Le due fosse del conflitto

Se vuoi vendicarti di qualcuno scava due fosse (massima attribuita in maniera probabilmente arbitraria a Confucio)

Quante volte accade di mettere in rilievo che nel conflitto convivono aspetti etero-distruttivi e aspetti auto-distruttivi? E quante volte capita anche di accorgersi che questi secondi aspetti non bastano a dissuadere i protagonisti del conflitto dal farsi una guerra senza esclusione di colpi o, comunque, da investire enormemente in esso. Si tratta di investimenti in termini di tempo, di energie, di denaro, e in termini emotivi e affettivi. Investimenti compiuti, e magari ripetuti con frequenza pressoché quotidiana, da ciascun protagonista, con il fine di acquisire o mantenere il controllo sulla conduzione del conflitto, sul suo sviluppo, così da pervenire alla soluzione più soddisfacente per sé.

Ma il proverbio parla di due fosse. Una per seppellire il nemico battuto e l’altra per sé, perché non sarà il nemico il solo ad aver bisogno di sepoltura. Ricorda, cioè, quel proverbio, che il controllo sul conflitto non ce l’ha nessuna delle parti. Ce l’ha il conflitto stesso. E le due fosse si scavano in contemporanea, forse senza neppure accorgersene.

Ma il proverbio pone in rilievo anche un’altra possibilità: che si sappia che si stanno scavando due fosse, di cui una per metterci dentro e ricoprire il nemico e l’altra per noi. Lo sappiamo e ci sta bene così. Lo accettiamo. Infatti, non è raro nell’esperienza di chi si occupa di mediazione familiare, di mediazione penale o di mediazione sanitaria (per fare solto tre esempi), di riscontrare come nelle parti in conflitto vi sia una certa lucida consapevolezza circa i costi di quel conflitto che rilanciano di continuo. Avvisate degli effetti auto-distruttivi delle loro scelte e delle loro azioni, non li hanno ignorati, ma accettati, con una determinazione assoluta che non ammette cedimenti né esitazioni.

Perché?

Perché, tante volte c’è in gioco qualcosa di così centrale e fondamentale che non vi è alcuna riluttanza a investire tutto quel che si ha (affettivamente, emotivamente, economicamente…) nel conflitto. Inoltre, è raro che le persone in conflitto pensino a se stesse come mosse da spirito vendicativo. Più spesso, si rappresentano come animate dal bisogno di ottenere soltanto ciò che è giusto.

Altre volte, può accadere che gli attori del conflitto ritengano che, in ogni caso, a prescindere da quale sarà l’esito delle ostilità, vi saranno due fosse da scavare: che si sia determinati a tentare di vincere o si sia disposti a lasciar perdere, che ci si arrenda o si combatta, si pensa che non cambierà nulla, perché quel quid, per loro vitale, è già in gioco e forse addirittura ha il destino segnato o è già irrecuperabilmente perduto.

In tali situazioni, un appello alle istanze auto-conservative degli attori del conflitto, un richiamo alla questione delle due fosse, può non sortire l’effetto di un contenimento dell’escalation. Anzi, il più delle volte si rivela una mossa sterile e perfino controproducente .

Il coniuge, che per le delusioni sofferte è giunto a detestate l’ex partner  e che vede in lui/lei un genitore totalmente inadeguato, potrebbe risultare sordo ad ogni richiamo a riflettere sul fatto che, con il proprio ostinato rancore, sta scavando due fosse – e, forse, anche più di due. Analogamente, per stare in ambito sanitario, possono non rispondere ad appelli accorati alla tutela del propri interessi il paziente, se persuaso di aver subito un danno per colpa della negligenza o dell’imperizia di chi lo ha curato, da un lato, e il professionista della salute, che si dichiara indisposto a cedere di un millimetro di fronte a chi lo accusa di essere responsabile moralmente, e non solo legalmente, di “malasanità”.

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Pensando a queste situazioni e ai tanti casi gestiti, non si contano le volte in cui come mediatori ci si è trovati davanti  a persone alle quali la prospettiva di dover scavare due fosse non induceva esitazioni, quasi come se ci fosse stata un’accettazione permeata di orgoglio.

Per tale ragione, e per rispetto anche dei sentimenti e dei valori, dei principi e degli argomenti, che ciascun attore del conflitto nutre o coltiva in sé, nella prospettiva di Me.Dia.Re. la mediazione non è proposta come soluzione più economica o meno rischiosa per i propri interessi. Anzi, in tali casi, si spiega che il percorso di Ascolto e Mediazione può essere l’occasione per ottenere alcune soddisfazioni importanti, come quei riconoscimenti profondi dei vissuti di ingiustizia, che la giustizia formale non sempre può procurare, non essendo deputata a realizzare tale particolari compiti sul piano relazionale.

Alberto Quattrocolo

Tipologie di conflitto e senso di riconoscimento

Il concetto di conflitto, per quanto latente, è parte concreta di gran parte delle teorie sociologiche: impossibile riportare tutte le riflessioni circa queste intersezioni relazionali, ma è plausibile orientare il focus su alcuni aspetti propri del conflitto, e legati, particolarmente, all’etá moderna in senso più ampio.

Le riflessioni di Jürgen Habermas, ad esempio, si muovono in questa direzione, e possiamo rileggerle sottoponendole al filtro della globalizzazione: vi troveremo espresse tipologie di conflitti che definiamo di “prima generazione”, tra gruppi o strati, oppure classi sociali, che, malgrado tutto, mantengono un senso di legittimità, mentre un’altra tipologia di conflitto va ricercata all’interno della socializzazione, dell’integrazione sociale e della riproduzione culturale, oltre i problemi di redistribuzione delle risorse materiali, per coinvolgere la grammatica delle forme di vita. Si tratta di quelli che possiamo definire di “seconda generazione”, cioè i conflitti di quartiere, di vicinato, familiari, scolastici, inter-culturali, di ambiente, legati al lavoro, etc.

Se la tecnologia, frutto della ricerca avanzata “spoliticizza” l’individuo, mentre lo stato moderno impone le sue “esigenze sistemiche” sopra i mondi vitali degli uomini, occorre pensare a nuove metodologie interpersonali che affranchino il cittadino dalla passività e lo rendano attore di un “agire comunicativo”, in cui i singoli si sentano “partecipanti ad un discorso pratico”. La modernità prende, quindi, le mosse da una ragione universale che rende possibile la comprensione fra mondi vitali, ossia fra idee, discorsi e contenuti che ruotano attorno a individui o a gruppi di individui. Nella volontà di comunicare universalmente è custodito l’ideale etico della politica in cui confida Habermas anche quando, superati i conflitti sociali dovuti alla distribuzione della ricchezza, si aprono quelli relativi alla “grammatica delle forme di vita”, cioè i nuovi conflitti riguardanti le qualità della vita: l’ambiente, la salute, le culture e la partecipazione sociale“, quelli poc’anzi definiti come conflitti di “seconda generazione”.

Fondamentali risultano i bisogni di riconoscimento e legittimazione della società.

Axel Honneth fornisce ulteriori riflessioni sull’argomento: il conflitto sociale, attraverso la positività delle lotte da esso prodotte, può fornire un possibile contributo al progresso normativo.

Honneth considera compresenti le dinamiche di conflitto e progresso attraverso il concetto di riconoscimento.

È sul piano della lotta per il riconoscimento individuale e collettivo che da un contrasto, da un conflitto, possono svilupparsi le premesse per un progresso normativo e sociale.

Honneth considera che tanto il conflitto tra gruppi, quanto quello tra due soggetti presi individualmente, produca un potenziale di apprendimento pratico-morale, in quanto i soggetti sociali, all’interno di quei conflitti, risulterebbero consapevoli della propria dipendenza reciproca e del destino incrociato delle loro identità individuali.

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Nelle situazioni di violazione dell’integrità delle persone, la negazione di questa è una mancanza o rottura di rapporti di reciproco riconoscimento.

Avremo, per Honneth, diverse forme di affronto, a seconda del tipo di offesa: quando interessa l’integrità fisica (maltrattamenti fisici, lo stupro, cioè l’interruzione a livello corporeo della continuità del sé); se si tratta di una forma di umiliazione che colpisce la comprensione normativa di sé di un individuo (lo spregio della privazione del possesso di un diritto o un’emarginazione sociale); se determina uno svilimento di modi e ideali di vita individuali, oppure collettivi (considerati inferiori, difettosi, così che si nega al portatore di farvi riferimento e di auto-realizzarsi, di comprendersi come essere apprezzato nelle sue qualità e capacità peculiari).

Honneth, oltre all’antropologia più negativa, con gli effetti dell’umiliazione e dello spregio, contrappone ai tre modelli di violazione, altrettanti modelli positivi di reciproco riconoscimento, cioè possibili autorealizzazioni di soggetti sociali nella loro singolarità: rispettivamente all’amore, al diritto, e alla solidarietà, corrispondono i sentimenti sociali della fiducia in sé stessi, dell’auto-rispetto e dell’autostima, sentimenti nascenti all’interno di altrettanti riconoscimenti intersoggettivi.

Al termine di questo breve viaggio, il tratto che accomuna queste brevi riflessioni è rappresentato dalla comunicazione, in ognuna delle sue possibili forme: essa costituisce un discrimine fondamentale tra conflitto e facilitazione dell’integrazione sociale. Proprio su questo terreno, ricco di asperità e contrasti, e sulla cura della comunicazione stessa può agire, concretamente, la mediazione.

Paolo Ghiga

Società e comunicazione

Viviamo una società ad alto rischio conflittuale, dove nessuno risulta immune da questa endemica e fisiologica “piaga” relazionale: le circostanze che illudono circa l’elusione di più drammatiche situazioni presentate quotidianamente dai notiziari, costituiscono una labile ed illusoria convinzione: il mattino successivo può presentarci il conto, bloccati dalla coda al semaforo, per recarci al lavoro, oppure in attesa presso un ambulatorio medico, o ancora con il nostro/a partner dopo una banale incomprensione di coppia.

I conflitti si presentano, prima o poi, in ogni relazione, sia questa tra persone, gruppi, piuttosto che tra organizzazioni e stati, e questo è un dato di fatto inconfutabile, oltre che una situazione inevitabile.

Un esempio, tra le migliaia possibili, giunge dal cinema, con una pellicola ormai datata, figlia dell’allora postmodernismo e non già dell’attuale società liquida teorizzata da Bauman, intitolata Prigioniero della Seconda Strada, del 1975, protagonisti Mel (Jack Lemmon) e Edna (Anne Bancroft): è la storia di un ordinary man, con tanto di moglie adorabile e due figlie iscritte al college, con un buon impiego d’ufficio ed un appartamento confortevole. Un uomo che si direbbe realizzato: improvvisamente Mel precipita nel vortice incandescente del conflitto, dell’alienazione sociale, dapprima per futili motivi (quelli che spesso sottendono motivazioni più profonde), in una escalation che si fa, via via, sempre più coinvolgente.

La comunicazione è uno dei focus principali del film: nel caso di Mel si è trasformata in ostinato mutismo fatto di silenzi smarriti, un solipsismo iroso e becero che lo ha sospinto ai margini prima della famiglia, nel rapporto sempre più complicato con la moglie Edna, e poi della società.

Smarrita la capacità di comunicare, il contatto con la società, e, soprattutto, venuto a mancare il senso di riconoscimento da parte dell’altro, tutto è rimesso in discussione da una vampa improvvisa che fa terra bruciata intorno a sé, rendendo Mel estraneo al mondo sociale.

Quando la comunicazione, la capacità di relazionarsi a 360°, si deteriora, si interrompe, il rischio dell’isolamento, del possibile conflitto sociale, è più frequente di quanto si creda.

Grazie alla comunicazione, infatti, siamo in grado di essere parte attiva della società, anche se comunicare appare, nell’era virtuale dei social media, paradossalmente, sempre più complesso.

Innumerevoli gli studi condotti intorno alla comunicazione: seminale fu il lavoro di Watzlawick, Beavin e Jackson, tre ricercatori del Mental Research Institute (MRI) di Palo Alto, California, che ipotizzarono, nel testo Pragmatica della comunicazione umana edito nel 1966, che i rapporti interattivi fra individui siano determinati, essenzialmente, dai tipi di comunicazione che essi utilizzano tra loro.

Essi sostennero due tesi: secondo la prima, il comportamento patologico inteso come nevrosi, psicosi e in genere le psicopatologie, non esiste nell’individuo preso singolarmente, ma si tratta di un tipo di interazione patologica tra individui.

La seconda tesi sostiene, invece, come, attraverso lo studio della comunicazione, sia possibile individuare delle “patologie” della comunicazione e dimostrare che, in realtà, sono quest’ultime a produrre le interazioni patologiche.

Nel testo troviamo anche i cinque assiomi della comunicazione, che delimitano il terreno d’azione della comunicazione umana.

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Interessanti, ai fini dell’aspetto conflittuale della comunicazione, le riflessioni circa le relazioni basate sull’uguaglianza (la simmetria) o sul suo contrario, la differenza (l’asimmetria): l’interazione simmetrica è definita dall’uguaglianza e dalla minimizzazione della differenza, mentre il processo opposto caratterizza l’interazione complementare.

Il contesto sociale e culturale, ove ognuno potrebbe comportarsi in un certo qual modo tale da instradare il comportamento dell’altro, gioca un ruolo molto importante nel guidare queste relazioni (medico-paziente, genitore-figlio, insegnante-allievo, …).

I tre scienziati delinearono procedimenti pragmatici (comportamentali) che permisero di intervenire nelle interazioni e di modificarle.

Altra teoria, che attinge, in qualche misura, al lavoro dell’équipe di Palo Alto, è la Teoria dei sistemi, branca della teoria generale dei sistemi e concepita negli anni ’80 da Niklas Luhmann, e che mira alla comprensione della natura e del funzionamento della realtà sociale. Consiste nello sviluppo di un discorso sociologico in grado analizzare qualsiasi aspetto della realtà sociale: dalla singola interazione, passando per i gruppi organizzati, fino a quella complessa società che troviamo nella nostra epoca.

Alla base della teoria vi è il concetto di “sistema”. Secondo Luhmann un sistema è un insieme di operazioni o elementi collegati fra di loro grazie a criteri già prestabiliti o in base a programmi dotati di una certa autonomia. Uno degli assunti principali della teoria dei sistemi sociali è che i sistemi conservano la propria autonomia rispetto all’ambiente in cui operano. Esistono vari tipi di sistemi, i sistemi biologici, od organici, i sistemi psichici ed i sistemi sociali, che sono costituiti dalla comunicazione, come singole interazioni comunicative, organizzazioni o addirittura società.

Nella teoria dei sistemi sociali la comunicazione è costituita da tre processi: l’atto comunicativo, o azione, da parte di un soggetto (emissione), l’osservazione, o comprensione, di questo atto da parte di un altro soggetto (comprensione), e  infine l’informazione riguardante un contenuto di senso che l’atto comunicativo ha trasmesso, intenzionalmente, a chi l’ha osservato.

La comunicazione risulta essere, quindi, l’insieme delle relazioni che sussistono e si sviluppano negli individui, tra di loro e verso l’ambiente naturale dove vivono.

In questa visione i sistemi sociali sono dunque reti (o processi) di comunicazioni, intrecciate fra loro ed anche, di conseguenza, a rischio conflitto. La realizzazione di tali processi va incontro, però, a due problemi importanti, presenti in tutti i sistemi sociali: il primo problema consiste nell’errata interpretazione dell’atto comunicativo, o addirittura nella mancata interpretazione di tale atto.

Il secondo problema consiste nella mancata osservazione di quell’atto da parte di chi dovrebbe riceverlo. Questo è un problema che potrebbe essere risolto dalla «compresenza fisica» del soggetto con cui stiamo comunicando.

Secondo Luhmann tutti i sistemi sociali si situano in un «ambiente»: esso è tutto ciò che non fa parte del sistema.

Ecco come l’ambiente e la società sono legate a filo doppio dalla comunicazione, unico vero strumento di comprensione e discrimine per monitorare la possibile conflittualità umana. La mediazione, allora, strumento che si declina sulla comunicazione, rappresenta una chiave di volta all’interno della contrapposizione dicotomica società-conflitto sociale.

Paolo Ghiga

La mediazione come attraversamento del conflitto

L’ attraversamento del conflitto costituisce davvero il solo modo per realizzarne il superamento?

Pare che fosse questo il pensiero di Robert Frost, allorché sostenne:

Il conflitto: l’unico modo per superarlo è attraversarlo.

Sì, però, mentre si è dentro il conflitto si sta male

Se vi è delle verità in quelle sue parole, però, è una verità anche scomoda. Lo è in quanto il conflitto non è un’esperienza comoda e confortevole. Certo, si dice che il conflitto serva a segnalare qualcosa che non funziona nella relazione. Oppure, si sottolinea che ha in sé un importante potenziale trasformativo. Aiuta a crescere, a definirsi, a individuarsi, a separarsi, a conoscersi, a mettersi alla prova, a fare pulizia… Tutto condivisibile, e anche vero, ma… a posteriori. Durante quell’esperienza, mentre si è dentro il conflitto, si sta male. E se qualcuno ci parla dell’ attraversamento del conflitto, dell’intero conflitto, in tutta la sua lunghezza, come condizione per crescere e migliorare, è possibile che non ci venga un moto d’invincibile entusiasmo. È possibile che l’ attraversamento del conflitto che stiamo vivendo ci sembri un’esperienza da incubo. Qualcosa che non augureremmo al nostro peggior nemico. O meglio, a lui magari sì. Ma non con noi.

Perché, sì, l’attraversamento del conflitto avviato oggi e concluso chissà quando, forse, un giorno ci sarà utile, come, del resto suole dirsi rispetto alla sofferenza. Ma …“un giorno”. Domani, nel futuro. Un futuro indefinito. Chissà quando, appunto. E chissà se.

Oggi, però, intanto, patiamo. E non ci sono se e non ci sono forse. È un fatto certo. Perché, è inutile nasconderselo: la relazione conflittuale, specie se la conflittualità ha raggiunto livelli di escalation particolarmente elevati, è quanto mai dolorosa, tormentata e angosciante. E, tante volte, vorremmo che ci fosse una medicina, una bacchetta magica, un rito, un intervento divino o un aiuto umano per poterne uscire fuori. Per venirne fuori presto e senza ulteriori danni.

Tante volte non cerchiamo un bottino, ma giustizia e riconoscimento

La vittoria, certo. Ma non basta. Perché, non è detto che ci sia sufficiente prevalere sull’altro. Tante volte ci occorre di più. Tante volte non cerchiammo un bottino, ma giustizia e riconoscimento. E, anche se sappiamo di non avere interamente ragione, siamo persuasi di averne di più di quanta non ne abbia il nostro nemico.

Abbiamo più ragione nel senso che siamo più ragionevoli e nel senso che siamo dalla parte giusta o, almeno, da quella meno ingiusta. E vorremmo che il mondo (cioè quell’insieme di persone che per noi contano qualcosa e rispetto alle quali ci preoccupiamo dell’immagine mentale che hanno di noi) lo capisse. Vorremmo, ad esempio, che comprendesse che non abbiamo aperto le ostilità per capriccio. Ma per reazione: perché siamo stati attaccati. E vorremmo far capire che l’abbiamo tentato più e più volte l’attraversamento del conflitto, ma che l’altro è indisponibile ad un vero e onesto confronto. Che è sfuggente. Oppure che è aggressivo. Che non sa stare a sentire. Che, invece, sa solo provocare. Vorremmo far capire a chi ci suggerisce che l’unico modo per superare il conflitto è dialogare – perché questo sarebbe il vero e solo attraversamento del conflitto  -, che di tentativi di dialogare ne abbiamo fatti tanti da non contarli più. Ma sono stati inutili e frustranti: l’altro non ci sta. Non è capace. Non ha argomenti. Perciò la butta in caciara o si sottrae in altri modi.

Ma… allora… Robert Frost e la sua frase lapidaria?

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L’Ascolto e la Mediazione come accompagnamento e sostegno nell’attraversamento del conflitto

Restano abbastanza vere, ovviamente, quelle parole. Amare, scomode e probabilmente vere. Però, un po’ meno scomode, un po’ meno amare, possono essere, se si considera la possibilità della mediazione. La quale, almeno, nella prospettiva, nel metodo e nella pratica professionale di Me.Dia.Re., non è riducibile ad un tentativo di ripristinare il dialogo (abbiamo approfondito tale aspetto nel post La mediazione e l’Alterità, all’interno di questa rubrica, Riflessioni), Ma uno stare accanto a chi sta vivendo un conflitto doloroso (s veda il post Nella mediazione si ascoltano le persone non (solo) le parti del conflitto), anche se non ha alcuna intenzione di mediarlo. Anche se lo irrita, lo spaventa o lo esaspera la prospettiva dell’attraversamento del conflitto. È uno stare accanto di qualche utilità, perché, in fondo, non è detto che l’attraversamento del conflitto vada fatto da soli. E perché non è detto che l’attraversamento del conflitto consista soltanto nel dialogare con il nemico.

L’attraversamento del conflitto può iniziare con l’essere ascoltati da qualcuno che non ha preconcetti verso di noi, non ha aspettative rispetto alla nostra condotta futura (si veda il post Il fine della mediazione non è prestabilito dal mediatore). Qualcuno che non ci giudica.

L’attraversamento del conflitto può proseguire anche così, con l’ascolto. L’ascolto e basta. E, quando ciò succede, questo attraversamento del conflitto si compie senza soffrire troppo, senza essere sopraffatti dall’angoscia. E, compiendosi in tal modo, porta con sé il superamento del conflitto attraversato.

Alberto Quattrocolo

La mediazione familiare e il legame sociale

Non si contano le analisi che pongono in rilievo la distanza crescente tra cittadini e istituzioni e sottolineano l’indebolimento del legame sociale [1]. La cui fragilità, secondo queste chiavi di lettura, sarebbe ravvisabile anche nel costante proliferare di una conflittualità diffusa, particolarmente facile ad innescarsi e spesso portata a livelli estremi di escalation [2]. In tale prospettiva, questa diffusa conflittualità, causa o sintomo di un indebolimento del legame sociale, in assenza di spazi congeniali per essere gestita, finirebbe con l’essere guerreggiata con elevatissimi costi umani, sociali ed economici.

Ad esempio, si può pensare ai costi della conflittualità in ambito familiare. Come per altri conflitti interpersonali anche quelli interni alla coppia o alla famiglia, infatti, si ripercuotono su una dimensione più ampia, che varca i confini della relazione tra le persone che ne sono le dirette e attive protagoniste. Il che si verifica anche perché, non raramente, poi, il conflitto coniugale si sposta su un piano valoriale [3]. Tale transizione può essere assai funzionale alla conduzione della lotta dal punto di vista di chi aspira alla vittoria mediante un allargamento delle alleanze che acuiscono la delegittimazione del nemico. Ma ha come ricaduta un ulteriore riduzione del legame sociale, perché implica l’incompatibilità totale tra le parti, che si sentono legittimate nel loro l radicale rifiuto del dialogo e, non di rado, addirittura del confronto.

D’altra parte, rispetto agli effetti a largo raggio della conflittualità interna alla famiglia e alla sua ricaduta su quelle forme di legame sociale più immediatamente connesse alla fiducia nell’efficacia degli apparati istituzionali, va considerato un antico e sempre attuale problema: quello di come possa l’ordinamento, con le sue irrinunciabili caratteristiche di astrattezza e generalità, rapportarsi con il quotidiano intreccio di affetti, convinzioni, bisogni, interessi e sentimenti, senza produrre distorsioni, scontento e frustrazioni [4].

Da tempo, si sono posti alcuni interrogativi: può una sentenza ricucire dei rapporti dilaniati da ferite profonde? Può il sistema giudiziario dare risposte ad interrogativi sul senso dell’accaduto e sul valore che i rapporti hanno avuto e/o conservano, stante la condizione conflittuale che li attraversa? Può una pronuncia giudiziaria trasformare due ex coniugi, che nutrono profondi rancori, in persone in grado di sviluppare una fiducia vicendevole rispetto alle reciproche capacità di assolvere le funzioni genitoriali?

Si tratta di interrogativi che rinviano direttamente al tema della gestione del conflitto e della sua correlazione con la consistenza e la tenuta de legame sociale. I coniugi che escono sconfitti e, comunque, delusi e amareggiati dai percorsi di separazione – e non si tratta di una esigua minoranza –, ad esempio, sviluppano molto spesso nei confronti del sistema legale, in primis, ma anche degli apparati dei servizi sociali, quando intervengono, una rappresentazione mentale dalle tinte cupe, che nutre e si nutre di sensazioni dolorose, quali la frustrazione. Ma, soprattutto, costoro hanno la sensazione di non essere stati compresi né dagli operatori del diritto, e dal sistema giudiziario in generale, né dal sistema sociale e dai suoi rappresentanti e professionisti.

Da decenni si sostiene che è essenziale mettere a disposizione delle persone in conflitto dei luoghi per confrontarsi, per affrontare contrasti e divergenze, senza rischiare di esserne distrutti.

Ultimamente, sembrerebbe essere maggiormente avvertita l’esigenza di figure professionali in grado di prendersi cura di aspetti delicati e profondi anche del conflitto familiare. E, accanto a diverse professionalità, trova una crescente attenzione quella della mediazione familiare, in ordine alla quale si è posto più volte l’accento sull’intrinseca capacità di agevolare un rinnovo dello sfilacciato legame sociale [5].

A Torino, l’Associazione Me.Dia.Re. fin dal 2003 gestisce Servi Gratuiti di Ascolto del Cittadino e di Mediazione dei Conflitti (gratuiti, grazie a contributi di enti pubblici e privati, che ne coprono una parte dei costi, e all’autofinanziamento, derivante dai proventi dei propri corsi e progetti formativi). Questi Servizi non si propongono soltanto come luoghi di gestione alternativa dei conflitti, ma anche come sportelli di ascolto. Ciò fa sì che ad essi accedano sia le persone che, come parti di un conflitto, cercano un aiuto per confrontarsi (per mediare, si potrebbe dire), sia coloro che non hanno inizialmente alcuna intenzione di mediare, ma sentono il bisogno di essere ascoltati.

Gli obiettivi progettuali di fondo sono collocati nell’ottica di una tutela del legame sociale, anche nel senso del riallacciamento del rapporto tra il cittadino e le istituzioni e del recupero delle relazioni tra le persone [6]. Tale prospettiva è sottesa naturalmente anche agli altri servizi. Quelli di mediazione penale, svolti dall’Associazione nell’ambito del progetto ComuniCare, realizzato in convenzione con l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Torino. E quelli di mediazione familiare strettamente intesa, che Me.Dia.Re. eroga gratuitamente in convenzione con la Città di Torino, presso il Centro Relazioni e Famiglie.

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Anche in questi servizi la logica di fondo è quella di far sentire alle persone che anche nelle situazioni di conflitto, dove il vissuto di ingiustizia e il dolore sono di portata tale da procurare una sensazione di isolamento e di abbandono, c’è una possibilità di ascolto, di vicinanza e di supporto. Non si è lasciati soli a fronteggiare dinamiche relazionali, sofferenze e malesseri, che spesso ci appaiono più grandi di noi [7].

Così, i membri di una coppia in lite, anche nel caso in cui il loro conflitto sia giunto ad un livello di escalation tale da aver annullato ogni spazio di discussione e non solo di trattativa, possono contare su di un luogo in cui portare la loro angoscia e la loro rabbia, avendo la possibilità di ricevere, in termini di ascolto, un’attenzione a-valutativa e, quindi, non colpevolizzante. Un ascolto che aiuta anche a pensare e a ripensare.

Oggi, però, sulla stessa mediazione familiare grava un’ombra conflittuale. Pur essendo presente nel nostro Paese da oltre trent’anni, è diventata oggetto di una disputa, che rischia di annebbiarne prerogative e potenzialità, meriti e pregi. Questa controversia, strettamente correlata alle disposizioni proposte dal Ddl 735, ha implicazioni profonde.

Se sono molteplici gli aspetti discutibili e discussi del disegno di legge citato, rispetto al tema dell’indebolimento o del recupero del legame sociale, ce n’è uno, basilare, che vale la pena prendere in considerazione: l’obbligatorietà [8].

Su questo aspetto, tra gli altri, è intervenuta anche Isabella Buzzi. Costei, che non soltanto è mediatrice familiare da quasi 30 anni, ma anche la fondatrice del Forum Européen Recherche et Formation a la Médiation Familiale – Francia, nonché dell’Associazione Italiana Mediatori familiari (A.I.Me.F. iscritta al Ministero dello Sviluppo Economico), ha affermato:

«Potrebbe funzionare l’obbligatorietà? Come mediatori familiari professionisti e di esperienza, supportati dalle ricerche, stiamo dicendo tutti la stessa cosa: è possibile obbligare le coppie a fare un colloquio informativo per conoscere la mediazione familiare ed è corretto che ricevano queste informazioni da un mediatore familiare professionista, all’estero non sono poche le nazioni che hanno questa procedura, ma non sarà mai possibile imporre alle coppie di restare in mediazione contro la loro volontà, perché l’autodeterminazione dei partecipanti (in altre parole la loro volontà) è la condizione senza la quale non è proprio possibile fare mediazione».

Assumendo un’ottica complementare a quella di Isabella Buzzi e supponendo che uno dei fini dei proponenti il disegno di legge sia quello di assicurare una sempre più efficace tutela istituzionale alle persone coinvolte in quelle particolari situazioni conflittuali, soprattutto, i minori, sorge un timore: che l’obbligatorietà dell’adesione al percorso, anziché riparare il legame sociale, lo allenti e lo sfilacci.

Un conto, infatti, è poter scegliere di avvalersi di un percorso. Un altro è il dovervi aderire necessariamente. In questo secondo caso, ci si trova a dover stare, obtorto collo, in relazione con qualcuno (il mediatore familiare) che, ex lege, istituzionalmente, è deputato a porre termine al nostro conflitto. In primis, trasformando il nostro radicale disaccordo con l’ex partner, incluse le sue motivazioni affettive ed emotive, in accordo legalmente rilevante. Il che è ben diverso, ad esempio, dal potersi volontariamente giovare, in quanto attori di un conflitto doloroso e stressante, angoscioso e opprimente, della mediazione familiare declinata come spazio di ascolto, come luogo di comprensione e di riflessione ad alta voce, al cospetto di un professionista che non ha alcuna aspettativa nei nostri riguardi, avendo come solo obiettivo quello di farci sentire accolti e ascoltati [9].

La mediazione familiare descritta dalla prima versione del disegno di legge, infatti, sembra quanto mai lontana dalla dimensione emotivamente accogliente e contenitiva, essendo una procedura cui gli avvocati devono partecipare al primo incontro e hanno il diritto di continuare a parteciparvi fino alla fine. In altre parole, la mediazione familiare disegnata in questo progetto di legge, pare essere assai più simile ad una negoziazione, condotta da un terzo, imposta alle parti, anche se queste non hanno alcuna voglia di negoziare. Imposta, dunque, anche quando, invece, di trattare tra di loro e con i legali, gradirebbero essere ascoltati e riconosciuti nella loro sofferenza e parlare liberamente di aspetti personalissimi. Riesce difficile, infatti, immaginare che nelle riunioni previste dalla mediazione familiare impostata nel Ddl, vi sia la possibilità per i due genitori, vista anche la presenza dei rispettivi avvocati, di parlare dei fatti e delle vicende che sono alla radice del loro conflitto, dando voce al senso di fallimento, di solitudine, di tradimento, di colpa, di vergogna e alla loro rabbia.

Insomma, la mediazione familiare, anziché luogo di contenimento e di rivisitazione, quindi di scioglimento o allentamento spontaneo dei nodi affettivi, emotivi e relazionali, che, alimentando diffidenze e rancori, sospetti e pregiudizi, hanno fin lì impedito un’autonoma conciliazione, potrebbe diventare luogo in cui tali aspetti vengono giocoforza repressi, per essere espulsi e soppiantati dalla richiesta, implicita solo in parte, da parte dello Stato (incarnato dal mediatore familiare), di realizzare un’artificiale performance collaborativa volta al raggiungimento di un accordo. La cui mancata conclusione è suscettibile di valutazione negativa anche da parte dell’autorità giudiziaria.

C’è più di qualche ragione per temere che tale tipo di mediazione familiare, così strettamente allacciata al sistema giudiziario, alle sue logiche e ai suoi obiettivi, invece, di riallacciare il legame sociale fra i coniugi in conflitto e fra entrambi e lo Stato, finisca col metterli ancor di più l’uno contro l’altro. Soprattutto, non è improbabile che collochi entrambi i genitori in conflitto in un rapporto conflittuale nei confronti dello Stato stesso. Quest’ultimo, infatti, implicitamente negando legittimazione alle loro ragioni conflittuali, li obbliga ad accantonarle e ad incontrare il loro peggior nemico, imporre loro di fare la pace.

In tal caso, cioè ove i genitori sentano che lo Stato è loro nemico, avendo dichiarato guerra al loro conflitto, è piuttosto improbabile che tale loro vissuto possa essere risolto, facendogli presente che tutto ciò è predisposto per il bene dei figli. Infatti, è proprio nella convinzione di essere ciascuno il miglior garante del benessere dei propri figli che questi genitori sono in conflitto l’uno con l’altro.

Alla luce di quanto sopra, se per lo Stato la mediazione familiare deve essere un efficace strumento di prevenzione della sofferenza dei figli generata dal conflitto tra i loro genitori e, contestualmente, un mezzo di tutela del legame sociale più latamente intesoallora pare auspicabile che, anziché renderla obbligatoria, ne incrementi le possibilità d’accesso. Sia attraverso un’adeguata opera di promozione, sia con una sistematica e capillare campagna di sensibilizzazione presso tutti gli operatori del complesso sistema deputato alla gestione di questo tipo di contenzioso, nonché, magari, con l’introduzione di rilevanti incentivi di ordine fiscale, per chi si avvale di mediatori familiari a pagamento, e con finanziamenti ad hoc tesi a far proliferare i centri gratuiti [10].

Alberto Quattrocolo

[1] Una distanza, probabilmente con radici antiche, che oggi è percepita molto più significativa che in passato. Da decenni i grandi “contenitori e connettori” del passato, come la famiglia, l’impiego, il partito, ecc., hanno perso molta o tutta la loro capacità di offrire contenimento e di dare stabilità ai legami sociali. Le strutture che tradizionalmente hanno fatto da collante tra le persone e tra queste e le istituzioni (culturali, sociali, politiche…), divenendo oggetto di una crescente diffidenza, sono oggi investite da una risentita sfiducia. E sono questa diffidenza, questa sfiducia, spesso derivate da un vissuto di mancato riconoscimento, a sfarinare il legame sociale.

[2] Sarebbero i contrasti che sorgono e si annidano nelle mille pieghe di una società complessa, punteggiata di bisogni non riconosciuti, caratterizzata da un’incomunicabilità figlia di una troppa comunicazione vuota, costantemente a rischio di una perdita di valore e senso, e di un’assenza di ascolto. Una società nella quale i tempi e i luoghi per pensare insieme, per confrontarsi, per comprendere e farsi comprendere, sono più ridotti che in passato.

[3] La capacità dei singoli attori originari di coinvolgere altri soggetti ottenendone l’appoggio morale e/o materiale è spesso una questione di abilità individuale, ma può anche coniugarsi alla tematica dibattuta: se questa riguarda aspetti sui quali si riesce ad accendere l’altrui sensibilità in termini etici e morali, le possibilità di coinvolgimento di altri possono essere particolarmente consistenti. E in tali casi, nelle sue ipotesi estreme, il conflitto può arrivare ad essere mitizzato, perfino ideologizzato.

[4] È un dato esperienziale di difficile contestazione che l’intervento della norma risulti particolarmente tangibile in ambito familiare soltanto quando sorgono delle condizioni di tensione che paralizzano o alterano il “normale” sistema di autoregolamentazione dei rapporti propri di ciascun gruppo familiare. In altre parole, soltanto quando l’ordine familiare è minacciato da eventi interni di dissenso si ricorre al diritto, affinché esplichi la sua potenza ordinatrice attraverso l’apparato giudiziario.

[5] In tale prospettiva, i mediatori familiari sono intesi come persone preparate a saper accogliere anche il venire meno di quelle certezze che si erano costruite nel tempo e che si erano consolidate con la quotidiana convivenza. Si tratta, dunque, di professionisti in grado di riconoscere e comprendere gli aspetti dolorosi del conflitto che sono chiamati a gestire. Ad esempio, quello relativo al mutarsi del concetto di casa, il cui valore di luogo di condivisione e contenimento, di intimità e di riparo, in presenza di una minaccia di disgregazione conflittuale del coniugio, assume, talora, dei connotati foschi: da luogo protetto e protettivo diventa terreno di una battaglia. Una battaglia ancora più dolorosa, dato che il “nemico” non è fuori dal suo perimetro, ma dentro e, magari, “minaccia” di portare via anche il guscio edificato insieme.

[6] Cioè, ci si prefigge, con tali Servizi, di restituire al singolo e a coloro che lo attorniano una certa fiducia nella capacità della società di essere presente nei momenti difficili. Di riparare le fratture createsi, in quello che sinteticamente si definisce legame sociale, per effetto di una conflittualità lacerante, rispetto alla quale le risposte tecnico-giuridiche e formali paiono spesso essere inappaganti.

[7] Che si tratti della vittima di un reato che sente la necessità di essere ascoltata individualmente e/o di interfacciarsi con l’autore per fargli comprendere la portata di quel fatto e chiedere ragione dello stesso. Oppure dell’autore del reato, interessato a confrontarsi con la vittima. Oppure, ancora, che si tratti di due colleghi giunti talmente ai ferri corti da farsi una guerra quotidiana sul luogo di lavoro, oppure di un operatore e di un paziente coinvolti in una relazione conflittuale.

[8] Nella versione originaria del disegno di legge per i genitori di minori che, intendendo separarsi, non trovino autonomamente un accordo sull’affidamento dei figli, si prevede che l’adesione ad un percorso di mediazione familiare costituisca una condizione di procedibilità. In altre parole, si prevede l’obbligatorietà del percorso per coloro il cui conflitto sia tale da raggiungere autonomamente un accordo. Per tali situazioni, la versione originaria del disegno di legge che ha come prima firmatario il senatore Simone Pillon impone l’obbligo di seguire un percorso di mediazione familiare.

[9] È questo il modello teorico e operativo dell’Associazione Me.Dia.Re., per approfondire il quale, oltre che alla pagina delle Pubblicazioni del sito, si rinvia anche a quella della rubrica Riflessioni

[10] Si tenga presente che già accade che, per effetto della Legge 54/2006, molte coppie accettino il suggerimento del giudice, in quella norma previsto, di fare un incontro con il mediatore familiare.

La mediazione familiare e le ochette

Mia moglie è una persona veramente immatura. L’altro giorno, per esempio, mentre mi facevo il bagno, è entrata e, senza motivo, mi ha affondato tutte le ochette! (W. Allen)

Citiamo questa battuta di Woody Allen a proposito del conflitto e della sua gestione, perché evidenzia come spesso nelle relazioni conflittuali, gli atteggiamenti dei protagonisti siano sostanzialmente simmetrici. In altre parole, quando siamo coinvolti in un conflitto capita che rileviamo nella condotta dell’altro evidenti segni di irrazionalità (affonda le nostre ochette senza apparente giustificazione), senza avvederci che le sue azioni non sono meno razionali delle nostre (non è esattamente sinonimo di comportamento adulto, giocare nella vasca da bagno con delle ochette finte).

L’inconsapevole specularità degli atteggiamenti conflittuali

La battuta di Woody Allen, poi, ha una particolarità perché rimanda non al conflitto in generale, ma a quello interno alla relazione coniugale. Nella vita di tutti i giorni, come nella gestione professionale dei percorsi di mediazione familiare, capita, in effetti, di imbattersi nella dinamica delle ochette. Anzi, forse, proprio nel conflitto di coppia è più immediato rilevare come sovente capiti che rimproveriamo all’altro qualcosa di molto simile a ciò che facciamo anche noi. E, in quel contesto relazionale, è ancor più frequente che noi non si sia assolutamente disposti a rendercene conto. Anzi, quando il nostro conflitto di coppia si è fatto profondo e lacerante, al punto che la fiducia e la stima sono ormai uno sbiadito e perfino un po’ scomodo e sgradevole ricordo, “l’aggressione” dell’altro alle nostre ochette, ci risulta intollerabilmente lesivo. In tali situazioni consideriamo la condotta altrui, in realtà, non così diversa dalla nostra, come rivelatrice della presenza nell’altro di un difetto caratteriale, di una tara morale, di una inadeguatezza psicologica, ecc. E non c’è posto nella nostra mente per ospitare il pensiero che l’affondamento delle nostre ochette non è, in realtà, così gratuito.

Il mediatore familiare e il valore soggettivo delle “occhette”.

La mediazione familiare ha spesso a che fare con dinamiche conflittuali in cui i membri della coppia mettono in gioco aspetti dolorosi e pesantissimi, ma che, a prima vista, sembrano essere soltanto delle ochette, ancora galleggianti o già affondate, in una vasca da bagno. Qualcosa di non tanto dissimile, talora, si verifica anche nella gestione di conflitti collocati in altri ambiti relazionali. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, a quelli tra vicini di casa, tra colleghi di lavoro, come anche quelli in ambito sanitario.

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Tra i compiti del mediatore familiare, come del mediatore dei conflitti negli altri contesti, incluso quello della mediazione penale, non rientra il far sentir gli attori del conflitto giudicati come immaturi per il solo fatto di essere in conflitto – cioè di prendersela appunto per quattro stupide ochette finte (abbiamo sviluppato questo aspetto in diversi post della rubrica Riflessioni, tra i quali La mediazione come contenimento del timore di essere giudicati negativamente per il solo fatto di essere in conflitto ). Né rientra tra le sue mansioni il dare ad essi l’impressione di sottovalutare e sminuire i loro vissuti (se n’è parlato anche qui).

Quindi, è importante che il mediatore sappia che anche le ochette possono non essere solo delle ochette.

Alberto Quattrocolo

 

Il prezzo del conflitto: il mediatore familiare e “l’ostinazione” delle parti

Capita di frequente che il mediatore familiare si trovi davanti dei coniugi, che per giustificare il prezzo del conflitto che essi e i loro figli stanno pagando, si richiamano, esplicitamente ed implicitamente, ad alcuni principi (morali, religiosi o etici). E spesso lo fanno per spiegare la fondamentale correttezza e inevitabilità dei loro comportamenti.

Sul piano della relazione in corso in quel momento tra essi e il mediatore, non occorre particolare intuito per supporre che quei genitori, con le loro argomentazioni stiano cercando di ottenere da lui un’approvazione per le proprie azioni e per giustificare il prezzo del conflitto da quelle derivante.

Su un altro piano, però, le cose sono un po’ meno scontate. È il piano delle reazioni emotive, cognitive e comportamentali del mediatore di fronte alla concretezza di quel prezzo del conflitto che i due coniugi e i loro figli stanno sostenendo. Ciò apre, correlativamente, il discorso ai margini di manovra entro cui il mediatore si può muovere.

Prendiamo un caso concreto, gestito in uno dei nostri Servizi di Ascolto e Mediazione dei Conflitti oltre 15 anni fa. Dopo aver svolto dei colloqui individuali (su questa rubrica, Riflessioni, ne abbiamo parlato nel post La mediazione come ascolto e confronto), come previsto dalla metodologia applicata dall’Associazione Me.Dia.Re., entrambi i coniugi, in fase di separazione, avevano espresso l’intenzione di incontrarsi al tavolo della mediazione per confrontarsi sulle loro divergenze radicali.

Il richiamo ai principi, da parte dei coniugi in conflitto, per sostenere la loro condotta e contestare quelle dell’altro

In quella sede uno dei coniugi si impegnava con energia nello spiegare le ragioni della propria condotta severa verso i figli e dell’adozione da parte sua di uno «stile educativo orientato ad una spiccata moderazione nei consumi». Insisteva fermamente sul valore pedagogico del rifiuto di «una mentalità (e di una società) fondata sull’apparire e sull’avere invece che sull’essere». L’altro genitore, che si sentiva attaccato sul piano morale da queste affermazioni, replicò: «non bisogna essere tirchi con i propri figli». E aggiunse: «la difficoltà nel comprare regali e pensierini ai figli, anche al di fuori di feste e compleanni, riflette la difficoltà di dare amore».

Si potrebbe pensare che entrambe le riflessioni in astratto siano valide, purché le condotte ad esse ispirate non sconfinino nell’esagerazione. Il punto è che entrambi i genitori giudicavano la condotta altrui come un’estremizzazione di valori e principi teoricamente condivisibili. E ciascuno dei due rispondeva alle critiche dell’altro con argomentazioni che, a volerle giudicare in un’ottica razionale, sarebbero suonate a dir poco stravaganti.

Non meno bizzarri, però, sono gli innumerevoli esempi della storia anche recente assai di cui sono protagoniste persone delle quali non si è messo in alcun modo in dubbio né l’intelligenza né la capacità di governare i propri sentimenti.

I genitori in conflitto non hanno l’esclusiva dell’irrazionalità del conflitto

Infatti, se si volge lo sguardo ad un panorama più ampio, forse, possono suonare un po’ meno stupefacenti le argomentazioni proposte, con rabbiosa e dolorosa fermezza, da quei due genitori. Entrambi i quali, in definitiva, cercavano di scaricare sulla responsabilità dell’altro l’esorbitante prezzo del conflitto.

In altri termini, se paiono irrazionali i ragionamenti e le prese di posizione conflittuali di quei genitori, occorre anche rammentare che non si tratta di un’irrazionalità di cui hanno l’esclusiva. Pensiamo, infatti, a quanto la logica del conflitto sia capace portare dei governanti, la cui tenuta emotiva non viene messa in forse, ad accettare il rischio di far corrispondere il prezzo del conflitto politico, in cui sono avviluppati, a milioni di persone e ad intere generazioni.

Così, tanto per dire, Zbigniew Brzezinski, consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Jimmy Carter, in un’intervista del 1998, ammise che era una menzogna la versione ufficiale secondo la quale gli USA avevano fornito aiuti militari all’opposizione afgana soltanto dopo l’invasione sovietica del ’79. Egli spiegò che gli aiuti statunitensi ai fondamentalisti islamici mujaheddin era iniziata sei mesi prima che l’esercito russo si muovesse e aveva proprio lo scopo preciso di favorire una decisione in tal senso da parte dell’URSS. Ebbene, quando a Brzezinski fu chiesto se rimpiangeva tale decisione, egli rispose:

«Rimpiangerla? Quell’operazione segreta fu un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di trascinare i russi nella trappola afghana (…) Il giorno in cui i sovietici varcarono ufficialmente il confine scrissi al presidente Carter: “Abbiamo l’opportunità di dare ai russi la loro guerra del Vietnam”. In effetti Mosca ha dovuto portare avanti per quasi dieci anni una guerra che il governo non poteva sostenere, un conflitto che ha portato alla demoralizzazione e finalmente al crollo dell’impero sovietico» [1].

Se è opinabile che vi sia una connessione diretta tra la guerra condotta dai russi in Afghanistan e il crollo dell’URSS, è certo che quella guerra ha avuto dei costi impressionanti: un massacro di enormi proporzioni (oltre un milione di morti, 5 milioni di rifugiati e 3 milioni resi disabili); persone sottoposte a torture spaventose, incluse quelle commesse dai mujaheddin, che gli stessi funzionari americani definirono «orrori indescrivibili»; sofferenze inconcepibili procurate dal regime dei talebani. E sono certe la profondità e la durata delle conseguenze di quella guerra per quasi l’intero pianeta, visto che le rileviamo ancora oggi.

I genitori in conflitto non solo i soli ad anteporre le loro dinamiche conflittuali al benessere delle persone di cui devono prendersi cura

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Se è naturale, a proposito della ricaduta negativa delle reciproche contrapposizioni tra i genitori sulla serenità dei figli, porre in luce come sia la loro mutua ostilità a determinare in concreto il prezzo del conflitto gravante sui loro bambini. Pensiamo a quanto accadde durante la trasmissione 60 Minutes del 12 maggio del 1996. In quell’occasione la giornalista Lesley Stahl, in relazione agli effetti delle sanzioni contro il regime di Saddam Hussein, aveva chiesto a Madeleine Albright, all’epoca ambasciatrice degli Stati uniti presso l’ONU, se la popolazione civile non stesse pagando un prezzo troppo alto. Era emerso infatti che quelle misure avevano causato la morte di mezzo milione di bambini iracheni e, quindi, più di quelli uccisi dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. La Albright rispose:

«Penso che sia una scelta molto difficile, ma il prezzo… noi riteniamo che il prezzo sia giusto».

Perché il prezzo del conflitto con Saddam Hussein era ritenuto giusto? Perché, secondo le previsioni, avrebbe consentito di acquisire determinati risultati: isolare politicamente ed economicamente il regime di un dittatore dalle mani fradice di sangue e ridurre la portata del consenso interno alla sua politica.

Le difficoltà del mediatore, consapevole del prezzo del conflitto, rispetto all’ostinazione delle parti

Tornando a quello specifico percorso di mediazione familiare, vale la pena ricordare che, una delle difficoltà incontrate da chi aveva il ruolo di mediare quel conflitto, consisteva proprio nel resistere alla tentazione di cercare di indurre i coniugi a rivedere criticamente il loro comportamento e i ragionamenti che vi erano sottesi. Il farlo, si sapeva, non sarebbe servito a nulla, se non a farli sentire giudicati e a determinare un probabile ulteriore irrigidimento (si veda il post La mediazione familiare non fa il processo ai genitori in conflitto). Il mediatore lo sapeva, ma era troppo forte la pressione, che gli cresceva dentro, di farli ragionare sul costosissimo prezzo del loro conflitto. Cedette. E fallì.

Infatti, nel momento in cui vi fu un, appena percettibile, cedimento da parte del mediatore a questa tentazione, il coniuge cui era indirizzata questa implicita e discreta sollecitazione, in quel contesto, si sentì giudicato. E lo comunicò apertamente. Mentre l’altro coniuge si sentì dapprima spiazzato da un intervento che pareva dargli ragione o almeno supporto argomentativo. Poi, cercò di cavalcare quel vantaggio.

«…è più che probabile che noi ci comportiamo non meno ostinatamente…» (John Locke)

Una riflessione celebre su questo aspetto era stata svolta da John Locke nel “Saggio sull’Intelletto Umano”, pubblicato per la prima volta nel 1690, nel capitolo Sul grado dell’assenso. Ne riportiamo alcuni passi:

« (…) per gli uomini l’abbandonare le loro precedenti opinioni o il rinunciarvi (di fronte ad un argomento cui non possono immediatamente rispondere o di cui non possono dimostrare subito l’insufficienza) porta con sé un’imputazione troppo grave di ignoranza, di leggerezza o di stupidità (…)».

La citazione delle parole di Locke non vale ad esortare a tenersi alla larga dalle discussioni, ma a sottolineare come all’interno di un percorso di mediazione il tentativo di correggere il pensiero altrui comporti la concreta possibilità che l’altro si senta giudicato. E non è una sensazione che favorisce il sorgere di un sentimento di fiducia, né, ancor prima, la sensazione di essere accettati e riconosciuti per come si è, né la disponibilità a mettersi in discussione.

Recuperare la fiducia di quei genitori circa l’imparzialità e l’avalutatività dell’atteggiamento del mediatore (ne abbiamo parlato in questo post) non fu semplicissimo. Dovette “rispecchiare” ad entrambi che si erano sentiti osservati e valutati. Fu soltanto quando tra il mediatore e i coniugi si riparò la fiducia compromessa che quella mediazione riprese a “funzionare”, favorendo in entrambi i genitori la sensazione di essere compresi dal terzo. Ciò permise il prodursi, in entrambi, di un ripensamento autentico delle rigidità della loro contrapposizione e l’assunzione delle responsabilità sul prezzo del conflitto che l’intera famiglia aveva sopportato fino ad allora.

Il mediatore ebbe la conferma che, in fondo, non aveva avuto torto Locke nell’affermare:

«Faremmo bene (…) a non trattar subito gli altri da ostinati e perversi solo per il fatto che non rinunciano alle loro opinioni per accettare le nostre, o almeno quelle che vorremmo imporre loro, quando è più che probabile che noi ci comportiamo non meno ostinatamente nel non accettare alcune delle loro».

Alberto Quattrocolo

[1] Blum W., Con la scusa della libertà, Marco Troppa Editore s.r.l., Milano, 2002

 

Rielaborazione da:

 

La “modestia” del mediatore e la sua formazione

Perché si dovrebbero tirare in ballo la modestia del mediatore e la sua formazione in un post di questa rubrica?

La modestia del mediatore come atteggiamento in sede operativa

Vi sono un paio di risorse che il mediatore dei conflitti (quindi il mediatore familiare, il mediatore penale, il mediatore civile e commerciale di cui al D.lgs. 21/2010, nonché coloro che operano come mediatori in altri ambiti, quali quello sanitario, quello organizzativo-lavorativo, ecc.) dovrebbe avere ed esercitare: la prima – la più ovvia – è quella di sapere ascoltare; la seconda, connessa alla prima, è la “modestia”.

Con tale termine – modestia – non si intende un tratto caratteriale o una qualità morale, ma un atteggiamento connaturato alla peculiarità della posizione di chi si presenta come terzo neutrale e privo di potere tra gli attori del conflitto.

Il mediatore, infatti, è co-protagonista – cioè deuteragonista o tritagonista, a seconda dei casi -, in quanto incontra un altro essere umano e condivide con questi la scena dell’incontro (ed è, ovviamente, protagonista dell’esperienza dal proprio punto di vista), ma deve (dovrebbe) tendere a proporsi come lo sfondo da cui far emergere e risaltare con la massima nitidezza possibile la figura del mediante o dei medianti.

Il mediatore sullo sfondo

Non si tratta di un compito facile. Proporsi come sfondo, significa riuscire contemporaneamente ad essere presenti e a mettersi da parte [1]. Si tratta di dar vita ad un equilibrio instabile, tanto delicato quanto difficile, poiché implica trovarsi per tutto il tempo dell’incontro nella posizione di chi segue la narrazione altrui, e in un certo senso la rivive, ma senza potere intervenire su di essa. Il mediatore si pone accanto al mediante o ai medianti, assiste al prodursi, o riprodursi, concreto e drammatico del conflitto, si lascia condurre nel conflitto, cioè nelle sue valenze emotive e affettive, però, ne resta spettatore neutrale. Uno spettatore sui generis, poiché, in realtà, egli c’è e comunica la sua presenza testimoniando le sue sensazioni. Le sue sensazioni, tuttavia, non sono le “sue”: sono i vissuti che egli avverte nei medianti. Soltanto questo è quanto egli testimonia ai protagonisti. Le emozioni “veramente sue”, i suoi sentimenti e le sue opinioni, non possono essere comunicate alle parti. Le deve silenziare. Diversamente non potrebbe porsi come facilitatore di racconti e confronti i cui narratori e protagonisti sono altri.

La modestia del mediatore come sapere di non sapere

La modestia, quindi, intesa in senso lato (o vago), c’entra. E c’entra anche perché il mediatore deve avere quel minimo d’umiltà – e di prudenza – necessaria a ricordare costantemente che le sue parole – ad esempio, quelle usate nel suo specchiare le emozioni e i sentimenti altrui – non sono mai “vere”. Egli dice, non dichiara, poiché, in fondo, il suo rispecchiare resta una testimonianza che egli propone di quanto ricevuto dall’altro in se stesso. Di ciò che avverte dell’altro, dunque, ma sempre dentro di sé. Occorre, pertanto, che abbia quel tanto di modestia sufficiente a rammentarsi che, come quella presentata da ogni testimone, la sua è una verità squisitamente soggettiva. In quanto tale, dunque, suscettibile di contraddizione.

Quel vedere l’altro che significa entrare dentro di sé

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Inoltre, dovrebbe rendersi conto che in questo testimoniare egli espone se stesso. Si affaccia sulla scena ed è più o meno nudo agli occhi del mediante. Quest’ultimo per lo più è troppo preso dai propri guai e tormenti per soffermarsi su tale nudità. Tuttavia, nel corso d’incontri in cui il mediatore invariabilmente ascolta narrazioni nelle quali è facile ritrovare pezzi di sé ed echi della propria storia, questo presentare la propria sensibilità, attraverso l’ascolto empatico, costituisce inevitabilmente l’apertura di una finestra sul proprio mondo interiore. Una finestra attraverso la quale il mediante non ha normalmente il tempo di guardare, ma il mediatore, contestualmente e/o successivamente, sì. Non sarebbe male, perciò, se quella visione fugace che egli ha durante l’incontro con il mediante, fosse non troppo sorprendente per lui. Il rischio, infatti, è che un eventuale, repentino, spiazzamento lo induca a soffermarsi su di sé, su tale panorama interiore, o lo porti a chiudere repentinamente le imposte e magari anche gli occhi e le orecchie, allontanandolo, in entrambi i casi, emotivamente e cognitivamente dall’altro.

Sembra opportuno, allora, che il mediatore abbia trascorso un po’ di tempo in compagnia di se stesso e abbia raggiunto una certa familiarità con le sue parti. Non tutte, per carità. Alcune sì, però. Quel tanto che basta per non fare sistematicamente confusione tra gli elementi propri e altrui.

La formazione sul piano emotivo

Per queste ragioni, nel corso della formazione, sono (dovrebbero essere) così numerose le attività in cui si chiede ai partecipanti di riconoscere le emozioni e i sentimenti percepiti nell’altro e di distinguerli da quelli avvertiti dentro di sé. Accorgersi di ciò che si pensa e si prova e “dimenticarsene” in ogni istante per consentire al protagonista di emergere come figura tendente alla nitidezza e alla pienezza, presuppone il possesso di una certa dimestichezza con la propria, sempre limitata, capacità di sostenere il dolore, l’angoscia e la rabbia altrui e di sospendere il giudizio.

Sperimentarsi, nella formazione, come mediatori è utile e necessario, ma farlo come protagonisti del conflitto è illuminante, oltre che prezioso.

Una buona palestra per l’acquisizione e l’affinamento di queste competenze, credo, sono le situazioni (ad esempio, in ambito formativo) in cui il mediatore assume la posizione di attore del conflitto. Riflettere su queste esperienze, sui vissuti che ne derivano, sui comportamenti che pone in atto e che registra presso il proprio antagonista, costituisce un’occasione per incrementare la duttilità e la solidità delle proprie competenze di mediatore, per rivedere criticamente le prestazioni compiute e sottoporre ad una qualche verifica la propria teoria del conflitto.

Alberto Quattrcolo

Rielaborazione da A. Quattrocolo (2005) La mediazione trasformativa. Un modo d’intendere e di praticare la mediazione dei conflitti. Quaderni di Mediazione, n1. settembre 2005, Punto di Fuga Editore, pp29-37.

 

[1] Che il mediatore debba porsi come sfondo lo si è già sostenuto in un altro post di questa rubrica.

Radio Veronica One intervista Me.Dia.Re.

Ai microfoni di Radio Veronica One A. Quattrocolo e M. D’Alessandro parlano del modello di Ascolto e Mediazione dei Conflitti utilizzato nei Servizi Gratuiti di Me.Dia.Re. e dei rischi sottesi al DDL Pillon.

Qui il video integrale dell’intervista.

Il mediatore e lo specchio emotivo

Il mediatore dei conflitti, sia esso un mediatore familiare, un mediatore penale o un mediatore in altri ambi relazionali e sociali (come, ad esempio, in ambito sanitario e organizzativo-lavorativo), si propone come specchio emotivo di ciascuno degli attori del conflitto, ma anche il mediatore è davanti ad uno specchio emotivo.

La principale caratteristica del modello Ascolto e Mediazione

Il mediatore è inesorabilmente davanti ad uno specchio emotivo, soprattutto, se impiega alcuni particolari modelli di mediazione.  Tra questi rientra il modello Ascolto e Mediazione.

In diversi post, pubblicati su questa rubrica si è tentato di delineare il modello di mediazione proposto e praticato da Me.Dia.Re.

Per non correre il rischio di essere ripetitivi, si rimanda a quei post, ribadendo soltanto che esso è fondato sull’ascolto delle persone e, in particolare, sull’accoglienza delle loro emozioni e dei loro sentimenti, spesso con il ricorso al cosiddetto “rispecchiamento”.

Il rispecchiamento

Ascoltare empaticamente, nella prospettiva di tale mediazione, non implica cercare a tutti i costi una soluzione, né tentare di ‘guarire’ l’altro dalla sua emozione. Pertanto ascoltare un altro essere umano non vuol dire sollecitarlo ad accantonare, ad esempio, la sua rabbia, oppure tentare di fargli ridimensionare la sua sofferenza. Significa, invece, aiutarlo ad affrontare la sua rabbia o la sua sofferenza. In tal modo, comunicandogli che non è solo, che si è disponibili ad avvicinarsi ai suoi stati d’animo, senza censurarli né giudicarli.

«Lo strumento che il mediatore utilizza … è quello del cd. “specchio”. Attraverso tale tecnica il mediatore avvia un lavoro che si basa sui sentimenti e che si fonda sull’empatia: egli in primo luogo ascolta il soggetto e successivamente si rivolge a lui cercando di rinviare ciò che, a livello di sentito, cioè di sentimenti, ha percepito. (…) Successivamente riparte proprio da quest’espressione, da ciò che ha ricevuto e percepito nuovamente attraverso la relazione empatica e rinvia altri sentiti, in un meccanismo di ‘rimbalzo’, di restituzione continua alla parte delle emozioni che emergono dalla sua narrazione, consentendo al soggetto di andare oltre, fino al centro e all’origine della sua sofferenza»[1].

Il modello di Ascolto e Mediazione fa ampiamente ricorso allo specchio emotivo e ciò costituisce uno dei suoi “meriti”. Anzi, pensiamo che ne abbia diversi. Altrimenti non lo impiegheremmo da ormai quasi vent’anni. Anche tale modello presenta, però, delle criticità.

Le criticità del modello Ascolto e Mediazione

La principale criticità, forse, consiste nell’assenza di certezze, di basi incrollabili, anche di tipo teorico, su cui appoggiarsi.

Uno dei pilastri su cui le pratiche di mediazione, compresa quella qui descritta, poggiano è, in effetti, la capacità naturale di mediare presente nelle persone. Non soltanto nella vita di tutti i giorni si presentano spesso situazioni in cui ci proponiamo come terzi mediatori, in modo informale e inconsapevole, ma vi sono mediazioni realizzate quotidianamente dal confliggente in assenza di mediatori formali o informali. Ciò che la Klein chiama “accesso alla posizione depressiva” (cioè la capacità di ognuno di uscire dallo schema difensivo e/o aggressivo in cui è, o si è, ingabbiato, per giungere  a “sentire” l’altro) esiste indipendentemente dall’intervento di mediazione, anche se alcuni modelli si fondano proprio su tale potenzialità dell’essere umano.

Il modello Ascolto e Mediazione non ha inventato nulla

Si può quindi dubitare che il modello Ascolto e Mediazione, che di certo non ha scoperto l’ascolto, l’empatia, né lo specchio emotivo, abbia inventato alcunché ex novo. Tuttavia ha la peculiarità – il pregio, se si vuole – di saper amalgamare risorse e competenze particolari, da sempre esistenti nelle attitudini umane, e di applicarle nel delicato settore della gestione del conflitto. Dunque, certamente ha più di un debito verso molteplici discipline. Si pensi, ad esempio, alle riflessioni maturate in ambito criminologico e vittimologico, che sono sottese alla costruzione del paradigma della “Giustizia Riparativa” e, all’interno di questa, della mediazione penale. Si può ancora rinviare, però, ai richiami a teorie psicologiche dei più diversi orientamenti – incluso quello di Carl Rogers – e ancora agli spunti forniti dalla sociologia e dalla filosofia (e al riguardo rinvio ai contributi di Maurizio D’Alessandro su mediazione e “prassi” e ad alcuni post pubblicati su questa rubrica).

Proprio per via dell’eterogeneità di riferimenti, dunque, è difficile sostenere che tale modello di mediazione poggi il suo intervento su un complesso definito e organico di teorie sociali, o che si basi su una specifica e particolare teoria della personalità.

Un sapere esperienziale

Tuttavia ciò non significa che il mediatore che adotti il modello Ascolto e Mediazione si muova sospinto dall’improvvisazione. Evidentemente, hanno un‘indubbia rilevanza le conoscenze acquisite in sede formativa  sul conflitto e sulle sue dinamiche, nonché le riflessioni elaborate sull’efficacia di particolari strumenti d’intervento, che sono stati modellati proprio sulle peculiarità delle interazioni conflittuali.

Ciononostante, il suo sapere, essendo essenzialmente frutto dell’esperienza propria e altrui, resta suscettibile di costanti smentite, proprio perché egli agisce nel multiforme, imprevedibile, caotico (in quanto regolato da un ordine che molto spesso non si comprende) campo della soggettività. Per questo deve essere disposto a rinunciare a molte garanzie e sicurezze, avendo solo la certezza che l’imprevisto è dietro l’angolo.

Un salto nel buio

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Detto in altri termini, ogni incontro di mediazione – come ogni autentico incontro compiuto nel quotidiano con qualsiasi individuo – mette in gioco anche il mediatore, ne scardina il personale puzzle con cui compone il proprio mondo, e lo modifica, aumentandone la complessità. Ogni colloquio, dunque, significa per il mediatore non solo proporsi come specchio, ma anche porsi davanti ad uno specchio (uno specchio emotivo, soprattutto), che riflette la sua immagine in modo più o meno fedele[2]. E tale aspetto talora costituisce un salto nel buio.

Lo specchio emotivo e la formazione o supervisione del mediatore

Sotto quest’ultimo profilo, il training formativo dovrebbe costituire una sorte di paracadute: maggiore è la conoscenza che tale mediatore ha dei propri limiti, maggiore è stata in sede formativa (e nell’ambito della supervisione permanente prevista obbligatoriamente per i mediatori familiari) la sua disponibilità a mettersi in gioco, a lasciarsi attraversare da argomenti, comportamenti e situazioni potenzialmente ingombranti, e rifletterci su, minori sono i rischi di destabilizzazione – nonché quelli di compromettere il processo di mediazione.

Una formazione interattiva

Sono queste le ragioni essenziali per le quali è consigliabile un percorso formativo caratterizzato da una massiccia quantità di situazioni interattive, nelle quali siano sempre presenti stimoli emotivi di diversa intensità. Tuttavia, per la delicatezza dei temi affrontati, per il rispetto che merita la sensibilità di ciascuno dei partecipanti – lo stesso rispetto e considerazione che sono dovuti ai medianti in un intervento di mediazione -, il formatore deve in ogni momento avere presente il benessere dei suoi interlocutori e salvaguardarlo. Senza tali precauzioni è probabile che invece di rifornire il futuro mediatore di un paracadute, lo si spinga fuori dell’aereo senza neppure un ombrello.

La supervisione e lo specchio emotivo

Resta vero che anche una formazione ben condotta non costituisce una garanzia certa: in ogni colloquio preliminare, in ogni mediazione, cioè in ogni salto nel buio, il paracadute può non aprirsi. In tal caso lo schianto, ovviamente, non è fatale, ma può essere piuttosto doloroso.

Per tale ragione la supervisione costituisce una utilissima risorsa non soltanto per i mediatori familiari, ma anche per quelli penali e per quelli impegnati in altri ambiti. Certo, però, che sta al mediatore legittimarsi ad avvalersene in tutte le sue potenzialità e sta a lui avere la “forza” di farlo.

Molto si rimette in gioco, come nelle altre professioni

Vale la pena ancora ribadire che, comunque, in ogni colloquio come in ogni incontro di mediazione, se non  tutto, molto si rimette in gioco: sotto il profilo tecnico e a livello personale.

Senza voler ridimensionare questi ultimi rilievi, né le già evidenziate criticità sulle debolezze del modello Ascolto e Mediazione, ma per banali esigenze di realismo, va fatta un’ultima puntualizzazione: questa mancanza di certezze circa l’efficacia degli strumenti adottati non è una dimensione propria soltanto del modello Ascolto e Mediazione, né, del resto, costituisce una caratteristica esclusiva della professione del mediatore, ma in maniera e in misura diverse interessa molte altre professioni.

 

Alberto Quattrocolo

Rielaborazione da A. Quattrocolo (2005) La mediazione trasformativa. Un modo d’intendere e di praticare la mediazione dei conflitti. Quaderni di Mediazione, n1. settembre 2005, Punto di Fuga Editore, pp29-37.

[1] Brunelli (1998), La tecnica di mediazione, in Ricotti L. (a cura di) La mediazione nel sistema penale minorile, Cedam, Padova, pp.277-280

[2] Con il termine “colloquio” si fa riferimento all’accoglienza delle singole parti separatamente. Nel modello di Ascolto e Mediazione il percorso inizia con dei colloqui individuali con ciascun attore del conflitto. Tali colloquia separati possono essere preliminari all’incontro di mediazione nel quale si incontrano per confrontarsi gli attori del conflitto. Quando, poi, come per lo più avviene, un solo incontro di mediazione non basta per soddisfare le esigenze di confronto tra i protagonisti del conflitto, data la complessità e la stratificazione di questo, allora, tra un incontro di mediazione e l’altro, si svolgono ulteriori colloqui individuali, cioè separati. L’intero ciclo si conclude con dei colloqui individuali post-mediazione, svolti a distanza di qualche settimana dall’ultimo incontro di mediazione.