Potrebbe esservi un’egemonia (nascosta) della “pancia” sulla politica che parla solo alla “testa” dei cittadini?

Vincent Hanna, il tenente interpretato da Al Pacino nel film Heat – La sfida, pronunciava con rabbia ed impazienza la seguente battuta: «La comprensione, l’ho finita ieri. Oggi mi stai solo facendo perdere tempo».

Estrapolata dal contesto della trama del film, queste frasi si prestano efficacemente ad esprimere l’insofferenza che tutti qualche volta proviamo nell’essere “contenitori” delle emozioni di un’altra persona, sia essa particolarmente in ansia, arrabbiata, addolorata o confusa. Quando, cioè, non abbiamo spazio sufficiente per accogliere, ospitare e contenere le emozioni dell’altro, interagendo empaticamente con esso.

Però a volte la nostra reazione di insofferenza si collega ad un nostro imbarazzo, anche ad un senso d’inadeguatezza o d’impotenza. Vi è un passaggio de Il Piccolo Principe di Saint Exupery che esprime assai efficacemente tale condizione: «Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo (…). Il paese delle lacrime è così misterioso».

Una situazione emotivamente impegnativa è quella del rapporto (difficilissimo da gestire, ma anche, tipico, quasi archetipico, per chi si occupa di politica con funzioni di governo) tra il rappresentante istituzionale che, convinto della bontà delle politiche messe in atto dalla sua amministrazione, per ipotesi cercasse di rassicurare una certa parte della cittadinanza, frustrata e arrabbiata o preoccupata in relazione a determinate problematiche di rilevanza collettiva. Tale rappresentante, com’è ovvio, potrebbe trovarsi a tentare la titanica impresa di dare luogo ad una trasformazione profonda nei suoi concittadini: una trasformazione che dovrebbe avvenire contemporaneamente sul piano cognitivo, comportamentale ed emotivo.

Supponiamo che sia in buona fede, cioè che sia davvero convinto che l’amministrazione abbia compiuto tutto quanto era possibile realizzare per far fronte alle cause del disagio lamentato da quei cittadini. Che possibilità di azione avrebbe, posto che non voglia disinteressarsi delle reazioni di quella parte di cittadinanza?

Il rappresentante istituzionale protagonista di simili situazioni si potrebbe trovare, per così dire, a giocare in difesa (come visto in un post precedente), magari non negando esplicitamente ai suoi interlocutori il diritto di essere delusi o contrariati e, quindi, di attaccarlo, ma tentando immediatamente di mostrare loro che sono in errore.

Si tratterebbe di un’impresa ardua e, soprattutto, suscettibile di dare luogo ad un confronto che poco per volta si sposterebbe dal merito dei problemi ad un altro livello, quello della relazione, finendo assai spesso nel vicolo cieco della reciproca delegittimazione.

Tale eventualità sarebbe prefigurabile quando: da un lato, il rappresentante istituzionale finisse con l’essere considerato da quella parte della popolazione come non credibile, incapace o avulso dalla realtà o addirittura in malafede, venendo accusato di volere difendere in realtà altri poco nobili interessi; dall’altro, il rappresentante della struttura di governo ritenesse che l’avversione di quei cittadini sia pregiudiziale, perché frutto di ignoranza o di una qualche deficienza culturale, oppure perché politicamente condizionata dalla campagna di forze politiche avverse (su questo aspetto mi sono già soffermato in Dal conflitto tra cittadini “non ascoltati” e leadership politica al “conflitto tra forze politiche” che compromette, di nuovo, l’ascolto).

Il passo verso la reciproca negazione delle ragioni dell’altro, allora, sarebbe irrevocabilmente compiuto. E l’escalation conflittuale potrebbe impedire il ritorno dell’attenzione al problema concreto, essendo in primo piano e dominante la logica della contrapposizione al nemico, con grosse difficoltà di ripristino di un dialogo costruttivo nel merito.

Inoltre, ad ostacolare il recupero da parte del politico di una dimensione di ascolto potrebbe anche intervenire l’istanza di voler salvare la faccia, cioè il timore di apparire deboli e remissivi.

In simili condizioni, dunque, non sarebbe improbabile l’instaurarsi di un dominio dell’irrazionalità su entrambe le parti della relazione: quella dei cittadini, che si sentirebbero traditi, respinti ai margini, non ascoltati, non compresi e non riconosciuti come persone; quella dei politici, che si sentirebbero attaccati, ingiuriati, traditi e non riconosciuti.

Se il rapporto tra le due parti continuasse su tale registro, anche laddove escalation si arrestasse sul piano dei comportamenti visibili, non si fermerebbe dal punto di vista dell’estensione progressiva della distanza tra i due gruppi.

In conclusione, è possibile supporre che nel caso ipotizzato il conflitto manifesto tra politici dialoganti con la testa della cittadinanza (e perciò accusati di disinteresse e indifferenza verso i disagi della popolazione) e cittadini che non si sentono ascoltati (e pertanto sono accusati di irrazionalità), in realtà, si sviluppi ancor prima dell’avvio del confronto (ove questo vi fosse) e sia collocabile per lo più sul registro delle reazioni emotive inconsapevoli. Le quali, però, hanno una prerogativa: anche quando non lo vogliamo passano nella comunicazione e raggiungono l’interlocutore, che ad esse, quindi, consapevolmente o no, risponde.

In conclusione, nell’ipotetica dialettica tra una forza politica che interloquisse con la cittadinanza turbata, delusa e adirata rivolgendosi esclusivamente alla sua parte razionale, si potrebbe essere davvero certi che l’irrazionalità fosse situata tutta solo da una parte?

La suggestione cinematografica di partenza in tal caso è stata …E l’uomo creò Satana (Stanley Kramer, 1960). Il film è tratto dall’opera teatrale di Jerome Lawrence e Robert E. Leem che a sua volta si ispira ad un fatto realmente accaduto nel 1925 a Dayton in Tennessee: il caso del “Processo alla scimmia” (Monkey Trial), così chiamato perché un insegnante di biologia, il ventiquattrenne John T. Scopes (che nel film ha un altro nome, prof. Bertram Cates), venne accusato di sostenere tesi darwiniane e di insegnarle agli allievi con ciò commettendo il reato di corruzione di minorenni. Scopes in tribunale fu difeso da un celebre avvocato, Clarence Darrow, ed accusato da un’altra celebrità, William Jennings Bryan, già due volte candidato alla presidenza degli Stati Uniti ed ex-Segretario di Stato, sotto la presidenza di Woodrow Wilson. Nel film Darrow (ribattezzato Henry Drummond), interpretato da Spencer Tracy, di fatto, è in conflitto fin dall’inizio con gli abitanti della cittadina del Sud degli States i cui si svolge la vicenda e ha nei loro riguardi atteggiamenti di tipo sostanzialmente sprezzante. E, dal mio punto di vista, pur parteggiando per lui e la sua causa (come suppongo il 99,9% di coloro che andarono in sala a vedere questo film 57 anni fa), questo sarebbe già stato sufficiente ad impedirgli di riuscire persuasivo nei confronti della giuria. Però gli sceneggiatori (Nedrick Young, Harold Jacob Smith) e gli autori della commedia dotarono il personaggio di notevoli capacità empatiche, che, infatti, Drummond è in grado di dispiegare nei confronti di coloro di cui riconosce come legittime le cause della sofferenza (l’imputato, la moglie dell’avvocato dell’accusa, a momenti alterni la fidanzata del suo cliente), mentre, appunto, sospende totalmente nei confronti di coloro di cui disapprova o disprezza le idee bigotte e l’intolleranza. Il che permette di evidenziare, rispetto alle ipotetiche modalità di approccio alle emozioni dei cittadini in ambito politico delineate in questo post e nel precedente, che non si sarebbe una questione di carattere o di sensibilità ad indurre questo o quel politico, oppure una particolare forza politica, a rivolgersi prevalentemente alla “testa”, ma, presumibilmente, andrebbe indagata l’origine relazionale di quell’approccio. Detto in altri termini: è possibile che una forza politica ipotizzata sia poco propensa a sintonizzarsi con dei vissuti dei cittadini perché quei vissuti, implicitamente o esplicitamente, sembrerebbero inviare un messaggio polemico o, almeno, critico a quel partito; mentre è possibile supporre che quella stessa forza politica potrebbe essere capace di sintonia emotiva con una popolazione sofferente che venisse da essa avvertita come “non aggressiva” nei suoi riguardi.

 Alberto Quattrocolo

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