Monaco, 5 settembre 1972: la strage delle Olimpiadi

Sono le 4:00 del mattino nel villaggio olimpico di Monaco, Germania. Un gruppo di atleti americani, dopo aver bevuto qualche birra di troppo, aiuta alcuni sconosciuti a scavalcare la recinzione che separa il resto degli atleti dall’esterno. Se avessero saputo cosa il loro gesto avrebbe comportato, non sarebbero certo stati così amichevoli.

I terroristi, otto uomini facenti parte di Settembre nero, gruppo vicino all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat, si dirigono subito alla palazzina che ospita gli sportivi israeliani. Due di questi fanno in tempo ad accorgersi di cosa sta succedendo e accennano una resistenza: pessima idea. Sono i primi a morire. Gli altri nove rappresentanti del controverso stato mediorientale diventano ostaggi da sfruttare.

A un’ora dall’irruzione, inizia la trattativa con le forze dell’ordine tedesche. Per mezzo di alcuni fogli di carta lanciati dal balcone, richiedono la liberazione di circa duecento prigionieri palestinesi, detenuti in carceri israeliane, e, ovviamente, una via di fuga per se stessi: degli aerei per lasciare il paese. Tempo a disposizione: quattro ore.

Golda Meir, Primo ministro di Israele, contattata da Willy Brandt, Primo ministro della Germania ovest, rifiuta ogni trattativa, preferendo l’invio di una squadra speciale per un blitz. La trattativa è comunque instaurata dai tedeschi, che riescono a posticipare la scadenza dell’ultimatum per diverse volte, mentre i giochi olimpici non si fermano, tra lo stupore di tutto il mondo.

A fine giornata, terroristi e ostaggi salgono su due elicotteri che li porteranno sulla seconda delle loro richieste, unica ad essere, apparentemente, soddisfatta: un aereo. È, appunto, solo apparenza: l’accordo si trasforma in una trappola. Scoppia una sparatoria sulla pista d’atterraggio, poiché i tedeschi riescono a mettere in atto il piano di salvataggio, che si conclude con l’arrivo dei mezzi corazzati: i terroristi capiscono che non c’è più alcuna speranza di uscirne indenni, perciò uccidono tutti gli ostaggi. Sopravvivono solo in tre, immediatamente arrestati, ma rilasciati poco più di un mese dopo, nell’ambito di una trattativa per un altro attentato.

Nello sgomento globale, i giochi si interruppero semplicemente per un giorno: la morte di 17 persone non fu ritenuta un motivo sufficiente per annullarli.

Alessio Gaggero

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04/09/17. Pini (Lega): Credere che Regeni sia stato inviato in Egitto per studiare […] non ci crede la gente comune né gli addetti ai lavori

Le parole che danno il titolo all’articolo di oggi sono state pronunciate esattamente tre anni fa da Gianluca Pini, deputato leghista della precedente legislatura. Durante il suo intervento, all’interno del dibattito sulla morte di Giulio Regeni nelle Commissioni parlamentari Affari Esteri, il parlamentare del Carroccio non solo adombrava, presumibilmente, l’ipotesi di un coinvolgimento del giovane dottorando con i servizi segreti, ma aggiungeva:

“Intitolare i Giochi del Mediterraneo a Regeni è folle. Prima vogliamo la verità, non vorremmo poi essere costretti a togliere qualche lapide […] Noi, contrariamente a qualche attore o regista di sinistra caduto in disgrazia che in queste ore fa le passerelle a Venezia, non consideriamo Regeni un eroe, ma semmai una vittima di un gioco più grande di lui”.

In quello stesso mese di settembre 2017 il legale egiziano che seguiva il caso per conto della famiglia, Ibrahim Metwaly, vie incarcerato in Egitto con l’accusa di voler sovvertire il governo Al Sisi.

A due anni di distanza, siamo ancora lontani dall’avere in mano delle prove servibili sullo svolgimento dei fatti inerenti al rapimento, alle torture e all’omicidio subiti da Giulio.

Rapito il 25 gennaio 2016, durante il periodo di dottorato che stava svolgendo in Egitto, ne fu ritrovato il corpo, il 3 febbraio, che presentava evidenti segni di tortura. Da quel momento in poi, la protagonista è stata la reticenza del governo egiziano rispetto ai risultati delle indagini, nonché la scarsa collaborazione offerta ai rappresentanti italiani. Giulio Regeni non ha ancora trovato pace.

Da quell’intervento in Commissione, la Lega è passata dall’opposizione al governo. Ripercorriamo le vicende svoltesi dal giugno del 2018.

Il 13 giugno scorso, Salvini fa delle affermazioni che incrinano la già labile sicurezza offerta dallo Stato italiano nella ricerca della verità:

“[…] comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni. Ma per noi, l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto”.

Amnesty International, il cui striscione campeggia su numerosi palazzi delle istituzioni, italiani ed esteri (comuni, regioni, università per dirne alcuni), risponde al Ministro dell’interno:

“Da una parte, Salvini ritiene che la richiesta di giustizia sia un’esclusiva della famiglia di Giulio e non invece di tutta l’Italia, essendo in gioco la democrazia del nostro paese. E dall’altra, passa su un Regime dove ogni giorno spariscono due persone, proprio com’è accaduto a Giulio, e dove tengono in carcere persone come Amal Fathy, moglie del consulente legale della famiglia Regeni al Cairo, Mohammed Lotfy, in carcere da settimane con accuse gravissime e assolutamente non provate”.

Esattamente un mese dopo, il 13 luglio, il Presidente della Camera Fico, il Ministro degli esteri Moavero Milanesi e il premier Conte incontrano Claudio e Paola Regeni, i genitori senza più un figlio. Le dichiarazioni vanno in senso nettamente contrario: si farà di tutto per cercare di far scaturire la verità, che non sarà solo per i genitori, ma per tutto il paese; per questo lo Stato ha l’obbligo di cercarla.

Passano poi pochi giorni, cinque per l’esattezza, ed è lo stesso Matteo Salvini a tornare sotto i riflettori del teatro egiziano: incontra, al Cairo, il presidente Al-Sisi e il ministro omologo Ghaffar, che gli assicurano la piena volontà di fare chiarezza sulla vicenda, portando a termine le indagini. È il primo Ministro a posare il piede in Egitto dall’aprile 2016, quando il Governo Renzi richiamò l’ambasciatore.

Dobbiamo aspettare il 5 agosto perché un altro componente dell’Esecutivo si presenti nuovamente da Al-Sisi: il già citato Moavero Milanesi, tra i vari argomenti, affronti anche quello relativo all’omicidio del giovane ricercatore. Anche in questo caso sono confermate la ferma volontà di chiudere la vicenda e la disponibilità a cooperare in modo trasparente.

Arriviamo, quindi, ad un anno fa: è il 29 agosto 2018, e il protagonista, questa volta, è l’altro Vicepresidente del Consiglio, Di Maio. Anche lui in viaggio al Cairo, incontra Al-Sisi, ma, diversamente dalle dichiarazioni dei suoi predecessori, scatena una dura polemica. Secondo il Ministro del lavoro, il Presidente egiziano avrebbe detto che Regeni è “uno di noi”, frase,che, però, è ritenuta da molti offensiva verso la famiglia Regeni e verso lo stesso Giulio, considerato il presunto coinvolgimento dei servizi egiziani.

Del resto, c’è anche la vicenda di Amal Fathy a gettare ombre ulteriori sul caso.

Il 18 dicembre dello scorso anno, in effetti, la corte d’Assise del Cairo ha ordinato la scarcerazione e la sottomissione al regime della libertà controllata della sopracitata Amal Fathy: l’attivista era stata condannata a due anni di carcere per aver condiviso su internet un video in cui accusava il governo di non difendere i diritti delle donne che hanno subito molestie sessuali. Fathy è la moglie di Mohamed Lofty, direttore della Commissione egiziana per i diritti umani e consulente della famiglia di Giulio Regeni. Era in custodia cautelare in carcere da maggio. Lei, il marito e il loro figlio di tre anni erano stati arrestati, nella loro abitazione, all’alba dell’11 maggio, dalle forze di sicurezza. Lotfy e il bambino, che hanno anche passaporto svizzero, erano stati rilasciati poche ore dopo. Le accuse contro Amal Fathy non erano collegate al caso Regeni, in quanto a fine settembre era stata condannata per aver denunciato, in un video pubblicato su Facebook, le molestie sessuali da lei subite e per aver criticato il governo per il mancato contrasto alla violenza di genere. Nel video non c’erano tracce di incitamento alla ribellione violenta contro il governo egiziano. Altrettanto pretestuosa e fasulla pare essere la seconda inchiesta in cui era coinvolta: “appartenenza a un gruppo terroristico“, “diffusione di notizie false e dicerie per danneggiare la sicurezza pubblica e gli interessi nazionali” e “uso di Internet per istigare a compiere atti di terrorismo”. Il 30 dicembre la Corte d’appello egiziana ha confermato la condanna a due anni di carcere inflitta a fine settembre. Amal, nei sette mesi di detenzione preventiva, aveva perso circa 20 chili di peso.

Il 25 gennaio 2019 in numerose piazze d’Italia si svolgono delle fiaccolate in memoria di Giulio Regeni. A Fiumicello si celebra la commemorazione con i genitori e il presidente della Camera Roberto Fico.

Il 20 giugno, Massimiliano  Fedriga, il presidente della regione Friuli Venezia Giulia, ha deciso di fare rimuovere in modo permanente lo striscione. Nello stesso periodo alti esponenti egiziani rilanciano la tesi dell’omicidio di criminalità comune e giungono notizie dall’Egitto sulla repressione ai danni di avvocati e difensori dei diritti umani che collaborano alla ricerca della verità.

A fine aprile, la Camera dei deputati aveva approvato l’istituzione di una Commissione monocamerale di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. In favore avevano votato tutti i gruppi tranne Forza Italia, che si era astenuta, dopo la bocciatura di un proprio emendamento. I sì erano stati 379, gli astenuti 54.

Agli inizi di maggio un funzionario dell’intelligence egiziana racconta a un collega straniero, nel corso di una riunione di poliziotti africani avvenuta nell’estate 2017, di aver preso parte al sequestro del giovane ricercatore italiano.

Credevamo che fosse una spia inglese, lo abbiamo preso, io sono andato e dopo averlo caricato in macchina abbiamo dovuto picchiarlo. Io stesso l’ho colpito più volte al volto”, avrebbe riferito l’agente egiziano.

A rivelare questa conversazione, si legge sui giornali, è stata una persona che ha assistito alla conversazione, la quale la riferisce agli avvocati e ai consulenti della famiglia Regeni, coordinati dall’avvocato Alessandra Ballerini. Costoro, a loro volta, mettono questa testimonianza a disposizione della Procura di Roma che indaga sul caso. Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco considerano la testimonianza così attendibile, da inoltrare al Cairo una nuova rogatoria.

Alessio Gaggero e Alberto Quattrocolo

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Il generale-prefetto Dalla Chiesa è assassinato il 3 settembre 1982

Di elementi in comune, gli uomini uccisi dalla mafia, ne hanno sicuramente molti. Colpisce uno in particolare: il presentimento. Li si ricorda, nei giorni che precedono l’ultimo, guardinghi, quasi paranoici, spesso disillusi e rassegnati a un destino ormai scritto. Uomini che sapevano di dover morire di lì a poco, e che non potevano farci assolutamente nulla. Perché la fuga non è mai stata, per loro, un’opzione.

Tale sensazione è spesso accompagnata da un sentimento terribile per tutti noi, animali sociali, ma in special modo per chi, come loro, ha bisogno degli altri per sopravvivere in senso stretto: la solitudine. Essere abbandonati da chi stava loro intorno, forse era proprio questo il vissuto che scatenava quel presentimento di morte: in effetti, quando si fiuta il pericolo, ci si allontana per salvarsi la pelle. E il pericolo, allora, era proprio intorno a loro. Dunque, li si abbandona. Solo famiglia e collaboratori stretti rimangono, spesso condividendo la fine di quegli uomini già destinati all’oltretomba. È il caso di Ninni Cassarà, di Giovanni Falcone, di Giuseppe Montana, di Rocco Chinnici, di Paolo Borsellino e di Carlo Alberto Dalla Chiesa (si vedano su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, i post 6/08/1985. Vengono uccisi da Cosa Nostra Ninì Cassarà e Roberto AntiochiaLo spirito di servizio di Giovanni FalconeL’attentato di via Pipitone si consuma il 29 luglio 1983, a Palermo).

È proprio di quest’ultimo che cade oggi l’anniversario della morte. Fu ucciso da Cosa Nostra mentre era Prefetto di Palermo. Nomina che suscitò non poche perplessità, soprattutto in relazione al fatto che non vennero concessi quei poteri speciali che gli erano stati promessi dal Ministro Rognoni:

Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del Prefetto di Forlì, se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi, non possiamo delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti.

100 giorni di lavoro, diventati ormai famosi, in cui chiarì fin da subito il suo preciso intento: non chiudere un occhio in nessun caso, mai, con nessuno. Prova ne fu il Rapporto dei 162, che mappava l’organizzazione della Cupola mafiosa; prova ne furono le dichiarazioni pubbliche, che non risparmiarono imprenditori apparentemente slegati dal potere criminale; prova ne fu, infine, il suo omicidio.

Dopotutto, accettò l’incarico per tentare di reiterare gli ottimi risultati conseguiti negli anni precedenti con la lotta al terrorismo. Dalla Chiesa aveva infatti alle spalle quasi vent’anni di carriera dedicata al combattere la criminalità organizzata, fosse essa da ricondurre alla mafia (ne abbiamo fatto cenno anche nel post Placido Rizzotto: «I nostri nemici non sono i padroni, ma noi stessi») o alle Brigate Rosse. Campania, Sicilia, Toscana, Lombardia, Lazio, Piemonte e, infine, ancora Sicilia. Aveva raggiunto il grado di Vicecomandante generale dell’Arma, massima carica di cui poteva essere allora investito un Carabiniere. Per poter comandare la Prefettura palermitana fu messo in congedo, ma i poteri promessi non arrivarono: a sostituirli, la sera del 3 settembre, raffiche di Kalashnikov che si abbatterono sulla macchina del generale e quella della scorta, uccidendo anche l’agente Domenico Russo.

La solitudine, dunque, accompagnò il generale-prefetto alla sua fine. Solo una donna al suo fianco: Emanuela Setti Carraro. Neanche due mesi erano passati da quando si erano sposati a Trento, lontano dalla terra, e dagli uomini, che avrebbero dato loro la morte.

Alessio Gaggero

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Il 2 settembre 2015 Alan Kurdi affoga nell’Egeo insieme alla sua famiglia

Due settembre 2015. Una barca di migranti siriani affonda nell’Egeo. Qualcuno si salva, qualcuno no. Tra quest’ultimi, due bambini, due fratelli. Uno in particolare diventerà famoso nel giro di poche ore. O meglio, una foto scattata al suo corpo senza vita, steso sulla battigia di una spiaggia turca. La foto farà il giro del mondo in tutte le forme, anche incollata all’interno di una riunione ONU, a suggerire la responsabilità politica di quanto accaduto: chi ci governa non è nemmeno in grado di proteggere bambini di 3 anni dall’affogamento in un mare dove dovrebbero semplicemente andare in vacanza.

Alan era un piccolo siriano kurdo di Kobane, partito con padre, madre e fratellino a bordo di un’imbarcazione, invece che di un aereo, poiché la zia, residente in Canada, non è riuscita a porsi come garante della famiglia. Solo il padre è sopravvissuto al naufragio, vedendosi strappare via i figli dalle mani, presi di forza da quel mare che avrebbe dovuto essere la loro via di fuga da un paese martoriato da guerra e politica.

L’immagine di Ayan steso su quella spiaggia ha colpito duramente gli occhi e le menti di milioni di persone in tutto il mondo, come facilmente accade oggi. Un’altra foto ha raggiunto picchi di diffusione paragonabili in quei giorni. È la copertina di Charlie Hebdo, che utilizza l’immagine del piccolo siriano per realizzare una vignetta satirica.

Charlie Hebdo, altro nome che ha fatto il giro del mondo in brevissimo tempo, quando, il sette gennaio 2015, la sua sede parigina fu attaccata a suon di kalashnikov da dei terroristi che vendicavano l’Islam, mortalmente offeso dalle precedenti vignette della rivista.

Charlie Hebdo e Aylan Kurdi. Quattro parole che hanno tempestato i motori di ricerca di milioni di dispositivi in quei giorni. Gli autori della rivista decisero dunque di mettere Alan al centro della propria copertina. Si scatenarono le reazioni più indignate, in difesa del piccolo siriano ingiustamente attaccato: Charlie Hebdo fu accusato di sfruttare la morte di un minore al solo scopo di attirare attenzione; di essere razzista, xenofobo e moralmente abietto; di fomentare i crimini d’odio e le persecuzioni; soprattutto, di prendersi gioco di Alan e della sua morte. A nulla, o poco, sono valse le precisazioni del giornale: l’idea non era sbeffeggiare il bambino, ma puntare il dito contro la società consumistica, rappresentata dal cartellone pubblicitario di McDonald’s.

Satira. Questo è il nome cui risponde la tipologia di arte che crea Charlie Hebdo. Cosa significa satira? Cos’è la satira? Serve a qualcosa? E, se sì, a cosa? È lecita? Lo è sempre?

Facilmente si può trovare in internet una definizione di questa forma d’arte, che a sua volta può assumere molteplici forme: vignette, poesie, canzoni, film, fino ad opere magne, la Divina Commedia su tutte. Satira sono le immagini che scorgiamo tra le pagine dei giornali (web o cartacei che siano). Disegni e testi che cercano di svelare una realtà che a volte conosciamo, altre è subito svoltato l’angolo o scostato il velo che ci caliamo davanti agli occhi, perché ci fa comodo così. Per farlo, ci sono tanti modi e uno di questi è colpire il lettore (ascoltatore, spettatore ecc.) con una sensazione, scatenare in lui un’emozione, profanando ciò che c’è di sacro: se per Dante erano i papi, per la satira odierna sono le morti degli innocenti. Charlie Hebdo sferra pugni dritti nello stomaco delle persone, fa contorcere loro le budella, sperando che quella rabbia, quel disgusto, quella tristezza siano poi utilizzate per accendere neuroni e sinapsi, che dovrebbero collegare i puntini che hanno davanti agli occhi. Prendersela con i vignettisti per la rabbia che quell’immagine induce, è un po’ come prendersela con l’ambasciatore di una cattiva notizia: non dovrebbe portare pena, no?

Alessio Gaggero

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La strage di Beslan ha inizio la mattina del primo settembre 2004

385 morti, di cui 154 bambini e 10 esponenti delle forze dell’ordine russe, oltre quasi 800 feriti.

A tanto arrivò il commando che tenne col fiato sospeso milioni di persone, avendo preso in ostaggio bambini, genitori e personale di una scuola dell’Ossezia del Nord, per un totale di circa 1.200 persone. Evidentemente, il gruppo armato era a conoscenza del fatto che, il primo giorno di ritorno dalle vacanze, le famiglie si fermano insieme agli alunni per assistere alla cerimonia, perciò, in quelle ore, il numero di individui presenti a scuola in quelle poche ore è molto più alto del solito.

I sequestratori partirono da un campo poco lontano dalla città, ma già all’interno dei confini dell’Inguscezia. Ci troviamo, infatti, nei territori della Federazione Russa, di cui fa parte anche la tristemente nota Cecenia, che giocherà un ruolo di primo piano anche in questa vicenda. Dunque, trenta uomini e due donne lasciarono i boschi dove avevano passato la notte, alla volta di Beslan, trasportati da un camion militare e un’auto della polizia.

L’inizio del terrore…

In pochi minuti presero il controllo della situazione, radunando la maggior parte dei presenti nella palestra, dove avrebbero passato le successive 52 ore, in mezzo alle bombe: i terroristi, infatti, minarono tutto il terreno circostante. Dopo circa un’ora, le forze dell’ordine, compresi alcuni reparti speciali russi, circondarono l’edificio, ma dovettero aspettare un altro paio d’ore per il primo contatto: un ostaggio liberato riferì che i sequestratori pretendevano di parlare con il presidente osseto, l’ex presidente dell’Inguscezia e Leonid Roshal, il pediatra che negoziò con gli attentatori del teatro Dubrovka. Imposero anche violente regole: 10 ostaggi uccisi se l’elettricità o le comunicazioni fossero state tagliate, 20 per ognuno dei terroristi feriti, 50 per ogni terrorista ucciso.

Quali erano, però, le reali intenzioni del commando? Si scoprì che il gruppo era composto in gran parte da Ceceni, e in minoranza da arabi, che esigevano la libertà del loro paese d’origine: la Cecenia doveva essere ripulita di qualsiasi militare russo presente sul territorio.

… e la sua triste conclusione

Il sequestro terminò con quello che si ritiene sia stata l’esplosione accidentale di due ordigni, che causò la morte della maggior parte delle vittime totali. Entrambi gli schieramenti attribuirono la responsabilità all’altro, e si scatenò il disastro: ostaggi che fuggivano dalle brecce aperte nelle mura, militari e civili armati che fecero incursione nell’edificio e i terroristi che cercavano di causare più vittime possibili. Al termine della sparatoria, solo un membro del commando riuscì a salvarsi, sia dai proiettili che dalla folla: fu catturato e portato via dalle forze dell’ordine.

Circa due settimane dopo il termine delle atrocità, il leader separatista ceceno Shamil Basayev rivendicò l’attacco, affermando di aver sottovalutato la capacità del Governo di affrontarlo senza alcuno scrupolo.

Alessio Gaggero

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