vittime di Piazza San Carlo

Le vittime di Piazza San Carlo

3 giugno 2017: una lunga serata di sangue e terrore

Il 3 giugno vi fu una serata di sangue e terrore in Europa: per un falso allarme in Piazza San Carlo, a Torino, e per un attentato sul London Bridge e nel Borough Market, a Londra

La sera di sabato 3 giugno a Torino, in Piazza San Carlo, veniva trasmesso su maxischermo la finale di Champion Leage, disputata da Juventus e Real Madrid a Cardiff. Verso le 22.15, pochi minuti dopo la fine della partita, tra le 40.000 persone accalcate si era scatenato il panico. La paura che il rumore avvertito – un petardo? – fosse quello di una bomba aveva atterrito alcuni, che si misero a correre e a spingere. La confusione successiva, il timore di essere schiacciati dagli altri e il pensiero che fosse in corso un attacco terroristico si diffusero come un’onda, contagiando repentinamente la folla dei tifosi.

Erika Pioletti, trentottenne di Domodossola, ha perso la vita e altre 1526 persone sono rimaste vittime a livello fisico di schiacciamenti, urti, varie forme di lesione, tra cui,  soprattutto, i tagli provocati dai pezzi di vetro delle bottiglie rotte che coprivano la piazza e, forse, dai sanpietrini)[1].

Il falso allarme in Piazza San Carlo e il vero attacco a Londra

Ma, com’è noto, non vi era stato alcun atto di terrorismo a Torino.

Neanche un’ora dopo, alle 23.08 ora italiana, 22.08, a Londra, a poco più di due mesi dall’attentato a Westminster e a due settimane da quello a Manchester, invece, si era compiuto un vero atto di terrorismo. Sono state 7 le persone uccise dai terroristi e 48, pare, quelle ferite, alcune in modo particolarmente grave[2].

Ma è possibile azzardare l’ipotesi che grosse soddisfazioni ai sostenitori del sedicente Stato Islamico e della sua strategia terroristica siano potute derivare da quanto accaduto nella torinese piazza San Carlo, dove i loro killers non avevano colpito, anzi neppure c’erano.

Infatti, il panico diffusosi a Torino, in quei venti minuti, potrebbe essere considerato come un successo totale per i fautori del terrore: senza alcun “costo” hanno ottenuto il massimo del ricavo.

Mentre i tifosi del calcio, grandi e piccini, presenti nella piazza torinese, correvano e cadevano l’uno addosso all’altro, atterriti e sgomenti, i “tifosi” e, soprattutto, i “giocatori” del terrorismo, se informati degli eventi in corso, avrebbero potuto esultare davvero per quello che, dal loro punto di vista, rappresentava un successo senza precedenti.

È certamente banale ricordare che il terrorismo persegue come primo obiettivo quello di terrorizzare e che per farlo si serve della violenza. Come ci viene continuamente spiegato, la voluta spettacolarizzazione delle uccisioni e la ricerca della massima visibilità mediatica per le loro efferatezze vanno collocate in questa prospettiva. Quindi, la violenza omicida del sedicente Stato islamico non è la ragione del suo esistere. Pare più probabile che le uccisioni siano “soltanto” lo strumento, disumano, dispiegato per conquistare una forma suprema di potere.

Piazza San Carlo e il potere del terrorismo

Però, se il potere è un fenomeno che ha preminenti risvolti relazionali, si può dire che il 3 giugno, nel capoluogo piemontese, il terrorismo dell’Isis abbia affermato concretamente il potere acquisito.

Il terrore serpeggiato a Torino, sabato sera, tra i circa 40.000 presenti, mi pare, cioè, che testimoni assai efficacemente la potenza raggiunta dal sedicente Stato Islamico con la sua “politica” sanguinaria: grazie a tutti gli attentati perpetrati in giro per il mondo dai suoi aderenti, è riuscito a fare agire il terrore in una città, in uno Stato, dove finora non ha avuto ancora l’occasione, o la volontà, di adoperarsi letalmente.

Se si intende il termine potere nella sua accezione di dominio e se si attribuisce a questo un risvolto che rinvia al concetto di controllo, si potrebbe perfino dire, stando su un piano paradossale, che, senza neanche saperlo e volerlo, l’Is ha, indirettamente, controllato la piazza. Cioè vi ha esercitato un’influenza assai più penetrante di quanto non abbiano potuto fare i tutori dell’ordine e della sicurezza pubblica in quella manciata di parossistici minuti.

Almeno in tal senso, mi pare, quindi, che si possa dire che le persone presenti in piazza San Carlo il 3 giugno siano state vittime della violenza terrorista.

Le conseguenze traumatiche

Oggi, a circa due mesi dall’evento, è stata sciolta, senza una relazione finale, la commissione d’indagine del Consiglio Comunale costituita per far luce sulle cause e le responsabilità che hanno portato alla tragedia, sulla quale però sta indagando anche la magistratura torinese. Ma non mi pare pertinente rispetto ai temi trattati su questo blog, soffermarmi sulle possibili responsabilità ipotizzate dagli inquirenti o indicate dalle opposizioni in Consiglio Comunale. Credo piuttosto che abbia senso soffermarsi su di un altro aspetto: per le 40.000 persone presenti e, tra queste, per le oltre 1.500 ferite, l’esperienza di quella sera può essere assimilata a quella di un trauma derivante dal comportamento violento altrui.

In una prospettiva vittimologica, infatti, è difficile dubitare che all’esperienza delle centinaia di persone coinvolte in quell’evento non si possano attribuire aspetti propri della vittimizzazione da atto violento. Mi riferisco non solo alle ferite fisiche, ma anche alla convinzione, presente in molti, che fosse in atto un attacco terroristico e all’angoscia, vissuta da quasi tutti, di essere calpestati, schiacciati o soffocati da altri tifosi intenti a mettersi in salvo. Sono, questi, danni fisici e sofferenze emotive derivanti da azioni lesive o pericolose altrui.

Del resto è assodato che in molti di coloro che hanno vissuto quei momenti si è sviluppato un disturbo da stress post traumatico (PTSD)[3]. E su questo aspetto si è soffermato anche Luca Guglielminetti sul suo blog, con un post che, mi pare meriti davvero di essere letto con attenzione.

Vittimizzazione diretta e indiretta, effettiva e “virtuale”

Si può essere vittime dirette di un atto violento, ma si può esserlo anche indirettamente. Ad esempio, quando a subire una violenza è una persona cui siamo affezionati. Inoltre si può anche pensare che vi sia una forma di vittimizzazione, per così dire “virtuale”.

Erika Pioletti e le altre 1526 persone ferite, così come tutte le altre spaventate e scioccate presenti in Piazza San Carlo, certamente non sono state vittime di uno specifico atto terroristico. Ma, sembra che si possa asserire che siano stati vittimizzate dalla paura del terrorismo, derivante dalla sua, riuscita, azione complessiva. In altre parole, sono state vittime di un’attività terroristica – svolta su scala internazionale, con strumenti e su registri diversi -, che ha suscitato un’emozione, la quale  ha trasformato un gran numero di persone in un folla terrorizzata e pericolosissima. Terrorizzata da un attentato non verificatosi e subito dopo, forse ancora di più, terrorizzata dal panico stesso, che ha scatenato il dannoso e finanche letale fuggi fuggi.

In qualche misura su tale aspetto anche a ridosso dell’evento si era pronunciato anche Vincenzo Villari, primario di psichiatria alle Molinette, intervistato da La Stampa. Infatti alla domanda se vi fosse stata psicosi da terrorismo, egli rispose: «L’obiettivo dei terroristi è proprio quello di diffondere la paura. Anche in situazioni come quella di sabato sera, che non c’entrano con gli attentati. E quando questa dinamica si sviluppa tra migliaia di persone, l’effetto si moltiplica e la folla è difficile da organizzare»[4].

Pur sapendo che la terminologia può rivelarsi ridondante, penso che nell’ipotizzare quanto accaduto sia possibile ricondursi a due tipi di vittimizzazione: la vittimizzazione effettiva e quella che chiamerei “virtuale”. La distinguerei da quella potenziale, perché questa di riferisce alla reazione emotiva e comportamentale di chi teme che un crimine possa essere commesso a suo danno essendo stata sensibilizzata dall’esposizione alla notizia circa uno o più episodi delittuosi. Ma la vittimizzazione potenziale si ferma lì. Mentre in tale caso, non si è temuto che un giorno potesse accadere un attentato, ma si è pensato che fosse proprio in corso. E la convinzione, o anche solo il sospetto, che fosse in esecuzione un attacco terroristico ha prodotto una vittimizzazione effettiva.

Credo sia giusto, quindi, non sottovalutare il legame che sanguinosamente le unisce e non affrettarsi a ritenere quella virtuale meno rilevante o meno degna di attenzione e comprensione di quella effettiva.

Le vittime di Piazza San Carlo vanno riconosciute

Come già ho sostenuto in altri post su questo blog – ad esempio nei seguenti: Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima; Nessuna vittima è più uguale di un’altra; Il rispetto per l’umanità di chi è vittima di una violenza non (è mai stato) procrastinabile -, credo sia importante sottolineare la necessità di non fare graduatorie nelle forme di vittmizzazione e di evitare ogni atteggiamento giudicante verso la vittima. E ciò anche nei riguardi delle vittime di Piazza San Carlo.

Mi preme al riguardo recuperare quanto affermato da Villari nell’intervista sopra citata, rispondendo alla domanda del giornalista, Claudio Laugeri: « C’è qualcosa che ciascuno di noi può fare per evitare di trovarsi in difficoltà? ». «Ben poco», disse lo psichiatra. «La dimensione individuale è davvero secondaria. In situazioni del genere, c’è la necessità di sottrarsi fisicamente alla folla. L’intervento individuale è molto limitato. Bisogna cercare di mantenersi tranquilli e di adottare il comportamento più razionale possibile, resistendo alla pressione generalizzata».

I vissuti di chi c’era

Soffermiamoci allora su alcuni degli aspetti individuali, su cos’hanno vissuto alcuni di coloro che si trovarono in Piazza San Carlo il 3 giugno, su qual è stata la vittimizzazione effettiva da essi patita[5].

Chi ci ha raccontato quanto vissuto quella sera, ha descritto un’esperienza da incubo. Non soltanto la sensazione di essere premuti e soffocati dalla calca, già antecedente alle 22,15, e poi il terrore che ha attivato il sistema nervoso simpatico, facendo scattare il battito cardiaco verso un’accelerazione folle e impennare la pressione sanguigna. Non soltanto la paura di morire o che potessero morire amici, coniugi, fidanzati, genitori o figli. Ma anche qualcos’altro, qualcosa dallo sgradevole sapore onirico. Un’ eccitazione ingestibile e un’impotenza insuperabile. Una sensazione nauseante e violentissima di irrealtà e, contemporaneamente di urto brutale contro l’assurdo che diventa realtà. Uno stordente  sovvertimento di ogni senso comune, di ogni logica. Uno smarrimento di ogni riferimento. Una disperata ricerca di appigli fisici, per non essere schiacciati al suolo, cosparso di vetri, o sulle transenne, o per non perdere compagni, amiche o familiari le cui dita scivolavano via dalla stretta della mano. Il pensare «sto per morire» e subito «non voglio morire». Il tentativo di capire cosa sta accadendo, utilizzando le categorie disponibili per interpretare gli stimoli fisici ricevuti. Così, il rumore di circa 80 mila piedi sull’acciottolato a chi era finito per terra, in alcuni casi, ha fatto pensare ad un treno, ad altri ad un cingolato che stava percorrendo la piazza. Perché nessuno prima di allora aveva mai messo l’orecchio al suolo per sentire il rumore di tante migliaia di piedi che pestano e corrono, mentre il suono del treno o quello di un mezzo con i cingoli era conosciuto, e a quelle cose si è pensato. Nel primo caso restando dentro un limbo trasognato, nel secondo, quello del cingolato, convincendosi che davvero c’erano i terroristi in piazza. E subito il pensiero è andato alla strage del 14 luglio 2016 a Nizza. «Le vetrine tremavano», «I portici tremavano», è stato detto per spiegare perché la mente di molti razionalizzò come vera l’allarme di un attacco terroristico. E così anche frasi come «Si sono sentiti dei colpi», si collocano su questo registro. Come, per alcuni, il vedere sangue ovunque, addosso a sé e agli altri e il non collegarlo immediatamente ai cocci di migliaia di bottiglie che coprivano la piazza. Mentre ad altri, e tra questi chi aveva fatto l’esperienza diretta del G8 di Genova del 2001, molti dei suoni avvertiti e delle cose viste hanno fatto pensare ad un golpe.

La nauseante logica del “mors tua, vita mea”

Si potrebbe dire che interpretiamo quel che percepiamo sulla base delle associazioni con ciò che conosciamo per esperienza diretta o indiretta e con ciò che è più presente alla nostra mente in quell’istante. Ma al di là dei risvolti cognitivi, che lascio agli esperti, vale la pena soffermarsi su un aspetto, peraltro posto in evidenza anche da Guglielminetti: “mors tua, vita mea”. Con espressioni diverse, questo vissuto è stato proposto da più persone. E nel proporlo veniva espressa una rabbia, ancora esausta, provata allora, verso quel nemico, indistinto e incalcolabile, rappresentato dagli altri, letali e soverchianti nel loro essere, oggetti o soggetti, spingenti e calpestanti. Si è rischiato di morire, e di ciò ci si è resi conto. Ma in quei momenti, stando a quanto detto dalle vittime di piazza San Carlo ascoltate, vi era solo la vaga, subito accantonata o trasognata, impressione di poter fare del male o, addirittura, di poter dare la morte ad altri. E questo aspetto si collega ad un altro vissuto, sviluppatosi spesso già pochi minuti di, in altri casi a distanza di alcune ore o il giorno dopo. Mi riferisco alla vergogna.

L’ingombrante sensazione di “sporco”

Si tratta di uno stato emotivo di difficile gestione. Quando proviamo vergogna con noi stessi e/o davanti agli altri, vorremmo sparire, soffocare, liberarci di quel gusto sgradevole che ci strozza la gola. Ebbene, ascoltando, accogliendo e non giudicando alcuni di coloro che la sera del 3 giugno erano in piazza San Carlo, la vergogna è comparsa e si è insediata con radici profonde nei loro animi.

Qualcuna delle vittime di piazza San Carlo ha parlato di tutta l’esperienza vissuta come se si fosse trattata di una sporca vicenda. Perché sporca’ Perché si scopre d aver fatto qualcosa di sporco, o quando si viene scoperti, si può prova vergogna. E per molti l’aver reagito come animali in fuga, cercando solo di salvare se stessi e i propri cari, l’essere stati dominati dal mors tua, vita mea, il ricordare di aver spinto e lottato o il non riuscire a ricordarlo, sono stati motivo di vergogna, e non solo di senso di colpa. Cioè di uno stato d’animo – la vergogna – che è assai difficile non solo da sostenere ma anche da condividere. Più insidioso e ingombrante, sotto certi aspetti, del mero senso di colpa, che, di per sé, potrebbe avere anche qualcosa di eroico.

Vergogna e disagio per aver agito per paura

Per chi ascolta può esservi la tentazione di far osservare a questa o a quella tra le vittime di piazza San Carlo che non c’è da vergognarsi. Ma prima è bene cercare di capire, cioè di sentire, di empatizzare. In alcune persone vi è stata dapprincipio nel raccontare, il tentativo di affascinare con la narrazione, di renderla avventurosa, eroica, senza farle perdere la sua natura realistica. Sincere nell’esporre i fatti, ma avvincenti nei toni e nelle sfumature, parevano comunicare l’orgoglio di chi dopo può dire «Io c’ero».

Questa dimensione, questo atteggiamento, però, nel momento in cui il narratore sentiva la sospensione del giudizio e l’empatia di chi ascoltava, venivano abbandonati progressivamente e, infine, consentivano di verbalizzare un altro aspetto, un altro paio di sfumature della vergogna e del disagio provati: l’aver reagito alla paura, dandole corso, venendo così meno al dovere (morale, sociale?) di restare freddi e controllati, di avere coraggio, con l’aggravante che di fatto non era accaduto nulla di ciò che in piazza si pensava fosse successo. Non vi era stato nessun attacco terroristico.

Alcune delle vittime di piazza San Carlo hanno detto che anche un bel po’ dopo non potevano credere davvero che non vi fosse stato alcun assalto da parte di terroristi.

Evitiamo alle vittime di Piazza San Carlo la vittimizzazione da mancato riconoscimento

Un’ultima considerazione riguarda la rivittimizzazione. Com’è noto, per la vittima di una violenza il non essere riconosciuta come tale può avere conseguenze lesive importantissime. Si pensi, alla donna vittima di violenza in famiglia che da degli interlocutori da cui vorrebbe essere compresa e creduta sente sminuiti i maltrattamenti cui è sottoposta. Oppure si pensi ai richiedenti asilo che hanno patito torture e violenze atroci che non vengono creduti (si veda, nell’ambito del Convegno STAND BY ME: accoglienza, sviluppo locale e buone pratiche di inclusione, tenuto dall’Associazione Me.Dia.Re. a Torino, il 25 e 26 maggio 2017, l’intervento delle dott.sse Corrente e Sacchi e l’intervista di Simona Corrente).

Perciò, il non considerare coloro che in piazza San Carlo hanno fatto le esperienze di cui qui si è scritto equivale a negarne la sofferenza. Significa delegittimarne i vissuti, costringerli a dare concretezza al sentimento di disagio azzittendosi, rinchiudendosi e nascondendosi.

In breve, negare loro attenzione empatica equivale a commettere una violenza, come in tutte le situazioni in cui si svaluta e si giudica la vittima di una violenza. Analogamente, incolpare le vittime di piazza San Carlo per quanto accaduto quella sera non è affatto dissimile dal colpevolizzare la vittima di un’aggressione a scopo di rapina o di stupro per la violenza patita.

Chi ha vissuto questo evento, in pochi minuti, quella sera, ha perso molte cose importanti, difficili da dire, e ancor di più da spiegare e da recuperare o reintegrare. Quindi  cerchiamo di non fargli perdere anche la dignità, biasimandolo per quanto gli è capitato o considerandolo una vittima di rango inferiore rispetto ad altre.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Tra i feriti anche un bambino, Kelvin, di sette anni. Il piccolo, per fortuna, era stato messo in salvo da due ragazzi, Mohammad Guyele e Federico Rappazzo, come riportato da La Stampa.

[2] Come riportò il Post, «un furgone con a bordo tre uomini ha prima investito i pedoni sul marciapiede del London Bridge, uno dei ponti più importanti della città, in pieno centro; poi ha continuato il suo percorso verso il Borough Market, subito a ridosso del London Bridge sulla riva meridionale del Tamigi, un’area grande e molto frequentata di bar, locali e chioschi. Il furgone si è poi fermato, i tre uomini armati di coltelli sono scesi e hanno cominciato ad accoltellare i passanti e i clienti dei locali del Borough Market. Domenica sera lo Stato Islamico (o ISIS) ha rivendicato l’attentato tramite un comunicato diffuso dalla sua agenzia di stampa Amaq».

[3]Sul sito di State of Mind si legge che, secondo il nuovo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali (DSM-5), perché si abbia il PTSD, è necessario che: la persona sia stata esposta a un trauma, quale la morte reale o una minaccia di morte, o di una grave lesione, sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico insorgano dopo l’evento traumatico (ricordi, sogni, flashback); evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico che viene messo in atto  dopo l’evento traumatico (ad esempio si evitano i ricordi spiacevoli, così come i pensieri o i sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico, ma anche alcune persone, i luoghi, o altre situazioni associate al fatto; alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento traumatico si manifestino dopo l’evento traumatico (ad esempio, la persona può: non ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico; sviluppare persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative su se stessi o sugli altri; dare la colpa a se stessi oppure agli altri per quanto accaduto; provare sentimenti persistenti di paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna, una marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri o incapacità di provare emozioni positive come felicità, soddisfazione o sentimenti d’amore), marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento traumatico si manifestino dopo l’evento traumatico (ad esempio un comportamento irritabile o spericolato e autodistruttivo, una certa ipervigilanza, o delle esagerate risposte di allarme, difficoltà relative al sonno).

[4] Con un’altra prospettiva anche Francesco Merlo su Repubblica, a  due giorni di distanza, aveva commentato l’accaduto utilizzando i concetti di terrorismo controllato (quello avvenuto a Londra) e terrorismo annunziato (quanto accaduto a Torino).

 

[5] Tra i Servizi gratuiti che l’Associazione Me.Dia.Re. eroga a Torino, vi sono anche quelli di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato doloso e colposo e per le persone affettivamente legate alle vittime, ed è in questa cornice che sono state ascoltate alcune delle persone presenti in quella piazza, nei giorni e nelle settimane successivi.

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