Il 22 settembre 1922 si consuma la strage di Casignana

L’interrogazione parlamentare dell’onorevole Mastracchi, in merito ai fatti di cui trattiamo oggi, testimonia della situazione calabrese durante il primo dopoguerra:

Lamentavo nella mia interrogazione che le autorità locali si facessero indirettamente conniventi con le clientele locali per contrastare ai combattenti reduci dalle trincee, ai contadini calabresi, il diritto di rivendicare con l’effettivo lavoro quei terreni tenuti per decenni incolti dai signori feudatari.

Svariati ettari di terreno risultavano, infatti, nelle mani dei possidenti locali, che non permettevano ai braccianti di sfruttarli come avrebbe voluto, impedendone, di conseguenza, l’emancipazione dal giogo economico cui erano sottoposti.

Il 2 settembre 1919, il Governo Nitti emise un decreto in favore degli ex combattenti: da quel momento in poi, potevano essere assegnate terre incolte ad associazioni o enti da essi costituiti. Un nutrito gruppo di speranzosi fondò, quindi, la Cooperativa Garibaldi, a cui fu concessa la foresta di Callistro, proprietà della famiglia Carafa: per quattro anni avrebbero avuto l’opportunità di occupare legittimamente quell’appezzamento di terra. Il prefetto di Reggio Calabria aveva dunque riacceso la fiamma della speranza in quei poveri contadini: l’indipendenza economica, e sociale, si profilava all’orizzonte.

Fu lo stesso prefetto che, tuttavia, pochi giorni più tardi accolse la domanda dei Carafa, con cui chiedevano la restituzione della foresta, spegnendo così quel tenue bagliore. Ai braccianti rimasero solo gli strumenti del proprio lavoro, non la terra su cui utilizzarli. Arriviamo, quindi, al 22 settembre: da una parte abbiamo i contadini della cooperativa, guidati da sindaco e vice di Casignana, Ceravolo e Micchia; dall’altra, il vicecommissario Rossi e i carabinieri di scorta, affiancati dai nemici della stessa cooperativa, fra cui alcuni fascisti. I primi si recavano a notificare l’inviso provvedimento, mentre i secondi si ribellavano a quell’atto, vissuto come repressivo della loro libertà. Un colpo di fucile ferì gravemente Ceravolo, e in un attimo si scatenò la sparatoria. Tre morti, sei feriti gravi e diverse decine di feriti lievi si contarono al placarsi delle armi.

Considerato il rischio di diffusione dell’ideale socialista, in seguito alla morte di chi lo portava come bandiera, Giuseppe Bottai, gerarca fascista, scese in quelle terre per meglio valutare la situazione: non si poteva permettere un cambiamento tanto radicale come quello della liberazione dei contadini. Il viaggio di verifica si svolse tranquillamente, ma, proprio sul finire, un agguato ferì a un braccio un componente del suo seguito.

Giuseppe Naim, Presidente della cooperativa Garibaldi, non aveva partecipato alla marcia del 22 settembre, essendosi recato a Reggio Calabria, per dirimere la questione direttamente con Prefetto. Se questo gli valse la salvezza dall’eccidio, la sua abitazione non uscì indenne dagli eventi: la rappresaglia per l’affronto subito dalla squadra di Bottai le costò la devastazione.

 

Alessio Gaggero

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Il 21 settembre 1990 la mafia assassinava il giudice Rosario Livatino

Era un uomo riservato e gentile. Ed era uno “sgobbone”

Era un venerdì il 21 settembre 1990, e sulla statale 640, che da Canicattì porta ad Agrigento, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso amaranto, Rosario Livatino stava andando, come tutte le mattine, in tribunale. Doveva prendere parte ad un’udienza sulle misure di prevenzione nei confronti di quindici presunti esponenti esponenti della mafia di Palma di Montechiaro.

A quattro chilometri da Agrigento, però, dei killer mafiosi, quattro, due su una Fiat uno turbo diesel e due su di una moto enduro, lo fermano. Per sempre.

Era un magistrato, aveva quasi 38 anni (era nato il 3 ottobre 1952) ma ne dimostrava di meno, un po’ per il corpo minuto e un po’ per il viso quasi da adolescente, e viveva a Canicattì, in viale Regina Margherita 168, con la madre Rosalia di 65 anni e il padre Vincenzo, settantacinquenne.

Era una persona riservata, il dott. Livatino. Gentile con tutti, ma un pochino schivo, secondo il ricordo di quanti lo conoscevano. Era talmente riservato che i suoi genitori non soltanto non avevano alcuna conoscenza delle vicende di cui si occupava, ma erano anche stati tenuti da lui all’oscuro dei rischi che era consapevole di correre. Del resto, aveva anche rifiutato la scorta per non mettere a repentaglio altre vite oltre alla sua.

Era anche uno “sgobbone”, Rosario Livatino. Diplomato al liceo classico Ugo Foscolo di Canicattì, dove si era impegnato nell’Azione Cattolica, si era poi iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Palermo – come decenni prima aveva fatto suo padre, ormai in pensione – e si era laureato nell’anno accademico 1974-‘75, a ventidue anni. La sua tesi di laurea era di 90 pagine e trattava il tema del concorso di persone, a diverso titolo di partecipazione, nella commissione di un reato. Il titolo era “L’autore mediato”. Aveva ottenuto 110 e lode.

Poi, si era iscritto a Scienze Politiche, conseguendo, così, una seconda laurea. Nel frattempo aveva partecipato anche a vari concorsi pubblici e, soprattutto, aveva studiato per quello in magistratura. Aveva vinto il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell’Ufficio del Registro di Agrigento. Vi era rimasto dal 1° dicembre 1977 al 17 luglio 1978, per poi rinunciarvi avendo superato anche, un altro concorso, quello a cui teneva di più.

Nominato uditore giudiziario a Caltanissetta, nella primavera del ‘79 era  stato nominato sostituto procuratore presso la procura del tribunale di Agrigento.

Livatino, però, non si era stabilito ad Agrigento. Era rimasto a vivere a Canicattì, con i suoi genitori, preferendo fare avanti e indietro da Viale Regina Margherita al Palazzo di Giustizia di Agrigento.

Le indagini come Sostituto Procuratore

Come Sostituto Procuratore della Repubblica si occupò fin dagli anni Ottanta di indagare non soltanto su fatti di criminalità comune ma anche di tangenti e corruzione, oltre che di mafia.

Nell’82 indagò sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle, in particolare sui criteri con cui erano finanziate dalla Regione Sicilia. Inoltre, in base ad una sua intuizione, la Procura di Agrigento aprì un’indagine sulle fatture false dei cavalieri del lavoro catanesi. Ne emersero non soltanto decine di miliardi di lire di fondi neri, ma anche la collaborazione tra imprese e mafiosi. Per competenza l’indagine passò, poi, a Catania e a Trapani.

Livatino, colpito dalla portata dei personaggi e degli interessi in gioco emergenti nell’inchiesta da lui avviata, chiese per la prima e unica volta misure di protezione per la sua persona, rinunciandovi poi circa un anno dopo.

A Trapani ad occuparsi dell’indagine fu Carlo Palermo, che emise mandati di cattura per i cavalieri catanesi. Tali provvedimenti furono confermati dal Tribunale della libertà, ma revocati in Cassazione da Corrado Carnevale. Vale la pena ricordare che Carlo Palermo sopravvisse all’esplosione di una bomba telecomandata, che, però, massacrò una giovane mamma e i suoi due figli.

Nell’83 Livatino indagò sull’Ospedale civile di Agrigento e nell’84 sul traffico d’armi svolto da Giusepe Milazzo.

Nell’85 condusse un’indagine, insieme con l’ufficio istruzione, su quella che poi negli anni ’90  venne chiamata la “Tangentopoli siciliana”. Il 7 gennaio, affiancando il procuratore della repubblica Elio Spallitta, interrogò, come testimone, un deputato democristiano di Agrigento, l’avv. Angelo Bonfiglio: oggetto della testimonianza: le conoscenze e i rapporti dell’onorevole con esponenti mafiosi della provincia di Agrigento. Il 9 gennaio, insieme al Sostituto Procuratore Salvatore Cardinale interrogò l’ottantenne Gaetano Di Leo, per diverse legislature deputato democristiano.

Fu, inoltre, proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato, Calogero Mannino.

Livatino indagava, infatti, su quelle trame e quei rapporti che rivelavano luce gli interessi economici e gli affari della mafia e di chi stabiliva rapporti con essa. Si era occupato della guerra di mafia a Palma di Montechiaro, quindi, e dell’intreccio tra mafia e affari, illuminando il “sistema della corruzione” su cui quell’intreccio si fondava e che a sua volta alimentava.

Nella sentenza di condanna dei suoi assassini si legge:

«perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».

Le sue idee sul ruolo del magistrato

«Non ci si verrà a chiedere se siamo stati credenti, ma credibili», aveva sostenuto Livatino.

Il 20 settembre 2018, durante l’incontro “Rosario Livatino, tra fede e giustizia”, promosso dal Comune di Agrigento, oltre al Sindaco Lillo Fioretto vi erano l’ex presidente di Corte d’Appello, Salvatore Cardinale, l’attuale presidente del tribunale di Agrigento, Pietro Maria Falcone, e padre Giuseppe Livatino, postulatore della causa di canonizzazione del giudice. Il presidente del tribunale ha spiegato il senso di quella frase:

«è una diretta espressione della profonda fede che ha sempre caratterizzato, Livatino, anche se esprime un valore assoluto. Essere credibili significa essere disposti a sostenere i valori a cui si crede ad ogni costo».

Questo tenere la schiena dritta importava necessariamente rompere una regola non scritta che imponeva di negare che la mafia esistesse. Ha spiegato Carnavale che si trattava di «una negazione intellettuale che anche le alte gerarchie ecclesiastiche sostenevano», aggiungendo che, mancando una legislazione adeguata «i processi si concludevano per mancanza di prove o venivano trasferirti per legittimo sospetto». Tutto ciò in un «clima di connivenza, anzi, di vera e propria collaborazione di politica e amministrazione dello Stato con la mafia. Gli esponenti politici cercavano i mafiosi per essere eletti e c’era, e c’è ancora, una commistione tra mafia e massoneria».

Ricordiamo che sono gli anni in cui si scopre l’esistenza della Loggia P2, del suo piano di “Rinascita”, delle sue relazioni con la mafia, dell’appartenenza ad essa di uomini dei servizi, di magistrati, imprenditori, professionisti, giornalisti, ecc.

A questo riguardo la posizione di Livatino era cristallina.

«Se sono già serie le ragioni di perplessità sull’adesione del Giudice ad un partito politico, queste ragioni appaiono centuplicate nella partecipazione ad organizzazioni di fatto più o meno riservate o, comunque, non facilmente accessibili al controllo dell’opinione pubblica, i cui aderenti risultano legati fra loro da vincoli della cui intensità e natura nessuno è in grado di giudicare e valutare. Qui bisognerà proclamare, con assoluta chiarezza, che la norma dell’art.212 TU.L.P.S., che sancisce l’immediata destituzione per tutti gli impiegati pubblici che appartengono ad associazioni i cui soci sono vincolati dal segreto, si applica anche ai magistrati, che ne sono anzi, logicamente, insieme ai militari, i destinatari più diretti».

 

“La trasparenza della condotta” del magistrato “anche fuori delle mura del suo ufficio”

Livatino, però, aveva delle idee che risultavano, a dir poco, scomode non soltanto per i mafiosi e gli appartenenti alla P2. Era fermamente convinto che i magistrati non potessero fare politica e poi riprendere ad esercitare la funzione giudiziaria ed era anche contrario agli incarichi extragiudiziari.

L’indipendenza del Giudice, asseriva, «non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative ed affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo dell’interferenza».

La fede e il ruolo di magistrato

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Ha scritto Silvia Bortoletto sul sito Cosa Vostra:

Integrità, indipendenza e senso del dovere sono affiancati da una fede profonda. Convivono nella figura del giudice canicattinese senza contraddizione alcuna ma semmai rafforzandosi e traendo reciprocamente alimento. La direzione morale tracciata dalla fede non può collidere od esentare dalla necessità di rispettare e proteggere la legge e la sua funzione. “Non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili” è il lascito più semplice ed umile del giudice Livatino. La rettitudine e la coerenza nonostante tutto, prima ancora che la rigorosa professione di una religione, saranno i veri parametri di giudizio dell’operato di un individuo.

Si può qui intendere come Livatino guardi alla sua professione di magistrato, a sua volta quindi incaricato di giudicare altri, come ad un ruolo quasi “divino” che, visto proprio in questa luce, assume un significato ed un’importanza drammatici.

È un uomo di ragione, che vede nella religione una guida morale e nella legge una misura di tutele e codici, entrambe necessarie per il buon funzionamento di una società. Per il suo attaccamento alla fede cattolica – è impegnato sin dalla giovane età in Azione Cattolica-, la figura di Livatino viene ampiamente celebrata dalla Chiesa che ha iniziato il processo di beatificazione nel 2011.

Sul sito Centro Studi Rosario Livatino si legge un’altra dichiarazione di Livatino.

«Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere ‘giusti’, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano».

Sul rapporto tra il ruolo di magistrato e la fede Livatino aveva sostenuto:

«Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».

L’agguato e il testimone che non chiude gli occhi e non tira innanzi per la sua strada

Dal 1989 Livatino era diventato giudice a latere e assolveva tale funzione quando fu assassinato da quattro killer. Speronata dall’auto degli assassini , che già gli avevano sparato addosso diversi colpi per 90 secondi, ferendolo ad una spalla, la sua Ford Fiesta si fermò contro il guardrail. Il magistrato, ingranò la retromarcia, ma poi uscì dal lato destro della macchina, scavalcando il guardrail e correndo giù per il vallone tra sassi e sterpi bruciati dal sole, ma fu inseguito dai killer, che scavalcarono anch’essi il guardrail e lo inseguirono prendendo la mira. Impiegarono altri tre minuti circa per finirlo. Dopo averlo colpito, due di loro, raggiunsero il suo corpo abbattuto nel letto essiccato di un torrente e gli tirarono ancora dei colpi di pistola, a distanza ravvicinata.

Testimone oculare del delitto fu Pietro Nava, che rese subito testimonianza alla polizia. Questo ex agente di commercio bergamasco, rappresentante di un’impresa astigiana di porte blindate, fu costretto all’oblìo, a sparire, a rinunciare tutto, o quasi tutto, cioò che aveva costruito nella sua vita, per sottrarsi alla rappresaglia, alla vendetta mafiosa. Disse a Giuseppe D’Avanzo:

«Non mi sento un eroe, sono un cittadino che crede nello Stato come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un’entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono…».

 “Giudice ragazzino”

Il titolo del libro che Nando dalla Chiesa gli dedicò era Il giudice ragazzino (e a tale testo si è qui largamente attinto). La ragione di quel titolo risiede nel fatto che otto mesi dopo la morte del giudice, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì «giudici ragazzini» una serie di magistrati impegnati nella lotta alla mafia:

«Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemm eno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta».

«Il mio ragazzo, Rosario Angelo Livatino, è un eroe»

Nel 2002 in una lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia e indirizzata ai genitori del giudice, Cossiga smentì che quelle parole fossero riferite a Rosario Livatino, che, invece, definì “eroe” e “santo”.

Il padre Vincenzo, subito dopo l’omicidio, parlando di suo figlio con i cronisti al presente, come se fosse stato ancora vivo, disse:

«Rosario è un uomo probo, fa il suo dovere. Non è un eroe, è un buon figlio e un buon siciliano.Però, se oggi, in Sicilia e in Italia, fare il proprio dovere per lo Stato significa essere un eroe, allora sì, che lo scrivano, che lo dica Cossiga: il mio ragazzo, Rosario Angelo Livatino, è un eroe»

La causa di beatificazione

Nel 1993 il vescovo di Agrigento, Carmelo Ferraro, incaricò l’ex insegnante di Livatino, Ida Abate di raccogliere testimonianze per la causa di beatificazione. E il 19 luglio del 2011 l’arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, firmò il decreto per l’avvio del processo diocesano di beatificazione.

Sono state raccolte 45 testimonianze sulla vita e la santità del giudice, tra le quali quella Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer. Il 6 settembre 2018 è stata comunicata la chiusura del processo diocesano. Dopo la celebrazione del 3 ottobre nella Chiesa di Sant’Alfonso ad Agrigento, la documentazione di circa 4 mila pagine è stata affida all’esame dalla Congregazione delle Cause dei Santi.

 

Alberto Quattrocolo

 

 

Fonti

Nando dalla Chiesa (1992), Il giudice ragazzino, Einaudi, Torino

www.agrigentonotizie.it/cronaca/livatino-accademia-belle-arti-agrigento-ricordo-mafia-massoneria-20-settembre-2018.html

www.centrostudilivatino.it/rosario-livatino

www.cosavostra.it

www.famigliacristiana.it/articolo/storia-di-rosario-livatino-il-giudice-ragazzino.aspx

www.repubblica.it/cronaca/2016/09/21/news/omicidio_livatino_testimone_chiave_in_commissione_antimafia-148260333

Giuseppe D’Avanzo, Così paga chi aiuta lo Stato, La Repubblica, 8 aprile 1992

Marco Imarisio, Livatino, parla il testimone “Lo Stato per difendermi mi ha dato soldi e pistole”, Corriere della Sera, 12 ottobre 1998

https://it.wikipedia.org

Entra in vigore la legge Merlin il 20 settembre 1958

Si entra nell’incoscienza, il miraggio d’ambizioni stupide. E dopo quando vediamo che questo denaro è veramente sudato con il nostro dono migliore, non dà né il risultato e nemmeno la felicità, non siamo più capaci di trovare la vera via. Passano gli anni, le speranze, qualche illusione d’amore, una grande pietà ci prende per noi stesse per essere così perdutamente sole.
(Lettere dalle case chiuse, n. 54)

Non chiamatele prostitute; sono donne che amano male perché furono male amate
(L. Merlin, intervistata da Oriana Fallaci, 1963)

Alla mezzanotte del 20 settembre 1958, entrò in vigore la legge n. 65/1958, approvata in febbraio, e le oltre settecento case di tolleranza sparse in tutto il territorio nazionale dovettero chiudere i battenti.

Quattordici ore al giorno, per un minimo obbligatorio di trenta rapporti quotidiani, senza possibilità di rifiutare performance particolari, in ambienti malsani…

Le più blasonate tra esse organizzarono feste d’addio e concerti di violini per l’addio alle “signorine”, e le migliori firme (maschili) del giornalismo italiano commentarono l’avvenimento scrivendo articoli tra l’ammiccante e il nostalgico, evocando romantiche immagini di prostitute dal cuore d’oro, sola consolazione per vecchietti e storpi, affettuose iniziatrici di adolescenti inesperti, generose sponde d’argine al furore amatorio del maschio italico, troppo impetuoso per essere contenuto dalle pudiche sposine tra le mura domestiche.

Tanto per avere un’idea del romanticismo del “mestiere”, stiamo parlando di quattordici ore al giorno (“dalle 10 all’una, dalle 2 alle 8, dalle 9 alle 24, non ti lasciano che il tempo di mangiare e di lavarti la faccia”) per un minimo obbligatorio di trenta rapporti quotidiani (non era previsto un limite massimo), senza possibilità di rifiutare performance particolari (“cliente scontentato, rinnovo perso..”), in ambienti senz’aria (le persiane sempre chiuse) e spesso malsani, in cui i vantati controlli sanitari il più delle volte si risolvevano in un passaggio di mazzette dai tenutari a medici compiacenti; quasi nessuna ragazza godeva, per il riposo, di una stanza singola, a volte nemmeno di un proprio materasso, le uscite erano contingentate (ordine dei questori) e non si potevano fare acquisti fuori dal postribolo, poiché i proprietari vendevano a prezzi maggiorati biancheria, disinfettanti, saponi e profumi.

Delle circa tremila donne in servizio nelle case controllate dallo stato negli anni Quaranta e Cinquanta, molte avevano figli piccoli da mantenere, messi a balia o in istituti pagati a caro prezzo, e i proventi della professione, detratte le percentuali dovute ai tenutari e quelle estorte col ricatto, erano scarsi; quasi nessuna riusciva ad ammucchiare un gruzzolo per rifarsi una vita, e a 35-40 anni, sfiorite e spesso ammalate, venivano espulse dal circuito e abbandonate a se stesse. Se si voleva provare un’esistenza diversa mancava il libretto di lavoro, che non si poteva ottenere senza il permesso di residenza, il quale a sua volta non veniva concesso se non si aveva un lavoro, ma nessuno assumeva un’ex prostituta. E se una di loro era pronta a convolare a nozze con un militare di carriera, il ministero competente negava l’autorizzazione. Se voleva aprire un negozio, non le era concesso.

Perché è questa nostra società che costruisce, sulla miseria e sul dolore altrui, le valvole di sfogo di una morale filistea

Perché è questa nostra società che costruisce, sulla miseria e sul dolore altrui, le valvole di sfogo di una morale filistea, ed è ancora questa società che, dopo averle sfruttate, uccide legalmente, in nome di quella stessa morale, le sue vittime, che sarebbero, al dire degli ipocriti, necessarie a preservarla. […] La lotta per l’abolizione della schiavitù legalizzata della donna diventa un passo importante, un mezzo importante per far conquistare alla donna italiana la coscienza della necessità della sua emancipazione, elemento che condiziona, in notevole misura, la possibilità di democratizzare la vita nel nostro Paese o […] far finire lo sfruttamento dei pochi sui molti.

La senatrice Merlin, firmataria e promotrice della legge n. 65 che, suo malgrado, passò alla storia col suo nome, non ritenne di vietare “ciò che è insopprimibile, cioè il mercato dell’amore”, ma puntò a cancellare lo sfruttamento perpetrato all’ombra delle leggi dello Stato in una modalità ipocrita che marchiava a vita le donne, privandole della possibilità di trovare un lavoro e immaginare un futuro normale emancipandosi dal degrado.

La senatrice Lina Merlin

Classe 1887, nata in Veneto da famiglia poverissima, Angelina – detta Lina – Merlin lavorò precocemente, al contempo studiando fino a laurearsi nel 1914; pacifista nella Prima Guerra Mondiale, si avvicinò al socialismo, rifiutò di giurare fedeltà al regime mussoliniano e fu arrestata e confinata in Sardegna; partigiana e antifascista militante, fondò i Gruppi per la difesa della donna e per l’assistenza ai volontari della libertà, che diverranno poi l’Unione Donne Italiane. Presente ai lavori dell’Assemblea Costituente, fu lei a chiedere di introdurre, all’articolo 3, il passaggio “senza distinzione di sesso”, che per i suoi colleghi era implicito. Nel 1948 fu eletta senatrice, la prima (e unica, nella legislatura) donna, all’età di 61 anni.

Dedicò il suo cammino parlamentare alla promozione dei diritti delle donne e al miglioramento della condizione femminile. Ottenne l’abolizione della dicitura “figlio di N. N” per le nascite “illegittime”, l’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi in materia fiscale, l’eliminazione delle disparità tra figli adottivi e propri, la possibilità per le donne di accedere alla magistratura, l’abolizione della “clausola di nubilato” nei contratti di lavoro, che imponeva il licenziamento alle lavoratrici che si sposavano. Si impegnò personalmente nell’organizzazione dei soccorsi per l’alluvione del Polesine.

La lotta contro le case chiuse e il giro di affari correlato le procurò polemiche e beceri insulti sessisti anche all’interno del suo stesso partito: si narra che, per ottenerne l’appoggio in Parlamento, dovette minacciare il segretario Pietro Nenni di rendere pubblici i nomi dei compagni proprietari di bordelli (leggendaria la risposta: “Mio Dio, Lina, e come faccio ad avvisarli tutti?”).

Questo Paese di viriloni che passan per gli uomi­ni più dotati del mondo e poi non riescono a conquistare una donna da soli! 

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Si trovò a fronteggiare una serie di luoghi comuni, gli stessi che continuano ad essere sbandierati oggi. Come il fatto che non se ne può fare a meno perché è un’esigenza fisiologica. Lei però aveva le idee chiare, come spiegherà in un’intervista del 1963 ad Oriana Fallaci:

Questo Paese di viriloni che passan per gli uomi­ni più dotati del mondo e poi non riescono a conquistare una donna da soli! Se non gli riesce di conquistare le donne, a questi cretini, peggio per loro.

Una volta una donna le urlò per strada:

Dove mando ora i miei figli?”. E lei, schietta: “Dalle figlie delle sue amiche”.

La senatrice ricevette anche numerose lettere dalle lavoratrici delle case chiuse, molte a favore della sua battaglia, qualcuna contraria, ma sempre testimonianze strazianti di storie di vita che si volevano tenere ben nascoste dietro le serrande sbarrate delle case chiuse di stato.

La legge approvata, e tuttora in vigore, non rese illegale la prostituzione, ma il suo sfruttamento ad opera di soggetti pubblici o privati ed eliminò quei provvedimenti, legati a malintese questioni di ordine pubblico e “decoro”, che marchiavano a vita le prostitute.

Lo spirito della norma trova fondamento nei trattati internazionali sul tema, nonché negli artt. 2-32-41 della Costituzione italiana, come sottolineò la stessa Merlin:

Nell’art. 2 la Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, riafferma la precedenza della persona umana rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella, e perciò condanna implicitamente la regolamentazione, che giustifica la mortificazione di un gran numero di donne disgraziate nella presunzione di provvedere a un servizio sociale. L’articolo 32 afferma che la Repubblica deve tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge, ma la legge, in nessun caso, può violare i limiti imposti dal rispetto alla persona umana. I legislatori, che tale articolo approvarono, espressero prima di me l’impegno di abolire la prostituzione ufficiale, che contravviene a quella norma. L’articolo 41, stabilendo che l’iniziativa economica privata è libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, condanna implacabilmente l’infame mercato dei lenoni.

Avrebbe dovuto essere un primo passo, in direzione di un riconoscimento di dignità a coloro che oggi si definiscono sex workers, a tutelarne l’autonomia delle scelte e la possibilità di cambiare vita; ad oggi, non sono seguite evoluzioni significative, necessarie dacché lo sviluppo dei flussi immigratori ha reso disponibile una massa di donne giovanissime, anche minorenni, in condizioni di estrema vulnerabilità, consentendo alle organizzazioni criminali di organizzare un mercato della prostituzione sempre più diffuso e diversificato (strada, locali, centri massaggi, web) e connesso a tratta, violenza, riduzione in schiavitù. Le stime sulla prostituzione in Italia oscillano fra 75 e 120 mila donne, di cui più del 30% minorenni. In strada per lo più sono nigeriane e dei paesi dell’Est. Circa nove milioni i clienti con un “mercato” che vale intorno ai 90 milioni di euro al mese.

 

Silvia Boverini

Fonti:
D. Ronzoni, “Lina Merlin, che rese l’Italia meno ‘tollerante’”, www.linkiesta.it;
www.universitadelledonne.it;
O. Fallaci, “Intervista a Lina Merlin”, l’Europeo, 1963;
E. Milanesi, “1958, sessant’anni fa la fine dei casini”, www.ilmanifesto.it;
“60 anni di Legge Merlin, potenziamola”, www.apg23.org;
www.abbattoimuri.wordpress.com;
M. Serri, “Cara senatrice Merlin, sono una di quelle…”, www.lastampa.it;
E. di Caro, “Lettere dal degrado umano”, www.ilsole24ore.com;
“Lettere dalle case chiuse”, a cura di Lina Merlin e Carla Barberis, scaricabile su www.fondazioneannakuliscioff.it alla voce “pubblicazioni”

76 anni fa a Boves scoprirono quanto valeva la parola di un ufficiale tedesco

Il Paese stava sprofondando nell’orrore

All’inizio di quell’estate del ’43 Benito Mussolini era ancora il Capo del Governo e il Regno d’Italia era, da poco più di tre anni, in guerra contro gli Alleati, come alleato della Germania di Hitler e dell’Impero del Sol Levante (il cosiddetto Asse Roma-Berlino-Tokyo). Ma, dopo gli incredibili successi iniziali delle armate hitleriane e giapponesi, l’andamento della guerra cominciava ad essere preoccupante per le forze dell’Asse su quasi tutti i fronti. Le cose andavano male anche, se non soprattutto, dove erano maggiormente impegnate le truppe italiane (la devastante ritirata dalla Russia, le sconfitte in Africa, le difficoltà nei Balcani, ad esempio). Inoltre, lo sbarco anglo-americano in Sicilia, i bombardamenti sulle città italiane (tra cui quelli già ricordati del 12 e 13 luglio su Torino e del 19 luglio su Roma), la miseria e il malcontento dilaganti tra la popolazione avevano decisamente minato la credibilità e la stabilità del governo e del regime fascista. In tale contesto il 25 luglio, il Gran Consiglio del Fascismo aveva votato la sfiducia al Governo, Mussolini era stato arrestato per ordine del Re, che aveva affidato l’incarico di Capo del Governo al Maresciallo Badoglio. Il regime fascista era finito: il 5 agosto veniva pubblicato il R.D.L. n. 704/1943 che scioglieva la Camera dei Fasci e delle Corporazioni – istituita nel’39, aveva preso il posto della Camera dei Deputati – e il Partito Nazionale Fascista. Non era finita la guerra, però. L’Italia restava schierata con la Germania. E, in realtà, neanche il fascismo era del tutto finito, visto che risorse, ancora più spietato e crudele, circa due mesi dopo.

In quel settembre del ’43 la “nottata” diventava un incubo

A settembre, infatti, la situazione precipitò: il Maresciallo Badoglio l’8 settembre annunciò l’avvenuta firma dell’armistizio tra gli Alleati e l’Italia e tale comunicato, che fu «seguito dalla fuga del re, del governo e del Comando supremo da Roma», non fu accompagnato da ordini o direttive per le forze armate italiane, le quali, al pari dei cittadini non in armi, furono sostanzialmente abbandonate a se stesse: in tre giorni si dissolsero. Le prime ripercussioni si ebbero già rispetto allo sbarco degli alleati a Salerno, avvenuto il giorno dopo, il 9 settembre. Ma la mancanza di ordini e di responsabilità portò anche al primo eccidio di militari italiani da parte delle truppe tedesche a Nola, commesso l’11 settembre del ’43, e permise agli ex alleati tedeschi di prendere il controllo di quasi tutto il territorio del Regno e di disarmare quasi un milione di soldati italiani.

Il 12 settembre, Mussolini, detenuto sul Gran Sasso, a Campo Imperatore, veniva liberato da paracadutisti tedeschi e da alcune SS e trasportato in Germania, dove il 14 settembre, a Rastenburg, incontrava Adolf Hitler. Il Führer lo aveva fatto liberare proprio per “chiedergli” di porsi a capo di un movimento e di uno stato alleato del Reich nel Nord Italia. Quattro giorni dopo, il 18 settembre, Mussolini annunciava, su Radio Monaco, la formazione del Partito Fascista Repubblicano, la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, la futura Repubblica di Salò, che, secondo le sue parole, doveva immediatamente riprendere la guerra al fianco della Germania e del Giappone contro le forze Alleate.

La Repubblica di Salò riprese le armi, sì, ma, soprattutto contro gli italiani, e diede prova di un’efferatezza rara.

L’Italia e gli italiani, dunque, non stavano uscendo da un periodo buio, stavano per sprofondare in un incubo ancora peggiore di quello che avevano vissuto fino ad allora. Tra i primi ad accorgersene vi furono i cittadini di Boves, in provincia di Cuneo. Una cittadina ai piedi delle montagne, di circa diecimila abitanti, fortemente provata dalla guerra e dalla povertà che quella sempre porta con sé.

Il primo eccidio di Boves

Le truppe tedesche, dunque, occupavano tutti i punti nevralgici dell’Italia, grazie allo sfaldamento delle Forze Armate Italiane, abbandonate dai loro vertici. Su questo sfondo, il 16 settembre, un proclama nazista, firmato dal maggiore delle Waffen SS Joachim Peiper, comunicò alla popolazione locale che i fuoriusciti dall’esercito italiano sarebbero stati immediatamente passati per le armi e specificò che con essi sarebbe stato ucciso chiunque avesse dato loro aiuto o asilo. Nella provincia di Cuneo si era formata, infatti, una delle prime formazioni partigiane, composta esclusivamente da militari italiani e comandata dal tenente di complemento Ignazio Vian.

In questa cittadina pedemontana, c’era, infatti, una caserma delle truppe di frontiera al confine con la Francia. Alla notizia della cessazione delle ostilità contro gli Alleati, alcuni di questi militari aveva buttato armi e divise e si erano dispersi. Altri, invece, erano andati in montagna e avevano costituito una formazione partigiana, al comando di Vian.

Tutto comincia con la casuale cattura di due SS da parte di una pattuglia di partigiani

A Boves, la mattina di domenica 19 settembre una pattuglia di partigiani – dei fuoriusciti dall’esercito italiano che si erano rifugiatisi per combattere in Val Colla -, appena arrivata in paese per fare rifornimento di cibo, si imbatté casualmente in un’autovettura (una Fiat 1100). A bordo vi erano due militari tedeschi appartenenti alla Divisione SS Leibstandarte Adolf Hitler: i due tedeschi vennero disarmati e catturati, senza opporre resistenza, per essere portati al comando partigiano. L’intenzione era di interrogarli.

I partigiani di Ignazio Vian batterono e misero in fuga i soldati tedeschi mandati a stanarli

Alle 11.45, circa un’ora dopo, due camion tedeschi, pieni di militari, giunsero in Piazza Italia e subito, lanciando bombe a mano, distrussero il centralino del telefono. Poi ripartirono verso il torrente Colla. Ad un certo punto del percorso, non potendo proseguire sugli automezzi, i tedeschi si inoltrarono a piedi nei boschi. Ma la formazione di Ignazio Vian contrattaccò costringendoli ad indietreggiare. Nello scontro persero la vita un partigiano genovese, Domenico Burlando, e un militare tedesco.

“La parola d’onore di un ufficiale tedesco vale gli scritti di tutti gli italiani”

Alle 13 i tedeschi rientrarono a Boves, dove furono raggiunti dalle SS, comandate dall’Oberfuhrer Theodor Wisch e dallo Sturmbannfuhrer Joachim Peiper.

Questi ordinarono al parroco di Boves, Don Bernardi, e al commissario della prefettura, Antonio Vassallo, di andare a trattare con i partigiani per la riconsegna dei due prigionieri, della Fiat 1100 e del cadavere del soldato tedesco caduto e abbandonato dai suoi commilitoni. In cambio, i civili presi in ostaggio sarebbero stati risparmiati, assicurò Peiper. Che si indignò anche per la richiesta che la sua promessa fosse messa per iscritto: “la parola d’onore di un ufficiale tedesco vale gli scritti di tutti gli italiani“, disse.

Gli ambasciatori raggiunsero i partigiani tra le 14 e le 15. Dopo aver discusso con il comandante Vian e un’altra decina dei suoi, ottennero la riconsegna dei due prigionieri tedeschi, della FIAT 1100 e della salma del militare tedesco. I prigionieri, bendati, seduti in auto con gli ambasciatori, furono ricondotti, infatti, a Boves.

Qui, però, il maggiore Peiper ordinò alle sue SS di incendiare le abitazioni e di ammazzare gli abitanti.

Il massacro: il primo.

Furono 350 le abitazioni distrutte e ventiquattro i civili uccisi, compresi Don Giuseppe Bernardi e Antonio Vassallo.

Le SS sfondavano le porte delle case e sparavano sui cittadini rimasti in paese: questi erano perlopiù anziani, infermi, invalidi, donne e bambini. Quelli che avevano potuto, infatti, si erano già allontanati nella campagna, nelle ore e nei giorni precedenti.

Tra le vittime vi fu anche il vice-curato, don Mario Ghibaudo, appena ventitreenne, che aveva aiutato vecchi e bambini a fuggire. Venne ucciso mentre dava l’assoluzione ad un anziano colpito a morte da un soldato tedesco.

Don Bernardi e Vassallo vennero bruciati. Il 26 luglio 1961 saranno insigniti della Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria. Ad essi verranno dedicati la Casa don Bernardi di Boves, la scuola media e due strade. Nel 1963 a Boves fu assegnata la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Il secondo eccidio di Boves

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Nonostante il massacro del 19 settembre del 1943, pochi mesi dopo Boves e i suoi abitanti tornarono a subire un’altra rappresaglia. Così è descritta sul sito STORIE DIMENTICATE

L’attività incessante, quasi frenetica della banda Vian, spinge il comando tedesco ad organizzare la seconda rappresaglia che inizierà il 31 dicembre e terminerà il 3 gennaio.

 31 dicembre

Tra le nove e le dieci di mattina, inizia il secondo eccidio di Boves. Una autocolonna i cui effettivi sono valutati in circa 800 soldati superarono il ponte dei Sergent ed entrano in Val Colla ma vengono bloccati dal fuoco partigiano. Sulla piazza di Castellar i tedeschi tentano di salire a S. Giacomo e aggirare la posizione.

Nella giornata vengono uccisi sei partigiani e tredici civili.

1 gennaio

Continua il rastrellamento nei dintorni di Boves: vengono uccisi sei partigiani e quindici civili.

2 gennaio

I tedeschi si portarono in quota molto più alta del giorno prima, in modo da dominare la zona. Nella vallata nessun attacco diretto alle postazioni partigiane ma un incessante carosello aereo, con picchiate e mitragliamenti. Vengono uccisi un partigiano e un civile.

3 gennaio

Il terzo giorno completarono il rastrellamento incendiando tutto ciò che era possibile bruciare: casotti, case, fienili, pagliai, mucchi di fascine, di legna, di foglie. Uccisero pure tutte le mucche e tutto il bestiame dei contadini.

Fecero terra bruciata nelle frazioni di Rivoira, Castellar, Rosbella, parte di Madonna dei Boschi e S. Giacomo a valle della Chiesa.

Furono uccisi cinque partigiani e dodici civili.

L’episodio verrà ricordato nella canzone “Non ti ricordi il 31 dicembre” scritta da E. Macario e G. Maccario sulle note di una canzone della Grande Guerra (Addio padre e madre addio); racconta del famigerato eccidio di Boves (CN) e della distruzione del paese il 31 dicembre 1943.

“Non ti ricordi il 31 dicembre

Quella colonna di camion per Boves

Che trasportava migliaia di tedeschi

Contro sol cento di noi partigian

E tra san Giacomo e poi la Rivoira

E Castellar e Madonna dei Boschi

Là s’infuriava la grande battaglia

Contro i tedeschi e i fascisti traditor

Dopo tre giorni di lotta accanita

Tra tanti incendi e vittime borghesi

Non son riusciti coi barbari sistemi

Noi partigiani a poterci scacciar.

Povere mamme che han perso loro figli

Povere spose che han perso i mariti

Povera Boves che è tutta distrutta

Per la barbarie del vile invasor” ( 2 v)

Terzo e quarto eccidio

Altre due rappresaglie investirono Boves.

Una avvenne tra il 31 dicembre 1943 e il 3 gennaio 1944: i nazifascisti diedero alle fiamme 420 case e uccisero 52 persone, tra civili e partigiani.

Però, poiché la popolazione continuò a dare sostegno alle brigate partigiane che operavano nella zona – la 177ª Garibaldi e la “Bisalta, formazione legata a Giustizia e Libertà –, un ultimo eccidio fu commesso, il giorno dopo a Liberazione, il 26 aprile 1945, quando le truppe tedesche, mentre si ritiravano, fucilarono 7 civili, che avevano preso, dopo la mezzanotte, dalle loro case.

 

Nessuna giustizia.

I famigliari delle vittime e i cittadini di Boves non ottennero mai giustizia: la magistratura tedesca non accolse mai  le richieste della città cuneese.

Peiper fu arrestato alla fine della guerra e inizialmente condannato all’impiccagione per il massacro di Malmedy, in Francia (129 vittime). La pena di morte fu poi commutata in carcere a vita, però Peiper venne scarcerato sulla parola nel 1956. Si trasferì sotto pseudonimo a Traves, in Francia. Qui morì il 13 luglio del 1971, nel rogo della sua casa, contro la quale erano state lanciate delle bombe molotov [2].

Oggi Boves è divenuta anche sede di una «Scuola di Pace», la prima sorta in Italia. Nel 2014 alcuni membri della comunità parrocchiale di Boves hanno incontrato dei rappresentanti della comunità di Schondorf, il paese in cui è sepolto Peiper, «per costruire ponti di amicizia e solidarietà proprio là dove la storia sembrava aver ravvisato fratture insuperabili».

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti:

www.wikipedia.org;

https://storiedimenticate.wordpress.com

https://segretidellastoria.wordpress.com

https://www.infoaut.org

https://www.cuneodice.it

https://www.memoranea.it/luoghi/piemonte-cn-boves-mostra-della-resistenza

Chiara Genisio (2015), Martiri per amore: l’eccidio nazista di Boves, Edizioni Paoline.

 

[1] http://www.ilgiornale.it/news/cronache/bari-premier-conte-confonde-l8-settembre-25-aprile-1573877.html

[2] https://www.infoaut.org/storia-di-classe/19-settembre-1943-leccidio-di-boves

Il 18 settembre del ’43 Mussolini annuncia da Radio Monaco la costituzione della RSI

Il 18 settembre 1943, da radio Monaco, Mussolini si rivolge alla nazione con un lungo discorso, il primo dopo la destituzione del 25 luglio, l’arresto e, pochi giorni prima, la liberazione a opera di un commando tedesco:

Italiani e italiane, dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che voi la riconoscete. È la voce che vi ha chiamato a raccolta in momenti difficili, che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria. Ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi perché dopo un periodo di isolamento morale era necessario che riprendessi contatto col mondo.

Tanti lo avevano dato per morto, quasi nessuno sapeva dove si trovasse, se fosse libero o prigioniero e, in questo caso, nelle mani di chi, dato che l’armistizio dell’8 settembre ne aveva disposto la consegna agli alleati. In ogni caso, la sua improvvisa ricomparsa radiofonica, preannunciata in alcune città da automobili munite di altoparlanti, sorprende tutti: la voce non è più quella di un tempo e dà l’idea di un uomo provato dalle recenti vicissitudini, a dispetto dei contenuti belligeranti e rivendicativi del discorso, che pone le basi per la costituzione della Repubblica Sociale. Poche settimane prima, in prigionia, aveva apposto una dedica per un’ammiratrice firmandosi “Mussolini, defunto”.

Nessuna assunzione di responsabilità

Anche il contesto è ben diverso da quello che ne determinò l’ascesa. Nel settembre del ’43, il popolo che l’ex duce cerca d’infiammare nuovamente e mobilitare attorno a sé vive una condizione drammatica: l’Italia è sotto il fuoco incrociato di vecchi e nuovi alleati, il Regio Esercito allo sbando, monarchi e ministri fuggiti a Brindisi, con i ministeri presidiati dai soli funzionari amministrativi; tanto al nord, occupato militarmente dai tedeschi in un crescendo di violenze e razzie, come al sud, presidiato dagli alleati, regna un caos di macerie e devastazioni, gente affamata e senza tetto, profughi in fuga, militari di ogni schieramento incolonnati lungo le strade, disperati che cercano di nascondersi e i primi gruppi armati di ribelli che salgono sulle montagne.

Dai microfoni di Radio Monaco, Mussolini parla a lungo delle vicende degli ultimi due mesi. Comincia dal 25 luglio, da quel colloquio col re a villa Savoia in cui – dice – tutto era già stato deciso, fino all’umiliazione dell’arresto; racconta del trasporto in ambulanza sotto il pretesto di salvarlo da una congiura, degli andirivieni da una caserma di carabinieri all’altra, delle peregrinazioni nel corso della prigionia, da Ponza alla Maddalena e al Gran Sasso, per poi descrivere le fasi della sua liberazione.

Non è il regime che ha tradito la monarchia, ma è la monarchia che ha tradito il regime”: Mussolini attribuisce le sue sventure e quelle della nazione a Casa Savoia, “agente principale del disfattismo e della propaganda antitedesca”, artefice del colpo di stato avendo per “complice ed esecutore Badoglio, complici taluni generali imbelli e imboscati e taluni invigliacchiti elementi del fascismo”; accusa il re per aver autorizzato le trattative per l’armistizio e ingannato l’alleato tedesco, “smentendo anche dopo la firma che trattative fossero in corso”.

Il duce destituito annuncia quindi il suo ritorno a capo del movimento per instaurare uno stato che sarà “nazionale e sociale nel senso più alto della parola, sarà cioè fascista”; quel che prospetta, “nell’attesa che il movimento si sviluppi sino a diventare irresistibile”, prevede una serie di azioni precise, che confluiranno a breve nel programma della futura Repubblica di Salò:

Riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati; preparare la riorganizzazione delle forze armate attorno alla formazione della Milizia; eliminare i traditori, in particolar modo quelli che sino alle 21,30 del 25 luglio militavano nel Partito e sono passati nelle file del nemico; annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro il soggetto dell’economia e la base infrangibile dello Stato”.

Come scriverà lo storico Denis Mack Smith, nel suo discorso Mussolini non contempla minimamente una qualsiasi sua personale responsabilità per la tragedia in atto: se l’Italia non era più uno stato indipendente, questo era dovuto non al fascismo, ma al re e ai diciannove gerarchi che lo avevano tradito.

Mussolini “parente povero” di Hitler

Tuttavia, al di là delle apparenze, è probabile che egli stia prendendo coscienza di essere divenuto a sua volta una semplice pedina in un gioco che ormai viene condotto sopra di lui: stanco, disilluso e sfiduciato, nell’incontro di Rastenburg, quattro giorni prima, avrebbe volentieri respinto la richiesta di Hitler di tornare a capo di un movimento e uno stato alleato del Reich nell’Italia del nord, ma, nonostante le dichiarazioni di amicizia e “fedeltà nibelungica”, il Führer aveva posto la questione in termini che non ammettevano un rifiuto.

La stessa vicenda della sua liberazione dalla prigionia, il 12 settembre, presenta parecchi aspetti di ambiguità. La sospetta spettacolarità della c.d. Operazione Quercia, con una decina di alianti tedeschi dalle ruote cingolate con filo spinato che atterrano in vetta al Gran Sasso; il detenuto che dalla sua stanza-prigione assiste alla scena e, quando capisce che i suoi liberatori sono tedeschi, si lascia sfuggire “Questa non ci voleva proprio”; gli ufficiali tedeschi incaricati da Hitler in persona della liberazione, Kurt Student e Otto Skorzeny, che fanno a gomitate per essere primi a porgere la mano al prigioniero; l’indecisione sul da farsi dell’ispettore generale Giuseppe Gueli, responsabile della sicurezza del duce deposto; la presenza del generale della Polizia Fernando Soleti, forse portato come ostaggio dai tedeschi, forse garante dell’operazione per conto di Casa Savoia; la deferenza con cui i carcerieri accompagnano Mussolini all’aereo tedesco che da Campo Imperatore lo condurrà prima a Pratica di Mare e poi in Germania; il bilancio complessivo dell’operazione, conclusa senza spargimento di sangue, ad eccezione di due militari italiani che, lungo il percorso, avevano tentato di segnalare od ostacolare il passaggio della colonna di mezzi tedeschi.

In considerazione di tutto ciò, diversi storici avanzano l’ipotesi che il capo del Governo Badoglio avesse segretamente “barattato” l’ingombrante prigioniero, cedendolo ai tedeschi in cambio dell’incolumità propria, della famiglia reale e del seguito di ministri e militari durante la c.d. “fuga di Pescara”; non esistono prove documentali in tal senso, solo indizi, come i posti di blocco tedeschi che sgomberarono le strade lungo il percorso dei fuggiaschi verso l’Adriatico, o il mancato sfruttamento dell’opportunità di prelevare l’ex duce dal luogo di detenzione, con una deviazione minima dal percorso verso Pescara, per condurlo con sé e consegnarlo agli alleati, come previsto dall’armistizio.

Comunque sia andata, il 14 settembre Mussolini è a Rastenburg, dal Führer. Così lo racconta il giornalista e scrittore Marco Innocenti:

Quando scende dall’aereo nel sole lungo dell’autunno, ha una faccia che fa paura, con gli occhi vuoti, lucidi, da vecchio, il collo avvizzito, il volto floscio e giallo, gli abiti che gli cascano addosso. Comincia l’ultimo capitolo di una storia che è vicina al capolinea e che si concluderà davanti ai mitra spianati dei partigiani il 28 aprile 1945. Hitler gli parla da padrone. Mussolini tace, il suo rapporto con il Führer è quello del parente povero. I bei tempi di Palazzo Venezia sono ormai lontani. Ora è un uomo stanco che sta per diventare servo.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.wikipedia.org;
“18 settembre 1943: Mussolini da radio Monaco”, www.anpi-lissone.over-blog.com;
“12 settembre 1943, Operazione Quercia: la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso”, www.agenziacomunica.net;
www.sergiolepri.it;
D. Mack Smith, “Mussolini”, Rizzoli; M. Innocenti, “12 settembre 1943: Mussolini liberato”, www.ilsole24ore.com

 

Il 17 settembre 1944 scatta la fallimentare operazione Market Garden

Il mio paese non potrà mai più pagarsi il lusso di un altro successo di Montgomery.
(Il principe Bernardo dei Paesi Bassi, conversazione con lo storico C. Ryan)

Nella tarda estate del 1944, dopo lo sbarco alleato del 6 giugno (o abbiamo ricordato nel post Gli amici del 6 giugno, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi) ciò che restava dell’esercito tedesco che per quasi due mesi aveva difeso le spiagge e i campi della Normandia si stava ritirando senza sosta, “più veloce di quanto gli alleati riuscissero a inseguirlo”; il cedimento militare e morale dei tedeschi aveva permesso agli alleati di consolidare le proprie teste di ponte nella Francia nord-occidentale e dilagare in profondità, liberando rapidamente gran parte del paese (in questo post abbiamo ricordato la liberazione di Parigi) e del Belgio, arrivando quindi a contatto con la cosiddetta Linea Sigfrido sul confine tedesco.

Circolava grande ottimismo tra le forze alleate, e si valutava il luogo più strategico per sferrare l’offensiva finale; la recente avanzata in Belgio aveva allungato notevolmente le linee di rifornimento, soprattutto per il carburante, rendendo necessario disporre di almeno un porto di grandi dimensioni, e fu anche per questo che si decise di intervenire in Olanda, pianificando la più grande operazione aviotrasportata della storia. Sin dalla prima fase della preparazione, erano insorte divergenze tra gli inglesi e gli americani: i primi, con Montgomery, erano decisi a un’azione concentrata da Nord tramite un massiccio impiego di truppe aviolanciate; i secondi, con Eisenhower, propendevano per un duplice attacco congiunto su un fronte settentrionale e uno meridionale. Prevalse il piano inglese, ma rimase immutata la rivalità, anche personale, tra gli alti ufficiali alleati, motivata da differenti concezioni strategiche, da reciproca scarsa considerazione e anche da antichi retaggi storici.

L’obiettivo era quello di attraversare di sorpresa il Reno, avanzando poi direttamente sul suolo tedesco e sulla regione industriale della Ruhr, allo scopo di provocare un crollo definitivo del nemico e concludere la guerra entro Natale. L’idea degli alleati era semplice: invece che lottare per ogni singolo ponte, conquistarli tutti con un unico blitz. Questa era la prima parte dell’operazione (Market), che sarebbe stata compiuta da circa 35 mila paracadutisti americani, inglesi e polacchi; la seconda parte (Garden) era costituita da una grossa forza di terra che avrebbe dovuto percorrere tutti i cento chilometri del corridoio appena occupato e stabilire una testa di ponte presso la città di Arnhem. Una volta arrivati oltre al Reno in territorio tedesco, la fine della guerra sarebbe stata questione di settimane.

Il successo della complessa operazione combinata, aerea e terrestre, dipendeva dal fatto che tutti i ponti venissero conquistati prima che i tedeschi avessero il tempo di distruggerli. Inoltre, i ponti avrebbero dovuto essere difesi fino all’arrivo delle forze Garden, scelta tattica rischiosa, giacché i paracadutisti erano armati soltanto alla leggera: bastava che un unico ponte lungo il corridoio venisse distrutto per condannare le truppe atterrate pochi chilometri più avanti. I comandanti sintetizzarono l’operazione spiegando che i paracadutisti “avrebbero steso un tappeto su cui le truppe di terra avrebbero fatto una passeggiata”. Alcuni ufficiali delle divisioni aviotrasportate si chiesero se quel tappeto dovesse essere composto di soldati vivi o morti.

Si poneva inoltre il problema della conformazione del territorio olandese, che, seppur pianeggiante, era disseminato di canali e fiumi, tra cui quello cruciale, il Reno, largo in media 400 metri: appariva dunque critico far passare 20.000 uomini sull’unica strada percorribile dai mezzi militari, stretta e fiancheggiata da paludi per buona parte del percorso, nel complesso di un piano che non prendeva in considerazione la possibilità di ritardi e dava per scontata una scarsissima resistenza da parte tedesca. Montgomery sminuì i dubbi dei comandanti, sottovalutò i rapporti dei capi della Resistenza olandese e le informazioni intercettate circa la possibile presenza di truppe tedesche sul territorio, e proseguì deciso a eseguire il piano, per rifarsi con una smagliante vittoria dallo smacco subito con l’assunzione da parte di Eisenhower del comando di tutte le forze terrestri alleate, e anche per giocare un ruolo decisivo nella vittoria finale sulla Germania.

La mattina del 17 settembre 1944 nei cieli dell’Inghilterra meridionale si vide sfilare un’immensa colonna formata da più di 3.500 aeroplani, larga 16 chilometri e lunga oltre 160, così grande che impiegò più di due ore a passare. A bordo di quegli aerei c’erano all’incirca 20 mila soldati che avevano in media meno di 24 anni, i cui paracadute punteggiarono di bianco il paesaggio olandese. Alle 14, tutte le unità uscite indenni nella traversata, con 511 veicoli, 330 pezzi d’artiglieria e 590 tonnellate di materiale, erano atterrate senza problemi. I piloti degli alianti britannici si unirono agli aviotrasportati, mentre quelli statunitensi, secondo gli ordini stabiliti, cercarono di far ritorno dietro le linee.

L’attacco fu una sorpresa quasi perfetta, i tedeschi furono colti dal panico e tutti i ponti principali furono conquistati intatti. In diversi settori, però, i tedeschi dimostrarono di essere un esercito ancora molto lontano dall’essere sconfitto.

Inoltre, si rivelò tragica realtà la presenza presso la zona dei lanci di due divisioni corazzate delle Waffen-SS; i generali tedeschi Model e Student organizzarono con grande rapidità la difesa dei ponti stradali, ottenendo da Hitler forti rinforzi dal Belgio e 300 caccia della Luftwaffe, che cominciarono a bombardare la linea di rifornimento alleata. Ad Arnhem gli inglesi dovettero far fronte al fuoco dei cecchini, mentre molti ponti erano stati fatti saltare o sabotati dai tedeschi. Poi ci si mise il maltempo a ostacolare i lanci degli alleati, ritardando rinforzi e rifornimenti, mentre i tedeschi, ormai a conoscenza dei piani angloamericani, occupavano le zone di lancio.

Tra le linee inglesi scoppiò il caos. Tutte le criticità paventate a Montgomery dai comandanti presero corpo: le radio non funzionavano e le punte dell’avanzata si ritrovarono isolate, mentre i rinforzi non riuscivano a procedere nei tempi stabiliti, con i mezzi pesanti costretti in fila indiana sull’unica strada circondata da terreno cedevole, sulla quale bastava il fuoco di un unico cannone nemico ben nascosto per rimanere bloccati.

La lotta più aspra si ebbe nella zona di Arnhem. Conquistato faticosamente “quell’ultimo ponte” dagli uomini del colonnello Frost, nei successivi otto giorni di combattimenti violentissimi alla periferia della città i tedeschi cercarono di impedire al grosso degli inglesi di prestare aiuto agli uomini sul ponte, mentre in città centinaia di soldati combatterono casa per casa; gli abitanti, che tentarono di prestare soccorso e supporto ai britannici, subirono pesanti rappresaglie dai tedeschi, con migliaia di vittime civili.

All’alba del 25 settembre, ai soldati superstiti venne dato l’ordine di mettersi in salvo: in duemila riuscirono ad attraversare il Reno, altri duemila fuggirono nelle campagne. Seimila paracadutisti furono presi prigionieri.

L’operazione Market Garden si rivelò quindi un fallimento: l’ipotizzato crollo delle difese tedesche sul Reno non si verificò; il grande fiume non fu attraversato; alcuni reparti scelti alleati subirono gravi perdite o furono distrutti; la battaglia si concluse con un imprevisto successo tedesco, utile per il morale e la propaganda del Terzo Reich; il territorio conquistato dagli anglo-statunitensi si rivelò sostanzialmente inutile dal punto di vista strategico generale. Lo sfondamento a nord verso la Ruhr sarebbe stato possibile solo quattro mesi dopo, in una situazione strategica e politica completamente diversa.

Sia l’operazione che le sue conseguenze furono inquadrate dagli storici nell’ambito delle divergenze strategiche fra il generale Montgomery e i comandanti statunitensi, in particolare Patton e Bradley, solo parzialmente composte dal comandante in capo alleato Eisenhower.

Tra morti, feriti e dispersi, le perdite anglo-americane ammontarono a quasi 17000. Le vittime olandesi tra i civili non furono quantificabili con certezza, tra le 20000 e le 30000; le perdite del gruppo d’armata tedesco in tutta l’area dell’operazione Market Garden furono stimate circa 20.000.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.wikipedia.org;
D.M. de Luca, “Un ponte di troppo”, www.ilpost.it;
E. Frittoli, “L’operazione Market Garden: il fallimento del secondo D-DAY”, www.panorama.it;
C. Ryan, “Quell’ultimo ponte”, Mondadori;
G. Winston, “Operation Market Garden, the Failed Operation May Have Done More Harm than Good”, www.warhistoryonline.com

16/09/1982. Massacri di Sabra e Chatila

Quand’è che un assassinio diventa un’atrocità? Quand’è che un’atrocità diventa massacro? O, per dirla in altre parole, quanti morti ci devono essere perché si possa considerare un massacro? Trenta? Cento? Trecento? Quand’è che un massacro non è ancora un massacro? Quando le vittime sono troppo poche? O quando il massacro è opera degli amici di Israele piuttosto che dei loro nemici?
R. Fisk, “Il martirio di una nazione”

Ci sono ricorrenze, nel ciclo dei corsi e ricorsi storici, che fanno pensare che Hegel aveva torto, che non è vero che tutto ciò che è reale è razionale, e che esistono eventi che, semplicemente, non dovevano accadere.

Tra il 16 e il 18 settembre 1982, per circa 40 ore ininterrotte, si consuma una mattanza di civili alla periferia ovest di Beirut, nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila.

La strage è uno dei tanti, tragici atti della guerra civile libanese, che dal 1975 insanguina l’ex “Svizzera del Medio Oriente”, opponendo la componente cristiana del paese, un tempo maggioritaria, a quella musulmana, in continua crescita dal 1948 a causa dell’arrivo dei profughi palestinesi in fuga da Israele; ad alimentare la guerra contribuisce anche l’intervento della Siria, intenzionata a porre sotto tutela il Libano secondo il progetto di una “grande Siria”, e di Israele, che intende contrastare i miliziani dell’OLP riparati in loco creando una fascia di sicurezza sotto il proprio controllo. La presenza dei combattenti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che da lì compiono atti di guerriglia contro Israele, acuisce i contrasti tra i libanesi musulmani, simpatizzanti della causa palestinese, e quelli cristiani, di culto maronita e filo-occidentali, organizzati nella milizia armata delle Falangi, che li ritengono una minaccia per il paese.

Nell’ambito di tale conflitto, nel giugno 1982 l’esercito israeliano dà il via all’assedio di Beirut, accerchiando 15.000 combattenti, tra palestinesi dell’OLP, libanesi e siriani; dopo estenuanti trattative, il mediatore Philip Habib inviato dagli USA ottiene dal Primo Ministro israeliano Begin l’assicurazione che i suoi soldati non sarebbero entrati a Beirut Ovest e non avrebbero attaccato i palestinesi nei campi profughi; ottiene inoltre l’assicurazione del futuro presidente libanese Bashir Gemayel che i falangisti non si sarebbero mossi. Su insistenza di Yasser Arafat, preoccupato per la sorte dei profughi palestinesi, una forza multinazionale di 800 soldati statunitensi, 800 francesi e 400 italiani, viene inviata per garantire l’ordine durante il ritiro delle forze dell’OLP da Beirut, con un mandato di un mese, dal 21 agosto al 21 settembre.

Il primo giorno di settembre si dichiara terminata l’evacuazione. Due giorni dopo, le armate israeliane circondano i campi profughi palestinesi, venendo meno al patto siglato con gli eserciti cosiddetti “supervisori”, che però non si attivano per fermarle. Il segretario alla difesa americana ordina ai marines di abbandonare Beirut il 3 settembre, determinando la conseguente partenza dei contingenti francese e italiano: il 10 settembre, gli ultimi soldati partono da Beirut, undici giorni prima del previsto.

In quegli stessi giorni, le milizie cristiano-falangiste, alleate degli israeliani, prendono posizione ai margini dei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, mentre l’allora Ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon contesta la permanenza di 2000 guerriglieri dell’OLP in territorio libanese, fatto negato dai palestinesi.

Il 14 settembre, il neo presidente libanese Gemayel muore in un attentato organizzato dai servizi segreti siriani con l’aiuto dei palestinesi; il giorno seguente, infrangendo ogni accordo, le truppe israeliane occupano Beirut Ovest e Sharon dispone la chiusura dei campi profughi, piazzando cecchini sui tetti circostanti: niente e nessuno poteva entrare o uscire. Coordinandosi con le forze israeliane, alle 18:00 del 16 settembre le milizie cristiano-falangiste di Elie Hobeika entrano nei campi.

Quando i giornalisti stranieri e la Croce Rossa entrano nei campi, due giorni dopo, si trovano di fronte l’Orrore irriferibile evocato dal conradiano colonnello Kurtz in “Cuore di tenebra”.

Elaine Carey, giornalista del Daily Mail:

Nella mattinata di sabato 18 settembre, tra i giornalisti esteri si sparse rapidamente una voce: massacro. Io guidai il gruppo verso il campo di Sabra. Nessun segno di vita, di movimento. Molto strano, dal momento che il campo, quattro giorni prima, era brulicante di persone. Quindi scoprimmo il motivo. L’odore traumatizzante della morte era dappertutto. Donne, bambini, vecchi e giovani giacevano sotto il sole cocente. La guerra israelo-palestinese aveva già portato come conseguenza migliaia di morti a Beirut. Ma, in qualche modo, l’uccisione a sangue freddo di questa gente sembrava di gran lunga peggiore.

Robert Fisk, scafato corrispondente di guerra statunitense:

Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. […] Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità […]. Era stato un crimine di guerra.

Il tenente israeliano Avi Grabowski dirà, davanti alla commissione d’inchiesta: “Ho visto falangisti uccidere civili. Uno di loro mi ha detto: ‘dalle donne incinte nasceranno dei terroristi’”. Ma i soldati israeliani hanno l’ordine di non intervenire, il loro compito rimane quello di sorvegliare gli accessi per rispedire dentro chi prova a fuggire e illuminare l’area, al calar della notte.

Più di 1500 persone spariscono, caricate sui camion. I riconoscimenti dei cadaveri straziati avverranno solo in parte, poiché molti erano stati gettati in fosse comuni, e a tutt’oggi il numero esatto dei morti non è chiaro: il procuratore capo dell’esercito libanese parla di 460 morti, i servizi segreti israeliani ne stimano 7-800, ma chi è entrato in Sabra e Chatila prima e dopo il 16 settembre calcola, tra morti e dispersi, almeno 3000 vittime.

Tra la popolazione israeliana l’indignazione è profonda: un corteo di 400mila persone invade Tel Aviv con slogan contro il governo e Sharon. Il 20 settembre Amos Kennan, sulla più importante testata israeliana, Yedioth Ahronot, scrive:

In un sol colpo, signor Begin, lei ha perduto il milione di bambini ebrei che costituivano tutto il suo bene sulla terra. Il milione di bambini di Auschwitz non è più suo. Li ha venduti senza utile.

Il 16 dicembre 1982, una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite condanna il massacro, definendolo un atto di genocidio.

Il consiglio dei ministri israeliano, a seguito della forte pressione internazionale e della massiccia protesta dei cittadini, istituisce una commissione d’inchiesta: il 9 febbraio 1983 essa conclude che l’unico gruppo direttamente responsabile delle atrocità è il partito paramilitare delle Falangi Libanesi, con il capo della divisione intelligence Elie Hobeika e il comandante falangista Fadi Frem, mentre le alte autorità israeliane, tra cui il Primo Ministro Begin e il capo di stato maggiore Eitan, sono da ritenersi indirettamente responsabili del massacro. Sharon deve dimettersi da ministro della difesa, ma rimane ministro senza portafoglio. Il generale delle forze di difesa israeliane Yaron viene interdetto per tre anni. In Libano nessuno dei responsabili verrà mai punito, a seguito di un’amnistia per i crimini commessi durante il conflitto civile.

Il report sottolinea la relazione di appoggio politico e militare tra le forze falangiste, il governo israeliano e l’intelligence israeliana Mossad, per realizzare l’obiettivo falangista di rimuovere dal suo territorio i rifugiati palestinesi, sia attraverso politiche diplomatiche sia con l’uso della violenza.

Analisti israeliani e stranieri ritengono plausibile che Begin e il generale Sharon non avessero previsto una strage di tali proporzioni. Scrive Kapeliouk:

Dalle discussioni tra giornalisti viene fuori che la tesi sostenuta all’inizio, secondo la quale il massacro e le distruzioni sarebbero state il frutto di un’esplosione di collera e di vendetta spontanea dovuta all’assassinio di Gemayel, è falsa. Questo massacro sembra proprio essere stato premeditato. Il suo scopo: provocare un esodo massiccio dei Palestinesi da Beirut e dal Libano. La crudeltà del crimine – corpi lacerati, membra tranciate, bambini squartati, teste di bambini schiacciate contro il muro – può trovare così una spiegazione nella volontà di terrorizzare.

Trentasette anni dopo l’eccidio, la quarta generazione di profughi vive ancora nello stesso campo, in condizioni indegne per uomini e bestie, aggravate nel corso del tempo dal progressivo sopraggiungere di nuove ondate di sfollati palestinesi e libanesi, siriani e iracheni, sudanesi ed etiopi, indiani e curdi, in fuga da tutte le tragedie del mondo.

Silvia Boverini

Fonti:
G. Quercini, “I massacri di Sabra e Chatila. Cosa successe in quei giorni”, www.left.it;
Robert Fisk, “Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra”, ed. it. Il Saggiatore;
www.wikipedia.org;
V. Perniciaro, “Diario di un massacro”, Liberazione, 16/09/2008;
K. Aina, “Sabra e Shatila, benvenuti al campo”, www.ilmanifesto.it;
A. Kapeliouk, “Sabra e Chatila. Inchiesta su un Massacro”, ed. it. CRT;
G. D. Baù, “Il massacro di Sabra e Chatila”, www.dirittointernazionaleincivica.wordpress.com

 

Assassinio di Pino Puglisi il 15/09/1993

La sera del 15 settembre 1993, nel suo 56º compleanno, viene ucciso davanti al portone di casa don Puglisi, parroco del quartiere palermitano di Brancaccio: qualcuno lo chiama per farlo voltare, mentre qualcun altro gli scivola alle spalle esplodendogli uno o più colpi di pistola alla nuca. Una vera e propria esecuzione mafiosa.

Padre Pino Puglisi, “3P” per gli amici, per gli abitanti del quartiere “u parrinu ch’i cavusi” – il prete con i pantaloni – per l’abitudine di non indossare l’abito talare, era stato ordinato prete nel 1960 e dalla fine degli anni Settanta aveva rivestito numerosi incarichi in ambito educativo: pro-rettore in seminario, responsabile del Centro Vocazioni a livello locale e nazionale, docente di matematica e religione presso varie scuole, animatore presso Azione cattolica e Fuci.

Nel settembre 1990 torna a esercitare il presbiterato presso la parrocchia di San Gaetano, nel natio quartiere di Brancaccio, all’epoca dominato dalla famiglia mafiosa Graviano, legata ai Bagarella. A chi gli obietta che è pericoloso, risponde scherzando: “E come potevo rifiutare? Sono diventato il parroco del papa”: Il Papa è il soprannome di Michele Greco, capo di Cosa Nostra dalla fine degli anni Settanta.

In quella zona periferica di Palermo, dove “si fa prima a dire quello che c’è, tutto il resto manca”, Don Pino si impegna su più fronti, partendo dall’educazione dei bambini: bisogna promuovere l’alfabetizzazione e creare campi scuola, in un territorio dove, all’indomani della strage di Capaci, i ragazzini gridavano per le strade “Abbiamo vinto! Viva la mafia!”.

Nasce così il Centro Padre Nostro per la promozione umana e l’evangelizzazione, un luogo dove accogliere i giovani per strapparli alla criminalità: Don Puglisi toglie dalla strada minori che, senza il suo aiuto, sarebbero risucchiati dalla vita mafiosa e impiegati per piccole rapine e spaccio. Egli non tenta di portare sulla giusta via coloro che sono già entrati nel crimine organizzato, ma cerca di non farvi entrare i bambini che vivono per strada e considerano i mafiosi degli idoli: attraverso attività condivise e ludiche, fa capire loro che si può ottenere rispetto senza essere criminali, semplicemente per le proprie idee e i propri valori.

Come scrive proprio in questi giorni Alessandro d’Avenia, anticipando il venticinquennale dell’omicidio,

La sua battaglia è tanto semplice quanto pericolosa: ridare dignità ai giovanissimi attraverso il gioco, lo studio, la catechesi, prospettando loro una vita diversa da quella del “picciotto mafioso”. La mafia alleva il suo esercito tenendo la gente nella miseria culturale e assicurando il sufficiente benessere materiale, condizioni che riescono a garantire un consenso indiscusso nei contesti da cui attinge. Don Pino ne inceppava dall’interno il meccanismo, ripetendo a bambini e ragazzi di andare “a testa alta”, perché la dignità non è un privilegio concesso da qualcuno, ma dono connaturato al nostro essere qui, voluti dal Padre Nostro e non dal Padrino di Cosa Nostra.

Don Puglisi si impegna anche come cittadino per la riqualificazione del quartiere, promuovendo la creazione di un centro sanitario, la sistemazione delle fogne, la costruzione di una scuola media. Ma quel prete è soprattutto un profondo innovatore della sua chiesa, in un percorso mirato all’apertura e non alla chiusura, alla libertà e non alla paura: decide di non accettare le donazioni dei privati per le feste patronali – soldi provenienti dai clan mafiosi -, organizza incontri per discutere del rapporto tra Chiesa e mafia, rifiuta come padrini di battesimo uomini legati alle cosche, apre la chiesa ai non battezzati e inizia a dire messa all’aperto. Si rivolge spesso ai mafiosi durante le omelie, a volte anche sul sagrato della chiesa, denunciandone i crimini, senza tuttavia dimenticare il perdono: se infatti la mafia come struttura è peccato ed è da condannare, il mafioso come singolo è un peccatore, e per lui il perdono cristiano è possibile.

Racconta il suo assassino, Salvatore Grigoli, in seguito condannato all’ergastolo per questo e altri 45 omicidi:

Cosa Nostra sapeva tutto. [Che andava] in Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e fare requisire gli scantinati di via Hazon. Sapeva del Comitato intercondominiale, delle prediche. C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare.

Il piccolo e mite prete comincia a dar fastidio. Lavora in silenzio, non fa clamore, non va sui giornali, ma scava nelle coscienze, costruisce legami, apre prospettive diverse. Cominciano allora gli “avvertimenti”: una ad una vengono incendiate le porte di casa dei membri del comitato, poi le minacce, sempre più dirette, e il pestaggio di un ragazzo del Centro. Ma ad ammazzare un prete, fino ad allora, la mafia non si era ancora spinta.

Mandanti dell’omicidio furono i capimafia Filippo e Giuseppe Graviano, condannati all’ergastolo, rispettivamente nel 1999 e nel 2001, così come i componenti del commando che aspettò sotto casa don Pino. Lo uccisero per rabbia, per paura, per invidia, perché dall’altare li aveva chiamati animali, perché “si portava i picciriddi cu iddu”; ai killer disse soltanto: “Me l’aspettavo”.

Nella motivazione della sentenza della Corte d’Assise di Palermo si legge che, per il gruppo criminale dominante sul territorio, don Puglisi era diventato una spina nel fianco in quanto elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso, conservatore, opprimente che era stato imposto nella zona; appariva intollerabile che egli avesse scelto di schierarsi, senza ambiguità, dalla parte di deboli ed emarginati, appoggiando senza riserve i progetti di riscatto provenienti da cittadini onesti, che coglievano l’ingiustizia della propria emarginazione e intendevano cambiare il volto del quartiere, desiderosi di renderlo più accettabile, accogliente e vivibile.

Nel 2013 padre Pino Puglisi viene beatificato per il martirio “in odium fidei”: vi si arriva dopo non poche difficoltà, perché i mafiosi venivano ancora riconosciuti come battezzati e avevano sempre mostrato deferenza verso la Chiesa, anche se potevano essere considerati peccatori quando commettevano il male. Sul piano ecclesiale si manifesta una certa riluttanza a dire apertamente che è stato ucciso da Cosa Nostra, e sulla lapide murata dentro la chiesa di Brancaccio la parola mafia non viene scritta. Il suo assassinio rischiava di essere una morte fuori dalla storia, decontestualizzata; dichiarare ufficialmente martire Puglisi, invece, per molti credenti appare come un gesto di rottura nei confronti dell’indifferenza tenuta da un certo mondo cattolico ufficiale nei confronti della mafia, come un sottolineare che essa è incompatibile con il vangelo e la questione mafiosa non riguarda solo lo Stato e la società civile.

Nel 2015 gli viene conferita alla memoria la medaglia d’oro al valor civile.

A don Pino interessava non la salvezza astratta dell’anima, ma la salvezza dell’uomo nella sua integrità di essere corporeo e spirituale inserito in un contesto storico e in un territorio. Gian Carlo Caselli, all’epoca dei fatti Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, ha rilevato:

Don Pino Puglisi ha messo in crisi la criminalità organizzata non soltanto per la sua bontà, ma perché ha inteso e vissuto la legalità come giustizia. Giustizia che esce dalle pagine del codice, per cercare chi è in strada, chi è più solo, per incontrare i minori a rischio di devianza e di abbandono, per farsi carico di queste povertà offrendo loro alternative possibili. […] Chi ha sbagliato o è a rischio si vede sempre più spinto verso spirali di ulteriori errori, mentre noi – gli altri, i buoni – tendiamo a separarci rigidamente dai cattivi fino a difendere la nostra sicurezza con una legalità che può sconfinare nello stesso linguaggio di chi sbaglia: la violenza.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
“Atti dei processi” e don F. M. Stabile, “Puglisi, un santino?”,  www.beatopadrepinopuglisi.it;
A. d’Avenia, “A testa alta”, www.corriere.it;
www.it.gariwo.net;
www.archivioantimafia.org;
www.ildialogo.org;
B. Stancanelli, “A testa alta”, Einaudi.

1916: inizia la settima battaglia dell’Isonzo, tre giorni di carneficina

Certo che la stanchezza, la fatica, l’ebetudine, la macerante attesa, e poi le atroci esperienze, l’odore di interi reggimenti accatastati ad aspettare il destino, e quei volti destinati allo spasimo, di quegli uomini che sbranavano del manzo malvagio nell’ultimo sole della lor vita, e inutilmente deglutivano l’ultimo pane, certo tutto questo non era fanfara d’orgoglio. Né il lamento degli abbandonati su da le forre paurose, tra le due linee; né l’odor funebre, a ventate, sulla scheggiata groppa del monte; né i cenci, né il sangue, né le mosche verdi d’attorno l’orrida turpitudine della morte: né il sibilo dei pronti colpi lungo gli orecchi, né lo schianto atroce di quegli altri, che arrivavan da via.

C. E. Gadda, “Impossibilità di un diario di guerra”

La valle del fiume Isonzo fu teatro delle maggiori operazioni militari sul fronte italiano dal 1915 al 1917, fino alla disfatta di Caporetto. Vi trovarono la morte oltre 300.000 soldati, fra italiani e austroungarici; dodici battaglie, che, a parte la conquista di Gorizia, fruttarono al Regio Esercito guidato dal generale Cadorna ben pochi successi; vi combatté anche Carlo Emilio Gadda, che partì volontario e fu fatto prigioniero dagli austriaci proprio a Caporetto: lo scrittore stilò un accurato recosonto giornaliero che per decenni rifiutò di dare alle stampe, considerandolo un fatto privato, testimonianza di intima sofferenza.

Le battaglie dell’Isonzo furono molto simili a quelle combattute sul fronte occidentale: praticamente una guerra di trincea. Non era intenzione del generale Cadorna prodigarsi in una guerra statica, ma gli eventi ben presto portarono l’avanzata italiana a una fase di stallo; gli austro-ungarici infatti difendevano il territorio facente parte, a tutti gli effetti, dell’Impero e pertanto scelsero una tattica conservativa e prettamente difensiva, aiutati in questo dal terreno stesso.

A metà settembre 1916 il Comando Supremo italiano ordinò di iniziare una nuova offensiva sul Carso, dando così il via alla Settima Battaglia dell’Isonzo.

Obiettivo finale della Terza armata era, come sempre, Trieste: vicina ed irraggiungibile, la città sembrava un miraggio, nonostante il suo valore fosse più simbolico che strategico; tra gli italiani e Trieste si ergevano i bastioni del Carso, culminanti nel massiccio dell’Hermada, che sbarrava la via costiera per il capoluogo, e che, nel corso del conflitto, non sarebbe mai stato conquistato dai soldati in grigioverde: obiettivo tattico di questa settima offensiva era, soprattutto, il Fajti Hrib, un dosso di circa 430 metri di altezza.

Cadorna, convinto che la perdita di Gorizia – avvenuta in agosto, nella battaglia precedente – avesse indebolito gli avversari, cercò di approfittare anche dell’entrata in guerra della Romania, ritenendo che ciò avrebbe costretto l’Impero austro-ungarico a trasferire nuove divisioni sul fronte balcanico.

Invece le truppe asburgiche non erano affatto impreparate: i rinforzi, specialmente quelli materiali, erano arrivati in poco tempo e nessun uomo venne spostato verso il nuovo fronte rumeno; inoltre ventimila prigionieri russi furono spostati sul Carso per scavare nuove trincee e costruire appostamenti e postazioni di artiglieria (in spregio alla Convenzione di Ginevra, che vietava un tale impiego dei prigionieri di guerra). Nella zona del Vallone sorsero così quattro linee difensive di nuova concezione, che disorientarono gli attaccanti italiani.

I manuali di strategia militare insegnano che, in una guerra, l’elemento sorpresa funziona quando è in grado di cogliere alla sprovvista l’avversario, ma, se si ripetono le modalità con cui la sorpresa aveva funzionato, è quasi certo che si andrà incontro a un fallimento.

La settima battaglia dell’Isonzo è, appunto, la storia di un sanguinoso fallimento, venuto subito dopo una formidabile vittoria. Sul fronte italiano, dopo la conquista di Gorizia, il Regio Esercito e i suoi comandanti erano animati da un notevole entusiasmo: questo portò Cadorna a sottovalutare tanto le capacità di reazione degli avversari quanto la loro volontà di resistenza. Il risultato fu una battaglia brevissima e cruenta, che vide, in uno spazio di fronte molto breve, affrontarsi grandi masse di uomini (solo gli italiani schierarono 240 battaglioni, 100.000 soldati, su un fronte di nemmeno 8 chilometri), a contendersi pochi metri di terreno.

La tattica delle c.d. “spallate” prevedeva forti bombardamenti per distruggere le difese nemiche, consentire l’occupazione alle fanterie e infine respingere i contrattacchi austriaci ancora per mezzo dell’artiglieria. L’attacco iniziò la mattina del 14 settembre con un fitto bombardamento che distrusse la prima linea austro-ungarica, ma la pioggia torrenziale vanificò gli sforzi dei fanti, né il successivo miglioramento climatico consentì di ottenere risultati significativi nei tre giorni di combattimenti.

In compenso, per i militari coinvolti, fu una carneficina: le lettere inviati ai familiari dai sopravvissuti parlavano di “pioggia disperata” che impedisce la visuale, di “fuoco infernale” dell’artiglieria che “sembrava impazzita”, di bombe che esplodono nelle mani dei soldati prima di poter essere lanciate. Così il soldato Imerio Gherlinzoni descrisse ai genitori le circostanze del suo ferimento in battaglia:

Ci fecero sfilare allo scoperto, per squadra per uno di corsa; come dissi l’azione era già cominciata, e la reazione nemica era terribile. Il nemico diffendeva, accanitamente, le sue posizioni, con un terribile fuoco di mitragliatrici, e fucileria, e bombe a mano, mentre le artiglierie, battevano le retrovie. Come dissi noi si andava per uno, in fila indiana, e di corsa perché, la zonna era assai batuta. Ad un tratto sentii un gran colpo al fianco destro, che mi fece traballare. […] Quando ripresi i sensi il sole era presso al tramonto, feci per rialzarmi da terra, e non vi riuscii; un dolore acuto, e lancinante, alla schiena e alla anca sinistra mi fece riccadere e solo allora, mi accorsi di essere stato ferito; mi guardai attorno, e vidi che il terreno tutto seminato di corpi di soldati, qualcuno ancora si moveva e si lamentava, ma la maggior parte non si movevano più!!!  Intanto non si sentiva più il fragore della battaglia ma le pallottole fischiavano terribilmente, e le granate passavano rombando, sopra di mè, e continuavano a passare di corsa, vari reparti di truppa di tutte le armi Genio, fanteria, finanza, Artiglieria da montagna, bersaglieri, senza curarsi dei lamenti e richiami di noi feriti e compresi che l’azione ancora continuava, e questi reparti andavano di rincalzo.  Io continuavo a raccomandarmi a quelli che mi passavano vicino: Portatemi giù, per carità! ho quattro bambini! salvatemi la vita!!!  ma quelli badavano ai casi loro, senza curarsi dei miei lamenti!!.

Il soldato Gherlinzoni fu portato in salvo alla fine di quella giornata e curato delle ferite. Altri ebbero minor fortuna. Il 17 settembre, quando la battaglia terminò, col solo risultato, per le truppe di Cadorna, di avere conquistato qualche trincea e un caposaldo avversario, le perdite italiane ammontavano a 21.144 uomini, di cui 5.773 tra morti (2.487) e dispersi (3.286) e 15.371 feriti; gli austriaci avevano perduto circa 15.000 uomini. La Prima Guerra Mondiale andava avanti.

Silvia Boverini

Fonti:
E. Edallo, “La prima “spallata” autunnale”, A. S. Fontana, “Penso alla pace”, I. Gherlinzoni, “Dissanguato”, www.espresso.repubblica.it;
www.itinerarigrandeguerra.it;
www.wikipedia.org;
www.alpinigenovaquarto.wordpress.com;
M. Cimmino, “Grande Guerra, Pillola 91: dalle stelle alle stalle, la settima battaglia dell’Isonzo”, www.bergamonews.it;
C. E. Gadda, “Impossibilità di un diario di guerra” e “Giornale di guerra a prigionia”.

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