Violenza verbale , bufale e la sorella di Laura Boldrini

Istigatori, mandanti ed esecutori della violenza verbale

Chi sono gli istigatori della, crescente, violenza verbale nella rete? Chi sono i mandanti e chi sono gli esecutori?

Ovviamente, non ho la più pallida idea di chi ci sia dietro questa o quella campagna che scatena la violenza sulla rete. Ma qualche sospetto, di carattere generale, comincia a sorgermi. E l’ispirazione mi è stata fornita da una vecchia battuta di Altan: «Mi piacerebbe sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio».

Dando per scontato che anche questo post sia una cavolata o, almeno, che possa esserlo in larga parte, l’ipotesi è che, in qualche misura, potrebbe non esservi una costante e netta distinzione tra istigatori, mandanti ed esecutori.

La bufala della pensione della sorella di Laura Boldrini

Prendo come esempio, per sviluppare il ragionamento, un articolo uscito il 15 aprile su Repubblica. A pagina 16 del quotidiano (ma c’è anche nell’edizione on line) si propone un’intervista ad un signore che aveva attaccato la presidente della Camera dei Deputati, commentando in termini offensivi e rilanciando su Facebook la falsa notizia secondo la quale la sorella di Laura Boldrini stava gestendo alcune cooperative che si occupano di migranti e stava beneficiando di una pensione ottenuta a 35 anni. In realtà la sorella di Laura Boldrini è morta da anni per una malattia. Si trattava, dunque, di una bufala. E il signore intervistato, il quale su Facebook aveva scritto che le persone citate nella news facevano schifo così come i loro elettori, si è scusato con Laura Boldrini, spiegando di aver creduto in buona fede alle veridicità del fatto. La rabbia provata, come già altre volte, ha detto, lo aveva indotto ad esprimere sul web il suo schifo.

Bufale: fino a che punto siamo indifesi?

Tutto risolto, dunque? Be’, forse, non proprio tutto. Mi pare che ci sia ancora qualcosa su cui interrogarsi. E non riguarda il sito “Avanguardia nera” che ha diffuso la falsa notizia, ma un altro aspetto: quel signore, indubbiamente sincero nel suo rincrescimento (tanto da esporsi personalmente su Repubblica per dichiarare il suo errore: non mi risulta che siano stati moltissimi coloro che hanno seguito il suo esempio), segnala che si è indifesi contro le bufale e dichiara la sua intensa rabbia verso chi lo ha tratto in inganno, inducendolo a colpire un’innocente – anzi due -, e verso Facebook. Nell’intervista si legge:

«Scriverò a Facebook protestando per il fatto che fanno girare notizie false. Come facciamo noi che non abbiamo strumenti a distinguerle dalle vere? Devono dircelo loro, altrimenti per colpa di altri facciamo la figura dei cretini. Se non avrò rassicurazioni, mi cancellerò dal social. Non voglio che loro guadagnino i soldi della pubblicità a scapito anche della povera gente come me. Ma non finisce qui».

Infatti, non finisce lì: non finirà mai lì, temo, finché continueremo ad andare alla ricerca di un altro mandante delle nostre cavolate. Cioè, finché cercheremo all’esterno colui che fa muovere le nostre dita sulla tastiera allo scopo di socializzare, agendole, le nostre emozioni.

Condividere impulsivamente e il rischio della manipolazione

In situazioni come quella accaduta al signore intervistato, sembrerebbe che ci si faccia guidare come burattini senza fili (del resto c’è il wireless e l’espressione in tal caso presenta molteplici risvolti): ci facciamo emozionare dagli altri, non pensiamo e, così, agiamo meccanicamente ed esattamente come altri hanno previsto. In tal modo il gioco della manipolazione è compiuto. Inoltre, se, in seguito, avendo scoperto di essere stati ingannati, ci scrollassimo di dosso ogni responsabilità per attribuirla in tutto o in larga parte a chi ci ha manipolato, costui (o qualche suo collega) potrebbe continuare a farlo senza grosse difficoltà, limitandosi, caso mai, a cambiare nome o maschera, se necessario.

Due precauzioni (ovvie) per prevenire la condivisione impulsiva

Però, se noi ci restituissimo il potere e la responsabilità di emozionarci e di pensare alle emozioni provate, potremmo:

1) fermarci un attimo e, prima di essere sopraffatti da emozioni forti e sgradevoli come la rabbia, l’indignazione e il disgusto chiederci se lo stimolo (l’informazione) che ci sta innescando quella reazione emotiva non sia un’evidente assurdità;

2) decidere che ci costa meno fatica emotiva spendere un minuto per appurare quanta plausibilità c’è nella notizia scandalizzante, quanto sembri adattarsi sinistramente alle nostre idiosincrasie o ai nostri risentimenti e quanto imparziale e affidabile sia il soggetto che la fa circolare.

La violenza nelle interazioni: sulla rete non è diverso dalla vita reale

Ciò sarebbe utile a prevenire il rischio di porre in essere quelle che il signore intervistato chiama figure da cretini. Ma, soprattutto, tali piccoli accorgimenti non sarebbero, in realtà, diversi da quelli che mettiamo in pratica nella vita di tutti i giorni nelle nostre interazioni non virtuali: quando analoghe trappole ci vengono proposte in contesti relazionali reali partiamo forse a testa bassa? Se uno sconosciuto ci dice che Tizio è un evasore, che Caio è un ladro o che Sempronio è un truffatore, corriamo ad insultare o a picchiare di qua e di là? Direi di no. Perché, se invece così fosse, la sorveglianza stretta e continua su ciascuno di noi da parte di un poliziotto assai robusto non basterebbe a prevenire costanti aggressioni e risse, generate dalle maldicenze e dagli equivoci. In ultima analisi, sarebbe a rischio immediato la sopravvivenza dell’umanità o almeno di una sua grande parte.

E se fossimo complici nel farci manipolare?

In conclusione, il web, com’è risaputo, può essere uno spazio di libertà, ma anche di restrizione della libertà, cioè di manipolazione e condizionamento. Ma se ci sono dei manipolatori –  e mi pare si possa iniziare a supporre che qualcuno ci sia -, forse è anche perché noi ci lasciamo manipolare, sospendendo la nostra capacità di pensare, cioè di ascoltarci e di avere un barlume di coscienza su quel che accade dentro di noi e attorno a noi. Una facoltà, questa, che nella vita reale perdiamo solo in presenza di situazioni fortemente stressanti, sul web parrebbe essere più facilmente a rischio di non utilizzo.

Per non istigare altri alla violenza verbale possiamo ascoltarci e pensare a ciò che stiamo per condividere

Indipendentemente dalle cause della diffusione della violenza verbale nella rete, su cui credo vi sia una molteplicità di studi interessantissimi, il banale e ingenuo buon senso mi induce a pensare che, se abbiamo un minimo di amor proprio, anche quando siamo sui social network, possiamo e dobbiamo tutelarci anche da questa tipologia di frodi e inganni. Eviteremmo, in tal modo, di istigare, a nostra volta, altri a compiere analoghe cavolate, cioè di essere fomentatori di violenza verbale. E per riuscirci, a mio avviso, non occorre essere onniscienti e neppure infallibili. Basterebbe, mi pare, prendersi quella frazione di tempo necessaria a non comunicare immediatamente on line ciò che proviamo, così da restare un po’ dentro l’emozione o il sentimento provati. Si tratterebbe solo di ascoltarsi e di pensare un attimo. Certo, per farlo, occorre ricordarsi che non siamo antenne che fanno rimbalzare i segnali, ma che siamo dei corpi, che abbiamo dei cuori e delle menti.

La nostra violenza verbale è contro degli esseri umani e non solo contro dei nomi

Infine, non sarebbe male anche rammentarsi che il nome contro cui vorremmo scagliare la nostra ira, non è un entità astratta, è, invece, un essere umano e, perciò, un essere sensibile, come lo siamo noi (su questo aspetto della violenza verbale nella rete mi sono già soffermato in alcuni precedenti post, tra i quali La rete come arena ma anche come “cloaca”C’è in giro un virus di cui non si parla (abbastanza), La criminalizzazione dell’avversario).

Pertanto, prima di infangarlo, pensiamoci due volte e poi… non facciamolo. La violenza verbale, ha scritto la Corte di Cassazione, ingiustamente tollerata proprio in nome della libertà di espressione e di critica, è talvolta anche più dannosa della violenza fisica (Cass. Sez. V, 17 febbraio 2004, Metta). Criticare, disapprovare, dissentire (al limite, anche giudicare e condannare), infatti, come insegniamo ai nostri figli, è cosa diversa dall’insultare e diffamare. In fondo, non occorre indugiare in chissà quale esercizio di selfcontrol per non digitare subito “ladroni, bruciate all’inferno”, e scrivere, invece, che, se la news diffusa è vera, i fatti in essa riportati ci fanno molto arrabbiare e indignare e ci risultano intollerabili.

Alberto Quattrocolo.

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