Riflessioni filosofiche: La mediazione dei conflitti e il concetto di applicazione.

Hans Georg Gadamer è il pensatore che più ha contribuito al recupero di Aristotele nell’ermeneutica del Novecento.

Se per ciò che concerne il marxismo e le scuole che ne sono state influenzate, è inutile sottolineare la portata del concetto di prassi, ciò è meno scontato per l’altro indirizzo che insieme alla filosofia analitica ed al marxismo ha animato il dibattito del secolo scorso: l’ermeneutica. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che la suadente perifrasi di «svolta linguistica» ha spostato l’attenzione su questo aspetto della riflessione filosofica, mettendo in ombra la portata pratica di alcune delle teorie filosofiche più pregnanti del XX secolo.

Prima di procedere oltre sarebbe essenziale soffermarsi sul concetti di prassi in Aristotele e sulla sua distinzione dal mero fare produttivo[1], ma per tale distinzione e per maggior fruibilità del testo, rimandiamo ad interventi e articoli pubblicati in precedenza. Basti solo definire che in tale distinzione Aristotele distingue concettualmente un fare che mira alla produzione di oggetti esterni e presenti nel mondo attraverso modalità tecniche, uguali e riproducibili, dunque insegnabili (la poiesis o fare produttivo) e dall’altra l’agire propriamente detto il cui scopo è interno al fare stesso (la praxis: una passeggiata o una scelta politica) e per cui non possiamo addurre criteri ripetibili sempre allo stesso modo. La facoltà che presiede tale razionalità sarebbe la saggezza, come capacità di adattare il caso particolare a una norma, un valore o una legge che pretendono validità universale.

Martin Heidegger, maestro di H.G. Gadamer e massimo esponente dell’ermeneutica del Novecento, dagli anni della formazione e dalla lettura di Franz Brentano, ereditava un bagaglio concettuale che derivava dalla teologia e da Aristotele che è ravvisabile anche in Essere e tempo. Se però Heidegger si distacca dalla metafisica aristotelica bollata come le altre metafisiche di essere una «onto-teologia», dall’altro lato ne recupera le categorie etiche.

Heidegger in questo modo «ontologizza la phrónesis» che diventa una delle modalità più proprie dell’esistenza; l’agire che diventa un modo d’essere dell’Esser-ci (così Heidegger chiama l’uomo) il quale è già sempre comprendente, interpretante e dunque agente.

La metodologia tradizionale dell’interpretazione testuale prevedeva una subtilitas intelligendi, una subtilitas explicandi ed una subtilitas applicandi[2]. Il comprendere e lo spiegare erano quindi radicalmente uniti ad una «finezza di spirito nell’applicazione» che dava la misura dell’atto del comprendere stesso. L’ermeneutica giuridica e quella religiosa esercitavano, dunque, la comprensione con il fine di testarne una possibile applicazione pratica, la quale costituiva il «banco di prova della comprensione stessa». L’emancipazione della filologia dall’ermeneutica giuridica e da quella religiosa escluse la subtilitas applicandi, a scapito di qualunque elemento pratico ravvisabile nel testo da interpretare, e favorendo, in tal modo, una riflessione puramente teorica scevra da qualunque riferimento all’agire.

H.G. Gadamer attraverso le tradizionali teorie dell’interpretazione si è fatto invece promotore di un recupero dell’applicatio, favorendo un ritorno alle dottrine aristoteliche ed un recupero del concetto di ragion pratica in quanto saggezza pratica[3]. In particolare, se, come egli afferma, «comprendere significa sempre applicare»[4], l’esistenza stessa è strutturalmente comprendente-applicante: Gadamer sembra così aggiungere, alle modalità fondamentali dell’esistenza riconosciute da Heidegger, comprensione ed interpretazione, anche l’applicazione. Questa non sarebbe però un che di separato dalla comprensione, ma ne costituirebbe un’articolazione come l’interpretazione; la possibilità di comprendere sarebbe condizionata a sua volta dalla possibilità di applicare in qualche modo il sapere originato dalla comprensione stessa tanto che «un sapere generato che non sa applicarsi […] rimane privo di senso»[5].

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A prova di ciò Gadamer si è fatto promotore di un recupero del paradigma giuridico dell’applicazione della legge, che diventa centrale nell’economia della teoria gadameriana: il caso dell’applicazione della legge è esemplare, in quanto il processo giudiziario non consisterebbe in una semplice applicazione di un paragrafo del testo giuridico ad un caso particolare, ma nel trovare, invece, il «giusto paragrafo».

La facoltà che presiede a questa scelta è per Gadamer la phrónesis (Aristotele, Libro Z, 8, dell’Etica nicomachea) e si estenderebbe in tal modo a tutto l’agire tanto che la «filosofia pratica è la più architettonica»[6] in quanto contiene in sé tutte le altre. L’applicazione «è elemento strutturale di ogni comprendere»[7]. Un discorso non dissimile può essere fatto per ogni agire che voglia tenere in considerazione tali premesse, se, dunque, facciamo ricadere la mediazione dei conflitti sotto tale distinzione, essa è una forma di prassi.

Non si nega che la mediazione dei conflitti si avvalga di tecniche ripetibili, insegnabili e, dunque, trasmissibili, ma solo che essa usa delle tecniche senza essere essa stessa una tecnica. Il mediatore, perciò, è tenuto a tenere sempre in conto il singolo caso particolare che non va posto acriticamente sotto una categoria “tecnico-scientifica”, ma messo in relazione a più valori, massime dell’azione, norme etc. affinché il singolo caso stesso non risulti soffocato da una “proceduralizzazione” dell’agire che tenga in considerazione più i temi – quali: conflitto, sistema giudiziario, mediazione – che non i vissuti di colui il quale quel conflitto sta vivendo e che deve essere tutelato dal desiderio del mediatore di strumentalizzare conflitti e confliggenti per fini propri e che sono estranei allo spirito di  neutralità, libertà di scelta, accoglienza del conflitto che dovrebbero caratterizzare queste forme di pratica.

Maurizio D’Alessandro

[1] D’Alessandro M., Quattrocolo A., L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, in La Giustizia Sotenibile vol. VIII, Aracne, Roma, 2015, pp.273-286.

[2] L’applicatio diventa per la prima volta un momento fondamentale dell’interpretazione testuale con J.J. Rambach (1693-1735), il quale nelle Istitutiones Hermeneuticae Sacrae, Jena, 1723, libro IV, cap. III, «De sensu inventi adplicatione», mostra come l’applicazione sia un momento fondamentale dell’interpretazione delle scritture.

[3] Gadamer H.G., Verità e metodo, trad. it., Milano, Bompiani,1983, pp. 418-440.

[4] Ivi, p. 360.

[5] Ivi, p. 364.

[6] Gadamer H.G., Verità e metodo. Volume 2: integrazioni, Milano, Bompiani, 2001, p. 277, l’espressione è ripresa dall’Etica nicomachea.

[7] Ivi, p. 7.

Figli e mediazione familiare: è giusto coinvolgerli?

Quale è il ruolo dei figli durante il conflitto tra i genitori?

I figli possono sembrare spettatori passivi rispetto alle discussioni che coinvolgono i genitori ma, la maggior parte delle volte, gli stessi vengono trascinati all’interno del conflitto e si trovano in una posizione molto svantaggiata poiché lo subiscono e non possono avere “voce in capitolo” a riguardo.

Ecco perché appare evidente quanto sia importante il dialogo tra genitori e figli, in particolare modo quando la coppia si trovi ad affrontare un passaggio molto delicato quale quello della separazione.

È altrettanto evidente quanto questo risulti difficile, soprattutto in questa fase nella quale la coppia è prevalentemente impegnata a farsi la guerra e risulta, per la maggior parte delle volte, cieca nei confronti di quello che sarebbe bene per i figli.

Molte volte, quando in una fase successiva viene chiesto ai figli di cosa avrebbero avuto maggior bisogno durante la separazione dei genitori, gli stessi rispondono che gli sono mancate, da parte di mamma e papà, spiegazioni e rassicurazioni in merito a quanto stesse succedendo.

È proprio attraverso la mediazione familiare che si possono aiutare i genitori ad assolvere a questo difficile compito rendendo partecipi, ove possibile, i figli nel percorso stesso.

Proviamo a vedere come.

Quali sono i pro e contro all’ascolto del minore?

Come anticipato, nel conflitto tra i genitori, il ruolo dei figli è, a volte, passivo, oppure essi vengono “triangolati emotivamente” dagli adulti che incanalano attraverso di loro i conflitti irrisolti.

Le reazioni che i figli possono avere sono atte ad esprimere i loro bisogni. Cercano, infatti, di proteggere i genitori e loro stessi ed il comportamento che assumono è lo specchio delle necessità che hanno ma che non sanno esternare in altro modo. (Parkinson, 2013, pp.204-205)

Sono molti i figli che vorrebbero avere voce in capitolo sugli accordi familiari, in particolar modo i figli più grandi pensando che dovrebbero essere coinvolti in decisioni che incideranno in maniera profonda sulla loro vita.

Siamo persone anche noi e non dovremmo essere trattati come dei malviventi, solo perché siamo giovani. Credo che noi ragazzi meritiamo lo stesso rispetto che i cosiddetti adulti si aspettano da noi. (Parkinson, 2013, p. 30).

Sono discordanti le opinioni dei mediatori riguardo il coinvolgimento diretto dei figli in mediazione.

Alcuni pensano che questo porterebbe danno verso le decisioni dei genitori poiché andrebbero ad indebolirle, ma l’esperienza di Regno Unito e di Australia dimostra che i figli possano trarre beneficio dal loro coinvolgimento in prima persona.

Questo può avvenire solo qualora si accertino prerequisiti fondamentali, ossia il consenso di entrambi i genitori, la riservatezza per tutti i partecipanti alla mediazione (eventualmente anche un consenso informato da parte del figlio) e la chiarezza del ruolo del mediatore.

In base ad uno studio fatto nel 1989 da Garwood, si rilevò che su 186 casi 43 visionati, solo 39 (il 19%) aveva visto il coinvolgimento dei figli e la ragione primaria era legata alla giovane età dei bambini (in media tre anni e mezzo).

Per metà dei casi i genitori non ritennero necessaria la presenza dei figli poiché si ritenevano in grado di poter avere con loro un dialogo tra le mura domestiche; per 14 casi ritenevano che i temi toccati in mediazione non li riguardassero; in 9 casi un genitore non aveva dato il consenso.

Appare evidente, quindi, che si debba discutere con i genitori, qualora si parli di un possibile coinvolgimento dei figli nel percorso di mediazione, i possibili vantaggi e svantaggi che gli stessi potrebbero averne (Parkinson, 2013, p.217).

Ma vediamo ora quali potrebbero essere i rischi e i benefici derivanti dal loro coinvolgimento.

Di seguito i potenziali svantaggi:

– Il loro coinvolgimento potrebbe aumentarne la sofferenza e la confusione

– Non dovrebbero essere coinvolti in quelle che sono negoziazioni tra adulti

– Non avendone responsabilità non dovrebbero essere trascinati nelle controversie tra i genitori

– Aumentare il loro empowerment rischia di indebolire uno o tutti e due i genitori;

– Potrebbero sentirsi sotto pressione nell’esprimere i loro punti di vista;

– L’autorità decisionale dei genitori potrebbe venir messa in crisi;

– I figli potrebbero temere di dover fare una scelta;

– Il mediatore potrebbe venire “triangolato” tra genitori e figli;

– Il conflitto di lealtà nel figlio potrebbe aumentare;

– I genitori potrebbero avere difficoltà nel gestire la sofferenza davanti ai figli;

– I figli potrebbero avere la falsa aspettativa che le cose migliorino;

– I genitori, attraverso pressioni, potrebbero manipolare il colloquio dei figli;

– I genitori, ricevuti i feedback, potrebbero provare rabbia nei confronti dei figli.

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Vediamo ora quali i potenziali benefici portati dal coinvolgimento:

– I figli possono ricevere spiegazioni e rassicurazioni;

– I figli capiscono meglio le decisioni dei genitori;

– Il coinvolgimento sottolinea l’importanza dei loro bisogni, punti di vista e desideri;

– La maggior parte dei figli coinvolti ne riferisce l’utilità.

– Si facilita la comunicazione riducendo le tensioni;

– Si possono risolvere malintesi;

– I figli possono fare domande, dare la loro opinione;

– I genitori possono dare ai figli messaggi che non riuscirebbero a comunicare in altro modo;

-I figli sono aiutati a mandare messaggi ai genitori sentendosi capaci di comunicarglieli;

– I figli possono liberamente esprimere le loro preoccupazioni anche di ordine pratico (si veda, ad esempio, la futura collocazione degli animali domestici);

– I genitori vengono aiutati ad ascoltare i figli i quali, a loro volta, percepiscono interesse nei loro confronti (Parkinson, 2013, pp.218-219).

Accordi con i genitori e con i figli.

Elemento essenziale in mediazione è la riservatezza.

Il mediatore, infatti, ad inizio del percorso di mediazione chiarisce quali siano le “regole” degli incontri ed una basilare è quella della riservatezza che lo stesso avrà nei confronti di ciò che le parti (singolarmente o meno) diranno durante i colloqui.

È importante, nel caso in cui si facciano entrare i figli in mediazione, che i genitori valutino attentamente quali dovranno essere i “paletti” oltre i quali non spingersi, ossia fino a che punto arrivare nelle discussioni con i minori e, poiché in questi casi, la riservatezza non potrà essere totale, si dovrà valutare come procedere ogni qualvolta si ritenga che il minore sia a rischio e, per questo motivo il genitore dovrà dare il consenso a procedere.

Altro punto su cui soffermarsi riguarda i feedback che si possono dare o meno ai genitori. Risulta chiaro che questo dovrà essere deciso esclusivamente dal minore e che, i genitori dovranno riuscire a capire che se un figlio nega il consenso ai feedback verso di loro questo non sta a significare che l’incontro non abbia avuto effetti positivi.

C’è da fare una distinzione tra figli più grandi e figli più piccoli. I primi, infatti, tendono (dopo il colloquio con il mediatore) a ritenersi capaci di poter comunicare ai genitori ciò che vogliono esprimere, senza il bisogno di una terza figura come intermediario, mentre i figli più piccoli hanno solitamente bisogno di un appoggio in più.

Si potrà presentare il caso in cui i minori chiederanno al mediatore di comunicare, a nome loro, qualcosa ai genitori; la cosa più appropriata da fare in merito consiste nel mettere per iscritto il messaggio da portare e controllarlo assieme al mittente  (Parkinson, 2013, p.221).

Di fondamentale importanza è che i genitori si trovino d’accordo sul fatto di non dare istruzioni ai figli prima del colloquio, perché questo potrebbe viziarlo, e sull’evitare di chiedere, dopo l’incontro, quello che avrebbero o non avrebbero detto.

I minori devono sentirsi liberi di parlare senza la paura di poter subire ripercussioni oppure di ferire uno o l’altro genitore; devono essere oltremodo rassicurati (da parte del mediatore) sul fatto che parleranno solo se vorranno farlo, saranno ascoltati ma non interrogati e non verrà richiesto a loro di prendere decisioni difficili o di assumersi grosse responsabilità.

Obiettivo primario del loro coinvolgimento in mediazione sarà quello di aiutarli, prestando particolare attenzione a non causargli ulteriore sofferenza.

Farli diventare parte del processo di mediazione, può aiutarli a capire meglio i loro bisogni, ciò che loro vogliono comunicare ai genitori e cosa vogliono sentirsi dire da questi ultimi e, per questo motivo, è indispensabile non vedere il colloquio con i figli a senso unico, atto solo ad indagare i loro sentimenti, ma capace di fornire spiegazioni adeguate alla loro età e trasmettere rassicurazioni, specialmente nei casi in cui la comunicazione con i genitori è stata interrotta.

Uno dei principali vantaggi è quello di riaprire un canale di comunicazione nella famiglia, così che si arrivi a riprendere a parlarsi, capendosi di più e facendolo in maniera empatica. (Parkinson, 2013 pp.222-223)

Daniela Meistro Prandi  

Fonti:

PARKINSON, L., (2013) “La mediazione familiare: modelli e strategie operative”. Erickson.

La mediazione familiare, tra obbligatorietà e dovere di informazione

L’avvocato è un mediatore di diritto!

È il tormentone che spesso ci si sente ripetere…però… può definirsi anche mediatore familiare?

L’ovvia risposta – e cioè NO – non è così scontata per gli avvocati c.d. “divorzisti” o “familiaristi”…

Spesso se, gestendo una separazione o un divorzio in qualità di avvocato,propongo al collega di controparte di inviare in mediazione familiare i due rissosi clienti separandi o divorziandi, ricevo una risposta che pressappoco fa così: “La facciamo già noi, la fatica di mediare”; spesso affiancata/rafforzata da un “e poi, diciamo loro che hanno un altro costo da affrontare?”.

Spesso il riscontro è accompagnato anche da un linguaggio non verbale di insofferenza, che delinea e sottintende la forte resistenza che purtroppo ancora c’è negli ambienti forensi nei confronti della mediazione familiare.

Ed allora, quanto c’è di pregiudizio e quanto c’è di ignoranza (nel senso di non conoscenza) in materia di mediazione familiare tra gli operatori del diritto?

Ancora oggi, purtroppo si riscontra una diffusa ignoranza/disinformazione in materia, anche da parte degli addetti ai lavori.

Ciò, in parte, è anche colpa del panorama normativo italiano, piuttosto povero in tema di mediazione.

Ad esempio, l’art. 155 sexies c.c. (abrogato e, sostanzialmente, ripreso nell’art. 337octies c.c., ex art. 106, d. lgs. 154/2013), II co., prevedeva che: “qualora ne ravvisi l’opportunità il Giudice sentite le parti ed ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”.

Con tale norma il legislatore ha introdotto un nuovo potere discrezionale del Giudice; tuttavia non ha introdotto in maniera esplicita ed inequivoca l’istituto della mediazione familiare; a testimonianza di ciò la norma suindicata parla di “esperti” e non espressamente di “mediatori familiari”.

Altri riferimenti alla mediazione familiare si trovano nella, L. 154 del 4.4.2001 recante “ Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”, che in materia di protezione contro gli abusi familiari: ha novellato il c.c., inserendo gli artt. 342bis cc

Parlando di mediazione in senso più ampio, è noto a tutti che il D. Lgs 28/2010 riformato (L. 98/2013), al suo articolo 5 co I bis elenca una serie di materie per le quali la mediazione è obbligatoria costituendo condizione di procedibilità della successiva (eventuale) domanda giudiziale; ebbene, tra queste materie non rientrano quelle del diritto di famiglia.

Dunque, ancora troppi avvocati mostrano una mal celata diffidenza nei confronti della mediazione familiare.

Un po’ vedono l’intervento del mediatore come un affronto al loro operato; non è poi esclusa una certa rivalità: il mediatore potrebbe sottrarre possibile clientela. C’è poi una sorta di delirio di onnipotenza – sia tra gli addetti ai lavori che tra i clienti –  che vuole che un avvocato sia onnisciente, anche in ambiti di materia che non gli competono….

Vero è che la mediazione familiare viene ignorata e/o sottovalutata anche dagli addetti ai lavori; non vi è insomma sufficiente contezza del fatto che la mediazione familiare sia uno strumento che, invece, faciliterebbe la comunicazione tra i confliggenti ed il raggiungimento di accordi in tempi brevi, eliminando così le lungaggini processuali di cui tanto ci si lamenta.

Uno strumento che, proprio per le sue caratteristiche peculiari, non può minimamente entrare in concorrenza con la professione dell’avvocato.

La mediazione familiare NON è uno strumento volto alla riappacificazione dei confliggenti; piuttosto mira al raggiungimento (o comunque al tentativo) di accordi che tutelino soprattutto gli interessi della prole, attraverso tecniche peculiari di tale istituto, quale, ad esempio, l’ascolto empatico.

Sarebbe auspicabile, e lo dico prima di tutto come avvocato, che si giunga presto ad una definizione più solida del ruolo professionale del mediatore familiare.

Non credo tuttavia che ciò debba passare attraverso l’obbligatorietà della mediazione familiare prima della instaurazione del giudizio di separazione o di divorzio.

Quanto meno, non senza gli opportuni distinguo.

Oggi riterrei invece fondamentale approfondire altre tematiche collegate alla mediazione familiare, quali:

  • la sensibilizzazione degli operatori del diritto alla cultura della mediazione;
  • la formazione e la specializzazione dei magistrati e degli avvocati e, più in generale, di tutti coloro che si occupano della crisi familiare.

Ancora oggi la stragrande maggioranza delle coppie, coniugate o meno, che inizia un procedimento contenzioso (di separazione o di divorzio) NON conosce l’istituto della mediazione familiare.

In alcuni casi lo conoscono (sanno che esiste) ma poco/nulla sanno della sua natura, delle sue finalità e di come si svolge l’intero percorso.

Spesso mediazione familiare e terapia di coppia vengono confuse ed interscambiate.

Ed allora se un obbligo c’è, oggi, è quello di INFORMARE.

Anche in tal senso la normativa aiuta poco.

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È un dovere deontologico per l’avvocato informare il cliente della possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita (v. art. 2, D.L. 132/2014, conv. dalla L. 162/2014).

È del pari obbligatorio, in tema di mediazione civile e commerciale, che l’avvocato informi l’assistito per iscritto.

Nulla è invece previsto per la mediazione familiare, se non nel caso in cui si sia raggiunto un accordo a seguito di negoziazione assistita.

L’art. 27 del Codice Deontologico Forense prevede un obbligo deontologico di informazione da parte dell’avvocato; il professionista al momento del conferimento dell’incarico, deve informare il cliente della possibilità di avvalersi del procedimento di negoziazione assistita e, per iscritto, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione; deve inoltre informarlo dei percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, pure previsti dalla legge.

Tali scarni riferimenti normativi non paiono allo stato congrui a rendere sufficientemente edotti gli utenti dell’istituto in esame.

Questo soprattutto se si valuta che alla scarsa informazione delle parti si affianca la ancora più inquietante scarna informazione di molti avvocati.

A ben vedere, l’obbligo informativo prevederebbe anche che, oltre ad informare dell’esistenza dell’istituto della mediazione familiare, si spiegasse in maniera completa in cosa lo stesso consista.

È pur vero che il decreto di fissazione dell’udienza presidenziale contiene l’invito a rivolgersi eventualmente alla mediazione familiare; tuttavia in tal caso l’avviso appare tardivo o comunque già compromesso; i coniugi sono già in fase contenziosa; il ricorso di separazione o di divorzio è già stato depositato, magari dopo mesi di scambi di lettere tra avvocati (che spesso e volentieri hanno contribuito ad accendere animi già bellicosi).

Cosa può fare il Giudice rispetto al conflitto che stanno vivendo i coniugi?

Egli può dedicare del tempo a sentire le parti liberamente (sempre però un tempo coerente con l’iter processuale), può dare indicazioni circa i principi di diritto che regolano la materia, può, anche con l’aiuto degli avvocati, suggerire una soluzione conciliativa, può ottenere, nel migliore dei casi, un accordo che consenta di trasformare il rito da giudiziale a consensuale.

In caso contrario deve pronunciare un provvedimento che autoritativamente regola la vita della famiglia e dei figli dopo la separazione.

Ma il Giudice NON opera direttamente sul conflitto, non è il suo ruolo e non ne ha neppure la capacità.

L’unica possibilità effettiva che le parti hanno di riappropriarsi della loro funzione genitoriale consiste nel seguire un percorso di mediazione familiare.

Dunque, per tornare ad una logica di obbligatorietà, gli avvocati che si dedicano al diritto di famiglia dovrebbero informare in maniera corretta ed esaustiva della possibilità di avvalersi della mediazione familiare.

Il messaggio della necessità della mediazione familiare dovrebbe giungere alle coppie in crisi prima dell’accesso all’autorità giudiziaria, prima che il conflitto si radicalizzi, anche prima che gli avvocati avviino le trattative per un accordo.

Ed invero non sempre gli avvocati hanno un approccio corretto nelle cause di diritto di famiglia; spesso ci si pone fin da subito in una logica di scontro, di affermazione delle posizioni e delle rivendicazioni del proprio assistito e trascurando le richieste della controparte; in una posizione di vittoria e di sconfitta.

Peraltro anche il “giuridichese” non aiuta; il coniuge, negli studi dell’avvocato diventa “la controparte”; se da una parte si “vince” la causa, dall’altra parte addirittura “si soccombe”; al professionista si da la “procura alle liti”

Il tutto in netta contrapposizione con la logica della mediazione familiare, che opera in una posizione di “win-win”, con particolare attenzione ai figli che, non avendo una loro voce all’interno del processo, ne subiscono spesso le conseguenze.

Il Tribunale di Torino ha aperto un apposito sportello di mediazione al suo interno, che prevede degli incontri informativi con l’utenza in tema di mediazione familiare. Ma non tutti gli utenti sono messi in condizione di conoscerne l’esistenza e dunque di usufruirne.

Alla radice di tutte le problematiche legate all’obbligatorietà che ruotano attorno alla mediazione familiare, sarebbe necessario in  primis un mutamento radicale della coscienza sociale, a partire dagli operatori: ben possono avvocati e mediatori familiari lavorare insieme, ciascuno offrendo all’utenza le proprie competenze, per offrire un apporto professionale completo.

Monica Checchin

Tratto dalla relazione di Monica Checchin  nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”

La violenza sui social e la mediazione dei conflitti: una proposta di Social Media Conflict Management

Il 15 ottobre del 2019 Enrico Mentana condivide sui social (cioè sulla sua pagina Facebook) un articolo di Openonline, scrivendo «Fatelo vedere a coloro a cui tenete, a cui volete bene, ma anche a chi dubita o non si fida. Dalla parte di Eva, contro l’invasione». L’appello al mondo di questa bambina curda, Eva, suona così: «Fermate questa guerra. Quando mi restituirete la mia infanzia?». Nel video, la bambina, intervistata da una tv curda, rivolge il proprio messaggio all’Unicef, all’Onu e a Trump.

Il post di Mentana ottiene 13.255T like, 5482 Condivisioni e 719 Commenti.

Le facce in gioco (non solo su Facebook)

Tra i commenti c’è quello di Alessandra Raggi:

DAL 2011 VI SIETE SVEGLIATI ORA SUL CAPITOLO FINALE.

La risposta di Enrico Mentana suona così:

Alessandra Raggi parli per lei, cialtrona.

La replica di Alessandra Raggi:

Enrico Mentana non me lo aspettavo da lei un commento del genere. Noi facciamo protesi ortopediche per tutti gli amputati in Siria. Non credo di essere una cialtrona.

Gli interventi che seguono sono di condanna senza appello per Mentana, salvo qualcuno che ne prende le difese, giustificandolo per il fatto che ha che fare con tanti commentatori ottusi.

La capacità infettiva della violenza verbale sui social

Qui non ci troviamo davanti a leoni da tastiera, con la bava alla bocca [1]. Enrico Mentana e Alessandra Raggi, giova ripeterlo, non sono due leoni da tastiera. Però, sono immersi in un clima intriso di violenza verbale. E da ciò, verosimilmente, è sorto l’equivoco. Il commento di A. Raggi, sembrerebbe, è stato interpretato da Mentana come diretto a lui e come offensivo. Quindi, è plausibile supporre che abbia reagito alla comunicazione di lei con un tono offensivo simile a quello percepito in quel commento. Sentendo attaccata ingiustamente l’immagine di sé, ha ribattuto sullo stesso registro, aggredendo l’immagine di sé della sua interlocutrice.

A nessuno di coloro che hanno proposto ulteriori commenti, neppure al sottoscritto, è venuto in mente di tentare un intervento che “salvasse la faccia” di entrambe le persone. Perché? Forse, perché, in fondo, avevamo altro da fare. Forse, però, anche perché siamo abituati a queste interazioni, essendo tutti immersi in una comunicazione connotata dall’assenza di considerazione per la sensibilità dell’altro. Ed è un’abitudine che ci impoverisce.

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La de-umanizzazione dell’altro nella comunicazione sui social

La comunicazione conflittuale sui social, infatti, è quasi sempre centrata non tanto sui contenuti ma sui risvolti relazionali (nei commenti al post di Mentana il contenuto da lui proposto – l’appello della bambina e l’invasione da parte della Turchia di Erdogan – quasi sparisce). E si tratta, in moltissimi casi, di relazioni di marca conflittuale e all’insegna dell’escalation più intensa. In questi scambi comunicativi, chi scrive tendenzialmente non pensa all’altro come ad un essere umano simile a sé. Ci si può chiedere se, avendocelo davanti in carne e ossa, gli si parlerebbe allo stesso modo. Può darsi anche di no, ma questa considerazione non è particolarmente rassicurante. Perché è facile rilevare come questa dinamica relazionale de-umanizzante, sviluppatasi sui social, possa trasferirsi dal piano della realtà virtuale a quello della realtà fisica. Come una sorta di educazione all’odio.

Legittimazione culturale e morale della violenza

Si può parlare al riguardo di legittimazione culturale e morale della violenza[2] Con tale espressione si intende evidenziare che più è diffusa e condivisa la rappresentazione di un gruppo di persone come soggetti sub-umani, più diventa moralmente lecito offenderli, aggredirli e finanche augurargli la sofferenza, gioire per la loro morte…. In ultimo, ammazzarli. Infatti, la de-umanizzazione mediatica priva quelle persone di una protezione rilevante: se rispetto ad un essere umano o ad un gruppo di esseri umani viene meno nella coscienza collettiva il principio dell’inviolabilità assoluta della loro persona, qualsiasi offesa verso di essi cessa di essere moralmente disapprovata, non venendo più considerata ingiusta, incivile, bestiale. Anzi, può addirittura diventare una condotta meritoria [3]

Ora questa dinamica però non è circoscrivibile al terreno partitico, o più estesamente politico, ma si sviluppa in ambiti relazionali e tematici diversi. E anche in questi abbiamo a che fare non con il conflitto e basta, ma con il conflitto violento, cioè con la violenza. Ora quali sono i meccanismi mentali nell’aggressore che la consentono/autorizzano prima, l’accompagnano durante la sua esecuzione e/o la giustificano ancora ex post?

Alcuni meccanismi mentali di auto-giustificazione della violenza

Mi limito a citarne alcuni:

  • “Nessun danno reale”: la persuasione che in realtà la condotta violenta non arrechi alcun vero effetto lesivo, quindi, non è violenta. Ad esempio, chi offende un’altra persona, si dice e dice ai suoi interlocutori: «Eh, capirai! Cosa gli avrò mai fatto di male?!». In questo ambito rientra l’espediente del confronto vantaggioso:
  • “La vittima non è una vittima”: l’aggressore incolpa la vittima di quel che gli è inflitto, perché, pensa, se lo merita. «Ma quale vittima! Ha avuto quel che si meritava! È colpa sua! La vittima sono io, in realtà!»
  • “Non ero consapevole”: l’aggressore agisce sulla spinta di emozioni molto forti, sulle quali non riflette, e ritiene che queste legittimino la violenza messa in atto. «Ero arrabbiato/esasperato/stanco/esausto/spaventato/indignato»
  • “La colpa è degli altri, è del sistema”: l’aggressore attribuisce ad altri (singoli, gruppi, organizzazioni, sistemi, ecc.) la responsabilità morale della sua condotta.

Istigatori e istigati alla violenza

Quest’ultimo meccanismo, quello dello scaricamento delle proprie responsabilità su altri, si lega ad un discorso più ampio. È troppo facile, infatti, dirsi e dire che gli unici colpevoli o responsabili sono i seminatori di odio e di violenza nel Web, magari pensando a quelli animati da precisi intenti politici. Non perché non ci siano, ma perché se la loro opera di istigazione funziona è perché ci sono molte persone che si lasciano istigare.

Ora facciamo un esempio un po’ datato. Il 15 aprile 2017, il quotidiano La Repubblica proponeva un’intervista ad un signore che aveva attaccato la presidente della Camera dei Deputati, commentando in termini offensivi e rilanciando su Facebook la falsa notizia (diffusa dal sito “Avanguardia nera”) secondo la quale la sorella di Laura Boldrini stava gestendo alcune cooperative che si occupavano di migranti e stava beneficiando di una pensione ottenuta a 35 anni. In realtà, la sorella di Laura Boldrini era morta da anni per una malattia. Si trattava, dunque, di una bufala. E il signore intervistato, il quale su Facebook aveva scritto che le persone citate nella news facevano schifo così come i loro elettori, si è scusato con Laura Boldrini, spiegando di aver creduto in buona fede alle veridicità del fatto. La rabbia provata, come già altre volte, ha detto, lo aveva indotto ad esprimere sul web il suo schifo.

«Scriverò a Facebook protestando per il fatto che fanno girare notizie false», aveva aggiunto. «Come facciamo noi che non abbiamo strumenti a distinguerle dalle vere? Devono dircelo loro, altrimenti per colpa di altri facciamo la figura dei cretini. Se non avrò rassicurazioni, mi cancellerò dal social. Non voglio che loro guadagnino i soldi della pubblicità a scapito anche della povera gente come me. Ma non finisce qui».

Da social ad anti-social

Infatti, non finisce lì: non finirà mai lì, finché cercheremo all’esterno colui che fa muovere le nostre dita sulla tastiera allo scopo di socializzare, agendole, le nostre emozioni.

Da simili dinamiche può derivare la tendenza, fin qui inarrestata, alla trasformazione della destinazione originaria dei social nella loro antitesi terminologica, in anti-social, cioè in cloaca dei peggiori modi comunicativi, in negazione ogni rilevanza alla relazione, al sociale. Se ciò è raccapricciante sul piano culturale, è anche preoccupante in termini di sicurezza e legalità. Mi riferisco, di nuovo, alla legittimazione culturale e morale della violenza.

Cosa può fare la mediazione dei conflitti?

Ora quali sono le possibilità per reagire a questa tendenza generale? Rispondiamo all’odio con un  odio frutto della paura, dell’angoscia, che quell’odio ci suscita? Reagiamo con la violenza verbale alla violenza verbale? Demonizziamo per replicare alla demonizzazione di chi comunica in modo violento e, facendolo, la diffonde, finendo così con il contribuire alla demonizzazione e alla legittimazione culturale della violenza?

La de-escalation

Certo questa opzione esiste ed è la più largamente usata. È una risposta conflittuale. Ma, occhio, ché l’altro cui si indirizza la nostra risposta indignata, non è tanto diverso da noi. Nel senso che, molto spesso, non si sente un aggressore ma un aggredito. Meccanismi di autogiustificazione? Può darsi, ma il fatto è che ci crede. Si sente una vittima non un carnefice[4].

Un’altra opzione a disposizione è la de-escalation, la quale, infatti, tenta proprio di disinnescare le premesse della violenza, a partire dalla de-umanizzazione, e tenta di ridare efficacia comunicativa alla parola.

La mediazione dei conflitti, quindi, che fa largamente ricorso alle tecniche di de-escalation, se fosse declinata anche sui social,adempirebbe anche ad una funzione culturale: riabituare a pensare, a leggere e a ragionare, anche sui social. In controtendenza con la propensione ad assecondare l’inclinazione a produrre solo pensieri brevi, facili facili, perché il limite massimo intellegibile dall’utente medio sarebbe una manciata di caratteri e il tempo limite di attenzione un minuto, dieci secondi e due primi. Scrivere e pensare in termini facili sui social induce a fare lo stesso in altri ambiti, e questo impoverimento è il terreno ideale su cui far crescere la mala pianta della violenza, che include l’intolleranza, l’emarginazione, la discriminazione. La violenza, infatti, sorge anche quando ci mancano le parole. E non è un’amica intima della democrazia, come non lo è il non-pensare.

Il Social Media Conflict Management

Come spiega anche Umberto Galimberti,

non si può formulare un pensiero se non si hanno le parole per farlo.

L’aggressione, però, è anche un modo di comunicare: un modo di comunicare svolto senza pensare, senza parole pensate.

Quindi, la necessità di una funzione di Social Media Conflict Management (per usare un’espressione altisonante) potrebbe iniziare ad essere ravvisata. Se accadesse, non sarebbe un fatto di poco rilievo. Anche, perché, per quanto ben intenzionati, non possono bastare gli appelli all’autoregolamentazione (come “ragazzi, diamoci tutti una calmata”). Sembra plausibili ritenere, quindi, che chi si occupa di mediazione familiare e di mediazione in altri ambiti caratterizzati da pregnanti risvolti relazionali – e quindi è propenso a concentrarsi su tali aspetti – debba considerare in maniera sempre più seria la possibilità di proporsi ad enti privati e pubblici, incluse le organizzazioni politiche come Social Media Conflict Manager.

Alberto Quattrocolo

Tratto dalla relazione di Alberto Quattrocolo  nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”

[1] Eppure ci sono anche questi e sono una parte rilevantissima di coloro che scrivono su Facebook e su Instagram. Non da sempre esistono, però. Si potrebbe pensare che siano apparsi sulla scena quando l’odio è stato sdoganato come sentimento nobile a discapito degli altri sentimenti e degli altri atteggiamenti relazionali, quelli all’insegna dell’amore, della tenerezza, dell’empatia, che, per gli odiatori, sono leciti se indirizzati verso soggetti neutrali (i gattini, i propri figli, nipoti, genitori, partner, ecc.), ma non verso soggetti che, in una prospettiva di conflittualità radicale, radicalizzata e diffusa, assurgono alla poco invidiabile posizione di soggetti divisivi. Ne cito un esempio che vale per tutti: gli stranieri. Occhio, non gli stranieri in generale, ma gli stranieri presenti in Italia, e non tutti gli stranieri, ma solo gli immigrati stranieri. Non è, questo, il solo esempio considerabile e, come è ovvio, si tratta di un tema che una certa area della politica ha fatto di tutto per renderlo divisivo. In effetti, se si fa un salto indietro nella memoria, si può facilmente rilevare come la violenza verbale sui social sia sorta, almeno nella sua dimensione più capillarmente estesa, proprio in ambito politico, su stimolo di precise organizzazioni politiche, che hanno cercato e trovato un modo per dare voce a rabbia, invidia, frustrazione, solitudine, ansia, amplificando tale voce nei toni e moltiplicandola all’infinito in una crescita esponenziale di cori: il più delle volte con incitazioni esplicite alla demonizzazione, quali condividi se sei indignato o vergogna! – Su tali aspetti ci si è soffermati in diversi post della rubrica dell’Associazione Me.Dia.Re. Politica e Conflitto

[2] Si è fatto riferimento, negli ultimi tre anni, più volte, a questo concetto in diversi post pubblicati sulla rubrica Politica e Conflitto e, in particolare, nei seguenti: Colpa della vittima?, Autorizzazione della violenza, La politica della scorrettezza politica, C’è in giro un virus di cui non si parla (abbastanza), La criminalizzazione dell’avversario.

[3] Che le campagne d’odio funzionino, del resto, lo ha dimostrato alla grande il Terzo Reich, e non per caso, ancora oggi, il Manuale della Propaganda di Goebbels trova delle applicazioni quasi alla lettera.

[4] Ci si riferisce agli odiatori spontanei, non a quelli prezzolati, ovviamente, o a quelli che prima progettano e poi danno il via alla campagna d’odio: per costoro i meccanismi di auto-giustificazione possono essere altri, come il classico “il fine giustifica i mezzi”. In tal caso, il fine, da chi svolge la campagna d’odio, può essere considerato perfino altissimo e nobilissimo, tale insomma da giustificare ampiamente la radicale violenza morale che si appresta a pianificare e commettere.

 

La mediazione e lo sviluppo delle comunità

La mediazione può essere uno strumento di promozione dello sviluppo locale di una comunità?

Per rispondere a questa domanda è necessario chiarire alcuni termini.

Mediazione? Quale mediazione?

In primo luogo quello di “mediazione”, visto che vi sono più modelli. Quello qui considerato è l’approccio “umanistico trasformativo”: un modello che pone particolare attenzione alle dinamiche relazionali che si sviluppano nel conflitto e alle emozioni sottese a tali dinamiche.

La prima sensazione sperimentata da chi è in conflitto è quella di perdere il controllo della situazione, che sfugge dalle mani. Le persone si sentono impotenti di fronte ad una dinamica che sembra svilupparsi in maniera completamente indipendente dalle loro intenzioni.

Con la mediazione umanistico trasformativa si tenta di mettere le parti nelle condizioni di ritrovare il controllo e di prendere delle decisioni non dettate dalla dinamica conflittuale. Acquisiscono, cioè, la capacità di incidere sulla situazione conflittuale grazie, al miglioramento complessivo della comunicazione

Il che significa poter sbloccare le situazioni e favorire il passaggio dalla dimensione statica, nella quale nessuno si muove più dalle posizioni assunte, ormai irrigidite, a una condizione in cui si è ristabilito il dialogo.

Questo passaggi sono resi possibili dall’ascolto: questa mediazione, infatti, offre alle parti in conflitto uno spazio e un tempo in cui le emozioni provate nel conflitto possono essere dette sentite e accolte e, quindi, ottenere riconoscimento. Il riconoscimento, da parte del mediatore, del vissuto delle parti, della sofferenza in esse provocata dalla situazione conflittuale, permette loro di uscire da una dimensione solipsistica, estremamente autoreferenziale, e di sviluppare un atteggiamento disponibile ad accogliere il punto di vista altrui e ad aprirsi.

In definitiva, l’ultimo aspetto importante di questo modello di mediazione, in un’ottica di comunità, è la sua capacità di ristabilire il contatto tra le persone, cioè di promuovere la rigenerazione dei legami tra le persone.

In che senso sviluppo di comunità?

Il secondo termine su cui soffermarsi è quello dello “sviluppo di comunità”, cioè quel particolare approccio allo sviluppo locale che mira a stimolare l’organizzazione degli attori locali e il loro impegno nella definizione di progetti orientati a migliorare la qualità della vita delle persone, attraverso la valorizzazione delle risorse locali. Quindi, l’aspetto chiave di questa particolare approccio alla promozione dello sviluppo di un territorio è l’attivazione delle risorse locali, cioè la capacità intrinseca a tali processi di portare le comunità a riconoscere le risorse presenti sul territorio. Possono essere risorse di tipo materiale e immateriale, quali, ad esempio, competenze e capacità.

Secondo alcuni autori esistono due strade per rispondere ai problemi di sviluppo di una comunità. La prima è quella di focalizzarsi sui bisogni e sulle debolezze. Quali sono i bisogni di una comunità? Quali sono i problemi della comunità e come possiamo risolverli? La seconda strada, invece, comincia col concentrarsi sulle risorse. Quali sono le risorse e come facciamo ad attivarle? Come facciamo a usarle per promuovere un processo di sviluppo?

La prima strada – quella focalizzata sui bisogni – rischia di ingigantire i problemi di una comunità e di produrre una situazione di stallo in cui questi problemi diventano talmente grandi che è impossibile affrontarli.  In tal caso le comunità diventano immobili, in attesa che un intervento dall’esterno arrivi per porre fine ai loro problemi. Ad esempio, una progettualità sviluppata dall’amministrazione comunale o da un investitore esterno, che arriva sul territorio e porta un certo sviluppo.

Sviluppo locale centrato sulle risorse asset-based

Al contrario quello che si definisce uno sviluppo locale centrato sulle risorse asset-based consiste nel promuovere iniziative basate sulla riattivazione delle risorse locali: spesso le comunità che  vivono in territori marginali fanno fatica a riconoscere se stesse come entità, come luogo pieno di risorse. In effetti, per diventare realmente tali ovviamente vanno riattivate e vanno collocate all’interno di una progettualità specifica: quindi lo sviluppo locale centrato sulle risorse parte anzitutto da un processo di ricognizione delle risorse presenti sul territorio per poi dare luogo ad un processo di attivazione delle stesse

Ciò implica la partecipazione della popolazione locale alla costruzione di progettualità in grado di incidere sulla qualità della vita, all’interno del proprio territorio.

Empowerment

Un terzo elemento chiave è quello delle empowerment.

Alcuni autori lo traducono come capacitazione, ossia il restituire alla persona e ai gruppi sociali la capacità di affrontare i problemi che le coinvolgono e di incidere sulle loro condizioni di vita. Empowerment significa, quindi, sentire di essere in grado di incidere e di avere anche la capacità organizzativa per farlo.

Zimmermann individua tre dimensioni del processo di empowerment: la dimensione individuale, la dimensione organizzativa e la dimensione di comunità.

La prima dimensione ha come oggetto l’individuo e si riferisce alle azioni tese a far sì che la persona sviluppi la capacità e la consapevolezza di poter agire nel contesto locale, per produrre dei cambiamenti nel proprio contesto di vita. La seconda dimensione riguarda la capacità delle persone di organizzarsi per sostenere delle progettualità e produrre dei cambiamenti. La dimensione di comunità riguarda, invece, la capacità della comunità in senso più ampio di organizzarsi, quindi rimanda sia ai rapporti tra le organizzazioni sia alla capacità della comunità di essere inclusiva e di coinvolgere tutti i gruppi sociali

Il termine di empowerment quindi racchiude significati che riguardano l’ambito psicologico – appunto, la capacità personale di sentirsi in grado di agire – ma anche aspetti politico-organizzativi – cioè, la capacità di leggere il contesto in cui ci si muove per individuare le risorse necessarie a intraprendere determinate progettualità.

Conflitto e sviluppo di comunità

Veniamo quindi al termine “conflitto”, che può essere un elemento positivo per lo sviluppo di un sistema sociale.

Il conflitto è necessario e fertile, ma non lo è più quando si trasforma in accanita battaglia tra nemici che tendono all’eliminazione dell’altro”.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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L’escalation del conflitto

Quindi il problema non è tanto la presenza di un conflitto, ma la possibilità di affrontarlo in modo costruttivo. È normale che nelle comunità vi siano dei conflitti, ma oltre ad essere inevitabile, può anche essere un’occasione di crescita e di confronto. Il punto, quindi, è trovare una modalità per gestirli, i conflitti.

Il che chiama in causa l’aspetto più problematico, che non è il conflitto in sé, ma quello dell’escalation, cioè, un processo di progressiva intensificazione della dinamica conflittuale fino a raggiungere livelli d’intensità e di violenza particolarmente acuti.

Come sappiamo l’escalation è un percorso a tappe in cui all’azione dell’uno corrisponde l’azione della controparte e più si percorrono queste tappe più è difficile tornare indietro. Percorrere una tappa significa infrangere una regola e percorrere un’altra tappa significa infrangerne un’altra, e più si prosegue su questa strada più si riducono le possibilità e le disponibilità a fare retromarcia.  Così gli attori del conflitto continuano a perpetuare questo comportamento fino al punto che i costi superano di gran lunga i benefici: si arriva a desiderare la distruzione dell’altro al costo della propria autodistruzione. In questo processo ci sono alcuni aspetti ricorrenti: uno è ad esempio la demonizzazione e disumanizzazione dell’altro. L’avversario perde i suoi connotati reali, le sue caratteristiche peculiari, cessa di essere un nostro amico, un nostro parente, un nostro vicino di casa… Cessa di essere addirittura un essere umano! E diventa il male in persona. Anzi, la personificazione di tutti i mali!

Un altro tratto caratteristico dell’escalation è il portare le parti ad arroccarsi, ad irrigidirsi su posizioni, che diventano non trattabili, in quanto sempre più autoreferenziali, cioè sempre più centrate su di un unico punto di vista. Ne deriva che gli attori sono sempre meno disponibili ad accogliere il punto di vista dell’altro.

L’escalation del conflitto all’interno delle comunità e la leadership basata sulla contrapposizione radicale

L’escalation del conflitto all’interno delle comunità è forse ancora più difficile da disinnescare di quello interpersonale, perché alle dinamiche che riguardano il rapporto tra le persone – le dinamiche interpersonali, strettamente intese – si sommano dinamiche di gruppo, legate ad esempio alla costruzione della leadership. Così, può comparire il tema del “non poter perdere la faccia”. Ad esempio, per il leader di un gruppo che abbia costruito la sua leadership sulla contrapposizione e su una particolare posizione all’interno di un conflitto diventa molto difficile trattare. Poniamo il caso di un comitato di cittadini che nasce per opporsi alla localizzazione su un’area dismessa, su un vuoto urbano, di un supermercato, sostenendo che su quell’area è assolutamente necessaria la realizzazione di un giardino, poiché il quartiere è particolarmente privo di aree verdi e, quindi, si ritiene che un supermercato non porti alcun beneficio alla comunità, mentre lo potrebbe portare invece la localizzazione di un giardino. Supponiamo che si instauri così un dialogo con le istituzioni e che il leader di questo comitato di cittadini costruisca attorno a sé un bel po’ di consenso anche attraverso una certa radicalizzazione delle proprie posizioni. Supponiamo ancora che dopo un bel po’ di tempo l’amministrazione comunale decida di accogliere in parte le richieste di questo comitato di cittadini, dicendo: «Bene abbiamo creato un nuovo progetto, in cui il supermercato non è più grande come prima, anzi è molto più piccolo, e accanto al supermercato abbiamo deciso di fare un’area verde. E ciò grazie anche agli oneri di urbanizzazione che derivano dall’ edificazione di questo supermercato». In tal caso, sebbene la posizione dell’amministrazione comunale sembri conciliativa e razionalmente accettabile, potrebbe essere difficile per il leader di quel comitato accogliere tale soluzione di compromesso, perché la sua leadership si è costruita sull’opposizione radicale alla localizzazione del supermercato. Quindi il rendere più morbida la propria posizione, comporterebbe per lui il perdere la faccia di fronte ai propri sostenitori.

La demonizzazione dell’altro gruppo sociale

Il secondo aspetto peculiare è il fatto che nei conflitti che riguardano le comunità il processo di disumanizzazione demonizzazione dell’altro si estende spesso all’intero gruppo sociale alimentando i pregiudizi e le differenze tra culture diverse. Ad esempio, il conflitto con il nostro vicino di casa, che magari è straniero e magari è anche di colore, diventa un conflitto che coinvolge tutta la comunità straniera e tutta la gente di colore. Immaginiamo all’interno di un condominio che un gruppo di bambini di origine straniera residenti all’interno del condominio faccia molto rumore, giocando a palla, di pomeriggio, e che ci sia un gruppo di anziani residenti infastiditi da questo rumore: è possibile che in virtù delle dinamiche del conflitto, il problema si sposti e non si sia più un problema legato al rumore, ma diventi un problema di tipo culturale.

Le narrazioni mediatiche che alimentano il conflitto

Accade poi che il conflitto venga alimentato da un certo tipo di narrazione che viene fatta sui giornali: una narrazione in negativo, così, viene utilizzata dalle parti in conflitto per addurre motivazioni alle proprie posizioni e amplificare rafforzare le proprie posizioni.

Anche per queste ragioni appare fondamentale agire su questi territori in un’ottica preventiva:  non tanto per evitare che si inneschino dei conflitti, ma per evitare che questi conflitti raggiungano livelli di escalation difficilmente controvertibili, cioè che si superi quella soglia del non ritorno.

La mediazione come strumento di un più articolato sviluppo di comunità

In conclusione, la mediazione può essere un elemento che integra e arricchisce un disegno più articolato di sviluppo di comunità, in quanto capace di migliorare il clima relazionale della comunità, così da valorizzarne le risorse e promuoverne l’empowerment.

Ma quale contributo può dare la mediazione dei conflitti all’interno di un più complessivo processo di sviluppo di comunità?

Anzitutto, il rafforzamento e il sostegno al processo del processo di empowerment.  La mediazione dei conflitti viene spesso associata alla promozione dell’empowerment personale, perché, è noto come in un processo di mediazione si possano produrre cambiamenti personali profondi. Ma se ci muoviamo nell’ottica di ridare alle persone la capacità di agire, quindi di capacitarsi e di riprendere la situazione in mano, la mediazione può essere d’aiuto. Tuttavia il contributo della mediazione può riguardare anche le altre due dimensioni del empowerment: rispetto a quella più legata all’aspetto organizzativo, un contributo della mediazione sta nella sua capacità di stabilire ponti tra gruppi, basati sull’ascolto sincero del punto di vista altrui; inoltre la mediazione è particolarmente utile per raggiungere i gruppi più marginali, che rischiano spesso di essere esclusi dai progetti di sviluppo.

In secondo luogo, il contributo della mediazione potrebbe essere quello di restituire un volto umano all’antagonista. Nel processo di mediazione il contatto con l’avversario induce a relativizzare i propri stereotipi, ad andare oltre alle credenze negative e ai pregiudizi associati a determinati i gruppi sociali. E ciò è particolarmente importante in contesti in cui spesso e volentieri l’altro appartiene ad un’altra cultura e ha un altro colore della pelle.

In terzo luogo, è interessante la capacità della mediazione di far giungere le persone a soluzioni innovative. E questo ha un suo rilievo se si parla di sviluppo di territori in cui la capacità di innovare e di immaginare percorsi alternativi appare di importanza fondamentale. Si tratta spesso di territori che faticosamente stanno cercando di ricostruire un’identità, attraverso anche l’individuazione di risorse ancora latenti, quindi la mediazione potrebbe facilitare e accompagnare il percorso di individuazione ed emersione di nuove risorse, grazie alla sua capacità di stabilire contatti tra le persone e di favorire la ricerca di soluzioni innovative a situazioni problematiche.

Uno spazio di Ascolto e Mediazione dei Conflitti all’interno di un quartiere periferico

Un’ultima riflessione, di tipo progettuale, riguarda sia la possibilità di attivare uno spazio di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, all’interno di un quartiere periferico, e sia le caratteristiche che, in base alle considerazioni fin qui svolte, tale spazio dovrebbe avere.

Tale spazio dovrebbe essere aperto ai cittadini e gestito da un’equipe esperta, capace di offrire alle persone un ascolto e una possibilità di mediazione, nei casi in cui lo ritengano necessario o opportuno. Ma dovrebbe essere anche uno spazio di progettazione in cui dare luogo ad esperienze di cittadinanza attiva. Quindi gli operatori dovrebbero, da un lato, avere il compito di accogliere e ascoltare, ma anche di favorire l’empowerment e di favorire l’attivazione delle comunità su progettualità concrete.

L’obiettivo sarebbe l’attivazione dei cittadini attraverso l’ascolto e la gestione delle situazioni conflittuali, ma anche la gestione dei temi che si producono nell’ambito di questi conflitti.

Sarebbe utile che un simile laboratorio organizzasse anche iniziative di carattere formativo che contribuiscano a diffondere un clima più consapevole rispetto alla mediazione e all’ascolto dell’altro e che formino dei volontari affinché assumano un ruolo di antenne sul conflitto nel territorio.

Sara Mela

Tratto dalla relazione di Sara Mela nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”.

I doveri di informazione del mediatore familiare

Il lavoro del mediatore familiare non è, ad oggi,  regolamentato da un albo professionale, ma tutti, o gran parte dei mediatori familiari, fanno parte di un’associazione specifica di categoria, nel nostro caso l’A.I.Me.F. (Associazione Italiana Mediatori Familiari).
Lo Statuto dell’A.Me.F., ricomprende il Codice Deontologico atto a regolamentare la condotta di ogni singolo associato.
Facendo riferimento al codice deontologico, in merito ai doveri di informazione di ogni associato, si deve porre, a mio avviso, particolare attenzione a tre articoli, il 14, il 18 e il 19.
Più nello specifico, all’Art. 14 troveremo la definizione di Mediatore Familiare e di Mediazione Familiare mentre all’Art. 18 si entra nel merito della condotta professionale  degli associati e, punto per punto, si toccano i temi importanti:

  • Finalità
  • Descrizione del processo di mediazione familiare
  • Confidenzialità con l’utente e della Privacy
  • Integrità e imparzialità
  • autodeterminazione delle parti
  • Competenza professionale
  • Responsabilità legale del mediatore.

Ma come viene tradotto tutto questo in termini di doveri di informazione?
Per uscire dal tecnicismo del Codice Deontologico, ho pensato di raccontarvi quello che succede nella nostra stanza di mediazione familiare, durante il primo colloquio informativo.
Il nostro primo colloquio, che noi chiamiamo conoscitivo, è gratuito, avviene di presenza e, siccome il nostro metodo prevede che si inizi con colloqui individuali, anche questo avviene separatamente (salvo rari casi, preventivamente concordati).
Di solito, è nostra abitudine, fissare i colloqui nella stessa giornata o a pochi giorni di distanza, affinché le persone coinvolte possano avere le stesse informazioni e quindi gli stessi strumenti in mano, sin dall’inizio.

Ma che cosa avviene al lato pratico durante questo primo incontro?
Come prima cosa, ci presentiamo, raccontiamo quale sia il nostro titolo di studio, quale sia stato il nostro percorso per diventare Mediatori Familiari e quale l’associazione di riferimento, a cui siamo iscritte, in modo tale che, qualora vi fossero dubbi in merito, sul sito dell’associazione (A.I.Me.F.) possano trovare tutte le informazioni relative agli associati e, più in generale, alle regole della mediazione.
Fatte queste doverose premesse, descriviamo lo strumento della Mediazione Familiare, entrando nel merito di quali siano le sue  finalità, su chi sia e cosa faccia il Mediatore Familiare.
Più nello specifico, spieghiamo all’utente quale sia il modello di mediazione che utilizziamo (nel nostro caso, Umanistico Trasformativo Motivazionale) e quale il nostro principale strumento di lavoro, ossia l’ascolto empatico.
Un aspetto sul quale, durante questo primo colloquio, poniamo particolare importanza è quello di specificare come la nostra figura professionale sia  terza, neutrale, imparziale e non giudicante, capace di rimanere equidistante dalle parti, sul fatto che  non proporremo soluzioni o daremo personali valutazioni in merito alla loro situazione,  ma che li aiuteremo ad arrivare ad un accordo, in ottica Win-Win, direttamente negoziato da loro stessi, volontario e che tenga sempre al centro il bene primario dei figli, qualora ve ne fossero.
Particolare attenzione viene data al tema della privacy poiché, la maggior parte delle volte, chi si rivolge a noi ha paura che le cose dette possano, in qualche modo, uscire dalla stanza della mediazione e, nel caso dei colloqui individuali, possano essere riferiti all’altra parte della coppia.
Proprio per questo motivo, è nostra abitudine ripetere (a volte anche nei colloqui successivi) che tutto quello che viene detto o scritto nella stanza della mediazione, rimarrà in quella stanza, che non verrà riportato nulla all’altro utente e che eventuali documenti forniti (vedi 740, perizie, atti etc) verranno trattati nella massima riservatezza e riconsegnati non appena finito il percorso, così come non relazioneremo al giudice in merito al contenuto degli incontri.
Come ultimo aspetto, ma non per questo meno importante, passiamo alla descrizione di come si svilupperà il percorso di mediazione familiare, ossia della durata dei colloqui, sia individuali che degli incontri di mediazione, specificando quale sarà il numero massimo  degli stessi (oltre il quale non si andrà, poiché non sarebbero più funzionali al percorso intrapreso) sottolineando, però, come  la mediazione familiare, a differenza di altri percorsi più rigidi e schematici, possa essere cucita addosso alla coppia e quindi plasmabile in base alle loro necessità.
Non bisogna, infatti, pensare ad un percorso a senso unico, con una fine ed un inizio prestabiliti, ma  ad uno strumento flessibile dal quale, pur iniziando con colloqui individuali ai quali potranno seguire incontri di mediazione, qualora ve ne fosse la necessità (da parte di entrambe o anche solo di un componente della coppia) si possa fare un passo indietro e tornare ai colloqui con il singolo utente, per poi prendere nuovamente in considerazione gli incontri di mediazione e così via.
In ultimo si parla di tariffe, di quanto costi il singolo incontro, le sedute di mediazione e, nel caso, si valuteranno insieme le possibili modalità di pagamento.
Lasciamo, infine, la parola all’utente per eventuali domande su dubbi e perplessità emerse.
Capita, a volte, nei colloqui successivi, di tornare su alcune cose non recepite o non chiarite nel primo colloquio conoscitivo.
Come si può vedere, in questo ipotetico primo colloquio informativo,  sono stati toccati tutti i punti relativi agli art. 14 e 18.

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Come indicato all’inizio, tornando proprio agli articoli del Codice Deontologico, ritengo sia importante analizzare l’Art. 19. nello specifico il punto B, dove si regolamenta la Cooperazione del mediatore familiare con altri Professionisti.
Nello specifico l’art. 19 recita così :
“Ogni mediatore dovrebbe rispettare le relazioni tra il processo di mediazione e altre discipline professionali incluse quelle del Diritto, della Contabilità commerciale e fiscale, delle Scienze Sociali e della Salute Mentale e dovrebbe promuovere la cooperazione tra mediatori, servizi sociali e altri professionisti.”
In una supervisione fatta recentemente, con i colleghi di Me.Dia.Re. , in quasi tutti i casi analizzati , è emersa una componente comune, fonte di criticità, ossia quella dei limiti e confini del mediatore familiare e, di conseguenza, della mediazione familiare.
Si è dibattuto, nello specifico,  in merito alla consapevolezza che il mediatore debba avere riguardo al limite della mediazione stessa ogni qual volta ci si renda conto che il percorso mediativo non sia più funzionale al caso trattato, oppure quando vi sia la necessità di consigliare ad una delle parti o alla coppia un percorso con altri professionisti, informandoli  che questi percorsi possono anche camminare in parallelo con il percorso mediativo o come questo possa essere sospeso e ripreso in un secondo momento.
Insomma, come debba essere “doverosa” la capacità  di fare rete con altri professionisti, per il bene primario degli utenti.
Quando si ha la corretta informazione relativa al lavoro delle varie figure professionali che possono entrare in gioco in un percorso di separazione o di divorzio, e quindi tra i professionisti stessi (invii, collaborazioni etc), sicuramente il lavoro che viene fatto sulla coppia diventa più completo, sopratutto quando la collaborazione tra le varie figure professionali viene fatta a 360 gradi.

Leggendo il titolo del mio intervento che fa esplicito riferimento ai doveri di informazione del mediatore familiare, sono certa che, a molti di voi, sia venuto in mente il ddl 735, conosciuto da tutti come Disegno di Legge Pillon, dal nome di uno dei senatori, che come primo firmatario, lo ha proposto.
Non è mia intenzione soffermarmi a lungo su questo argomento, ma sento la necessità di spendere qualche parola a riguardo.
Sono sicura che, tutti noi, mediatori familiari e non, ci siamo interrogati, sulle reali conseguenze che l’eventuale ddl, una volta divenuto legge, avrebbe portato nell’ambito della mediazione familiare, soprattutto qualora fosse entrato in vigore senza apportare le modifiche proposte dalle associazioni di mediazione familiare.
Io credo che, “in una società sempre più arrabbiata“,  l’obbligatorietà di un percorso come quello della mediazione familiare (che pone le proprie basi sulla volontarietà di partecipazione e l’autodeterminazione da parte degli individui coinvolti) sia davvero un’arma a doppio taglio.
Da una parte avremmo una partecipazione più ampia ed una conoscenza maggiore dell’esistenza  della mediazione familiare, ma, dall’altra, avremmo una percentuale alta di “insuccessi” poiché il percorso non verrebbe visto come strumento utile per trovare un accordo condiviso al di fuori delle aule di tribunale e per il bene primario dei figli, ma come una mera imposizione di legge.
Credo, altresì, che qualora venisse ripescato e fossero adottate le modifiche proposte, un primo colloquio conoscitivo gratuito potrebbe, invece, essere utile per diffondere più capillarmente la conoscenza della mediazione familiare, che non ha ancora, come invece dovrebbe, un posto in prima fila nel delicato ambito delle separazioni e dei divorzi.
Siccome il ddl 735, con il cambio di governo, risulta al momento congelato, tutti questi costrutti mentali  lasciano il tempo che trovano, ma fanno,comunque, riflettere.
Chiudo il mio intervento con un proverbio cinese, che racchiude il mio pensiero in merito al futuro della mediazione familiare, in una società sempre più difficile:

“Solo quando tutti contribuiscono con la loro legna da ardere è possibile creare un grande fuoco.”

Daniela Meistro Prandi

Tratto dalla relazione di Daniela Meistro Prandi nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”.

 

La libertà della mediazione, tra “prassi” e “tecnica”

Avevo pensato di proporvi una storia per iniziare, che, mi sembra, calzi a pennello. Questi tipi di storie sono, a mio parere, di grande interesse, tant’è che l’ho proposta come spunto di riflessione anche nell’ultima supervisione svolta, citando la figura di Ifigenia, in particolare, per come venne proposta da Euripide.

Oggi la riprendo brevemente nella “versione” di Eschilo, collocandola nella storia della famiglia di Agamennone, che, appunto, narrò Eschilo nell’Orestea.

Perché è una storia importante ancora oggi, per noi che ci occupiamo di mediazione dei conflitti e di mediazione familiare?

Vi leggo le parole con cui descrive le relazioni all’interno di questa famiglia Raffaele Cantarella:

 Eschilo suggerisce che la prospettiva da cui guardare le azioni umane è duplice, ambivalente. Agamennone ha sacrificato Ifigenia non per capriccio, bensì per obbedire ad un bisogno del suo esercito, potremmo dire la ragione di stato. Per Clitennestra queste motivazioni, pur se reali e oggettive, non valgono. Individua la colpa terribile del marito nell’assenza di pietas per la figlia innocente. Approcci opposti dunque, inconciliabili. La tragedia li porta in scena esasperandoli fino alle estreme conseguenze a beneficio della riflessione di chi assiste.

Parto da questo punto di vista, poiché, secondo me, il teatro greco è emblematico e ricco di spunti per leggere molte situazioni di conflitto. Ora, è vero che, per fortuna, come mediatori, non assistiamo a conflitti di questo tipo, ma simbolicamente questa è un’immagine incredibilmente potente ed efficace.

Abbiamo a che fare, dunque, con un genitore che sacrifica la propria figlia a beneficio del Paese in cui vive e per svolgere una guerra che è mossa da motivi di puro orgoglio. Con l’Agamennone siamo in una fase che potremmo dire di “diritto privato” o, meglio, di “diritto arcaico”. Ma c’è un’evoluzione in Eschilo, poiché questa storia si sviluppa in una trilogia che comprende anche le Coefore e le Eumenidi.

Se le Coefore erano semplicemente quelle donne troiane che, quando Agamennone venne ucciso da Clitennestra, portarono dei doni sulla sua tomba. Le Eumenidi erano meglio conosciute come le Erinni ed erano delle divinità che perseguitavano coloro che si erano macchiati di atti empi, immorali, contro la famiglia.

Diventa, allora, estremamente interessante in questa ultima tragedia della trilogia vedere come proprio nell’ultimissima parte ci sia l’istituzione da parte della dea Atena di un tribunale.

In questa trilogia, quindi, si segna il passaggio dal diritto privato, cioè da un diritto basato sulla forza e sulla vendetta, ad un diritto che si esercita all’interno della polis. La polis è la città. È la comunità in cui noi ci ritroviamo come individui, come cittadini. Quindi, quando come mediatori parliamo di politica, di ministri, di tribunali, dobbiamo considerare che in mezzo a quegli “oggetti”, apparentemente astratti, ci siamo anche noi. Perché anche noi siamo (in) quell’istituzione lì. Lo siamo come cittadini. Però, a me viene da dire che lo siamo anche come mediatori.

Era questo ciò a cui intendevo arrivare. Cioè, precisare che la mediazione non è una pratica che si realizza al di fuori delle istituzioni. La mediazione, attualmente, sempre di più si inserisce in questo quadro di insieme.

Ora, cosa ce ne facciamo della mediazione in quella che abbiamo definito una società sempre più arrabbiata?

La mediazione può avere questa funzione che è quella di prestare ascolto alla cittadinanza e porsi in qualche modo come intermediaria, come cinghia di trasmissione tra la cittadinanza e la politica. Fra la cittadinanza e l’istituzione. Perché è chiaro, da un punto di vista manualistico, ideale, che noi siamo l’istituzione, ma è anche vero che, in questo momento storico, non possiamo non notare che tra i cittadini e l’istituzione c’è una sorta di separazione (o almeno questa è la percezione che si ha).

Invece la mediazione, dal mio punto di vista, può avere un grandissimo ruolo, insieme a tante altre buone pratiche, affinché si rinsaldi il legame sociale.

A questo punto, mi sembra fondamentale pensare al concetto di obbligatorietà della mediazione. Un concetto, questo, che è stato molto dibattuto, soprattutto nell’ultimo anno prima della caduta del governo giallo-verde, a metà agosto.

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Perché se la polis, la città, lo stato, è il luogo in cui il cittadino esercita la propria libertà, come può uno stato obbligare il cittadino a seguire, un percorso contro la propria stessa volontà? Sono rari i casi in cui lo stato è tenuto per la sicurezza di tutti a esercitare la propria forza.

Ma siamo sicuri che vogliamo che la mediazione diventi obbligatoria?

Alla fine di tutti gli interventi spero si apra un dibattito e credo che questa sia una delle cose che più interessanti: sentire anche le vostre voci.

Personalmente sono d’accordo con l’obbligatorietà del primo incontro informativo, ma credo che di questo si sia parlato in più occasioni anche in altre sedi. Se, invece, fosse l’intero percorso ad essere reso obbligatorio, allora la questione diventerebbe sempre più problematica. Infatti, in questo momento, come ricordava Isabella Buzzi, stiamo andando verso una società che è sempre più tecnicizzata, burocratizzata, e mi vien da dire che alla razionalità pratica vera e propria, si sostituisce una razionalità tecnico procedurale, la quale è così concentrata sui mezzi attraverso cui raggiungere i fini che non riflette sulla bontà dei fini stessi.

Quindi, capite che quando la razionalità politica, che è quella che dovrebbe riflettere sulla bontà dei fini, si affida solo e unicamente sulla correttezza delle procedure da seguire, diventa una razionalità francamente fallimentare. A questo punto, da mediatore, ma soprattutto da cittadino, mi chiedo, come società, stiamo andando nella giusta direzione?

Tratto dall’intervento di Maurizio D’Alessandro Obbligatorietà dell’intervento mediativo. La libertà tra “prassi” e “tecnica” nell’esperienza del progetto SOS CRISI nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”.

Il riconoscimento e la mediazione

Ascoltando le persone in conflitto – che si tratti di un conflitto di coppia, tra membri di una famiglia o all’interno di un altro contesto relazionale, al di là dei fatti caratterizzanti le singole vicende, quel che pare essere un aspetto largamente ricorrente è il vissuto di mancato riconoscimento sperimentato dai protagonisti. La sensazione del mancato riconoscimento da parte dell’altro non soltanto fa soffrire, ma pare essere l’elemento di più frequente innesco della dinamica conflittuale.

La frustrazione del bisogno di riconoscimento

In effetti, si dice che il conflitto possa sorgere dalla frustrazione di un bisogno. In altre parole dall’azione o dall’inazione dell’altro che ci impedisce di soddisfare un’esigenza. Però, accanto ai bisogni materiali, gli esseri umani ne hanno anche di immateriali. E tra questi quello di sentirsi riconosciuti è certamente un bisogno che attiene alla dimensione relazionale.

Torna alla mente allora una sintesi proposta da Brian Muldoon in un testo intitolato The Heart of Conflcit:

«Mi arrabbio, dunque esisto».

«Mi arrabbio, dunque esisto».

Ci sono tre livelli sintetizzati in questa frase: emotivo (l’emozione della rabbia), comportamentale (l’adozione di un comportamento che manifesta quell’emozione) e cognitivo (il fine del comportamento).

Rispetto a quest’ultimo, si può pensare che nel momento in cui diamo visibilità alla rabbia provata per non essere stati riconosciuti dall’altro, lo facciamo per ottenere, appunto, quel riconoscimento non pervenuto. Reagiamo a quella che ci pare essere un’ingiustizia relazionale.

A complicare le cose, però, c’è poi come l’altro reagisce alla nostra reazione. Infatti, può vivere a sua volta un sentimento di non riconoscimento, da noi provocato con la nostra condotta intesa a rispondere a quella che abbiamo avvertito come un’ingiustizia relazionale.

Infatti, è vero che qualcuno tra coloro ai quali proponiamo la nostra versione del “mi arrabbio dunque sono” può accogliere tale nostra comunicazione facendo autocritica e, magari, sentendosi anche in colpa. Ma è vero che qualcun altro può a propria volta sentirsi non riconosciuto.

La mediazione come attività di riconoscimento svolta dal mediatore

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Qual è il compito del mediatore di quel conflitto, dunque, rispetto a tale dinamica di bisogni di riconoscimento frustrati?

Nell’approccio dell’Associazione Me.Dia.Re., il mediatore ha la funzione di riempire i vuoti, anche e soprattutto i vuoti di riconoscimento. Ciò non significa, però, che cerca di stimolare ciascun soggetto in conflitto a riconoscere l’altro. Tale attività, infatti, potrebbe dare luogo in ciascun soggetto in conflitto ad un ulteriore vissuto di mancato riconoscimento, ascrivibile, questa volta, alla condotta del mediatore. In altri termini, ciascun soggetto potrebbe non sentirsi riconosciuto dal mediatore nel momento in cui tale professionista tentasse di indurlo a riconoscere l’altro confliggente, disconoscendo, implicitamente, le motivazioni sottese a quella posizioni di disconoscimento dell’altro (ad esempio, la convinzione di aver subito un affronto, un tradimento della fiducia riposta, la percezione che l’altro sia un vittimista che “ci marcia”, ecc.).

Nel modus operandi di Me.Dia.Re. il mediatore non stimola le persone in conflitto a riconoscersi reciprocamente, ma si pone, egli per primo, con la sua attività di ascolto, nella prospettiva di farle sentire riconosciuti da lui.

L’esperienza dimostra che dallo sviluppo di questa dinamica relazionale tra mediatore e attori del conflitto, deriva poi anche una de-tensione nel confronto tra questi ultimi e l’avvio di scambi tra di loro contraddistinti da un riconoscimento reciproco progressivo.

Alberto Quattrocolo

La mediazione familiare come relazione

La mediazione familiare è sorta e si è affermata come un intervento di supporto ai genitori in fase di separazione, con l’obiettivo di aiutarli a tutelare i loro figli dagli effetti del conflitto, prevenendone le ricadute più negative. Ma quali sono i suoi tratti distintivi, qual’è il suo significato e quali sono i suoi presupposti?

Il significato della mediazione familiare

Come altre forme di gestione non giudiziaria del conflitto, la mediazione si propone di tentare di contenere e regolare la conflittualità tra le parti secondo una prospettiva tesa a scongiurare la delega delle decisioni sulle questioni controverse ad un soggetto terzo: il giudice. In altre parole, il primo significato della mediazione è quello di riaffermare l’autodeterminazione dei soggetti in conflitto, ri-attribuendogli la competenza e la responsabilità della gestione del loro rapporto conflittuale.

Tra le caratteristiche più note della mediazione familiare vi sono quelle relative all’imparzialità e alla neutralità del mediatore. Ma, accanto a queste ve ne sono altre, che costituiscono contemporaneamente una premessa teorica e un’indicazione operativa sull’atteggiamento che dovrebbe costantemente mantenere il mediatore. Tutti i modelli di mediazione – non ve n’è infatti uno solo, ma molti e significativamente eterogenei tra loro sia sul piano teorico che applicativo – si basano sul presupposto che il conflitto in sé non è né un bene né un male: c’è, è un fatto naturale. Inoltre, esso non è indicativo di una maggiore o minore moralità, maturità, adeguatezza di coloro che sono in conflitto.

Da ciò discende un’altra caratteristica: il mediatore non solo non decide al posto delle parti la soluzione del loro conflitto, ma neanche le giudica – ciò, peraltro, in qualche misura si correla anche alla garanzia della tutela della riservatezza di quanto esse gli comunicano. La terza caratteristica – ma ve ne sono alcune altre ancora – riguarda il fatto che il mediatore deve sapere ascoltare le parti, o per meglio dire le persone, con cui si relaziona.

Da questi aspetti fondativi della mediazione derivano alcune conseguenze. La più ovvia è che, nella pratica della mediazione, i genitori non dovrebbero mai sentirsi porre sotto accusa né sotto giudizio dal mediatore per il solo fatto di essere in conflitto o per i modi con cui lo affrontano e lo vivono. L’ascolto – empatico – svolto dal professionista e la sua sospensione del giudizio sulle persone che ha di fronte, a ben vedere, rendono la mediazione un percorso idoneo a liberarle dalla preoccupazione secondo cui “dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto” (Beaumarchais). Ciò significa che nella stanza della mediazione si attenua l’ansia di riuscire ad essere persuasivi circa la correttezza etica e morale e l’appropriatezza psicologica e sociale dei propri pensieri, sentimenti e comportamenti sviluppati nel conflitto.

La mediazione familiare non è un mero intervento tecnico, non è una procedura: è, in primo luogo, una relazione.

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Se queste sono alcune delle prerogative che offre il percorso di mediazione familiare, in virtù della sua irrinunciabile natura a-valutativa, è ovvio che esse si correlano al fatto che la mediazione non è un mero intervento tecnico, non è una procedura. Come altre professioni, è in primo luogo una relazione. Una relazione tra persone, di cui una è chiamata, ascoltando, ad aiutare le altre, le quali sono coinvolte in un conflitto che, il più delle volte, ha raggiunto rilevanti livelli di escalation, anche e soprattutto sul piano dell’incomunicabilità. La mediazione familiare perciò è una relazione che può consentire alle persone di ritrovare fiducia nello strumento della parola, dal momento che le fa esperire la possibilità di qualcuno che non solo comprende quel che dicono e cercano di dire, ma le aiuta anche comunicare tra di loro.

Alberto Quattrocolo

Il conflitto non ha genitori e il mediatore deve tenerne conto

Come la sconfitta, così il conflitto non ha genitori.

In tanti anni di lavoro nell’ambito della mediazione familiare e in altri ambiti (penale, sanitario, organizzativo-lavorativo, scolastico), sia nei Servizi che nella formazione, tra i diversi elementi ricorrenti dei tantissimi conflitti incontrati, ce n’è uno che riveste una certa rilevanza: raramente, per non dire mai, gli attori del conflitto, fintanto che questo è in corso e più o meno apertamente combattuto, si riconoscono anche come autori: ciascuna parte si auto-rappresenta e si descrive agli altri (terzi, alleati e nemici) come un soggetto costretto a subire il conflitto voluto dall’altro, dal nemico.

Il conflitto non ha genitori perché tutte le parti pensano che è stato l’altra ad iniziare

Quando siamo coinvolti in un conflitto, all’interno della famiglia come in altri ambiti relazionali, siamo portati a pensarci, o cercare di convincerci, che non siamo stati noi ad aprire le ostilità. Che la colpa per l’avvio del conflitto è del nostro avversario-nemico. È stato lui ad iniziare. Il guerrafondaio, il rissoso è lui. Se, poi, per caso, non ci fosse possibile negare, a noi stessi e agli altri il fatto di essere stati proprio noi quelli che per primi hanno iniziato la lite, anche in tal caso, ci sentiremmo comunque non colpevoli dell’innesco del conflitto. Anche in questa situazione, siamo propensi a pensarci come coloro che non hanno azionato il conflitto, ma che hanno reagito ad un intollerabile comportamento provocatorio altrui.

Il conflitto non ha genitori perché tutte le parti si percepiscono come coloro che lo subiscono ma non lo agiscono

Il conflitto non ha genitori, quindi, perché nessuno dei suo attori è disposto a ritenersene responsabile. Per tutte le parti coinvolte la dinamica conflittuale è una cosa che viene subita. Nessuno è propenso ad accorgersi e ad assumersi la responsabilità del proprio contributo all’innesco del conflitto e della sua progressione.

Ciascuno vive e mentalizza la propria condotta conflittuale, non come frutto di una decisione, di una scelta tra opzioni diverse, ma come una scelta obbligata. Il conflitto non ha genitori quindi anche nel senso che per ciascuno dei protagonisti il proprio comportamento conflittuale è inteso come semplicemente reattivo alle ingiustizie, alle provocazioni, agli attacchi e ai colpi (bassi) della controparte.

Il conflitto non ha genitori perché ciascun protagonista crede di reagire ad un’ingiustizia

Brian Muldoon, in The Heart of Conflict, riguardo ai protagonisti del conflitto scrisse: «Almeno uno di essi è convinto di aver subito un torto. Reagisce all’ingiustizia chiedendo giustizia: la convinzione di avere ragione dà fuoco alle polveri del conflitto». Il conflitto inizia e si sviluppa, sul piano emotivo (e affettivo), cognitivo e comportamentale, a partire da questa percezione di sé (e non è detto che sia scorretta) di essere vittime di  comportamenti ingiusti, ai quali non si può non reagire.

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La mediazione (familiare e non solo) di fronte al fatto che il conflitto non ha genitori

Chi si propone di gestire professionalmente un conflitto altrui deve fare i conti con l’orfanilità del conflitto. E non è un aspetto di poco conto, poiché la sua sottovalutazione può pregiudicare irrimediabilmente non soltanto l’andamento e l’esito del percorso, ma ancor di più e ancor prima, la relazione tra il mediatore e le parti.

La mediazione è a-valutativa

Un mediatore familiare, un mediatore penale o un mediatore sanitario, ad esempio, non possono trascurare il fatto che le persone con cui si relazionano hanno una certa sensibilità (se si vuole, un’ipersensibilità) riguardo alla loro genitorialità del conflitto. Così, ad esempio, se si facesse loro presente che sono entrambe responsabili (cioè, genitori) che hanno generato, anche ammesso che proprio così stiano le cose, sarebbe elevatissimo il rischio di farle sentire giudicate. In particolare, si potrebbero sentire giudicate, dal mediatore, colpevoli del conflitto cui partecipano. Ciò potrebbe verificarsi anche il mediatore non avesse alcuna intenzione giudicante o colpevolizzante, ma fosse più semplicemente mosso dall’obiettivo di far loro presente che le loro azioni sono tali, cioè frutto di una decisione, e non sono delle reazioni inevitabili. Oppure, dall’obiettivo di far sì che essi assumano la responsabilità del loro conflitto, diventando consapevoli degli effetti distruttivi che ha su loro stessi e su eventuali altri (i figli, ad esempio, nel caso della mediazione familiare). Tuttavia, a prescindere dal tono e dalle parole usate dal mediatore e dai suoi obiettivi, in effetti, la percezione dei confliggenti di essere ritenuti genitori del loro conflitto, non sarebbe tanto infondata.

Il disagio di sentirsi giudicati colpevolmente conflittuali

Sentirsi considerati da altri, specie da un terzo importante quale è il mediatore, come gli autori del proprio conflitto può essere fonte di disagio. E può innescare una reazione emotiva all’insegna della sofferenza e della rabbia. I coniugi in conflitto (nel caso della mediazione familiare), la vittima e l’autore del reato (nel caso della mediazione penale), il paziente e il medico (nel caso della mediazione sanitaria), potrebbero pensare grosso modo: «non sono io il colpevole di questo disastro, lo è l’altro, che ha fatto quello che ha fatto». In breve potrebbero sentirsi oggetto di un giudizio ingiusto, in quanto errato e offensivo, e non riconosciuti nelle proprie motivazioni razionali ed emotivo-affettive.

La mediazione e la restituzione del governo del conflitto

Chi opera come mediatore applicando il modello Ascolto e Mediazione, consapevole che il carattere non giudicante della mediazione deve impregnare di sé ogni atto comunicativo, nel relazionarsi con le parti in conflitto, non tenta di smontare questa dinamica, non contrasta il fatto che il conflitto non ha genitori. Evita, cioè, di correre il rischio di aggiungere al conflitto che deve gestire un altro conflitto: quello tra sé e i confliggenti che lo vivono come colpevolizzante. Il che, però, non significa che questo mediatore sia indifferente al fatto che il conflitto non ha genitori. Ascoltando empaticamente le parti, cioè accogliendo e rispecchiando a ciascuna le sue emozioni e i suoi sentimenti, svolge anche, indirettamente, un’opera di ripristino dell’autogoverno del conflitto. In altri termini, consente a ciascun protagonista di uscire da una condizione di soggezione ad una dinamica conflittuale meramente subita. Aiuta, in altri termini, ad uscire dai corridoi stretti in cui si è rinchiusi dalla la logica inesorabile della azione-reazione. E, in tal modo, consente anche di sviluppare delle riflessioni autocritiche non contrassegnate dalla colpa, ma orientate al futuro.

Alberto Quattrocolo