Una certa circolarità tra un inadeguato ascolto dei vissuti dei cittadini da parte della politica e il condizionamento di tali vissuti sulle decisioni politiche

Probabilmente è risaputo che il mancato ascolto da parte di coloro che rappresentano le istituzioni politiche comprime, o addirittura azzera, la possibilità dei rappresentati, dei cittadini, di essere supportati nel compiere un’elaborazione dei vissuti individuali e collettivi che ne influenzano pensieri, atteggiamenti e comportamenti. Si pensi a come sovente talune angosce, delusioni, frustrazioni e sentimenti di solitudine, di confusione, di smarrimento e di insicurezza presenti nella cittadinanza manifestino una tendenza a tradursi anche in paure, sospetti, fobie e rabbia indirizzati verso obiettivi specifici (normalmente verso minoranze religiose, etniche, culturali o politiche, o verso  categorie, professionali o di altro tipo, oppure verso organizzazioni specifiche, fatte oggetto di categorizzazioni e stereotipi negativi), spesso, in verità, alieni da ogni reale nesso causale con le autentiche fonti del disagio patito, oppure solo parzialmente collegabili con esso. Si possono citare, a titolo esemplificativo, gli stereotipi, i pregiudizi e l’ostilità di cui sono o sono stati fatti segno gli stranieri, i meridionali, i nomadi, i dipendenti pubblici, le banche, i sindacati, gli imprenditori, i magistrati, gli operatori sanitari, i politici di questo o quello schieramento, o di tutti gli schieramenti. E si potrebbe porre mente a come non raramente, in mancanza di un’elaborazione da parte della leadership politica (di maggioranza e di opposizione, a livello nazionale e locale), le suddette rappresentazioni mentali stereotipiche, i pregiudizi e i sentimenti ostili, coltivati da una parte della popolazione – spesso su proposta, incoraggiamento e rinforzo di alcuni partiti -, finiscano poi con il condizionare larga parte della politica, almeno sul piano della comunicazione.

Infatti, tra gli esiti derivanti dalla difficoltà della leadership di supportare e accompagnare l’elaborazione delle ansie, delle frustrazioni e delle angosce, ridimensionandole alfine, se e quando necessario, e, comunque, collocandole nella corretta cornice eziologica, il rischio più grave, spesso inverato, è il seguente: che tali vissuti si traducano in azioni, in “agiti” si direbbe in gergo psicodinamico, posti in essere proprio da alcuni o molti esponenti politici, o addirittura da leader. Che sia per il timore di perdere consensi e potere o per attenuare la frustrazione e l’impotenza del non riuscire a trasformare i pregiudizi e le paure dei cittadini, o che sia per entrambe le ragioni, non raramente sulla scena politica italiana e internazionale sono apparse e appaiono dichiarazioni di rappresentanti istituzionali e addirittura interi programmi politici, o singole proposte o disposizioni di natura normativa, permeati dai sentimenti più pericolosi e meno razionalizzati presenti nella popolazione. Presenti, cioè, nella maggioranza della popolazione, oppure anche solo in una sua parte, magari numericamente minoritaria, ma, proprio perché alterata ed esasperata, particolarmente capace di attrarre l’attenzione e di estendere la propria influenza in senso orizzontale e verticale.

D’altra parte, anche il mondo occidentale ha visto diversi movimenti politici non soltanto compiere gli “agiti” suddetti, ma indurre e stimolare, sfruttare e strumentalizzare le passioni e le pulsioni, anche le più oscure, presenti nelle fasce più frustrate e meno ascoltate della popolazione, per raccogliere i consensi necessari ai loro fini o, addirittura, per cercare un’affermazione plebiscitaria: nel Novecento alcuni di tali movimenti politici si dichiaravano programmaticamente antiliberarli e antidemocratici, intrisi com’erano di aspirazioni totalitarie – tra questi, il partito fascista in Italia e quello nazionalsocialista in Germania, sono gli esempi più devastanti, tragici e sanguinosi, per i loro e per altri interi popoli, di conquista del potere di governo e del suo monopolio -, altri, invece, qualificantisi come democratici, lo erano solo a parole, pur dichiarandosi come i veri difensori delle libertà e dei diritti democratici – ad esempio, il maccartismo negli Stati Uniti tra la seconda metà degli anni ’40 e la prima metà degli anni ’50. Negli anni Duemila, non sono rari i movimenti in Italia e all’estero, che, restando nel campo dello stato democratico di diritto e del rispetto della sua legalità costituzionale – talvolta, in verità, appena al di qua del confine, talaltra ritenendosene addirittura i migliori tutori -, si propongono come i porta-voce genuini di una cittadinanza che non si sente ascoltata nel suo essere delusa, sfiduciata, angosciata, arrabbiata, abbandonata, tradita, ingannata e amareggiata.

Alberto Quattrocolo

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