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Mattarella aveva denunciato i rischi della violenza verbale nella lotta politica

Nel suo discorso di fine anno il Presidente della Repubblica ha affermato: «Vi è un altro insidioso nemico della convivenza, su cui, in tutto il mondo, ci si sta interrogando. Non è un fenomeno nuovo, ma è in preoccupante ascesa: quello dell’odio come strumento di lotta politica. L’odio e la violenza verbale, quando vi penetrano, si propagano nella società, intossicandola».

In queste parole si tengono insieme dimensioni che riguardano ciò che accade all’interno delle persone, della loro mente, e ciò che accade all’esterno, vale a dire il comportamento che esprime, porta fuori, agisce, ciò che sta dentro. Il Capo dello Stato, infatti, non asserisce che l’«insidioso nemico della convivenza» è l’emozione della rabbia, ma è «l’odio come strumento di lotta politica». Cioè, avverte che il suscitare e diffondere odio, utilizzandolo nella competizione politica, con il ricorso alla violenza verbale, significa propagare entrambi – odio e violenza – nella società, intossicandola.

Si tratta di una considerazione di non poco conto, espressa, peraltro, con una certa preoccupazione. «Una società divisa, rissosa e in preda al risentimento, – prosegue il Presidente – smarrisce il senso di comune appartenenza, distrugge i legami, minaccia la sua stessa sopravvivenza».

La violenza, infatti, ha indubbiamente una portata distruttiva che non si esaurisce nei danni arrecati alla vittima diretta della condotta lesiva, poiché, come da sempre e con le più diverse prospettive è stato detto, la violenza chiama la violenza.

Il tema della violenza è a dir poco immenso, accostabile da prospettive scientifiche, culturali, religiose, etiche e morali molteplici, perciò qui ci limiteremo ad alcuni sommari cenni, connettendolo con la questione dell’escalation del conflitto politico. Su tale registro, infatti, prosegue il discorso di Matterella, che afferma: «Tutti, particolarmente chi ha più responsabilità, devono opporsi a questa deriva».

Le sue parole, però, non paiono aver trovato grosso seguito. Viene alla mente l’Enrico VI di Shakespeare, quando, nella Parte prima, Atto terzo, Prima scena, il Re Enrico, che cerca di placare il contrasto furioso che oppone suo zio, il Duca di Gloucester, al vescovo di Winchester, prozio del Re, rivolgendosi ad entrambi, dice: «Credetemi, signori, la mia età – sebbene ancora tenera – osa dichiarare la civile discordia vipera velenosa che corrode le viscere dello Stato». Il suo appello sarà recepito solo a parole, i due si daranno la mano, restando in realtà nemici giurati.

Quante volte nella storia degli ultimi vent’anni si sono prodotte situazioni analoghe? Quanti sono stati gli ignorati richiami ad una moderazione dei toni nel confronto politico, al contenimento della sua preziosa e irrinunciabile conflittualità all’interno di quei limiti di forma che ne permettano l’effettiva realizzazione dei suoi scopi, alti e, contemporaneamente, concreti? Non pochi, in realtà. Si ricordino tra gli altri gli ultimi discorsi di fine anno, proposti al termine dei rispettivi settennati, dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro, il 31 dicembre del ’98  («Ma, come fa la gente ad avvicinarsi  – alla politica, n.d.a. – quando incontra persone che dicono di essere persone politiche e che, nell’assenza totale di ogni pensiero politico, hanno come surrogato battute, ingiurie di qualsiasi tipo, dove l’educazione non si sa più dove stia, insinuazioni, se non addirittura il falso? Ma, questo può essere politica? E con questo sistema, si pensa che le persone perbene si avvicinino alla politica?») e dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi, il 31 dicembre del 2005 («Come Presidente della Repubblica Italiana mi sono proposto di esercitare imparzialmente il mio mandato, e ho costantemente rivolto a tutti l’esortazione al dialogo, al confronto leale, aperto, reciprocamente rispettoso»), nonché quello del Presidente Giorgio Napolitano del 31/12/2013 («La sola preoccupazione che ho il dovere di esprimere è per il diffondersi di tendenze distruttive nel confronto politico e nel dibattito pubblico – tendenze all’esasperazione, anche con espressioni violente, di ogni polemica e divergenza, fino a innescare un “tutti contro tutti” che lacera il tessuto istituzionale e la coesione sociale»).

Tornando a Shakespeare, immediatamente dopo aver pronunciato quelle parole, Enrico VI vede comparire il Sindaco di Londra che lo informa del fatto che «gli uomini di Gloucester e quelli del vescovo, cui era stato fatto divieto di portare le armi, si sono empite le tasche di pietre divelte dai selciati e, divisi in due squadre avverse, si bersagliano, quei matti nel cervello, con tale furia che molti ne escono con la testa rotta. Per ogni strada – aggiunge il Sindaco – è tanto fracasso di vetri che per precauzione abbiamo dovuto far chiudere tutte le botteghe» («Oh, come mi fa male questa discordia», dirà poco dopo il Re, ottenendo una tregua apparente e provvisoria).

Si vede qui come lo scontro tra due rappresentanti delle istituzioni («custodi designati alla prosperità del nostro Stato» e «alti dignitari», li definisce il Re Enrico), con le loro «mani fratricide», suscitino «disordini» e «risse».

Il conflitto politico, infatti, com’è naturale, non si dispiega soltanto tra politici, ma si sviluppa a partire dalle divergenze di opinione e dai contrasti presenti nella società sul piano dei valori e dei principi, degli interessi e delle esigenze, degli obiettivi e delle istanze.

Tuttavia, ciò che segnala il Presidente è che, spesso, la sua escalation violenta si diffonde e si nutre delle modalità verbalmente violente di conduzione della lotta politica da parte dei rappresentanti del popolo.

A tale riguardo si collega un articolo, scritto, circa 3 settimane prima del voto sul Referendum costituzionale, da Monica Rubino che, su Repubblica, segnalava episodi in cui gli eletti hanno palesato la volontà di aggredire verbalmente gli elettori della parte avversa.

Sul sito www.pensierocritico.eu, si trovano corpose considerazioni sull’incitamento all’odio (hate speech) e si citano esempi piuttosto precisi. Tra questi figurano i commenti apparsi sui siti di Repubblica e sulle pagine Facebook del Fatto Quotidiano, quando diedero notizia dell’ictus che aveva colpito Pierluigi Bersani: alcune persone si dicevano felici della sua condizione, lo insultavano e gli auguravano di morire. Quel sito di pensierocritico rinvia anche ad un altro, www.tecnoetica.it, di Davide Bennato, che spiega tali manifestazioni in un’ottica sociologica: «la figura di Bersani si è progressivamente televisionificata, complice l’ipermediatizzazione di cui è stato oggetto (le parodie di Crozza, il format X-Factor delle primarie, le continue apparizioni televisive, le dirette streaming con i grillini). Bersani sempre meno persona, sempre più racconto televisivo. In questo modo vanno considerate alcune battute terribili o affermazioni incivili di cui è stato oggetto: inveire contro Bersani è inveire contro un personaggio televisivo icona della casta politica che – secondo un classico refrain – “tanti danni ha fatto all’Italia di questi anni”. Che poi sia una persona vera, in carne ed ossa, è assolutamente circostanziale». Aggiunge ancora Davide Bennato: «I commenti violenti sono frutto della spirale del silenzio», e più avanti spiega: «I commentatori violenti hanno espresso apertamente ed in forma non anonima il proprio odio verso Bersani, perché hanno “sentito” nell’aria che la propria opinione era legittima. È stata legittimata dalla violenza dei commenti verbali quotidiani, dalla violenza della narrazione giornalistica, dalla violenza di alcuni movimenti politici o di alcune frange di movimenti politici (non solo Grillo….), da alcune trasmissioni televisive. Insomma per questa tipologia di commentatori, esprimere violenza verbalmente non è socialmente sanzionato, anzi è socialmente legittimo, poiché hanno la percezione che il mondo intorno a loro sia violento».

Su Repubblica del 7 gennaio 2014, Stefano Batterzaghi, chiariva che il problema non è internet: «Siamo puri nomi, o nomignoli. Molti di questi commenti sono tranquillamente firmati: non ci curiamo di nasconderci dietro all’anonimato perché non vediamo più la persona, la carne e la vita, dietro ad alcun nome proprio».

Riallacciandoci a queste considerazioni e ad integrazione di quanto sopra riportato delle riflessioni di Bennato, ci pare possa essere collocato anche un altro, non troppo dissimile, ragionamento inerente la legittimazione della violenza. Cioè: la possibilità che il commentatore che augura la sofferenza e la morte a Bersani – non diversamente dal deputato M5S, Massimo Felice De Rosa che, in una seduta del 29 gennaio 2014, della Commissione Giustizia, ha insultato le deputate del Partito Democratico («Voi donne del PD siete qui perché siete brave solo a fare i pompini») -, ritenga legittima la sua violenza. Sempreché la consideri tale.

Infatti, non andrebbe sottovalutato un aspetto, ripetutamente esaminato in ambito criminologico e facilmente rinvenibile ascoltando gli autori del reato nei percorsi di mediazione penale: la tendenza del soggetto a giustificare la propria condotta lesiva, colpevolizzando la vittima per quel che gli ha inflitto. Così, l’uomo che sconta una pena per averne aggredito e ferito un altro, che aveva parcheggiato l’auto nell’unico spazio disponibile della via in cui stava per farlo lui, non si sente responsabile di un atto di violenza ingiusta, ma si percepisce come autore di una reazione ad un’ingiustizia intollerabile.

Ascoltando le donne vittime di violenza emerge assai spesso, ad esempio, che l’uomo che picchia la moglie pensa e dice che è colpa della donna se lui la mena. Se lei non lo facesse arrabbiare, lui non la picchierebbe. Ovvio, no? Non tanto, ma… Per lui, sì. E – tanto per eliminare eventuali dubbi alla radice – non si tratta di un malato di mente.

Così, spesso accade di sentire dire da un politico, cui si rimprovera di aver usato frasi offensive verso un avversario, che la sua è solo una replica alle accuse dell’altro, che l’altro si merita l’insulto per quello che sta facendo al Paese, ecc.

Come il rapinatore, il ladro, il truffatore e lo stupratore, così anche l’aggressore verbale, protagonista di un conflitto di vicinato, si giustifica con se stesso ancor prima che con gli altri, dicendo(si) che il suo interlocutore, la vittima, se l’è meritato. Oppure che, in realtà, quello non ha subito nessun reale danno. Oppure ancora sostiene che di quanto accaduto è responsabile qualcun altro o qualcos’altro: la società o il sistema, ad esempio. Il ladro dice che la società è ingiusta, che la vittima era più ricca di lui, ecc.; l’evasore afferma che il fisco è persecutorio, che lo Stato spreca i soldi dei contribuenti, che evadono tutti.

Nel conflitto politico l’argomento “così fan tutti” non è meno frequente di quello che attribuisce all’altro la colpa dell’inizio dell’escalation: “ha cominciato lui”. Ricorda un po’ il linguaggio infantile, ma ricorda anche alcune sequenze, del grottesco, tragico, film di Denis Tanovic, No Man’s Land, in cui il tormentone consiste nel reciproco rinfacciarsi la responsabilità dello scoppio della guerra da parte dei due protagonisti, schierati su fronti contrapposti.

In The Heart of Conflict Brian Muldoon scrive che è la convinzione di aver subito un torto «che dà fuoco alle polveri del conflitto».

Anche nel conflitto politico, dunque, non dissimilmente da quanto accade in quelli di vicinato, tra famigliari o sul posto di lavoro, le parti si attribuiscono l’un l’altra non soltanto la responsabilità dell’inizio delle ostilità, ma anche quella dell’innalzamento del loro livello sul piano comportamentale.

Però, una criticità è data dal fatto che una delle caratteristiche della dinamica reattiva dell’escalation conflittuale è che, una volta varcata una certa soglia, non si torna indietro. Cioè: fintanto che tra le parti sussiste un disconoscimento reciproco e si percepiscono come nemici da abbattere, ogni impennata sul piano dei comportamenti aggressivi messi in atto da una parte si accompagna ad un consolidamento del nuovo più alto livello di aggressione, in virtù della reazione simmetrica della controparte, con un aumento delle probabilità di ulteriori impennate, quanto più gli animi sono accessi di indignazione, rabbia e sentimento di dignità offesa.

Si tratta di una dinamica azione-reazione ininterrotta, che rinforza nella mente delle parti in conflitto la visione dell’altro come entità malefica e insensibile.

Si possono e si devono, dunque, certamente biasimare e condannare le manifestazioni di violenza verbale, ma occorre cercare di comprenderle (il che nulla ha a che vedere con il giustificarle), se si vuole tentare di contenerle e, soprattutto, di prevenirle.

L’unico modo, allora, per determinare la de-escalation del conflitto è quello di recuperare un’etica del confronto, una sorta di regolamento, che contempli i comportamenti inammissibili, verificandosi i quali scatta la censura, anche se a porli in essere è un soggetto appartenente al proprio schieramento. Non si tratta di inventarsi nuove regole: esistono già e sono quelle della forse vecchia, ma mai logora, buona educazione. Si tratta, invece, di recuperarle, applicandole e avendo l’accortezza di non farlo solo a condizione che anche le controparti vi si uniformino. Questa condizione pregiudiziale assai spesso richiamata, infatti, si inserisce magistralmente negli argomenti proposti dalle parti, ormai avvolte dal vortice dell’escalation, a chi le sollecita ad abbassare i toni (“lo faccio soltanto se lo fa anche lui”).

Tuttavia, per fare davvero proprie e concretamente osservare tali regole, occorre prima, o almeno contemporaneamente, realizzare ed esplicitamente riconoscere che anche l’avversario che più ci è odioso, che più crediamo colpevole di averci danneggiato o deluso e tradito, è un essere umano, una persona in carne e ossa.

In assenza di tale passaggio, che avviene sul piano cognitivo ed emotivo e, quindi, anche su quello comportamentale, pare assai improbabile che il personale politico possa tradurre in azione la sollecitazione dell’attuale Capo dello Stato.

In ogni caso, in attesa e nell’auspicio che i rappresentanti effettuino tale svolta, sussistendo anche una significativa responsabilità dei rappresentati, non sarebbe male se anche noi, cittadini comuni, cominciassimo a mettere in discussione il nostro modo di pensare ai leader, ai portavoce, agli eletti, ai militanti e agli elettori di cui non condividiamo l’appartenenza politica e le idee, superandone una rappresentazione demonizzante, denigratoria e superficiale.

 

Alberto Quattrocolo

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