro fini o, addirittura, per cercare un’affermazione plebiscitaria: nel Novecento alcuni di tali movimenti politici si dichiaravano programmaticamente antiliberarli e antidemocratici, intrisi com’erano di aspirazioni totalitarie – tra questi, il partito fascista in Italia e quello nazionalsocialista in Germania, sono gli esempi di conquista del potere di governo e del suo monopolio più devastanti, tragici e sanguinosi, per i loro e per altri interi popoli, -, altri, invece, qualificantisi come democratici, lo erano solo a parole, pur dichiarandosi come i veri difensori delle libertà e dei diritti democratici – ad esempio, il maccartismo negli Stati Uniti tra la seconda metà degli anni ’40 e la prima metà degli anni ’50.

Negli anni Duemila, non sono rari i movimenti in Italia e all’estero, che, restando nel campo dello stato democratico di diritto e del rispetto della sua legalità costituzionale – talvolta, in verità, appena al di qua del confine, talaltra ritenendosene addirittura i migliori tutori -, si propongono come i porta-voce genuini di una cittadinanza che non si sente ascoltata nel suo essere delusa, sfiduciata, angosciata, arrabbiata, abbandonata, tradita, ingannata e amareggiata.

Dal conflitto tra cittadini “non ascoltati” e leadership politica al “conflitto tra forze politiche” che compromette, di nuovo, l’ascolto

Nelle situazioni in cui ciò accade, sembrerebbe che dal mancato ascolto di una parte più o meno corposa della società, la quale, perciò, si sente in conflitto con i governanti (si veda al riguardo anche l’articolo su questo blog: Il conflitto politico-amministrativo), derivi il progressivo allargarsi di tale conflitto (“politico-amministrativo”), forse, com’è naturale che sia, anche su un altro piano: quello che, nella chiave di lettura di questo blog, un po’ schematica e, quindi, giocoforza riduttiva, è stato denominato “conflitto politico”, cioè quello che interessa soprattutto il rapporto tra forze politiche diverse o che si svolge all’interno di una stessa forza politica.

Non vi sono di per sé risvolti negativi, in tale propagazione del conflitto dal piano dei rapporti tra cittadini e istituzioni politico-amministrative a quello della lotta politica tra partiti e/o movimenti. Si tratta di qualcosa di naturale e congenito, cioè, da sempre intrinseco alla natura stessa delle trasformazioni politiche, sociali, culturali ed economiche delle società. Peraltro, come per i tanti che li hanno preceduti (i partiti liberali, socialdemocratici, socialisti e comunisti e quelli cristiano-popolari, per dire), la finalità stessa dei movimenti o partiti di protesta e/o di proposta alternativa all’esistente, nati dal malcontento attuale, è proprio di colmare la distanza prodottasi, almeno a livello di vissuto, tra la popolazione e le istituzioni politiche.

Il risvolto negativo della traduzione della tensione tra amministratori e amministrati in conflitto tra le forze politiche, si potrebbe, semmai, ravvisare nella possibilità, non tanto eccezionalmente verificatasi, di una radicalizzazione del conflitto politico. Cioè, il prodursi in tale ambito di fenomeni importanti di delegittimazione unilaterale o, più spesso, reciproca, che accompagnano e provocano un’escalation tale da compromettere gravemente, o perfino annullare, ogni forma di ascolto: tanto quello tra le forze politiche in conflitto tra loro, quanto l’ascolto dei cittadini, magari anche di coloro in nome e per assicurare la migliore tutela dei quali si è sviluppato questo o quello specifico movimento politico.

Infatti, quando siamo presi dentro il conflitto, tutti – quindi, si può supporre, anche i rappresentanti politici -, abbiamo bisogno di poter contare su una certa dose di consenso da parte dei terzi, cioè del pubblico. E ciò può condizionare significativamente il nostro modo di rapportarci proprio con i terzi: cercando di guadagnarne l’appoggio contro il nostro nemico, può accadere che, invece di ascoltarli con attenzione, ci rapportiamo con essi con l’animo condizionato da rilevanti e pressanti aspettative circa il loro sostegno e la loro approvazione alla nostra lotta.

Il passo dall’ascolto-per-capire all’ascolto-per-lusingare può essere breve. E, a tal punto, consapevolmente o no, invece di ascoltare le esigenze delle persone, si trasformano queste in strumenti della nostra lotta, riducendo gli individui ad oggetti, cioè, appunto, strumentalizzandoli.

Ascoltare, in conclusione, giova ripeterlo, è una faccenda complessa e delicata, anche perché non è una condizione passiva, ma attiva, che, oltre al comprendere punti di vista, bisogni, paure, frustrazioni, rabbie, desideri e speranze altrui, implica l’esplicito riconoscimento dell’altro. Il che è cosa ben diversa dall’approvazione dei suoi pensieri, aspettative, timori, risentimenti e ostilità o dei suoi atti. Si tratta di un’attività, dunque, che si colloca sul territorio della comunicazione, forse la più difficile e complessa delle attività umane.

 

Alberto Quattrocolo

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