Tristezza (“per favore, vai via”)

Pressoché impossibile non conoscere, o non avere mai sentito, almeno una volta, questa canzone cantata da Ornella Vanoni.
Come anche impossibile non avere mai sentito o pronunciato i seguenti “modi di dire”:

“Su con il morale”
“Non essere triste”
“Non piangere, solo i deboli piangono”
“Non voglio vederti triste”

Sono, infatti,  solo un piccolo esempio di frasi che ci sentiamo dire o che noi stessi diciamo ad altri, quando il sentimento della tristezza prende il sopravvento.
Nella nostra società, il parlare di tristezza o il fare discorsi “tristi” è, molto spesso, additato e tacciato come sintomo di debolezza e, quasi istintivamente, la prima cosa che facciamo, quando vediamo qualcuno triste, è cercare di confortarlo, di fare in modo che possa allontanare da sé quell’emozione, come se il provare tristezza fosse sempre deprecabile, sbagliato e deleterio per sé e per gli altri.
Generalmente, questa emozione ci coglie impreparati e facciamo fatica a comprendere la sua funzione  di traghettarci da uno stato emotivo all’altro.
L’errore più comune che tutti, o quasi, facciamo, è quello di vedere la tristezza e la felicità come due emozioni contrapposte, molto distanti nel loro modo di essere vissute e quindi manifestate.

Tristezza ed empatia

In uno studio condotto da Paul Zak, neuro-economista americano,  venne dimostrato che la tristezza, il dolore e la felicità arrivano dalle stesse aree emotive.
Secondo questo studio, si arrivò ad affermare che il cervello, quando si trova in uno stato di “tristezza emotiva”, produce determinate reazioni neurochimiche.
Ai partecipanti a quell’esperimento fu chiesto di guardare un video dove si parlava della storia di un ragazzo malato di cancro: la cosa singolare  fu che i partecipanti, che si immedesimavano nella storia e che, quindi, provavano tristezza, oltre al cortisolo che è definito come “l’ormone dello stress”, producevano anche ossitocina, ossia un ormone prodotto dalla neuroipofisi, conosciuto anche come “ormone dell’amore” e, più erano alti i livelli di ossitocina, che erano stati innescati dalla visione del filmato, e più coloro che avevano partecipato all’esperimento erano disposti a fare donazioni.
Lasciando da parte le implicazioni di questo esperimento in ambito di marketing pubblicitario, appare evidente come un aumento di questo ormone possa renderci più generosi e, quindi, maggiormente aperti e fiduciosi verso il prossimo e, considerato che quando si prova tristezza vi sia anche la produzione dello stesso, si può facilmente arrivare alla conclusione che questa emozione possa essere favorente le relazioni e l’empatia.
Chi ha visto il film della Disney “INSIDE OUT”, si ricorderà certamente la scena in cui il personaggio Tristezza seduto accanto a Bing Bong, l’elefante rosa amico immaginario di infanzia della protagonista umana della vicenda, non cerchi di consolarlo, di allontanare da lui il sentimento di dolore e di tristezza che sta provando, ma si metta in ascolto, empaticamente, “semplicemente” riconoscendogli lo stato emotivo di quel momento.
Atto, questo, capace di “risollevare” Bing Bong che, asciugate le lacrime, ricomincia la sua marcia.
Il ruolo del personaggio “tristezza” si rivelerà essenziale e strategico, all’interno dell’intero film, per la vicenda narrata, lasciando favorevolmente sorpresi gli spettatori.

Quale è la funzione che possiamo attribuire all’emozione della tristezza?

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Durante l’analisi delle sette emozioni universali (si vedano il post Si fa presto a dire “emozioni”: la paura nella mediazione, pubblicato nella rubrica Riflessioni, e i video-post di Note di mediazione dedicati alla paura e alla rabbia), abbiamo potuto vedere come la paura ci serva poiché ci rende prudenti dinnanzi ai pericoli, la rabbia ci serva per fare fronte alle avversità, ma cosa possiamo dire al riguardo per quanto concerne la tristezza?
Possono essere molteplici le funzioni di questa emozione.
Come prima cosa, quando la proviamo, determinati atteggiamenti e caratteristiche tipiche del nostro volto e della nostra postura, ci aiutano a mandare un segnale in tal senso, a fare capire agli altri che qualcosa non va, attivando una vera e propria “richiesta di aiuto”.
La tristezza, inoltre, ci porta a contatto con la nostra intimità, ci fa scendere in profondità nel nostro “io”, aumentando la consapevolezza di ciò che ci circonda.
Questo sentimento, serve ad aumentare il nostro senso di realtà; un uomo incapace di provare tristezza e, quindi, di riconoscerla, rischia di essere “non umano”.
A volte, provare tristezza, può aiutarci a recuperare la calma dopo momenti di forte stress, autoproteggendoci e facendo da ponte tra sentimenti differenti, ma, pur sempre, correlati.

Quali sono i fattori scatenanti la tristezza?

Proviamo tristezza quando subiamo la perdita di qualcuno o di qualcosa che era importante per noi, quando subiamo un abbandono o, perché no, quando siamo costretti ad abbandonare una persona a noi cara o un luogo, quando perdiamo un’opportunità o la salute, oppure se proviamo empatia (qui entrano in gioco i  neuroni specchio di Rizzolati) per la sofferenza, la tristezza, di altre persone.
E’ comprensibile, quindi, come alla base dell’emozione della tristezza, vi sia il fattore scatenante, universale, della perdita.
Quando siamo tristi per una situazione che ci affligge, il nostro corpo reagisce abbassando, se non addirittura spegnendo, l’energia vitale.

La tristezza nella comunicazione non verbale

Ecco perché, il nostro corpo, come già accennato prima, invia segnali ben precisi riguardo al fatto che stiamo provando quel sentimento anziché un altro.

Infatti, nella comunicazione non verbale, è importante saper riconoscere le caratteristiche che riguardano la tristezza, anche in virtù della funzione di “richiesta d’aiuto” che esse svolgono.
Quando si è tristi, si tende a mantenere il corpo chino, con perdita del tono muscolare e le braccia (a penzoloni) in avanti; per quando riguarda le espressioni del viso, si manterrà lo sguardo verso il basso, le palpebre saranno rilasciate e i muscoli caratterizzanti* questa emozione, saranno gli angoli interni delle sopracciglia alzati  e gli angoli della bocca abbassati.
Si avrà, quasi certamente, un nodo alla gola, lacrime, respirazione rallentata, voce con tono più cupo e grave, velocità dell’eloquio rallentata, abbassamento del volume e della frequenza, voce tremante e singhiozzante (qualora vi sia anche il pianto); si faranno lunghe pause con ritmo rallentato e finale delle parole “smorzato”; si intercaleranno avverbi di giudizio negativi quali “purtroppo”, “che peccato.”
Anche la tristezza, come tutte le emozioni che proviamo, fa parte della nostra salute emotiva ed è attraverso l’equilibrio dinamico di questi sentimenti che passa il nostro benessere.
E’ un’emozione complessa, che ha due possibili strade davanti a sé: la prima volta ad ottenere un aiuto esterno, l’altra ci porta in un percorso di introspezione, funzionale a cercare protezione anche attraverso il recupero delle energie e, quindi, il riposo.

Il mediatore davanti alla tristezza

In virtù di quanto detto fino ad ora, come può il mediatore familiare o il mediatore dei conflitti in altri ambiti “gestire” un utente che in quel momento sta provando tristezza?

Il riconoscimento della tristezza da parte del mediatore

Non di rado, chi si siede davanti a noi mediatori, durante un colloquio, può provare emozioni forti attraverso la narrazione del proprio vissuto, tali da scaturire in pianto e, di quelle lacrime, molte volte l’utente stesso si vergogna, come se, in quel momento, ci mostrasse la sua parte “debole”.
Molte volte, questo capita quando viene fatta una restituzione da parte del professionista e viene riconosciuto uno stato d’animo che la persona prova sì in quel momento, ma che è stato stimolato da un ricordo legato ad una perdita, un abbandono, un dolore che si ripresenta ogni qual volta si vanno a toccare precise corde emotive.
Come sappiamo, il principale strumento di lavoro del mediatore è l’ascolto empatico (si vedano al riguardo moltissimi post della rubrica Riflessioni, tra i quali Perché “Ascolto e Mediazione” e non soltanto “Mediazione”?, nonché molte delle tesi pubblicate sulla rubrica Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, tra le quali laTesi di Tiziana Petiti: L’ascolto attivo, il silenzio e il riconoscimento come elementi della mediazione familiare) e, per questo motivo, sarà pressoché impossibile che un’emozione così articolata, ma ben evidente, come la tristezza, non venga riconosciuta e rispecchiata dal professionista.
Accettando ed accogliendo la sua manifestazione emotiva, senza giudicarla e senza proporgli una soluzione, verrà meno la sensazione di disagio e di vergogna che la persona può provare nel condividerla.
Sarà, quindi, attraverso il suo riconoscimento che verrà assecondata la richiesta di aiuto esterno che ci viene fatta da chi la sta provando.
Lisa M.Schab sostiene che piangere è il modo naturale che il corpo possiede per liberare la tristezza, poiché gli ormoni dello stress vengono espulsi, proprio, attraverso le lacrime.
Va ricordato, però, che il pianto può manifestarsi anche quando si provano altri sentimenti, quali la rabbia, la gioia, la sorpresa.

La riformulazione, da parte del mediatore, della tristezza ascoltata

Si è parlato di un secondo modo di manifestare la tristezza, ossia l’introspezione e l’isolamento.
Questa strategia è funzionale al “risparmio energetico”, all’autoprotezione in vista di un recupero delle energie in attesa di essere “traghettati” verso un’altra emozione.
Quando il mediatore si trova davanti a questo secondo tipo di tristezza (a patto che la chiusura non sottenda a stati emotivi patologici come la depressione maggiore, che perdura nel tempo, stato dal quale non si riesce ad uscire e che nulla ha a che fare con il carattere passeggero della “tristezza sana”, o ad altre patologie psichiatriche, quali, ad esempio, il bipolarismo, che necessitano di essere attenzionate e valutate ulteriormente),  attraverso la tecnica del reframing, ossia la riformulazione di quanto viene detto dall’utente, può fare in modo che venga rispecchiato, in chiave dinamica e creativa, il vissuto portato dalla persona stessa, così che possa essere stimolata a riconsiderare l’evento scatenante e le sue conseguenze in maniera propositiva e non rimuginando sul dolore stesso in maniera statica e stagnante.
Sarà estremamente importante che il professionista riesca e mantenere il giusto “distacco” mentre  ascolta empaticamente l’utente, poiché il lasciarsi coinvolgere troppo e quindi scendere nello stato emotivo della persona ascoltata, sarebbe disfunzionale all’ascolto stesso, poiché si potrebbe correre il rischio di fare venire meno il principio della neutralità.

La tristezza è cosa seria, maneggiamola con cura!


Daniela Meistro Prandi

Fonti:
-“Il cuore nella mente” Diego Ingrassia (2018)
-“Why your brain loves good storytelling”, in Harward Busines Review (2014), Paul J. Zak
– “The Bulimia Workbook for Teen”, Lisa M. Schab

*Per muscolo caratterizzante si intende un movimento muscolare caratteristico di quella precisa emozione, non riscontrabile in altre.

Si fa presto a dire “emozioni”: la paura nella mediazione

Pare che la parola emozione sia un po’ inflazionata, io stessa ne abuso.
Provare quella emozione, rifuggire a quell’altra emozione, sei emozionato, è stato emozionante: sono solo alcuni esempi dei mille modi con cui, ogni giorno, ci riempiamo la bocca con questa parola.
Quanti di noi, possono dire di conoscere davvero il significato della parola “emozione”?
Di sicuro, non io.

Facendo una ricerca su Google, alla voce “Emozione” si trova:
“Le emozioni sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. Secondo la maggior parte delle teorie moderne, le emozioni sono un processo multi-componenziale, cioè articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve.” In tal caso la fonte è, come al solito, Wikipedia.

Dal punto di vista neurologico

Priviamo a partire proprio da qui.
Secondo Darwin, nel celebre saggio “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” (1872), mettendo a confronto le modalità espressive corporee dell’uomo e dell’animale, arrivò alla conclusione che il linguaggio corporeo nell’uomo sia a base innata e per lo più geneticamente ereditato.

Nello specifico, facendo riferimento proprio alle emozioni, affermò che le espressioni facciali, quando si prova una data emozione, individuate sia nell’uomo che nell’animale, abbiano una valenza adattiva, esito dell’evoluzione filogenetica e che siano regolate da precisi processi e meccanismi nervosi.

Prendiamo ad esempio la capacità che ha un animale di riconoscere in un suo simile la rabbia, anziché la paura; abilità, questa, che gli può consentire di mettere in atto determinati comportamenti, atti a garantirgli la sopravvivenza.
Nel corso della selezione naturale, sono stati questi modelli comportamentali, divenuti stabili e mossi da automatismo, a diventare segnali stereotipati.
Allo stesso modo, anche l’uomo, ha elaborato un repertorio di segnali, derivanti da adattamenti filogenetici, capaci di regolare la coesistenza con i suoi simili.

Dal punto di vista neurologico, tra l’altro, esisterebbe nella specie umana la cosiddetta amigdala, la parte più antica del cervello, responsabile delle reazioni emotive (in particolare la paura) e degli istinti primordiali.
È qui che hanno origine le reazioni di comunicazione non verbale involontarie.

Quando riceviamo uno stimolo sensoriale, il talamo, una volta sottoposto lo stimolo all’amigdala, lo smista in frazioni di secondo anche all’area sottoposta allo stesso (visiva, linguistica, gestuale, ecc.) la quale valuterà l’adeguatezza della reazione dell’amigdala dandone consenso o innescando tentativi di inibizione (Giusti, Azzi, 2013).

La teoria neuro-culturale di Ekman

Parlando di emozioni, diviene impossibile non citare Paul Ekman – lo psicologo statunitense che ha trascorso l’intera carriera a studiare il comportamento non verbale, facendo esperimenti sulle espressioni facciali e sui movimenti del corpo, mostrando un crescente interesse per la psicologia sociale e gli studi transculturali in ottica evolutiva -, le cui ricerche si sono focalizzate, nel tempo, sullo studio delle emozioni, divenuto suo vero e principale interesse.

Egli confermò alcune intuizioni originali di Darwin circa la gestualità innata, passando molti anni a studiare le espressioni facciali dei membri di cinque culture completamente differenti. Appurò che ogni cultura adottava la medesima mimica facciale di base per esternare le emozioni; elemento, questo, che lo fece arrivare alla convinzione che dovesse trattarsi di una caratteristica innata.

Così, nel 1972, a cento anni dal saggio di Darwin citato prima,  elaborò la teoria neuro-culturale, secondo la quale le emozioni primarie si fondano su due fattori:
uno di natura neurale, in base al quale esiste un programma neuro-fisiologico innato, di natura genetica, specifico per ogni emozione, che garantisce l’invariabilità e l’universalità delle espressioni facciali associate a ciascuna emozione; un altro di natura culturale, per cui le risposte emozionali possono essere modificate in relazione alla variabilità culturale.
Partendo quindi dall’assunto che le emozioni siano universali, vediamo ora quali sono le sette principali.
In base agli studi di Ekman troviamo:

– La paura

– La rabbia

– La gioia

– La sorpresa

– Il disprezzo/disgusto

– La tristezza

La paura

Tutte emozioni queste, che giocano un ruolo fondamentale nella mediazione familiare e, in generale, nella mediazione dei conflitti.
Ma partiamo dalla prima che ho messo in elenco, la paura, provando a vedere come questa entri in gioco in ambito mediativo.
Possiamo considerarla una delle emozioni più importanti per l’essere umano e, insieme alla rabbia, rappresenta le basi per la nostra sopravvivenza.

Infatti, il sistema nervoso autonomo, quando ci troviamo in una situazione di pericolo, reagisce stimolato da una serie concatenata di ormoni e neurotrasmettitori, che si trasformano in comportamenti volti a difesa della nostra vita.

I 6 modi di reazione alla paura (Marks e Bracha)

Marks e Bracha, nel 2004, hanno individuato 6 modi di reazione, spesso involontaria, alla paura:

1- Freezing, congelamento (anticamente, con questa tecnica, ci si rendeva invisibili ai predatori)

2/3- Fight or Flight (attacco o fuga- Cannon, 1929)

4- Sottomissione

5- Fingersi morti (lo fanno molti animali che, in questo modo, provano a sfuggire a predatori abituati a cacciare la preda in movimento)

6- Lo svenimento

Per le paure che riguardano le relazioni sociali, appare evidente come, partendo da queste strategie basiche, si debbano individuare e metterne in atto di più evolute, riconoscendo ed essendo consapevoli di come quell’emozione ci faccia reagire.

L’ansia

Anche l’ansia è associata alla paura, ma non possiamo catalogarla come emozione.

I suoi effetti sono concentrati, maggiormente, nella zona toracica (i sintomi più comuni sono: oppressione al petto e al cuore) e possono creare incapacità di agire e sensazione di impotenza(quando si dice: essere bloccati dall’ansia)

Leggere la paura sul nostro viso

In base agli studi di Ekman, quando si prova l’emozione della paura, sul nostro viso appaiono movimenti involontari muscolari ben precisi; infatti,  vi è un innalzamento della parte interna ed esterna delle sopracciglia le quali si avvicinano tra di loro e gli angoli della bocca vengono tirati verso la mandibola.
Tutti segnali questi che possono aiutarci, in sede di colloquio a capire se la persona o le persone (ad esempio durante una seduta di mediazione e quindi di confronto tra le parti) stiano provando questa emozione.
Non tutti, però, si è in grado di leggere il non verbale e quindi di cogliere questi tratti caratteristici e, molte volte, anche se  si ha un po’ di dimestichezza con il linguaggio non verbale, per l’appunto, questi segnali non sono così evidenti.
Ad esempio, quando la paura è contenuta, perché non ci si sente in una reale situazione di pericolo, come quando ci troviamo, per la prima volta, davanti ad un mediatore.
Il fatto stesso di trovarsi davanti ad uno “sconosciuto” a raccontare i “fatti nostri” ci può fare provare una sensazione di imbarazzo, alla base della quale proviamo paura.
Paura di esternare i nostri sentimenti, paura del giudizio, paura di non essere compresi, paura di non stare facendo la cosa giusta e così via (possono essere molte le motivazioni che ci portano a provare questa emozione).
Di sicuro, in una situazione come quella descritta sopra, anche l’ansia (seppur non catalogata come emozione) gioca il suo ruolo e rende ancora più complessa l’identificazione dell’emozione primaria provata.
In ambito di mediazione penale, ad esempio, non di rado si può riprovare, nel raccontarla, la sensazione di paura, provata durante un atto di violenza subito (ma, perché no, anche agito) e, ad un osservatore attento, sicuramente non sfuggiranno i segnali che questa emozione attiva sul volto, perché non sono solo gli stimoli vissuti al momento a scatenate le reazioni nervose, ma anche i ricordi di situazioni vissute.

Come può il mediatore “maneggiare” questa emozione?

Partendo dalla consapevolezza che il mediatore dei conflitti utilizzi come strumento principale, per riconoscere ciò che la persona prova, l’ascolto empatico, nulla vieta che lo stesso, avendone le capacità acquisite con lo studio, possa utilizzare, anche, come strumento integrativo, quello del  riconoscimento del comportamento non verbale, leggendo i segnali legati a quel tipo di emozione.
Una volta riconosciuta l’emozione, non potrà far altro che “restituirla” a chi la sta provando, rispecchiandola e, di conseguenza, andando a nominarla.
Molte volte, il nominare un’emozione, rendendola quindi “tangibile”, in special modo un’emozione, a volte scomoda, come può essere quella della paura, può renderla meno spaventosa, più “maneggevole” appunto.
Un esempio ricorrente nell’ambito della mediazione familiare è il seguente.
In un rapporto disfunzionale, dove impera un alto grado di conflittualità, non è raro riconoscere l’emozione della paura legata alla prospettiva di uscire da quel tipo di situazione che, nonostante ci faccia stare male (tanto da averci fatto scegliere di rivolgerci ad un professionista esterno, quale il mediatore familiare) rappresenta la nostra zona confort, dentro la quale abbiamo delle certezze.
L’immaginarci al di fuori di quel tipo di relazione, quindi, ci spaventa, ci fa paura, anche perché, solitamente, quando iniziamo a vederci come singole unità e non più come coppia,  dobbiamo necessariamente reinventarci, pensandoci al di fuori di quella situazione di coppia che, nel caso di separazione, non esisterà più (si fa riferimento coppia sentimentale, poiché in caso di presenza di figli, è bene sottolineare come la coppia genitoriale esisterà sempre, seppur anch’essa modificata nel suo status quo).

“Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così”

Anche in tal caso, il rispecchiamento/riconoscimento da parte del mediatore di tale emozione, può aiutare ad utilizzarla non più in chiave distruttiva, come se fosse un’azione (e una conseguenza) subita, ma in un’ottica di azione volta alla ricerca del cambiamento relazionale (agito, anziché subito).
Come è facile intuire, il mediatore dei conflitti non ha la bacchetta magica e non sarà necessariamente chiamato ad identificare l’emozione della paura allo scopo di “sconfiggerla”, ma il riconoscerla in chi la sta vivendo, con tutto il carico emotivo che si porta dietro, e il poterla, con gli strumenti che ha a disposizione, incasellare e, quindi, rendere più visibile e meno paurosa (solitamente le cose che non riusciamo a distinguere sono quelle che ci mettono più in difficoltà), potrà far sì che, anche un’emozione così importante, possa essere introiettata e quindi maneggiata con più facilità.
Recita così il ritornello di una canzone di Ligabue:

 Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così

Parafrasandolo, con un po’ di autoironia indirizzata verso il ruolo del mediatore così:

Niente paura, ci pensa la vita (e a volte il mediatore), mi han detto così!

Daniela Meistro Prandi
Fonti:
Wikipedia
“Il cuore nella mente” Diego Ingrassia
“Giù la maschera” Paul Ekman, Wallace V. Friesen

Il tentativo di triangolazione durante la mediazione

“Il triangolo no, non lo avevo considerato (…)
la geometria non è un reato”

Così faceva il ritornello di una famosissima canzone di Renato Zero, “Il Triangolo”; canzone del 1978 (scritta insieme a Mario Vicari, il quale ne curò anche la parte musicale), dai contenuti volutamente provocatori e trasgressivi – parla infatti di un triangolo amoroso – ma resi ironici attraverso l’utilizzo di similitudini e doppi sensi.

Spero si voglia perdonare l’accostamento ardito con un evento molto frequente che si verifica, durante i colloqui, nei percorsi di mediazione familiare e, più in generale, di mediazione dei conflitti, ossia il tentativo di triangolazione da parte dell’utente nei confronti del mediatore.

Credo sia raro non aver sperimentato sulla propria pelle, durante la carriera di mediatore, la sensazione di essere oggetto di una tentata triangolazione nel senso di un approccio manipolativo da parte della persona seduta dinnanzi a noi, intenzionata a portarci “dalla sua parte”.
Chi inizia un percorso mediativo, la maggior parte delle volte, si aspetta (o, almeno, in fondo al cuore, si augura) che chi lo sta ascoltando, avvalli la sua posizione, per lui verità unica e imprescindibile, a discapito dell’altro confliggente.
Tale comportamento non è deprecabile, ma è, nella gran parte dei casi, da considerarsi come conseguenza naturale della situazione conflittuale che si sta vivendo, dove la lotta per la supremazia regna sovrana, sia essa manifesta, sia essa implicita nei comportamenti tenuti dalle persone in conflitto.
Solitamente, ad esempio, nell’ambito della mediazione familiare, chi compie il primo passo verso un percorso mediativo, prevede che l’altro si rifiuterà di parteciparvi, e ciò può derivare dal pessimismo che accompagna situazioni conflittuali di coppia, oppure dal semplice fatto che chi si è fatto promotore dell’iniziativa si vuole arrogare il “diritto” di assicurarsi l’aiuto del professionista a suo totale vantaggio, avendo così la meglio sull’altra parte.
A tal proposito, un terapeuta familiare, parlò di “lotta per l’iniziativa” e anche di “lotta per la struttura” (Whitaker, 1977)

È quasi naturale, quindi, cercare degli alleati, a partire dai membri della famiglia, dagli amici, per finire con gli esperti, i professionisti, che vengono coinvolti nella situazione di “fine di relazione”, esponendo, così, questi ultimi, inevitabilmente, a tentativi di manipolazione, onde porli in una triangolazione all’interno del conflitto. Fin dall’inizio, dunque, si possono veder agire delle mosse mirate ad ottenere il controllo del percorso di mediazione, al fine di avere il controllo del nuovo “terreno” nel quale si disputa la “battaglia”.

Si possono evidenziare due mosse, abbastanza comuni nei tentativi di triangolazione

La prima, che possiamo definire “prendi l’iniziativa”, è quella durante la quale chi si fa promotore dell’iniziativa, per l’appunto, impara a conoscerla prima dell’altra parte, creando uno svantaggio a quest’ultima e arrogandosi la superiorità morale di aver voluto iniziare il percorso di mediazione per primo, quasi a voler confermare la propria superiorità di intenti nei confronti di chi non è ancora entrato in gioco.
La seconda, che possiamo intitolare “mi lasci spiegare il problema”, vede il tentativo di una delle parti di influenzare il mediatore, e di assumere il controllo della situazione, attraverso la proposta di portare documentazioni relative alla situazione in oggetto, atte ad avvallare in maniera inequivocabile (per quella parte) la propria posizione (peraltro, percepita come l’unica corretta).

E’ da sottolineare, però, che non è quasi mai unidirezionale il tentativo di manipolazione da parte dell’utente nei confronti del professionista, ma è un comportamento che, solitamente, viene agito da entrambe le parti.
Infatti, anche il confliggente che dovesse entrare in gioco in un secondo momento (si ricordi che, uno degli aspetti caratterizzanti la mediazione familiare è la volontarietà di partecipazione al percorso) proverà, in maniera similare al primo, a far sì che il mediatore “vada dalla sua parte” sostenendo le proprie verità come assolute ed imprescindibili.

Quello che viene spontaneo chiedersi è quale debba essere, quindi, la posizione che il mediatore deve avere e quale il comportamento da tenere, ogni qualvolta si trovi in situazioni nelle quali corre il rischio di essere oggetto di triangolazione da parte dei confliggenti.

Nella nostra metodologia di lavoro, sia in ambito di mediazione familiare che mediazione dei conflitti più a 360°, prevediamo che le parti confliggenti non vengano accolte insieme, nemmeno nel primo colloquio conoscitivo, ma che vengano ascoltate separatamente attraverso colloqui individuali.

Gli incontri di mediazione (che prevedono l’incontro e quindi confronto della coppia) avverranno in un secondo momento, quando le parti saranno “pronte” per poterli affrontare in maniera proficua sia per loro stessi, intesi come singoli individui, sia per il riconoscimento reciproco, sotteso alla mediazione trasformativa-relazionale, che noi adottiamo.

E’ nostra cura, fissare il primo colloquio conoscitivo con i due partners, nella stessa giornata o, laddove non sia possibile, a distanza di pochi giorni uno dall’altro, proprio per fare in modo che tutti e due possano avere le stesse informazioni relative alla mediazione, evitando così che si possa creare una situazione di svantaggio a discapito di uno dei due.
Nel primo colloquio e, a volte anche nei colloqui successivi, qualora qualcosa non fosse ancora chiaro, si stabiliscono le regole del percorso di mediazione e, nella descrizione della figura professionale del mediatore, si sottolinea come esso sia terzo, neutrale ed imparziale, non giudicante e quindi elemento super partes nel conflitto.
I mediatori, infatti, devono avere la capacità di mantenere una posizione centrale ed equilibrata tra le parti.

Ma quando possiamo definire fisiologico il tentativo di triangolazione e quando, invece, non lo è più?

Come sopra ricordato, il bisogno di sentire il mediatore dalla propria parte, quando si sta vivendo una situazione conflittuale è, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento normale, atto a sentirsi meno soli, a cercare di essere capiti e supportati, durante quella che viene vissuta come una vera e propria battaglia.
E’ altrettanto naturale che, nonostante l’adempimento da parte del mediatore degli obblighi informativi a riguardo, nella prima parte del percorso di Ascolto e Mediazione del conflitto, si faccia finta di non capire quale sia il ruolo della figura professionale che abbiamo di fronte, tentando ancora di triangolarla a proprio vantaggio.
Se le parti in gioco, si sono messe in discussione in buona fede, ad un certo punto smetteranno, in maniera quasi naturale, di manipolare il mediatore, perché il clima di fiducia instaurato, la de-escalation del conflitto che si sarà raggiunta attraverso il riconoscimento di sé stessi, in primis, e dell’altro, poi, l’empowerment della capacità di autodeterminazione, faranno sì che il bisogno di aver il mediatore dalla “propria parte” non avrà più senso di esistere, poiché non sarà più funzionale allo scopo perseguito.

Vien da sé, quindi, capire che se il comportamento manipolatorio e il tentativo di triangolazione, dovessero invece perdurare nel tempo, anche dopo la prima fase della mediazione, si potrebbe desumere la cattiva fede di colui che mette in atto tale comportamento, rimettendo quindi alla valutazione del professionista l’eventualità di sospendere il percorso, qualora fosse visto come non più funzionale poiché sarebbero venute meno le condizioni per portare avanti il percorso intrapreso.

Per tornare alla citazione iniziale della canzone di Renato Zero, rimanendo in linea con gli accostamenti azzardati, concludo con il detto latino:

“Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”

Daniela Meistro Prandi

Fonti: “La mediazione familiare”, L.Parkinson, 2013

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Il mediatore dei conflitti e il colloquio da remoto: l’importanza della comunicazione non verbale.

“La cosa più importante nella comunicazione è ascoltare ciò che non viene detto.” (Peter Drucker)

Partendo dall’assunto che la comunicazione è l’essenza della mediazione, particolare importanza si deve prestare ai mezzi di comunicazione.
Possiamo avere linguaggio senza comunicazione e comunicazione senza linguaggio.
Le parole che noi utilizziamo sono stratificate in diversi livelli di connessioni (personali e culturali, consce e inconsce) capaci di influenzare la visione del Mondo che ci circonda e possono condizionare le risposte che diamo a persone ed eventi.  E’ proprio attraverso il linguaggio che organizziamo i nostri pensieri e trasmettiamo idee, strutturandoli sotto forma di messaggio.  Bisogna, però, sottolineare che gli scambi comunicativi non avvengono solamente attraverso la comunicazione verbale, ma anche la comunicazione non verbale assume estrema importanza.
Una ricerca sulla comunicazione non verbale, condotta parecchi anni or sono, rilevò che durante un’esposizione orale svolta davanti ad un gruppo di persone, il 55%dell’impatto sugli uditori era dato dal linguaggio del corpo (contatto visivo, gestualità, posizione), il 38% dal tono della voce (linguaggio paraverbale) e solo il 7% dal contenuto della presentazione (Mehrabian e Ferris, 1967).

Che cosa si intende, quindi, per “comunicazione non verbale”?  

Per comunicazione non verbale si intende quella parte della comunicazione che non riguarda l’aspetto puramente semantico, ma il linguaggio del corpo nella sua totalità.
Circa il 90% della nostra comunicazione durante la giornata è non verbale.
Possiamo suddividere la comunicazione non verbale in cinque categorie, ossia la cinesi, il sistema paralinguistico, la prossemica, l’aptica e le caratteristiche fisiche.
Vediamo nel dettaglio di cosa stiamo parlando.

SISTEMA PARALINGUISTICO

E’ rappresentato dal sistema vocale non verbale, ossia l’insieme dei suoni emessi nella comunicazione verbale, indipendentemente dal significato delle parole.
Infatti, quando parliamo, le nostre voci assumono importanza, poiché chi ci ascolta presta attenzione al tono della nostra voce, all’inflessione, alla frequenza, al ritmo che utilizziamo e quindi ai tempi e ai silenzi.
In breve, l’attenzione è spostata non tanto sulle parole, ma sul tono, il volume, la qualità, l’intonazione e le pause vocalizzate.
Da sottolineare, però, che non tutte le culture hanno la stessa interpretazione dei segnali non verbali, cosa da non sottovalutare quando persone di diversa estrazione stanno comunicando.

SISTEMA CINESICO

Si intende l’insieme di tutti gli atti comunicativi espressi dal movimento del corpo; in pratica, è il termine tecnico utilizzato per definire il linguaggio del corpo, la comunicazione attraverso il movimento del corpo stesso, per l’appunto.
Il sistema cinesico comprende il contatto visivo, la mimica facciale, la postura e la gestualità.
Il contatto visivo, di cui particolare importanza assumono i movimenti oculari, è molto influenzato e, quindi, influenzabile dal contesto in cui ci si trova, per cui può comunicarci parecchio in merito alla persona che abbiamo davanti (ad esempio, se si viene guardati dritti negli occhi, si può cogliere un atteggiamento di sicurezza o di sfida, così come se l’interlocutore abbassasse lo sguardo, potrebbe comunicarci di essere in imbarazzo e così via).
A fare da contorno al movimento oculare vi sono i gesti legati alla mimica facciale.

E’ utile sapere che la gran parte delle espressioni facciali sono volontarie e controllate da noi che le adatteremo in base alle circostanze, ciò nonostante, però, vi è una parte comunicativa  che non può essere controllata come l’arrossire o l’impallidire, così come impercettibili movimenti muscolari (solitamente non simmetrici, come il movimento di un solo sopracciglio o una piccola smorfia della bocca) non sono controllabili e possono sottendere a sentimenti che non corrispondono a quello che stiamo comunicando con il verbale (ad esempio, potrebbe essere che stiamo rispondendo, alla domanda del nostro interlocutore, mentendo).
Due studiosi di comunicazione, quali Wallace Friesen e Paul Ekman, hanno identificato quarantaquattro diverse “unità d’azione”, cioè possibili movimenti del viso umano, che vanno dall’aggrottare la fronte, all’inarcare le sopracciglia, allo strizzare gli occhi etc etc etc.

PROSSEMICA

Con questo termine, si intende l’occupazione dello spazio, ossia come si utilizza lo spazio fisico a disposizione per comunicare diversi messaggi non verbali, inclusi segnali che possono andare dal dominio all’aggressività, dall’affetto all’intimità.

Lo spazio può essere suddiviso in quattro zone principali che sono:

  • La zona intima (da 0 a 50 cm) è quella nella quale si accettano, senza provare disagio solo familiari stretti e il partner; se persone esterne entrano, senza il nostro permesso, in questo spazio, possiamo percepirlo come un’invasione disagevole. Si può portare ad esempio quando ci troviamo in un ascensore troppo affollato, dove la distanza non è rispettata e si entra, seppur involontariamente, nella zona intima altrui e viceversa, avendo come reazione quella di non guardarsi negli occhi e di irrigidirsi.
  • La zona personale(da 50 cm ad 1 m.) è un pochino meno ristretta della precedente ed al proprio interno possono essere ammessi anche amici, colleghi e parenti meno stretti. Le comunicazioni che avvengono a questa distanza consentono di avere un tono di voce basso e di cogliere dettagliatamente espressioni e movimenti di chi sta parlando; da questa zona si può facilmente passare al contatto fisico.
  • La zona sociale (da 1 a 3/4 metri) è quella dove avvengono le interazioni anche tra persone sconosciute o poco conosciute e la distanza, mantenuta in questa zona, ci permette di vedere l’interlocutore a figura intera e di cogliere, quindi, i messaggi che arrivano dal corpo nella sua interezza, facilitando la comprensione delle sue intenzioni. Solitamente, in questa zona avvengono incontri di tipo formale, come incontri di lavoro o di affari, escludendo, quindi, la possibilità che l’incontro possa essere dovuto a motivi di reciproca attrazione.
  • La zona pubblica (oltre i 4 metri) è solitamente caratterizzata da una forte asimmetria tra chi parla e gli uditori; è quella in cui ci si trova quando si assiste o si è relatori ad un convegno, una conferenza, una lezione universitaria.

APTICA

Questa fase è costituita dai  messaggi comunicativi che avvengono attraverso il contatto fisico. Vi fanno parte tutti quei gesti, più o meno rituali, che ci ritroviamo a fare ogni qualvolta incontriamo o salutiamo una o più persone, ossia la stretta di mano, l’abbraccio, la pacca sulla spalla, il bacio sulle guance e così via.
Appare evidente che si passi da forme più codificate a forme più spontanee (come la stretta di mano nel primo caso o l’abbraccio nel secondo), in base al grado di confidenza tra le persone tenendo anche conto delle differenze culturali: infatti lo stesso gesto (il bacio sulle guance, ad esempio) può essere molto diverso e con diverso significato, in base al Paese dove ci si trovi o alle differenze culturali tra le persone che lo attuano.

CARATTERISTICHE FISICHE

Si considerano sia la conformazione fisica che l’abbigliamento. Le dimensioni e la forma del corpo sono composte da tre caratteristiche mutevoli, ossia l’altezza, il peso e la forma del corpo nella sua interezza (Argyle, 1992).

Fornisce importanti informazioni sugli individui ed influenza la formazione di impressioni oltre a rappresentare un supporto all’autopresentazione.
Vi sono ulteriori elementi che non sono modificabili a breve termine nel corso dell’interazione e comprendono la forma del volto, il colore e il taglio degli occhi, lo stato della pelle e di capelli, gli accessori, gli abiti e così via.
E’, però, vero che le caratteristiche fisiche non vengono percepite da tutti allo stesso modo, anche in base agli stereotipi condivisi dalle diverse culture di appartenenza, così come, sebbene le percezioni in merito a certe caratteristiche fisiche convergano in maniera statisticamente rilevante, le associazioni che ne derivano non possono essere considerate come “verità assoluta”, poiché  non è possibile comprovarle.
L’abbigliamento è l’aspetto della comunicazione non verbale meno oggetto di studio, poiché molto mutevole, in base alla moda del momento, anche se ci può fornire informazioni immediate riguardo alla nazionalità di un individuo o alla sua appartenenza religiosa (vedi l’abito talare del sacerdote, o il velo islamico o ancora la kippah delle persone appartenente a religione ebraica e così via).

Appare, comunque, evidente come l’abbigliamento possa essere associato ai diversi ruoli sociali e possa influire notevolmente sulle relazioni interpersonali, poiché influenza la percezione che gli altri hanno della persona stessa (Bonaiuto, Maricciolo, 2009).

L’importanza della comunicazione non verbale nella pratica della mediazione dei conflitti.                

Il mediatore familiare, o, più in generale, il mediatore dei conflitti, si trova ad “utilizzare” la comunicazione non verbale ogni volta che svolge un colloquio. Infatti, l’ascolto attivo avviene, anche, attraverso il contatto visivo, l’espressione del volto, oltre che attraverso il “parlato”.
L’intesa, spesso, si crea maggiormente attraverso il linguaggio del corpo che con le parole (Parkinson, 2013).
Allo stesso modo, il mediatore riceve, a sua volta, continui messaggi, attraverso il linguaggio non verbale, da parte della propria utenza, informazioni importanti se le saprà cogliere e leggere in maniera adeguata.

Cosa sta cambiando nel modo di lavorare del mediatore?

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Il SARS-CoV-2 ha, inevitabilmente, cambiato le nostre vite e con esse il nostro modo di lavorare.
Infatti, chi come il mediatore dei conflitti per lavoro effettua colloqui, si è trovato a dover rivedere la metodologia classica, in uso fino a prima del lockdown, ossia quella di ricevere le persone nel proprio studio, collegandosi con la propria utenza da remoto. Inevitabilmente, ci si è trovati davanti a criticità dovute alla “nuova” metodologia, per nulla scontata per chi è abituato a lavorare “in presenza”.
Dopo aver inquadrato la comunicazione non verbale, quindi, proviamo ora a capire quali siano le criticità che si possono rilevare quando un mediatore deve affrontare un colloquio o una mediazione online.
Appare subito evidente come l’incontro non di presenza limiti molto alcuni dei messaggi che arrivano dalla comunicazione non verbale, ma partiamo dall’inizio.
In un setting “normale” l’utente viene accolto, solitamente, con una stretta di mano e viene fatto accomodare dinnanzi a noi.
Come sicuramente avrete capito lo scambio di messaggi è già stato ampio, poiché vi è stato un primo contatto visivo, che ha evidenziato i movimenti oculari la mimica facciale (sguardo e sorriso, ad esempio)  seguito da un contatto fisico (stretta di mano) e una disposizione (in questo caso codificata, poiché la distanza e la posizione è decisa a priori da noi) nello spazio, ai quali seguiranno tutta un’altra serie di messaggi non verbali che verteranno sulla postura, sul movimento delle mani, delle gambe e così via.
Tutta questa parte di linguaggio non verbale, inevitabilmente, durante un colloquio da remoto, non potrà esserci e, quindi, una parte di informazioni che ne derivano andrà perduta.

Ma non disperiamo, perché ci rimane una componente essenziale della comunicazione non verbale e, nello specifico, del sistema cinesico, ossia la mimica facciale ed, in parte (in base all’inquadratura) anche il movimento delle mani e del busto (che può lasciare intendere come si stia muovendo la persona sulla sedia, ad esempio).
Oltre a questo aspetto, non dimentichiamo che, in un colloquio da remoto, tutta la parte paralinguistica della comunicazione non verbale (tono, volume, intonazioni, pause, silenzi), ossia tutto ciò che è legato alla voce, sarà a “nostra disposizione”. Quindi, tutte le informazioni non verbali che arrivano dai movimenti, volontari o meno, del volto, dalla voce e con essi alcuni movimenti del corpo (mani e busto) possono essere ugualmente colti e letti, permettendoci così di unirli ai messaggi verbali che arrivano dal nostro interlocutore.
Appare logico, pertanto, alla luce di quanto detto, asserire quanto sia importante comunicare al nostro interlocutore la necessità, ogni volta che sia possibile, di avere una sua immagine nitida, con una inquadratura che ci permetta di avere una visione completa del suo volto, se non, addirittura, di parte del busto.
Altrettanto, ovviamente, tutto questo dovrà essere assicurato da chi svolge il colloquio, cosicché si possa stare su un piano totalmente paritario a livello di informazioni che arrivano dal linguaggio non verbale.
Altrettanto importante e necessario è comunicare l’importanza di trovare, da parte dell’utente, una location che possa garantire la massima tranquillità, sia per garantire la privacy, sia per non avere elementi di disturbo o di distrazione che potrebbero influire sul colloquio stesso.
Starà, comunque, all’abilità personale e alla naturale propensione di ogni professionista, ma anche alle conoscenze in merito, saper adeguarsi al meglio alla nuova metodologia di lavoro che, se sfruttata nel migliore dei modi, potrà avere un risvolto positivo.
Basti pensare a come il collegamento da remoto, possa venire incontro a tutte quelle situazioni dove lo spostamento potrebbe risultare, per svariati motivi,  difficoltoso.
Un esempio, potrebbe essere rappresentato, dalla coppia che è già separata, ma ha bisogno della figura del mediatore familiare per rivedere le condizioni stabilite in separazione, in funzione del divorzio, ma che vive in città diverse.
Un percorso fatto, interamente online (o in parte) potrebbe facilitare molto i colloqui (ad esempio quelli di mediazione, dove è previsto l’incontro delle due parti per confrontarsi).

Saperli svolgere al meglio, quindi, non potrà che giovare a tutti, utenti e professionisti in primis.

Facis de necessitate virtutem”

Daniela Meistro Prandi         

 

Fonti:
”Interference of attitudes from nonverbale communication in two channels” Mehrabian A. & Ferris S.R.(1967)

”Il corpo e il suo linguaggio. Studio sulla comunicazione non verbale” Argyle M. (1992)

”La comunicazione non verbale” Buonaiuto M., Maricchiolo F. (2009)

“La mediazione familiare”L.Parkinson, 2013 p.159-161).

Tu chiamale, se vuoi, Emozioni

La nostra collega Daniela Meistro Prandi, qualche giorno fa, ha postato sulla sua pagina Facebook una domanda; una domanda di una semplicità assolutamente disarmante nella sua complessità.

Ha chiesto agli amici di Facebook:

“Quali sono state e quali sono le emozioni, i sentimenti (positivi o negativi) che hanno caratterizzato questo periodo?”.

Le risposte sono state tutte interessanti e non scontate; il fattore più emozionante nel leggerle è stata la loro assoluta onestà e semplicità… Un po’ come se ognuno di coloro che hanno risposto (me inclusa) attendesse che qualcuno chiedesse loro, in sostanza, “come stai?”.

Nel percorso di Ascolto e Mediazione (sia esso di mediazione familiare o di mediazione in altro ambito) chiedere al confliggente “come stai?” – cosa che, in effetti, facciamo all’inizio di colloquio individuale e/o di seduta di mediazione vera e propria – è un po’ come abbracciarlo e financo come abbracciare il conflitto. Equivale, in fondo, a dire:

“accomodati, qui potrai parlare liberamente, senza filtri, perché a noi interessa sapere cosa ti sta attraversando, per analizzarlo tutti insieme, in un rapporto paritario, senza necessità o ingombri di giudizio”.

“Come stai?” è una domanda che incontriamo tutti i giorni, nei nostri rapporti interpersonali Ed è una domanda alla quale spesso rispondiamo con un distratto e scontato “bene, grazie”. Ma racchiude tutto un mondo di sentimenti e stati d’animo a rischio di implosione.

Chiedere “come stai?”, in Mediazione, significa anche stringere un patto di lealtà con il confliggente.

Infatti, spesso, la risposta proposta nel primo incontro, cioè “Bene, grazie”, che è accompagnata spesso da una smorfia, a metà strada tra la diffidenza e la sorpresa, diventa, nel corso degli incontri successivi, più articolata e complessa, fino ad arrivare a manifestarsi in tanti sentimenti ed emozioni contrastanti.

E qui si apre la “fase 2” (!) dei mediatori, nei colloqui con i loro utenti: quella in cui si cerca di dare una forma ed un nome alle emozioni.

In qualche modo “legittimarle”, tutte… quelle c.d. “positive” e quelle c.d. “negative”.

La qual cosa non è facile, perché le emozioni non si trovano rinchiuse in cassetti a tenuta stagna; si trovano tutte in un unico contenitore – il confliggente, appunto – e premono per uscire.

Spesso i nostri interlocutori arrivano con un cuore ed una mente in tumulto; ed il primo conflitto che devono affrontare è proprio quello tra quei loro, diversi e contrastanti sentimenti, che li accompagnano e li attraversano.

In questo senso possiamo immaginare un colloquio, che è, ad un tempo, individuale e collegiale: ci siamo noi mediatori, c’è il nostro interlocutore-confliggente e c’è “tutta l’allegra compagnia” di emozioni in libertà, che hanno accompagnato il confliggente (e che, in qualche modo, lo hanno indirizzato fino a noi).

Il mediatore, attraverso un ascolto empatico, riuscirà poco alla volta a lavorare in sinergia con il confliggente per dare insieme un nome alle sue varie componenti emotive.

Ed allora si darà il “benvenuto” alla Tristezza, alla Rabbia, alla Frustrazione, alla Malinconia…ma anche all’Allegria, alla Consapevolezza, all’Orgoglio… E, quando si arriverà a dare un nome a ciascuna delle emozioni e dei sentimenti che accompagnano il nostro confliggente, allora si scoprirà che queste emozioni, se conosciute, non fanno più paura, ma anzi ci saranno utili per affrontare al meglio il percorso di mediazione e arrivare a delle risposte e/o soluzioni.

[Personalmente ho risposto “Gratitudine”, alla domanda di Daniela, ma di questo parlerò un’altra volta].

Monica Checchin

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Separazione e divorzio di coppie con figli adolescenti

La famiglia è uno dei valori fondamentali della società in cui viviamo in quanto rappresenta il “luogo” ideale dove poter esprimere pienamente i nostri bisogni ed i nostri desideri. La famiglia richiama idee di protezione e di cura, di supporto emozionale ed affettivo ed aspettative di condivisione di valori ma anche di regole e doveri. Infatti, la famiglia è caratterizzata da elementi sia normativi che affettivi e, in questo particolare periodo storico, il legame che contraddistingue il nucleo familiare è in prevalenza del secondo tipo.

Affinché funzioni nel migliore dei modi, quello che viene considerato il “sistema famiglia” deve poter promuovere il benessere e la crescita degli elementi che lo compongono facendo fronte ai cambiamenti al suo interno ed agli stimoli esterni che, a volte, possono minarne la stabilità. In tal senso molto dipende dal grado di adattamento ed alla compatibilità tra gli elementi che compongono il nucleo familiare, ma anche da quello che c’è tra la famiglia stessa ed i sistemi sociali che la circondano.

È evidente, quindi, come ci si possa trovare di fronte a svariate tipologie di famiglia, distinte dal grado di coesione e adattabilità e dalla capacità di utilizzare la comunicazione, sia al loro interno che verso l’esterno.

Possiamo parlare di “famiglia con funzionamento adeguato” quando il legame familiare viene visto come un processo in divenire nel quale i membri interni ed i loro legami con l’esterno sono in continua evoluzione e proprio per questo motivo devono essere riconosciuti (Scabini, 1995). Tutto questo avviene quando nella famiglia gli equilibri sono mantenuti, quindi, quando ci troviamo di fronte una coppia genitoriale salda e relazioni interne bilanciate.

Necessariamente diversa è la situazione che troviamo in una famiglia in cui i genitori hanno un rapporto conflittuale ed arrivano alla separazione. La fase della separazione è una delle fasi più delicate a cui la famiglia va incontro. Di per sé non rappresenterebbe un rischio di problematiche o malesseri successivi, ma tutto dipende da come questa viene affrontata, in particolar modo, dalla coppia ed in seconda battuta, ma non per importanza, dagli altri componenti della famiglia.

Nello specifico, proveremo a capire il punto di vista dei figli adolescenti.

Il punto di vista dei figli adolescenti

Quello dell’adolescenza è un periodo particolare, poiché l’individuo inizia ad arrivare ad una consapevolezza di sé e del mondo circostante che lo rende autonomo e responsabile, di conseguenza il cambiamento che avviene nelle relazioni con i genitori diventa punto cruciale nel processo di crescita e di individuazione, ma, allo stesso tempo, la famiglia rimane un riferimento importante.

È evidente come, nel caso di crisi della coppia genitoriale prima e di separazione della stessa poi, i vissuti dei figli adolescenti siano diversi da quelli di un bambino, poiché i primi arrivano a capire immediatamente la portata della crisi, dei litigi, con una visione che può essere più nitida di quella che hanno i genitori, coinvolti come sono nel conflitto. A differenza del bambino, l’adolescente non mette più in discussione il senso di sicurezza del sé, ossia non si assume le responsabilità della separazione, non vivendola più come abbandonica e non provando senso di colpa, fatto salvo per altri elementi relazionali più gravi.

Gli aspetti che vengono toccati sono quelli relativi al periodo stesso dell’adolescenza, ossia quelli che l’adolescente sta sperimentando in questa particolare fase della sua esistenza.

Come vive l’adolescente la separazione dei genitori?

Vediamo quali sono gli aspetti più importanti che l’adolescente sperimenta in questo ciclo della sua vita e dell’esistenza della sua famiglia. Il primo grande tema da affrontare è quello centrale, ossia quello del cambiamento.

La separazione dei genitori implica due grandi tipologie di cambiamento: da una parte quella “materiale”, quella che riguarda la casa, la scuola, la disponibilità economica, dall’altra quella “relazional-emotiva” che comprende la presenza o meno dei genitori nella vita quotidiana, il cambio di visione dacoppia di genitoriagenitori singoli”.

Per poter capire e metabolizzare il proprio cambiamento, quello legato al periodo adolescenziale, il minore avrebbe bisogno di un ambiente capace di rimandargli una situazione di continuità con il passato ed allo stesso tempo volta alla valorizzazione del futuro, ma questo difficilmente avviene durante la fase critica della separazione.

La coppia genitoriale è ora troppo impegnata a recuperare stabilità individuale all’interno della confusa dinamica della separazione stessa, tanto da non rendersi più conto delle problematiche che il figlio deve affrontare, quelle sue interiori e quelle dovute alla situazione che l’intero nucleo familiare sta vivendo e quindi dei suoi bisogni.

Ed ecco che l’adolescente potrà mettere in atto due tipi di reazione: una prima dove tenterebbe a non sovraccaricare oltre i genitori, negando o rimandando l’accoglimento di parti nuove di sé; la seconda canalizzando in maniera negativa la confusione ed i sentimenti contrastanti che ci sono in casa, andando così a sviluppare comportamenti reattivi o aggressivi.

Il processo di cambiamento richiede parallelamente, al suo interno, il processo identitario del “chi sono e cosa voglio”, riconoscimento dei propri vissuti ma anche dei propri desideri ed attitudini e sia l’adolescenza che la separazione sono momenti dell’esistenza nei quali questo meccanismo può incepparsi.

Sono gli adulti a fare da traino agli adolescenti durante il percorso di identificazione della propria identità, di conseguenza possono svolgere al meglio questo compito solo se consapevoli, in primis, di sé stessi e dei cambiamenti che loro devono affrontare come individui, in particolar modo, durante una fase così convulsa come quella della separazione.

Di grande importanza è un altro aspetto, ossia quello che riguarda il senso di responsabilità. È necessario che l’adolescente acquisisca senso di responsabilità delle proprie scelte rispetto all’altro. Durante la separazione dei genitori, ci si può trovare innanzi a diversi tipi di responsabilità che il figlio sviluppa nei confronti della situazione e dei genitori stessi. Ad esempio il figlio adolescente può sentirsi responsabile nei confronti del genitore che andrà a vivere fuori dal nucleo familiare rivisto, oppure dei fratelli e così via.

L’assumersi responsabilità, da parte di un individuo adolescente, deve avvenire per gradi e necessita di un affiancamento consapevole da parte degli adulti, che dovranno fungere da modello per i più giovani.

Può capitare che l’esperienza dolorosa, che vive il figlio durante la separazione dei genitori, possa scatenare vissuti di rabbia nei confronti del genitore che esce di casa, oppure di depressione per l’insostenibilità della situazione. In altre occasioni il figlio potrà tendere a sostituirsi alla figura genitoriale mancante, andando a consolare e sostenere l’altra, assumendosi, così, responsabilità da “adulto” che lo faranno sì crescere ma che lasceranno comunque un vuoto per quello che riguarda il bisogno fisiologico di avere una figura autorevole al suo fianco.

In ogni caso bisognerebbe lasciare che i figli si assumessero le responsabilità che sentono di riuscire a sostenere.

Strettamente legato al senso di responsabilità è il rapporto con le regole.

È chiaro che, seppur si tenda a lasciare che l’altro possa esprimersi liberamente per raggiungere la propria maturità, ci debbano essere regole (dettate dai genitori) atte a normare il percorso per il raggiungimento dei propri progetti e desideri, limiti che servono all’adolescente per capire il “quanto e il quando”, riconoscendo così in modo “controllato” sé stesso e le proprie ambizioni.

Nella coppia separata la situazione si complica per una serie di motivi, quali, ad esempio, l’assenza del padre nella quotidianità, figura che, nella maggior parte dei casi, viene vista come più autorevole e normativa rispetto a quella della madre più amorevole ed accudente, oppure il disaccordo della coppia genitoriale per quando riguarda le regole da dare ai figli, facendo così vivere agli stessi la frustrazione di due realtà distoniche.

Un altro aspetto molto importante e da non sottovalutare, che riguarda il periodo adolescenziale, è la confusione emotiva che l’adolescente vive in merito al riconoscimento delle proprie emozioni. Egli vive infatti in un perenne stato di sentimenti contrastanti quali la rabbia o la depressione, l’eccitazione e così via, emozioni che cerca al di fuori del proprio nucleo familiare ma che ha bisogno di esternare all’interno dello stesso, così da poter avere aiuto per contenere lo stato confusivo in cui viene a trovarsi.

Se i suoi vissuti, quelli che riporta in casa, non vengono decifrati e capiti, rischiano di trasformarsi in un sovraccarico emotivo che esplode in un conflitto emozionale tra genitori e figli.

Tutto ciò può essere amplificato ed aggravato da una situazione di crisi della coppia genitoriale o ancora in una coppia separata dove gli equilibri sono fragili e gli adulti faticano a regolare la propria esperienza emozionale non riuscendo, o riuscendoci male, a far fronte a quella dei figli.

Quali sono i disagi che vive il figlio adolescente?

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È da tener ben presente che, quando due fasi così delicate, come il periodo adolescenziale, da una parte, e la separazione dei genitori, dall’altra, vanno a coincidere e quindi a sovrapporsi, le forze in gioco, per far sì che possa andare verso un accrescimento della consapevolezza personale, saranno molteplici e le competenze diventeranno prettamente di tipo emotivo e relazionale.

Non sempre però le figure genitoriali di riferimento riescono a mettere in campo forze ulteriori, poiché debbono già far fronte alla delicata situazione in cui si trovano a causa della separazione, quindi possono comparire nei figli adolescenti determinati disagi (non sempre del tutto ascrivibili, in toto, alla separazione) i cui segnali non sono mai da sottovalutare.

Primo tra tutti è quello relativo alle difficoltà che possono emergere nell’ambito scolastico. Quando l’adolescente non presenta il giusto investimento personale nei confronti dell’impegno scolastico, è evidente che stia dando un forte segnale, una richiesta di attenzione che non bisogna ignorare poiché può sottendere a seri disagi.

Altro segnale da non sottovalutare può arrivare dagli sbalzi d’umore, caratteristici sì dell’età evolutiva, ma che se protratti per fasi molto lunghe (ad esempio l’alternanza di depressione o di aggressività) possono essere sintomo di disagio psicologico.

Le fasi depressive, caratterizzate da apatia, tristezza, tendenza ad isolarsi, sono meno riconosciute dal genitore poiché meno “disturbanti”, ma altrettanto pericolose per il corretto sviluppo psicofisico dell’adolescente.

Al contrario le fasi aggressive vengono spesso sopravvalutate perché molto evidenti ed “ingombranti”, non capendo che il conflitto è fisiologico ed eventuali eccessi di ira o rabbia possono essere placati dando al ragazzo la possibilità di riconoscere di aver esagerato, aiutandolo così ad autocalmarsi e a scusarsi per il comportamento tenuto.

Vi sono poi altri tipi di comportamento messi in atto dagli adolescenti, volti ad attirare l’attenzione dei genitori, e questi sono comportamenti tipicamente antisociali, nello specifico atti vandalici, fughe di casa, piccoli furti, liti con il gruppo dei pari o atti di bullismo, che, alcune volte, si accompagnano all’uso di sostanze stupefacenti e a quello di alcool, sostanze utilizzate per una “fuga dalla realtà”, per allontanare, anche se solo momentaneamente, emozioni negative e vissuti di difficile gestione.

Vi è una differenza di genere: infatti, i comportamenti sopra descritti appartengono in prevalenza ai maschi, mentre le femmine tendono ad esprimere il loro disagio, la loro sofferenza, con una modalità legata all’emotività.

Quindi, la separazione dei genitori è da considerarsi un problema oppure no?

È sicuramente più logorante e deleterio per la salute psichica del minore vivere in un contesto familiare all’apparenza unito ma molto conflittuale, rispetto a vivere in una famiglia con genitori separati che hanno raggiunto un buon grado di stabilità ed armonia. Infatti, per il minore è molto più importante la qualità delle relazioni tra i membri della famiglia, più che la separazione in sé. (Cigoli, 1997). Nelle famiglie ad alto livello conflittuale si è osservato come la coesione, l’impegno emotivo, gli scambi comunicativi, siano molto scostanti e superficiali mentre, al contrario, quelle con più basso livello di conflitto coniugale siano più aperte alla relazione e all’interazione.

Dalla separazione dei genitori il figlio può trovare possibilità di crescita ed aumento delle proprie risorse personali, che lo potranno aiutare ad affrontare future problematiche di vita. La capacità di elaborare questa dolorosa e difficile esperienza potrà rafforzare la tolleranza delle sofferenze che la vita, inevitabilmente, riserva (resilienza).

Inoltre l’integrazione di nuove figure, siano essi adulti o minori, all’interno della rimodellata costellazione familiare, può aumentare le capacità relazionali, rendendo più duttili verso le nuove esperienze, dimostrando di essere in grado di integrare in maniera efficace e funzionale nuove parti di sé in relazione con gli altri.

Andando quindi ad analizzare quali siano i fattori che possano determinare una maggiore o minore problematicità legata alla separazione coniugale, i più importanti sono, in primis, la visione di famiglia che l’adolescente fa sua durante la fase critica, la qualità della relazione instaurata dai genitori dopo la separazione e la presenza o meno di relazioni stabili e regolari tra i genitori (presi singolarmente) ed i figli e, infine, la rete relazionale familiare allargata (parenti, nuovi partner, amici) la quale deve essere consistente e funzionale per poter essere efficace.

Notevole peso avranno anche le risorse personali degli adolescenti stessi (resilienza) ed il contesto sociale e culturale in cui essi sono inseriti.

Daniela Meistro Prandi

Tratto dalla Tesi di fine Master (edizione 2015/2017) di Daniela Meistro Prandi, “La mediazione familiare in coppie con figli adolescenti: la gestione del conflitto nel conflitto.”
Fonti:
SCABINI E. “Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo di legami e trasformazioni sociali”, Bollati Boringhieri, Torino (1995).

CIGOLI V., “L’albero della discendenza. Clinica dei corpi familiari” (1997).

La mediazione tra Eros e Thanatos durante la pandemia

Riducendo in pillole la teoria conflitto tra Eros e Thanatos, proposta da Sigmund Freud nel suo saggio, di 100 anni fa, “Al di là del principio di piacere” (Jenseits des Lustprinzips), nell’animo umano e nella natura ci sarebbero le pulsioni di morte, identificate sotto il nome comune di Thanatos, e le pulsioni di vita, indicate con il nome di Eros, che inglobano le pulsioni sessuali e sono alla base dei comportamenti, umani e non, mirati alla conservazione e allo sviluppo della vita. Sicché il termine Eros sarebbe riferibile a tutte le pulsioni costruttive e vivificanti, mentre Thanatos, cioè la pulsione di morte, rappresenterebbe la tendenza umana verso l’aggressività, la stagnazione e la distruzione. In altre parole, Thanatos sarebbe la tendenza di ogni essere vivente a ritornare al suo stato inorganico originario [1].

In questo periodo, il richiamo, più in termini di suggestione che di chiave interpretativa, al conflitto tra Eros e Thanatos può aiutare a soffermarsi sulle lacerazioni, sulle contraddizioni e sui paradossi che viviamo da due mesi. E può offrire uno spunto per osservare quelle ricadute conflittuali – non solo interne a ciascuno di noi, ma anche interpersonali e, forse, perfino quelle collettive – che paiono sortire dal groviglio di istanze contrastanti nel quale il COVID 19 ci ha avviluppato.

Il conflitto tra Eros e Thanatos come conflitto tra Sanità e Coronavirus e contro la strumentalizzazione dello spirito di servizio degli operatori della Sanità

C’è, infatti, un palese conflitto tra la vita (Eros) e la morte (Thanatos) disputato nei termini di lotta tra salute e malattia, tra sanità e COVID 19, e che si combatte sul fronte nel quale agiscono – e troppo spesso si ammalano o addirittura muoiono – i professionisti della sanità e coloro che svolgono attività definite essenziali. Ebbene, costoro impegnati ad arginare il dilagare della morte, si trovano coinvolti anche in un altro, sovrastante e sottostante, conflitto, che rischierebbe di essere sotterraneo se non fosse che è stato smascherato. Infatti, si può dire che è stato svelato nel momenti in cui quei lavoratori hanno preso posizione esplicitando che non ci stanno a sentirsi definire eroi: cioè, dal momento che il loro agire è riconducibile a quel che Giovanni Falcone, con sublime semplicità, spiegò essere la sua principale motivazione, il semplice “spirito di servizio”, non ci stanno ad essere lusingati, incensati e blanditi, così da poter essere strumentalizzati e sfruttati, oggi, e magari sacrificati e azzittiti, domani; in altri termini, non ci stanno ad essere de-umanizzati, ridotti ad un’etichetta, ad un simbolo astratto; tanto più che non occorre essere discepoli di Freud per sapere che all’idealizzazione infantile può seguire a brevissimo giro una non meno puerile – e spesso programmata – demonizzazione. Insomma, a questo riguardo, c’è un altro conflitto, presente, che si connette ad una conflittualità preesistente (quella da decenni dilagante in ambito sanitario e, segnatamente, sul piano del contenzioso per responsabilità professionale e delle aggressioni ai danni degli operatori) e ne annuncia una futura, assai probabile, dove sotto peculiari vesti Eros e Thanatos si fronteggiano paurosamente.

Il conflitto tra Eros e Thanatos riguardo all’indecifrabilità del futuro

Il conflitto tra Eros e Thanatos, cioè tra l’istinto di vita e quello di morte, però, è anche quello tra, da un lato, la possibilità di ciascuno di noi di pensare e pensarsi nel futuro, quindi di immaginarlo, anche con slanci idealizzanti, e dall’altro, la difficoltà, se non l’impossibilità, di farlo. Quella che viviamo tutti, infatti, in un certo senso, è una sorta di esperienza di morte: come (mettendo da parte l’elemento della fede) nessuno sa con certezza se c’è un Aldilà e, se c’è, com’è, così ora viviamo una simile indicibilità sull’Aldiquà, ossia un’impossibilità di prefigurare nitidamente il poi, gli scenari venturi della nostra esistenza. Come sarà la nostra vita tra un mese, tra sei mesi, tra un anno? Nessuno è in grado di dirlo con ragionevole sicurezza. Cioè, non con quel livello di affidabile approssimazione di cui eravamo capaci prima. Ad esempio, non sappiamo dire con certezza se ci sarà un post-Coronavirus, inteso come completo ripristino della situazione anteriore, o se l’emergenza sia destinata a diventare, in qualche modo, un nuovo sistema, una consuetudine: insomma, una nuova realtà destinata a soppiantare la precedente, finché quest’ultima non sbiadirà nelle dimensioni di un nostalgico ricordo.

Il miscuglio di paure in quel conflitto tra Eros e Thanatos  che è la dialettica tra Lockdown e diffusione del Coronavirus

Per contenere la diffusione del Coronavirus e ridurre le probabilità in favore del dominio dell’epidemia, infatti, abbiamo dovuto chiudere e rinchiuderci, interrompere e serrare, insomma fermarci. E ci è toccato arrestare anche le nostre pulsioni di vita (Eros) ad andare, ad uscire, a muoverci, a fare, a lavorare… Ci è toccato bloccare la nostra tendenza al movimento, che è, per definizione, la vita, la nostra innata propensione a non fermarci, per evitare di essere bloccati per l’eternità, cioè per non cadere nelle fauci di quella morte (Thanatos) rappresentata dal Coronavirus.

Pertanto, c’è anche uno scontro tra le vitali ragioni dell’economia – che, per ciascuno di noi, nel concreto, hanno nomi diversi (impiego, impresa, lavoro, reddito, scuola, affitto, ecc.), ma che, comunque, rinviano al vivere o al sopravvivere – e quelle della salute, che per noi è ancor più preliminarmente vitale: dato che non si può andare a lavorare, né si può consumare, se si è malati, moribondi o morti.

Il distanziamento fisico come comportamento mortifero di prevenzione della morte

Il punto è che tanti fondamentali diritti (e doveri) sono sospesi perché ci è vietato di assecondare ed esprimere il nostro essere animali sociali, se non entro i limiti e le modalità consentite dalla tecnologia.

Il divieto di abbracciarsi, baciarsi, stringersi la mano, ecc., però, pone in ancor maggiore risalto il fatto che viviamo una specie di cortocircuito nelle nostre pulsioni di vita: è come se il nostro istinto di vita, per non essere meramente teorico e per non tradursi in condotte potenzialmente attuative di un istinto di morte, dovesse sottomettersi – parzialmente, ma in misura rilevantissima – proprio a Thanatos. In breve, seguendo Eros, cioè l’istinto di sopravvivenza, dobbiamo avere negli ambiti più importanti dell’esistenza, dei comportamenti che, di per sé, sono etichettabili come deprimenti e depressivi. Quindi dobbiamo avere delle condotte riconducibili al regno di Thanatos, almeno astrattamente, secondo quanto abbiamo immagazzinato nel nostro immaginario consueto, nei nostri schemi tradizionali.

Dai rapporti impediti a quelli imposti

Peraltro, sarebbe bene anche riconoscere, senza patetiche strizzatine d’occhio né superficiali sottovalutazioni, che questo vincolo del “distanziamento fisico” dà luogo anche all’impossibilità per moltissime persone di avere relazioni e rapporti sessuali, con tutti i significati e i risvolti personali, affettivi ed emotivi che ne conseguono. Ma l’obbligo di restare a casa costringe anche ad un ininterrotto stare insieme. Così, anche a chi non si è ammalato o non ha subito dei lutti, anche a chi non vive in un locale di pochi metri quadri con altri quattro o più famigliari, anche a chi non ha perso il lavoro o non sta vedendo squagliare tutto quel che ha investito nella propria impresa, insomma anche a chi non ha patito l’urto violento del Coovid-19, è diventato spettacolarmente evidente il disagio derivante dal distanziamento fisico: stare rinchiusi per giorni, per settimane e per mesi non ha alcuna parentela con il concetto di intervallo, di ricreazione o di vacanza. Anzi, è una notevole fonte di stress anche perché sottopone ad una tensione considerevole i rapporti e i legami tra le persone.

La difficile mediazione del conflitto tra Eros e Thanatos

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Questo conflitto tra Eros e Thanatos così bizzarro, in cui le esigenze e le attitudini vitali sembrano avere un risvolto mortale, mentre quelle tipicamente mortifere hanno una valenza precauzionale, in parte, può spiegare perché non è così facile riuscire a restare tutti insieme, uniti e solidali, di fronte alla comune minaccia del COVID 19.

In conclusione, forse, oggi ancor più di ieri potremmo legittimarci a riconoscere quanto il complicato intreccio conflittuale tra Eros e Thanatos sia capace di contagiarci. In astratto, infatti, è facile ammettere che Eros e Thanatos non possono che coesistere; com’è scontato, in teoria, pensare che la vita presuppone la morte e viceversa. Ma quando si passa dalla speculazione astratta al quotidiano, ai problemi pratici, ai bisogni e alle esigenze fondamentali delle persone e di intere popolazioni, ci si misura con l’aspra concretezza di questa realtà; e non è detto che si riesca a conservare in primo piano quelle consapevolezze, né che si riesca ad attenuare il nostro dolore, la nostra rabbia o il nostro sgomento.

Sul piano individuale, allora, può non essere una cattiva idea autorizzarsi a chiedere aiuto, sapendo che accanto a svariate forme di aiuto (molte delle quali offerte gratuitamente), come quelle costituite, ad esempio, dai servizi di sostegno psicologico, c’è anche la mediazione familiare e dei conflitti in famiglia[2]

Sul piano collettivo, poi, la mediazione, non come pratica operativa professionale ma come competenza, attitudine e paradigma, specie se fondata sull’ascolto e sull’apertura al riconoscimento dell’altro, può aiutare a prevenire il rischio che questo confuso e confondente conflitto tra Eros e Thanatos oscuri il fatto che tendenzialmente tutti si rappresentano come schierati dalla parte di Eros, non certo da quella di Thanatos, e che dia luogo a pericolosissime degenerazioni: ad esempio, producendo schieramenti contrapposti, creando fazioni, scatenando l’odio tra chi sostiene l’idea di una rapida riapertura, “perché ha paura della morte per fame”, da un lato,  e chi, invece, ritiene meglio proseguire il Lockdown, “perché ha paura della morte per Coronavirus”, dall’altro, portando entrambe le “scuole di pensiero” ad essere oggetto di delegittimazioni e de-umanizzazioni e ad accusarsi reciprocamente di “essere dalla parte di Thanatos, cioè della morte”.

Alberto Quattrocolo

[1] In quell’opera del 1920, Freud proponeva il conflitto tra Eros e Thanatos come conflitto psicologico, mutuando tali termini dalla filosofia empedoclea, secondo la quale vi sarebbe un dissidio cosmico fra il principio di Amore (o Amicizia) e quello di Odio (o Discordia). Scrisse, infatti, Freud che la «dottrina di Empedocle» è così prossima «alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un’unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. […] I due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos (discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.»

[2] I servizi di mediazione dei conflitti (tra i quali non si può non segnalare il servizio gratuito Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione e Sostegno Educativo, offerto da Me.Dia.Re. e dalla Cooperativa Il Ricino con il supporto fondamentale della Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “Insieme andrà tutto bene”) cercano, infatti, di accogliere e riconoscere la nostra umanità e di aiutarci a gestire le nostre relazioni conflittuali, che siano o meno legate a questa “versione 2020” del conflitto tra Eros e Thanatos.

 

Il bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus

Con il dilagare dell’epidemia, in mezzo al dolore e alla morte, si sviluppano anche nuove relazioni conflittuali e, probabilmente va presentandosi anche un nuovo, o almeno un maggiore, bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus.

Qualcosa (di enorme) è cambiato

L’espressione “era del Coronavirus” si collega alla constatazione un po’ ovvia che verosimilmente l’umanità potrebbe trovarsi davanti ad un cambiamento, epocale, di portata globale e dalle implicazioni ancora per lo più imprevedibili, ma presumibilmente profonde. Appare plausibile ritenere che non soltanto le nostre vite individuali, ma le nostre società saranno solcate da questa cesura: prima e dopo il Coronavirus.

Questa pandemia sembra, infatti, dare luogo a qualcosa che segnerà il futuro in maniera ancora indecifrabile ma potente. Ci sarà, appunto, un prima e un dopo. Come, limitando lo sguardo al Novecento, ci fu un prima e un dopo la Prima Guerra Mondiale, un primo e un dopo la Grande Depressione del 1929, un prima e un dopo la Seconda Guerra Mondiale, un prima e un dopo la Shoah, un prima e un dopo le detonazioni atomiche su Hiroshima e Nagasaki, un prima e un dopo la caduta del Muro di Berlino. Dopo ciascuna di queste svolte si è aperta una nuova epoca. Ad ogni svolta perdemmo alcune certezze e ne acquisimmo altre, prima impensate. Apprendemmo cose nuove, prima inesplorate, spesso atroci e terribili. Sotto certi profili, perdemmo una sorta d’innocenza, d’ingenuità o di ignoranza. Non è troppo audace pensare quindi che dopo il Coronavirus le cose non saranno più esattamente come prima, anche se non sappiamo ancora predire come saranno.

Ma per ora noi siamo ancora completamente avvolti dal presente e riguardo al futuro non abbiamo che un vissuto di incertezza, di preoccupazione, di inquietudine e di stentata pianificazione a breve termine. Se già la crisi economica del 2011 (ancor più di quella del 2008) ci aveva scaraventato nell’instabilità e nell’insicurezza, ancora più destabilizzante appare, al momento, l’era del Coronavirus, che ci proietta in un vortice di punti interrogativi e ci costringe alla conta (approssimativa) dei morti, degli ammalati e dei contagiati .

L’eccezionalità quotidiana

Tornando agli interrogativi sul presente, quindi, sappiamo tutti di trovarci in una situazione eccezionale. E tutti, o quasi, supponiamo che sia un’eccezionalità destinata a durare forse per mesi, forse per anni. Tutti, verosimilmente, in fondo, temiamo che sia un’eccezionalità suscettibile di diventare una nuova normalità.

Ma che si volga lo sguardo rivolto all’orizzonte o a pochi centimetri dal naso, ci tocca, comunque, fare i conti con le infinite implicazioni di quanto sta accadendo a noi e attorno a noi. E, a questo proposito, circoscrivendo l’orizzonte al campo relazionale è possibile intravvedere qualcosa di emergente sul piano della conflittualità. Qualcosa che, in termini un po’ superficiali e sbrigativi può definirsi, un bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus, che non è verosimilmente lo stesso di alcune settimane fa [1].

Non è detto che restare a casa sia uno spasso o un momento di ricreazione

Che questo supposto bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus possa non essere sovrapponibile a quello fino a ieri emerso, in verità, può collegarsi ad aspetti molto contingenti: ad esempio, i dissensi interni ad un nucleo famigliare circa la maggiore o la minore propensione, fin dall’inizio, a farsi delle illusioni circa la possibilità che le misure di distanziamento sociale potessero avere breve durata. Inoltre può legarsi alle diverse valutazioni interne ad un gruppo più o meno ampio di persone, circa l’eventualità che dal rispetto della regola di restare a casa possa derivare un prevalente risvolto positivo, sul piano soggettivo, per la vita della stragrande maggioranza dei cittadini.

A tal proposito, in termini generali, al di là delle frizioni interne alle famiglie relative ai modi di reagire ai divieti in corso, l’avverarsi dell’eventualità che il lato luminoso del restare chiusi in casa possa trionfare sugli altri aspetti, cioè quelli del disagio, ovviamente, dipende da una molteplicità di fattori. Ad esempio, il miglioramento  derivante dall’avere un maggior tempo per se stessi (per stare con i propri cari, per stare con se stessi, per leggere, per guardare dei bei film, eccetera) può prodursi quando si ha la possibilità di scegliere se e per quanto tempo prendersi questa licenza sabbatica e, soprattutto, quando ci sono davvero le condizioni che permettono di fare di necessità virtù, sfruttando l’isolamento per prendersi maggiormente cura di sé. Non è tanto facile, invece, che ciò accada quando si è costretti a restare a casa e, a maggior ragione, quando le condizioni sono ulteriormente limitanti e disagevoli.

Infatti, banalmente: non tutti vivono in mezzo ai prati o hanno almeno un giardino o un cortile in cui pendere una boccata d’aria; non tutti hanno un terrazzo o un balcone per prendere qualche raggio di sole; non tutti hanno un appartamento di tot metri quadri e di tot stanze, così da poter avere una minima privacy e, soprattutto, così da non intralciarsi di continuo; non tutti hanno la possibilità di una connessione ad internet e non tutti hanno un computer; non tutti hanno una casa; non tutti scoppiano di salute, anche se non sono ammalati di Coronavirus; non tutti sono immuni dalla depressione o da altre cause di sofferenza psicologica; non tutti finora hanno felicemente convissuto sotto lo stesso tetto; non tutti hanno la fortuna di non avere partner o famigliari violenti e maltrattanti.

In generale, poi, l’irruzione dell’emergenza epidemica nella nostra quotidianità ha assai più che sconvolto le nostre abitudini. È andata ad intaccare alcuni aspetti fondamentali della nostra vita. Ha limitato, restringendone vertiginosamente le possibilità di esercizio, i nostri principali diritti di libertà: quelli garantiti in tutte le democrazie degne di questo nome e che nel nostro Paese e nelle altre democrazie liberali, fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla sconfitta del nazifascismo, non erano più stata messe in discussione. Mi riferisco a diritti come le libertà di movimento, di circolazione, di riunione, di manifestare pubblicamente le proprie idee e la propria fede, di comprare e di vendere, d’impresa, tanto per citarne solo alcuni. Altro che aperitivi e aperi-cene!

Questo maledetto Coronavirus ci toglie i diritti fondamentali e perfino i “pre-diritti”

Ma questo maledetto virus ci toglie qualcosa di più, qualcosa che sta prima dei diritti, qualcosa che non ha neppure mai avuto bisogno di essere garantito da un’apposita norma: infatti, si tratta di qualcosa che non è descritto né garantito esplicitamente dalla nostra Costituzione, come non lo è dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 (se non, forse, in qualche modo indiretto, nell’art.12). È probabilmente qualcosa di pre-giuridico, una sorta di “pre-diritto”: non mi riferisco al diritto alla vita, che è, invece, legalmente previsto; mi riferisco al “diritto” (tra virgolette) di dire ciao da vicino, di stringere una mano, di abbracciare o baciare, perfino di far visita o di accogliere nella propria casa le persone a cui si vuole bene. Figli, madri, padri, mariti e mogli, sorelle e fratelli, zii e nipoti, ecc., amici, sono costretti a restare separati, se non vivono sotto lo stesso tetto. L’epidemia ha posto un veto all’espressione della nostra natura di animali sociali, ha quasi annullato la possibilità delle più naturali manifestazioni affettive e ha fortemente condizionato la spontaneità nei rapporti umani.

Non possiamo neppure esercitare molti diritti-doveri, come quello di lavorare. Siamo costretti a restare in casa. E questo comportamento è l’adempimento di un dovere civico supremo. È il principale e prevalente modo in cui ciascuno di noi può dare attuazione ai propri doveri di solidarietà sociale, politica ed economica previsti dall’art. 2 della nostra Costituzione (ne abbiamo parlato nel post La campana della solidarietà sociale). Mentre chi il diritto-dovere di lavorare è tenuto ad esercitarlo ancora, lo fa a rischio della propria salute e di quella dei propri cari.

Non siamo in guerra, ma siamo immersi in un conflitto strano e in diversi conflitti intrecciati tra di loro

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Parliamoci chiaro: non è una guerra quella che stiamo vivendo. Le guerre sono quelle che si svolgono tutt’ora in troppi Paesi e che in queste settimane sono quasi del tutto sparite dai nostri notiziari. Come sono pressoché evaporate le notizie sulle condizioni di profughi e migranti, a partire dai bambini, dalle donne e dagli uomini vittime di una disumanità continentale imperdonabile nei campi di Moria e di Lesbo .

Però, guardando le cose dal vertice osservativo di chi, come questa Associazione, si occupa anche e soprattutto di mediazione e, in generale, di gestione dei conflitti, be’, sì, siamo in conflitto e siamo in una situazione potenzialmente generativa di nuovi conflitti e di acutizzazione di quelli preesistenti.

Si tratta di un conflitto strano, nel quale ad agire sono prevalentemente i lavoratori della sanità e quelli di pochi altri settori (cosiddetti essenziali). Per tutti gli altri c’è un’inazione che sembra immergerci in atmosfere di tensione impalpabile e sfibrante, di inquietudine passiva come quelle evocate nei racconti e nei romanzi di Joseph Conrad, come La linea d’ombra. Però, non mi risulta che sia mai stato scritto un racconto, un romanzo o una sceneggiatura esattamente sovrapponibile alla realtà di questa pandemia.

Come ha scritto Monica Checchin in un post che abbiamo pubblicato sulla rubrica Riflessioni, intitolato Conflitti virtuali e conflitti virtuosi, lo spiazzamento che ci procura questo conflitto è determinato anche dalla natura ambigua, ambivalente e contraddittoria delle sue implicazioni.

Questa minaccia, che espone tutti al pericolo e sfugge ad ogni possibile individuazione e controllo, ci obbliga ad interazioni solo a distanza e contemporaneamente ci pone, con sfacciato paradosso ed evidente contraddizione, nella costrizione di “convivenze forzate ventiquattr’ore su ventiquattro”. Cioè ci mette in condizioni che, se possono procurarci possibilità relazionali e di altra natura fino a poche settimane fa impedite o ridotte dai ritmi severi del tran-tran quotidiano, possono anche mettere a dura prova i nostri rapporti personali, inclusi quelli più consolidati.

In previsione della crescita di un maggiore bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus …

Da qui, dunque, l’impressione di un crescente, forse in larghissima misura ancora non consapevole, bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus (e, quindi, l’offerta del Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione da parte dell’Associazione Me.Dia.Re.).

Perché, se alla crescente sensazione della presenza di una sorta di nemico tanto impercettibile quanto insidioso, aggiungiamo le ansie e le preoccupazioni per il presente e il futuro su aspetti fondamentali dell’esistenza (la salute fisica e mentale, i rapporti con i famigliari e con altre persone significative, il lavoro, il reddito, la scuola), si può facilmente comprendere come stress, paure e  frustrazioni possano dare luogo a nuove (anche solo nel senso di aggiuntive) difficoltà di condivisione e di supporto reciproco, traducendosi in fattori emotivi favorenti l’assunzione di atteggiamenti o condotte conflittuali.

Quindi, se la costrizione alla permanenza in casa può produrre l’innesco di problemi di comunicazione, nei termini di un’esasperazione di dinamiche conflittuali preesistenti (per fare un solo facile esempio, si pensi alla coppia che aveva deciso di separarsi), oppure di una slatentizzazione di quelle fino a quel momento controllate, non è meno probabile l’avverarsi di incomprensioni e tensioni anche tra famigliari, i quali, non trovandosi nella stessa abitazione, proprio per l’impossibilità di incontrarsi e frequentarsi, sviluppano rilevanti difficoltà di dialogo [2].

Ancora più Ascolto nella Mediazione

Anche sul fronte della gestione dei conflitti, perciò, la realtà impone un cambiamento. E questo cambiamento non riguarderà solo l’aspetto tecnologico, ma anche molti altri. Ad esempio, è facile prevedere che anche la metodologia subirà nella pratica degli aggiustamenti. Naturalmente, per quanto riguarda Me.Dia.Re., ciò non significa che rinunceremo al significato e al valore più profondo dell’approccio empatico, che mira a far sentire ascoltate e comprese, quindi non giudicate ma riconosciute, le persone. Significa, invece, che, probabilmente, dovremo sforzarci di procurare la percezione della vicinanza, a dispetto della separazione fisica, dell’empatia appunto, superando il limite di una compresenza solo virtuale. Insomma, dovremo continuare a svolgere appunto nella nuova realtà un’attività che sappia corrispondere davvero al bisogno di ascolto e mediazione nell’era del Coronavirus.

In qualche modo, riuscire ad ascoltare empaticamente anche in tali mutate condizioni è una sfida. In verità, modesta, a ben vedere, se rapportata ad altre: cioè, non è neppure lontanamente confrontabile con quella affrontata dai professionisti della sanità, che da settimane si trovano, per così dire, a mani nude, a combattere contro il Coronavirus, dovendo gestire mille difficoltà, di ogni tipo, e dovendo sopportare costi personali incalcolabili, mentre si sforzano di garantire prossimità umana ai loro tanti, troppi, pazienti.

Alberto Quattrocolo

[1] Perciò, l’Associazione Me.Dia.Re., stando nel perimetro di ciò che le compete, ha attivato delle nuove forme gratuite di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, pensandole, per ora, come eccezionali, ma cominciando anche a pensare che sia un’eccezionalità di durata indefinita. Naturalmente l’eccezionalità non è collegata al carattere gratuito di tale servizio. Perché in questo fatto non c’è alcuna straordinarietà, né in generale, né rispetto alla tradizione dell’Associazione, che fin dai suoi albori, circa vent’anni fa, ha sempre erogato prevalentemente forme di sostegno gratuite. E lo fa ancora: il Servizio SOS CRISI, i servizi di giustizia riparativa e di mediazione penale, i servizi di ascolto e sostegno per le vittime di reato e per le donne vittime di violenza, i servizi di sostegno psicologico per minori stranieri richiedenti asilo e rifugiati o non accompagnati e per richiedenti asilo e rifugiati adulti.

No, l’eccezionalità consiste nel duplice fatto che il servizio gratuito Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione si configura come:

  • un sostegno da remoto, cioè si declina mediante colloqui on line e/o telefonici;
  • un’attività di Ascolto e Gestione dei Conflitti e di supporto e facilitazione della comunicazione interpersonale per le persone e/o le famiglie che, anche a causa delle misure di distanziamento sociale, si trovino a vivere  delle difficoltà relazionali o delle condizioni di aperta conflittualità.

In altri termini, questo Servizio cerca di fronteggiare e – entro i limiti delle nostre possibilità e capacità – di anticipare la nuova realtà in cui tutti siamo immersi, rapportandosi ad alcuni dei bisogni emergenti da essa

[2] Infatti, tra le persone ascoltate finora nell’ambito del nuovo Pronto Soccorso Ascolto e Mediazione abbiamo già riscontrato una ricca gamma di situazioni riconducibili a quelle sopra esemplificate e ad alcune altre ancora. In queste ultime due settimane, infatti, ci sono arrivate molte richieste esplicite di supporto per difficoltà relazionali e di convivenza, ed è stato un fatto inizialmente sorprendente e un po’ spiazzante per noi di Me.Dia.Re., che non ci eravamo mai sognati di erogare da remoto dei servizi di mediazione  (si trattasse di mediazione familiare, di mediazione penale, o di mediazione dei conflitti nei luoghi di lavoro, in ambito sanitario e in altri ambiti istituzionali, sociale e relazionali). Per carità, era capitato in alcune occasioni di ricorrere a Skype, per rimediare ad ostacoli insormontabili, ma si trattava di eccezioni rarissime, che confermavano la regola. La stessa che informava tutti gli altri servizi di supporto vittimologico e psicologico, tutte le attività di consulenza e di supervisione e tutti i corsi e tutte le formazioni.

 

La caccia alle streghe

“La caccia alle streghe è la ricerca di persone o di prove di stregoneria, spesso legate a superstizione o isteria di massa.
Storicamente in Europa e in America riguarda il periodo che va dal 1450 al 1750 e comprende l’era della Riforma protestante, della Controriforma e della Guerra dei trent’anni. ( …)  Metaforicamente con caccia alle streghe si intende un’indagine pubblica condotta per scoprire supposte attività sovversive.”
(Fonte:Wikipedia) [1].

In questi giorni difficili, nei quali sono state modificate le nostre abitudini quotidiane, ci è stato proibito il contatto umano, giorni nei quali l’unico modo per esternare il nostro disappunto, il nostro malessere, la nostra frustrazione, è l’utilizzo dei social, si osserva il ritorno prepotente del fenomeno che ho citato sopra e dal quale ho preso spunto per scrivere queste mie riflessioni, ossia il ritorno della Caccia alle streghe.


Ma chi sono queste streghe e chi sono i cacciatori?

Potenzialmente lo siamo tutti, perché, a mio avviso, sono due ruoli intercambiabili, in base alla posizione che ci troviamo ad occupare in un determinato momento e in uno specifico contesto.
Provo a spiegare meglio la mia osservazione.
Non più tardi di ieri, girovagando, senza meta precisa, su facebook, mi sono imbattuta in lungo post, nel quale l’autore descriveva, con minuzia di particolari, una scena che aveva visto dal balcone di casa, casa dove lo scrivente riteneva di essere “recluso”, poiché ligio alle regole imposte dall’ordinanza nazionale, mentre le persone che stava osservando se ne andavano, tranquillamente, a zonzo, noncuranti dei divieti, fatto poi salvo scoprire che questi ultimi erano in giro per motivi di necessità.
Bene, direte voi, favola a lieto fine …
No, dico io, non proprio.
Il “cacciatore di streghe” in questione non si è accontentato della spiegazione che “le streghe” gli hanno fornito (ebbene sì, le streghe si sono sentite in dovere di giustificare il loro pellegrinaggio sotto casa del cacciatore, poiché intimoriti dallo sguardo inquisitore di quest’ultimo!), ma ha messo il “carico da novanta” contestando il fatto che fossero in numero esagerato (due genitori  ed un figlio piccolo) rispetto alla “comprovata necessità” che stavano andando ad espletare.
Questa è solo una delle tante cose che sto leggendo in questi giorni, giorni dove la “reclusione forzata” incomincia a farsi sentire e dove il bisogno di tacciare l’altro di qualcosa, sta diventando abbastanza comune e non controllabile.
L’ho portato ad esempio, perché mi è balzato agli occhi, come in un attimo, si possa diventare (magari inconsapevolmente) giudici supremi, dove, in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo, il nostro ruolo di cittadini, che hanno come “unico” compito quello di attenersi alle regole dettate dallo Stato, si sovverta e diventi quello di “poliziotto di quartiere” pronto a bacchettare il prossimo che non rispetta, a differenza sua, le regole.

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Quello che mi sto chiedendo da giorni è: spetta davvero a noi quel ruolo?

Siamo davvero sicuri di poterci fregiare del marchio di “cacciatore” senza pensare che potremmo essere noi, a nostra volta, le streghe, cioè i cacciati?
Io stessa, nel momento in cui sto scrivendo queste righe, non starò, a mia volta, assumendo il ruolo di cacciatrice di streghe , verso coloro che cercano le loro streghe da cacciare?
Tutte domande, queste, che mi riportano con prepotenza al mio lavoro di mediatrice di conflitti.
A tal proposito, facciamo un passo indietro e andiamo a vedere cosa succede se proviamo a fare un parallelismo con quelle che sono le dinamiche che, noi mediatori,  vediamo nei percorsi di ascolto e mediazione dei conflitti.

Il confliggente, la maggior parte delle volte, vede nell’altro il nemico, colui che gli sta rovinando la vita, la persona che sta dall’altra parte della barricata, il nemico da battere appunto e, in quanto tale, non degno di umana pietas, di essere accolto nei suoi bisogni e, tanto meno, di essere capito.
Ed è, esattamente, quello che emerge dai post come quello sopracitato, dove l’altro diventa, necessariamente, un nemico pericoloso, colui che, non attenendosi alle regole, diventa diverso da noi (che siamo, invece, ligi al dovere) e, pertanto, potenzialmente pericoloso per gli altri perché ipotetico “untore”.
Anche durante gli ascolti dell’utente, nei percorsi di mediazione dei conflitti, si attuano vere e proprie “caccia alle streghe”, la persona che sta dall’altra parte del conflitto, viene spersonalizzata e non viene vista come essere umano con bisogni, esigenze e sentimenti, ma come “la cosa” che mette in pericolo la nostra incolumità psico-fisica, che disallinea il nostro equilibrio e che, quindi, va fermata ad ogni costo.    
Il compito del mediatore è proprio quello di provare, attraverso l’ascolto empatico e non giudicante, ad accogliere e rispecchiare i sentimenti che vengono portati, così da permettere a chi li prova di “vederli” attraverso un terzo(il professionista, per l’appunto), con l’auspicabile speranza che egli  possa riconoscere l’altro come simile a se e non come soggetto deumanizzato.


Ma da dove passa il riconoscimento dell’altro?

Passa, anche, attraverso il dialogo ed è proprio uno dei compiti  del mediatore quello di provare a creare un ponte di congiunzione tra i confliggenti che non si parlano più o se lo fanno, di sicuro, non si capiscono perché non si stanno ascoltando, aiutandoli a riaprire la comunicazione; esattamente come sta succedendo in questo momento storico, che definirei apocalittico, nel quale, troppo spesso, leggiamo, sentiamo, guardiamo quello che l’altro sta facendo, ma non lo capiamo, non lo ascoltiamo non lo vediamo e lo percepiamo non per quello che è realmente, ma per quello che ci fa più comodo che sia.
Forse, traendo spunto dall’insegnamento che la mediazione dei conflitti ci può offrire, quello che mi sento di suggerire (a me stessa, in primis, come umana) è di provare a rispecchiarci nell’altro, sospendendo il giudizio e provando ad ascoltarlo come persona e non come “elemento di disturbo o pericolo”.

Per concludere, mi sovviene alla mente una famosa canzone di Umberto Tozzi e di Raf del 1991 “Gli altri siamo noi” e, considerando il comune sentore di questo periodo, mi sono permessa di cambiarne il titolo:

“Gli altri siamo noi, sì, ma loro un po’ meno…” 

Daniela Meistro Prandi  

[1] Sulla caccia alle streghe, soprattutto ma non solo su quella scatenatasi negli USA dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, sono stati pubblicati molti post su questo sito, in particolare nelle rubriche Corsi e Ricorsi e Politica e Conflitto. In particolare: Quei Rosenberg fatti sedere sulla sedia elettrica per nienteA cavallo della paranoiaLa fine della caccia alle streghe moderna: il maccartismoL’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»Robert Kennedy: «Non abbiamo bisogno di odio»La guerra in casa dei cambogiani e degli americani. Diversi post, parlando di singole personalità cinematografiche o di particolari film, hanno proposto dei contenuti sulle logiche e sulle ricadute della caccia alle streghe nella principale industria culturale e di intrattenimento, il cinema: L’umanità di Spencer Tracy, il fascismo e l’America FirstLa vita spericolata di Sterling HaydenJohn Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante.Con te, Marlene DietrichRichard Widmark, il cattivo “buonista” di HollywoodPaul Newman, un uomo oggiJohn Wayne, il divo più amato e odiato di tutti i tempiQuel volto nella folla che rispecchia un’orribile realtàLa caccia ai capri espiatoriRicordando Sal Mineo: lassù qualcuno lo ama. Inoltre il tema è emerso, sempre nei post di Corsi e Ricorsi, nei post Darwin e la libertà d’insegnamento e 23 agosto 1927: esecuzione di Sacco e Vanzetti. Su Politica e Conflitto se ne fa cenno nel post “L’ascolto politico” come possibile ponte tra la testa e la pancia dei cittadini e della politica.

Conflitti virtuali e conflitti virtuosi

È ufficiale: viviamo oramai da giorni in un’atmosfera surreale. Quel futuro distopico di scenari apocalittici cui ci ha abituati la cinematografia mondiale pare essere entrato di forza, in maniera tanto improvvisa quanto subdola, nella nostra quotidianità, rivoluzionando le nostre abitudini e, perché no?, dando un duro colpo alle nostre, già poche, certezze.

Stiamo combattendo contro una minaccia che sfugge al nostro controllo; da un lato, non possiamo abbracciarci ed avere contatti ravvicinati; dall’altro lato, siamo costretti a convivenze forzate “0-24” che mettono a dura prova anche i rapporti più consolidati e forti.

Si sta insinuando, nei rapporti di tutti i giorni, già complicati, un nemico insidioso, perché invisibile, sul quale diventa difficile riversare la nostra rabbia, la nostra frustrazione e la nostra umana impotenza. E, dunque, la “valvola di sfogo” diventa il nostro PROSSIMO.

Insomma siamo “animali sociali”, ma anche – e di più – “animali conflittuali”. Non credo sia importante analizzare se ciò sia più un male che un bene. Credo più utile analizzare se si possa trasformare un conflitto in un “vantaggio”.

Trovo molto affascinante la lingua italiana; mi piacciono molto le parole… giocarci, in qualche misura stravolgerle e ricomporne in significato…

Le parole sono importanti

“Le parole sono importanti”, urlava esasperato Nanni Moretti nel bellissimo film “Palombella Rossa”. È vero: le parole sono importanti. Per questo è importante padroneggiarle.

Perché se è vero che “siamo responsabili di ciò che diciamo noi ma non di quello che capiscono gli altri” è altrettanto vero che un buon oratore/scrittore sa come indugiare per trarre gli altri in errore, conducendoli in un terreno conflittuale.

Mi è capitato di recente, nell’arco di una settimana, di ricevere per ben due volte due messaggi scritti (uno via e-mail ed un altro via Whatsapp) che si concludevano augurandomi “buona vita”

Faceva capolino, in maniera piuttosto evidente, tra le righe, un sottinteso e neppure troppo timido “vaff….”.

Debbo fare un mea culpa: non ho fatto nulla, nelle due occasioni, per evitarlo, avendo scelto di “abbracciare” le provocazioni che mi giungevano, forti, da quelle comunicazioni, e anzi intrattenendo con loro un improbabile fox trot (ammetto di non sapere ballare…).

Dunque, lo ammetto, ho scelto consapevolmente un registro di comunicazione volutamente provocatorio, avendo intercettato una buona dose di mala fede nelle comunicazioni suindicate.

Già che siamo in vena di confessioni, ammetto anche che i due interlocutori non rientravano tanto nelle mie grazie, di talchè li ho anche un pochettino “usati” per liberarmi della tensione maturata negli ultimi giorni; giorni nei quali ho dovuto riorganizzarmi il lavoro da casa…

Quale sarebbe stata l’alternativa? Beh, sicuramente avrei potuto utilizzare un “tono di scrittura” più accattivante, più complice, più ammiccante, arrivando, nella sostanza, ad esprimere lo stesso concetto, e dunque alla fine difendendo in egual misura le mie idee.

E forse mi sarei portata a casa un saluto più “urbano”.

Ma, oramai avevo deciso di sviscerare in tutta la sua potenza la mia insofferenza verso i miei due sfortunati interlocutori.

Siamo noi a decidere se i nostri conflitti restano virtuali, se diventano virtuosi o se arrivano al punto di non ritorno

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Qual è la morale di questo aneddoto? Potrebbe essere questa: anche ammettendo di essere provocati, il più delle volte siamo noi che decidiamo quale registro dare alla discussione. Siamo noi a decidere se il conflitto si manterrà su corde meramente virtuali, se si alzerà fino a diventare virtuoso o se, invece, si incupirà fino a giungere ad un punto di non ritorno.

E questa consapevolezza diventa importante, perché ci permette di scegliere. E la capacità di “scelta” è la nostra vera e unica libertà, che travalica i confini cui ci costringe questo difficile periodo.

Dunque…BUONA VITA A TUTTI (nel senso più letterale e virtuoso dell’espressione).

Monica Checchin