La mediazione familiare va sospesa nei casi di violenza psicologica

La violenza psicologica nelle relazioni di coppia

La violenza psicologica è il tentativo di controllare l’altra persona senza ricorrere alla violenza fisica, ma mediante minacce e intimidazioni, ricatti, atteggiamenti e comunicazioni squalificanti e offensivi. La violenza psicologica, quindi, non utilizza la forza fisica. Si manifesta soprattutto con parole e con atteggiamenti e atti volti a piegare la volontà altrui in termini complessivi, cioè ad alterare o perfino annullare la capacità decisionale, l’indipendenza e l’autostima della vittima. Sul piano concreto tale violenza si estrinseca nel tentativo di sopprimere la libertà altrui, esercitando uno stretto controllo sulle sue frequentazioni, sul suo comportamento in diversi contesti. Quindi, nelle relazioni di coppia, il partner psicologicamente violento può essere incline ad una sorveglianza stretta sui mezzi finanziari dell’altro, ma può anche cercare di controllare e manipolare i gusti, il pensiero, il tempo, insomma, la vita della sua vittima.

Le persone vittime di violenza psicologica da parte del loro partner assai spesso non sono prese sul serio o non sono credute da coloro che le circondano. Così, non beneficiando di un approccio adeguato, finiscono col sentirsi abbandonate e giungono anche a ritenere giusta o naturale la violenza cui sono sottoposte, colpevolizzandosi per quanto subiscono.

Per chi si trova ad ascoltare queste persone nel tentativo di supportarle, infatti, oltre alla loro sofferenza soffocata e ad altri aspetti strettamente connessi alla violenza posta in essere dai partner, emergono altri due aspetti: il primo è che spesso sono circondate da soggetti che le considerano incoerenti nei loro sentimenti verso il partner e che ritengono che esse abbiano una certa tendenza a drammatizzare quel che accade loro e ad autocompatirsi. Insomma, sarebbero tendenzialmente orientate a cercare aiuto all’esterno per difficoltà che dovrebbero saper gestire da sole, esagerando tali difficoltà quando non trovano supporto; il secondo, connesso al primo, è che sono assai diffusi degli stereotipi che portano a liquidare la situazione di violenza psicologica subita come un fatto incidentale di poco rilevo, una dinamica di matrice culturale, o come una normale dinamica conflittuale, cioè eventi che sarebbero, secondo il pregiudizio, esasperati nella narrazione proposta dalla vittima, soprattutto quando si tratta di una donna.

Da qualche tempo, assai di più di quanto accadeva in passato, il parlare di conflitto fa venire in mente la mediazione anche a chi non è un addetto ai lavori. Quando si parla di conflitto coniugale, poi, da qualche mese in qua, soprattutto da quando è stato depositato il Ddl n.735 in Senato, viene in mente la mediazione familiare. Proviamo, perciò, svolgere qualche considerazione sul tema della mediazione familiare – che nel disegno di legge proposto come primo firmatario dal senatore Pillon è prevista come “obbligatoria” per le coppie che non approdano ad una separazione consensuale – e, in particolare, su come chi svolge quella professione si dovrebbe comportare incontrando il fenomeno della violenza psicologica.

Non tutte le mediazioni portano al superamento del conflitto

La realtà del mediatore civile e commerciale, del mediatore penale e del mediatore familiare, è fatta di soddisfazioni come di scacchi, di insuccessi. Di conflitti superati e di conflitti che non si riescono, non si possono o non si devono risolvere e, talora, forse, di conflitti che neppure si dovrebbe tentare di mediare.

Soffermiamoci, però, sul mediatore familiare. Costui opera nel campo della conflittualità familiare, anzi, più precisamente, agisce in maniera elettiva in quello dei conflitti interni alle coppie che hanno dei figli di minore età e che, interessate da una vicenda separativa, non riescono a conseguire autonomamente un accordo rispetto a questioni economico-finanziarie e/o alla gestione del rapporto con i figli.

Ebbene, in questo specifico ambito della mediazione, succede talora che l’intervento mediativo non esiti in una soluzione concordata degli aspetti controversi. Le ragioni possono essere le più diverse. Possono spaziare dall’inefficacia dell’azione mediativa per motivi attribuibili al mediatore – quando, cioè, il percorso di mediazione è declinato con modi e in maniera tali da incrementare la conflittualità già presente o, comunque, da non riuscire a contenerla -, alla presenza di una oggettivamente irriducibile ostilità tra gli attori del conflitto, oppure alla presenza di una condizione che dovrebbe precludere alla radice lo sviluppo di un percorso di mediazione familiare.

Quest’ultimo caso è, soprattutto, quello della violenza nelle sue varie forme, inclusa quella psicologica.

Non è detto che la vittima si riconosca come tale

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Occorre tenere presente, accanto alle considerazioni già svolte in un precedente post, che non è affatto detto che la donna vittima di violenza “sappia” di esserlo.

In tal caso, andrebbero esplorati aspetti vittimologici di primaria importanza. Qui ci si può limitare ad osservare che è tutt’altro che infrequente che, ad esempio, la donna vittima di violenza (sia esso “solo” o anche psicologica) patisca e soffra non soltanto per le botte e/o le minacce, ma anche per i soprusi, le umiliazioni, le restrizioni, la de-umanizzazione di cui è fatta oggetto, senza arrivare, però, a rappresentarsi come vittima di una condotta violenta, cioè di un comportamento intollerabile e inescusabile. A volte a tale mancato riconoscimento di sé come vittima di un comportamento lesivo ingiusto concorre il mancato riconoscimento, della sua condizione di vittima di violenza, da parte dei famigliari e/o degli amici o conoscenti. Spesso il mondo che la circonda le comunica che quanto le accade non è una cosa ingiusta, che è lei che la vive in maniera esasperata, che il partner ha soltanto un carattere “focoso” o “forte”, che in qualche modo “lei se le cerca”.

Neppure è raro che – per quanto sensibilmente cresciuta la consapevolezza e la preparazione degli operatori della sanità, delle forze dell’ordine, del diritto e dei servizi sociali ed educativi sull’accoglienza e il riconoscimento delle vittime di violenza – le vittime si trovino di fronte del personale che, non soltanto non le aiutano, ma, talora, addirittura, assume atteggiamenti che ne pregiudicano le possibilità di difendersi.

Tale ultimo aspetto si amplifica nel caso, decisamente complesso e drammatico, della violenza psicologica.

La (ancora largamente) misconosciuta e disconosciuta violenza psicologica

Il fenomeno della violenza psicologica nelle relazioni affettive o intime, infatti, è ancora oggi caratterizzato da scarsa attenzione e considerazione, sicché il numero oscuro relativo a tale forma di violenza costituisce tuttora un elemento problematico e segnala l’esistenza di un’inadeguata preparazione da parte della società in generale, e non soltanto dei rappresentanti di enti specifici (forze dell’ordine, autorità giudiziaria, organizzazioni sanitarie), nel rilevare questa forma di vittimizzazione. Forse per la carenza di sensibilizzazione sul tema, ne deriva che le donne vittime di questa forma di violenza perlopiù non sono supportate dal mondo relazionale che le circonda (amici, familiari, colleghi), né dalle agenzie ufficiali, nel diventarne consapevoli e, dunque, nell’essere poste nella condizione di reagire e proteggersi. Inoltre, anche quando si riconoscono come tali o sono prossime a farlo, spesso non trovano negli interlocutori più prossimi così come in quelli istituzionali più rilevanti (forze di polizia e servizi socio-sanitari) un ascolto e un supporto. Sviluppano, pertanto, un senso di abbandono, una forma di vittimizzazione secondaria, o addirittura finiscono con il colpevolizzare se stesse per le sofferenze che gli abusi procurano loro.

Qui, però ci si occupa di mediazione familiare e, a tale riguardo la questione è:

può accadere che la stessa disattenzione, la stessa sottovalutazione si verifichino nell’ambito della mediazione familiare?

L’utilità dei colloqui individuali rispetto alle situazioni di violenza psicologica (o di altro tipo) nei percorsi di mediazione familiare

La risposta al quesito di cui sopra è: sì, può accadere. Però, non dovrebbe, anzi, non deve accadere.

Ad incrementare questo rischio, tuttavia, occorre rilevarlo, potrebbe contribuire quanto previsto dal già citato disegno di legge del senatore Simone Pillon.

Ciononostante è anche doveroso riflettere sul fatto che fintantoché quel disegno di legge non venga approvato e, forse, anche quando diverrà legge, qualche possibilità di prevenzione di tale danno, invero, per chi opera nel campo della mediazione familiare sussiste.

Nel modello mediativo, definito di Ascolto e Mediazione, ad esempio, come in altri, si prevede che sempre, per tutti i conflitti presi in carico, il percorso inizi con dei colloqui separati. Sicché prima degli eventuali incontri al tavolo della mediazione tra i protagonisti del conflitto, questi sono ascoltati più volte separatamente. Succede, quindi che tali colloqui individuali svolgano proprio la funzione di accompagnare la persona vittima di violenza psicologica verso una maggiore consapevolezza circa il fatto che quella posta in essere nei suoi riguardi è una condotta violenta, non riducibile a mera divergenza di vedute, di opinioni, di interessi, ecc.

Escalation conflittuale e violenza

Infatti, il conflitto all’interno della coppia può essere interessato anche da un’escalation molto significativa, che finisce con il ridurre vistosamente le possibilità dei singoli di comunicare tra di loro e di conservare un minimo di fiducia e di rispetto reciproci, ma la violazione dei limiti individuali e l’arrecare volutamente danno ad altri non sono comportamenti assimilabili ad una mera condotta conflittuale: in tali condizioni, la condotta dispiegata è violenza. E per potersi proteggere da essa occorre avere la possibilità di riuscire a riconoscere tale situazione. Ed essere supportati nel doloroso, tormentato e angosciante percorso necessario per arrivarci.

Le conoscenze del mediatore sul fenomeno della violenza e le competenze vittimologiche

Ora tutti questi, e altri ulteriori e non meno complessi, aspetti, come già accennato, possono entrare in gioco nella pratica della mediazione, soprattutto in quella familiare. E, in tal senso, chi scrive ritiene molto importante che chi si occupa di mediazione familiare abbia quel minimo di competenze per poterli fronteggiare. Una certa padronanza di nozioni vittimologiche e la capacità di declinare degli accorgimenti pratici idonei ai fini di un basilare victim support, ad esempio, sono non solo auspicabili, ma probabilmente necessari e imperativi [1].

In mancanza di ciò, i mediatori familiari nella loro quotidianità rischierebbero, da un lato, di ravvisare la violenza psicologica quando non c’è e, dall’altro, di non riconoscerla quando c’è, scambiandola per normale conflittualità coniugale o familiare, oppure considerandola un aspetto culturale incontestabile del gruppo cui appartiene la donna [2]. Se ciò accadesse, ne risentirebbe la tutela delle persone, per lo più donne, realmente vittime di tale forma di violenza.

D’altra parte è doveroso fare presente che per i mediatori familiari è obbligatorio avvalersi di una supervisione ad hoc, così come svolgere percorsi di aggiornamento (si veda al riguardo il regolamento dell’A.I.Me.F., ad esempio).

Va da sé che in tutti i casi in cui la violenza dovesse emergere il percorso di mediazione familiare deve essere interrotto, dando luogo all’attivazione di altre iniziative di sostegno.

Quindi, appare più che opportuno che i mediatori familiari siano in grado di connettersi agevolmente con le realtà del territorio che si occupano di violenza.

In conclusione, non tutti i conflitti sono mediabili, e probabilmente è un bene che sia così. Forse sarebbe alquanto pericoloso un mondo nel quale, coricandosi la sera, il mediatore familiare potesse permettersi di pensare con Goethe:

su tutte le vette è pace”.

D’altra parte, se questa fosse la sua aspirazione, sarebbe verosimilmente un pessimo mediatore.

 

Alberto Quattrocolo

 

Rielaborazione da

– lezioni di A. Quattrocolo nella XII Edizione del Corso in Mediazione Familiare e nella XII Edizione del Corso in Mediazione Penale, Sanitaria e Lavorativa

– formazioni di Silvia Boverini e A. Quattrocolo nel progetto “Eyes Wide Open. Cicli di incontri gratuiti sulla violenza psicologica sulle donne”, realizzato nel 2016 con il contributo e il patrocinio della Circoscrizione I della Città di Torino

Il presente articolo è stato pubblicato su www.studiocataldi.it (https://www.studiocataldi.it/articoli/32578-la-mediazione-familiare-va-sospesa-nei-casi-di-violenza-psicologica.asp). Una versione più contenuta dello stesso contributo è stata pubblicata su www.ilsussidiario.net (https://www.ilsussidiario.net/news/cronaca/2018/11/25/quattrocolo/1813093/).

[1] Ciò, anzi, pare al sottoscritto ancora più urgente e imperativo ponendo mente al disegno di legge proposto dal senatore Pillon, con specifico riguardo al tema della mediazione familiare come condizione di procedibilità per la separazione giudiziale, la quale, infatti – fatta salva l’ipotesi di modifiche particolarmente incisive -, si profila come fortemente stridente con il divieto posto dalla Convenzione di Istanbul, che, giova ripeterlo, l’ordinamento italiano ha doverosamente oltre che saggiamente recepito.

 

[2] Ad esempio, è essenziale per il mediatore familiare non confondere le situazioni di violenza psicologica con le tensioni, le ostilità, le rigidità contrapposte, le difficoltà di comunicazione, le incomprensioni e le sofferenze tipiche delle dinamiche conflittuali non violente. E, allo stesso tempo, occorre prevenire il rischio di considerare le tradizioni, la mentalità, gli usi o i costumi della coppia che si sta seguendo – non necessariamente costituita da persone di origine straniera – come fattori che escludono la presenza di tale forma di violenza.

Gran brutta malattia, il razzismo, più che altro strana…

Gran brutta malattia, il razzismo, più che altro strana: colpisce i bianchi ma fa fuori i neri“.

Era una battuta del disegnatore satirico Albert (Alberto Cottin), inserita in Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano (Gino &Michele e Matteo Molinari, 1991). E continua ad essere vera oggi come quando fu pubblicata. In effetti, ora come allora, continua ad essere una gran brutta malattia, il razzismo, e continua ad essere strana: chi ne è ammalato non ne soffre, facendo, invece, soffrire gli altri, e ne è portatore per lo più inconsapevole.

Raramente chi è razzista si riconosce e si rappresenta come tale. Per lo più si definisce vittima di coloro verso i quali si indirizza il suo odio razzista. E trova mille “argomenti” per giustificare il proprio razzismo. Generalizzazioni, distorsioni, preconcetti… Come recitava un noto tormentone di Francesco Paolantoni:

“Non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono napoletani!”

D’altra parte, una celebre battuta di Ellekappa suonava così:

I terroni non so, ma noi italiani non siamo razzisti.

La gestione di un conflitto di vicinato tra un anziano italiano e un giovane etiope

Circa vent’anni fa, presso uno dei Servizi gratuiti di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, gestimmo il nostro primo caso di conflitto legato alla dimensione del pregiudizio e della xenofobia. Era un conflitto di vicinato che coinvolgeva un anziano italiano, pensionato e solo, e un trentenne, immigrato dall’Etiopia. Abitavano sullo stesso pianerottolo e si detestavano.

Fu il pensionato a rivolgersi al nostro Servizio gratuito e a chiedere un appuntamento. Aveva già “denunciato” più volte il suo vicino per rumori o odori molesti, ma non aveva avuto alcuna soddisfazione dalle autorità, che gli sembravano tutte schierate dalla parte del “forestiero”. Il fatto che il nostro Servizio fosse qualificato non solo come di mediazione, ma anche e ancor prima come di “Ascolto del Cittadino”, lo aveva indotto a contattarci (le ragioni per cui il modello mediativo di Me.Dia.Re. si definisce in tal modo sono descritte qui).

Durante i colloqui individuali (ogni percorso di mediazione si svolge con colloqui individuali, separati, con ciascun attore del conflitto, come spiegato in altri articoli di questa rubrica), l’anziano, arrabbiato e guardingo, ripeteva continuamente che lui non era razzista. Apparteneva ad una famiglia che durante il regime fascista era stata duramente perseguitata per ragioni politiche. Ed era sempre stato un elettore di sinistra. Ciò per lui equivaleva ad una sorta di certificato, una patente, senza scadenza, di antirazzismo. Però, il modo con il quale parlava del vicino etiope era una summa dei più scontati pregiudizi. “Non ho niente contro gli africani finché se ne stanno a casa loro” (non ricordava o non sapeva che era stato proprio il da lui tanto detestato duce, Benito Mussolini, ad attaccare l’Etiopia, senza disturbarsi prima a dichiararle guerra, e ad ordinare di massacrarne la popolazione, facendo anche ricorso alle armi chimiche, come abbiamo ricordato nella rubrica Corsi e ricorsi). Era roso dalla rabbia, che si nutriva della paura e dell’invidia.

L’ascolto di una sola parte del conflitto può bastare per gestirlo

Nel corso dei colloqui individuali raccontò quasi tutta la sua vita. Era un fiume in piena. Per troppo tempo nessuno gli aveva chiesto davvero “come stai?” e, ora che aveva di fronte a sé qualcuno interessato alla sua persona, non aveva alcuna intenzione di sprecare l’occasione. Chi lo ascoltava, lo ascoltava davvero e, accogliendo i suoi sentimenti e le sue emozioni, lo faceva sentire riconosciuto come essere umano.

L’ascolto del dolore, della paura e della solitudine

Si soffermò sulla solitudine che lo affliggeva ormai da anni, sul dolore di essere stato messo in cassa integrazione e poi in pensione, sull’angoscia di sentirsi sia vulnerabile alla malattia che insicuro nella propria città. Disse della paura derivante dal vivere in mezzo a degli stranieri, che “chissà cosa fanno, cosa pensano, cosa tramano nelle vie del mio quartiere“. Parlò anche della tristezza di essere vedovo da alcuni anni, di quanto gli mancava la moglie, e della sofferenza di avere un figlio, residente con la compagna e la figlia in un’altra città, un figlio diventato ormai “un estraneo”. Un figlio che non lo chiamava quasi mai e che ancor meno lo andava a trovare, che non gli permetteva di fare il nonno. Invece, il suo vicino aveva sempre gente in casa. Connazionali e no. “Chissà che traffici fanno!” Inoltre, “quello” era giovane, sano e le sue giornate erano piene. Lavorava tutto il giorno al mercato e la sera aveva ancora energie “per ridere e scherzare e fare baccano”. E per di più, lo aveva sentito dire che intendeva far arrivare la famiglia. “Quello” si costruiva il futuro, mentre a lui la vita glielo aveva rubato, di soppiatto, un pezzo dopo l’altro, il futuro.

Quando, durante il quarto colloquio individuale, gli fu chiesto se voleva incontrare il vicino per discutere al tavolo della mediazione quei comportamenti che lo infastidivano così tanto, disse che ci avrebbe riflettuto su. Pareva combattuto.

L’effetto “contagioso” dell’ascolto

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Nel quinto colloquio, ci disse subito che, nel frattempo, aveva “mediato” direttamente con il vicino. Gli aveva rivolto la parola sul pianerottolo, una o due sere dopo il colloquio precedente. Ma lo aveva fatto con un atteggiamento diverso dal solito. Non più ostile e aggressivo, bensì quasi gentile e conciliante. Dopo una breve discussione dai toni contenuti, lo aveva invitato in casa a bere un caffè, anche se ciò gli aveva generato un bel po’ di ansia. E aveva scoperto che anche il giovane pativa “un sacco” la solitudine e la lontananza dalla famiglia. Gli mancavano moltissimo la moglie e i figli e sperava, e disperava, di poterli far arrivare in Italia. Gli aveva spiegato che spesso invitava gli amici a casa sua la sera per non sentirsi troppo solo e per non essere sopraffatto dalla nostalgia.

Nel colloquio, l’anziano disse che si erano messi d’accordo sul rumore e sugli odori della cucina, che non era più arrabbiato e non aveva più così tanta paura di lui. Era ancora un po’ diffidente, ma solo per prudenza, per non pentirsi poi di essersi fidato troppo. Gli aveva detto, comunque, che se voleva poteva venire a guardare la TV a casa sua, visto che non ne possedeva una. Era “un povero cristo” come lui, disse. Anzi, specificò, che era cristiano e non musulmano, come egli aveva creduto  – i musulmani non gli piacevano: riteneva che fossero, sotto sotto, “un po’ fascisti”. Aggiunse anche che ancora lo invidiava: “Quando sarà vecchio, come lo sono io, suo figlio non lo dimenticherà. Lo chiamerà per fargli auguri di buon compleanno o di buon Natale. Anzi terrà conto di quello che lui gli ha insegnato e lo passerà ai suoi figli e gli lascerà fare il nonno“.

Nessuno nasce odiando (Nelson Mandela)

Si tratta solo di un esempio, una vicenda che non ha la pretesa di essere paradigmatica, ma che fa sorgere il pensiero che quanto osservava Nelson Mandela possa essere vero anche oggi, da noi: “Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare; e, se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.

Se è così, allora rimane una gran brutta malattia, il razzismo, che si contrae per contagio. E questo contagio può essere inconsapevole, ma, oggi come ieri, pare lecito considerare quante volte è, invece, premeditato, programmato, organizzato e svolto con impressionante sistematicità e cura. E con devastante efficacia. Tanto che la definizione “campagna d’odio” pare perfino riduttiva. Basta guardare quel che succede tutti i giorni, per riscontrare come, anche nel nostro Paese, quel che, illudendoci, credevamo non potesse mai attecchire, è diventato parte di un’iniqua quotidianità. Per anni abbiamo creduto che fosse una “malattia” rispetto ala quale eravamo immuni. Un fenomeno presente in Sud Africa e negli USA, soprattutto negli Stati sudisti. E le pellicole hollywoodiane di denuncia del razzismo riscuotevano un ottimo successo. Uscivamo dalla sala cinematografia sentendoci decisamente migliori dei bianchi razzisti ritratti in quei film. Anzi, non poche di quelle pellicole di denuncia ci parevano perfino deboli, in fin dei conti, più di intrattenimento che di critica sociale. Un po’ troppo hollywoodiane, insomma (si pensi alla tripletta di successi planetari interpretati da Sidney Poitier nel 1967, Indovina chi viene a cena, La calda notte dell’ispettore TibbsLa scuola della violenza: ne abbiamo parlato qui). E questa era anche un’osservazione ricorrente di molti critici cinematografici. Molti di noi, però, hanno imparato ad odiare così tanto da somigliare moltissimo agli intolleranti ottusi dei film americani degli anni Cinquanta e Sessanta e di quelli successivi, come Mississipi Burning (1987, di Alan Parker) e Betrayed (1988, di Costa Gavras).

Gran brutta malattia, il razzismo, che si contrae per contagio e che alla fine svuota

Se si vuole gettare uno sguardo alle tante opere successive cinematografiche dedicate al tema, oltre al recentissimo BlacKkKlansman (2018, di Spike Lee), vi è anche American History X (1999, di Tony Kaye), di cui si è usata una scena come immagine per questo post.

Tra i tanti dialoghi meritevoli di essere citati di American History X vi è il seguente, tra Derek Vinyard (Edward Norton), uscito di prigione dopo aver scontato la pena per l’uccisione di due afroamericani, e il fratello più giovane, Danny (Edward Furlong):

Sono fortunato. Mi sento fortunato perché… Stavo sbagliando, Danny. E non capivo che lo sbaglio mi stava divorando, mi stava uccidendo. Continuavo a chiedermi come avevo fatto a bermi tutte queste stronzate, lo sai? All’epoca ce l’avevo con tutti, e niente di quello che facevo mi dava soddisfazione. Ho sparato addosso a due ragazzi, e li ho ammazzati! Ma non mi ha fatto stare meglio. Mi sono sentito perso, e adesso sono stanco di essere sempre incazzato. Sono stanco di tutto questo.

Quel che queste parole suggeriscono è che la precarietà e l’ansia, la solitudine e l’insoddisfazione, il senso di inadeguatezza e di impotenza, la frustrazione e il dolore non vengono placati proiettandoli su di un altro. Che essere sempre incazzati con qualcuno, de-umanizzandolo e criminalizzandolo, nutrendo, così, la propria paura e la propria rabbia, alla lunga è sfiancante. Perché ci isola, ci rinchiude il pensiero e ci spegne i sentimenti. E ci lascia un vuoto. Un vuoto angosciante e disperante, come quello dell’anziano di cui si è raccontato il conflitto.

Certo fa pensare anche il fatto che continuino ad essere aderenti alla realtà, non solo del suo Paese, gli USA, ma dell’Occidente intero, anche le parole di Gore Vidal:

Ho sempre trovato strano che una nazione la cui prosperità è basata sul lavoro a basso costo degli immigrati sia così incessantemente xenofoba.

Il mediatore di fronte al razzismo

Per chi si occupa di mediazione, quando si tratta di gestire un conflitto connesso a questa dilagante e gran brutta malattia, il razzismo, non sono poche le problematiche che si aprono. Tanto per citarne solo un paio:

  • il mediatore riuscirà a svolgere la sua funzione in modo neutrale, cioè sarà in grado – sperando che non sia razzista anch’egli – ad essere equi-prossimo, a non risultare giudicante e a non assumere un atteggiamento “moralista e pseudo-pedagogico“?
  • il mediatore saprà valutare in quali casi ha senso portare avanti il percorso e in quali, invece, no, per non dare luogo ad una situazione in cui si potrebbe reiterare la violenza morale che sostanzia il razzismo?

Appare plausibile pensare che non siano domande di poco conto, vista la crescita vertiginosa non soltanto di violenze e discriminazioni pesantissime, ma anche di situazioni di conflittualità legate proprio al pregiudizio, alla xenofobia, al razzismo, che teoricamente sarebbero gestibili con la risorsa della mediazione.

Il mediatore deve sapere riconoscere l’umanità altrui

Incidentalmente andrebbe osservato che, ovviamente, non si può essere mediatori e razzisti. Il razzismo è un’intrinseca, radicale, negazione della mediazione, che si tratti di mediazione familiare, penale, sanitaria, lavorativa, sociale, scolastica o civile e commerciale. Chi svolge la professione di mediatore, infatti, in primo luogo, a prescindere dal modello operativo che ha scelto o dell’ambito in cui interviene (familiare, penale, sanitario…), deve sapere ascoltare le persone protagoniste del conflitto. Ascoltarle come esseri umani e farle sentire riconosciute come tali. E ciò non è compatibile con l’avere una visione dell’Altro come di un’entità astratta, catalogabile come inferiore e nociva, né col reputarlo meritevole di violenza morale e/o fisica, in virtù della rappresentazione de-umanizzante e demonizzante sviluppata nei suoi riguardi.

Alberto Quattrocolo

La mediazione familiare e la violenza

Mentre prosegue e si estende il dibattito sul DL Pillon, che, fra gli altri aspetti controversi, contempla anche il tema della mediazione familiare, configurandola come obbligatoria, proponiamo qualche accenno di riflessione sulla assai problematica questione di tale strumento di gestione del conflitto nei casi di violenza.

La Convenzione di Istanbul vieta la mediazione familiare nei casi di violenza

Si deve ricordare, a tal riguardo, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, altrimenti nota come Convenzione di Istanbul. L’art. 48, punto 1, della Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia nel 2013, prevede l’adozione delle necessarie misure legislative, o di altro tipo, per

«vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione».

Perché nella Convenzione di Istanbul si vieta la mediazione familiare nei casi di violenza?

In buona parte la spiegazione è fornita dal testo della Convenzione stessa: «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione […] La violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».

Se questo è lo sfondo indiscutibile sul quale si collocano le norme della Convenzione, si può ulteriormente osservare, che la preoccupazione, più che fondata, degli estensori della Convenzione stessa è che quando un coniuge sottoposto ad una condizione di violenza da parte dell’altro arriva a maturare la decisione di separarsi, la mediazione possa essere interpretata dal partner violento come un’arma per mantenere il controllo e il dominio sull’altro, perpetuandone la vittimizzazione. Di fatto, in tale contesto violento, la mediazione familiare finirebbe con l’essere adoperata dal partner violento per impedire che si compia realmente la separazione, cercata dal partner vittima di quella violenza, così da evitare l’interruzione della sopraffazione violenta e della dominazione poste quotidianamente in essere.

La violenza e il modello di mediazione familiare

Patrizia Romito in Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori (2005), osservava che:

“La mediazione familiare si ispira al modello sistemico di responsabilità diffusa e di neutralità del terapeuta. Da un punto di vista ideologico, il modello di riferimento è quello della buona separazione, in cui i coniugi mettono in secondo piano i loro conflitti per il bene del bambino, bene che viene identificato a priori col mantenere rapporti costanti con entrambi i genitori, spesso nella forma dell’affido congiunto. Secondo il modello della separazione amichevole, i conflitti dei coniugi in questa fase sono una conseguenza della tensione legata all’evento in sé, semmai acuiti dalle procedure giudiziarie, e non il prolungarsi o l’inasprirsi di conflitti precedenti, che li hanno portati alla separazione. Con questa assunzione di base (peraltro non provata e bizzarra: perché si separano se andavano così d’accordo?) si apre già la strada alla negazione della violenza domestica. La pratica della mediazione richiede infatti che gli ex coniugi si concentrino sul presente e sul futuro senza rinvangare il passato e i relativi conflitti. Inoltre, e anche questo è un aspetto decisivo, eventuali denunce o procedure giudiziarie devono essere sospese. Se la donna cerca di discuterne – per esempio, facendo presente che incontrare l’ex marito per consegnare i bambini la mette in una situazione pericolosa, o esprimendo il timore che lui li trascuri o li maltratti – verrà ripresa perché non sta alle regole e trattata da donna vendicativa e rancorosa, la stessa accusa già descritta nella sindrome di alienazione parentale e nelle false denunce di abuso in fase di separazione. Eppure questo succede e può rappresentare una strategia deliberata degli uomini violenti. Dato che la separazione limita la possibilità di dominare e controllare l’ex partner, alcuni di loro cercano di ottenere che il tribunale imponga la mediazione familiare, proprio perché dà un’opportunità di incontrare l’ex moglie e di continuare a perseguitarla.

La descrizione prospettata da Patrizia Romito riguarda un approccio mediativo che, oggettivamente, finisce con l’essere di rinforzo ad una situazione di drammatica ingiustizia e prevaricazione, di radicale negazione non soltanto dei diritti fondamentali della vittima, ma persino della sua umanità.

Non vi è motivo per mettere in discussione le sue considerazioni, dunque, se non accostando ad esse un’integrazione.

Questa riguarda l’assunto di base e gli obiettivi della mediazione familiare cui la Romito si riferisce. Non si vuole qui pretendere di dare una visione omnicomprensiva di tutte le pratiche e le teorie della mediazione familiare, per ribattere alle osservazioni di Patrizia Romito, ma più limitatamente far osservare che le premesse, il metodo e gli obiettivi dell’intervento di mediazione familiare da lei presentato sono quanto di più distante dal modello pensato e praticato dall’Associazione Me.Dia.Re.[1] Su tale modello sono già stati proposti diversi brevi post nella rubrica Riflessioni del nostro sito.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Il modello di Me.Dia.Re. e la violenza

Il nostro modello (per una disamina più approfondita del quale si rinvia alle pubblicazioni di cui sono autori alcuni membri dell’Associazione), da oltre tre lustri, non casualmente si definisce di Ascolto e Mediazione e, di nuovo, non casualmente, sul piano operativo, si sviluppa attraverso una serie di colloqui individuali – separati – con i singoli protagonisti del conflitto portato. Tali colloqui possono essere preliminari agli incontri di mediazione, eventualmente richiesti dagli attori del conflitto (che sono richiesti da loro, dunque, non sono mai proposti dal mediatore). L’opportunità di realizzare tali incontri, se richiesti da entrambe le parti, è valutata dal mediatore, tenendo conto di molteplici aspetti che riguardano in primo luogo la possibilità che sia presente la dimensione della violenza nelle sue diverse forme.

Nel corso dei colloqui individuali, dunque, le possibilità che emerga da parte della persona vittima di violenza tale realtà di vittimizzazione sono significativamente alte, proprio perché si tratta di situazioni nelle quali l’autore della violenza non è fisicamente presente e non ha alcuna possibilità di controllare, né alcuna possibilità di influenzare direttamente i contenuti che il partner può comunicare in quella sede.

La “risorsa” dei colloqui individuali nel modello di “Ascolto e Mediazione”

Soprattutto, nell’ambito dei colloqui individuali, non meno che negli eventuali incontri di mediazione, la premessa di questa impostazione mediativa, se non antitetica, è radicalmente eterogenea rispetto a quella descritta dalla Romito, ed è proprio in questa diversità di approccio e di finalità che risiede la prevenzione del rischio di una strumentalizzazione del percorso da parte del partner violento.

Infatti, diversamente da quanto esposto dalla Romito, il passato e il presente – come insistentemente spieghiamo anche nei nostri percorsi formativi –  non sono espulsi dai temi di cui le parti possono parlare con il mediatore. Anzi, il passato e il presente del loro rapporto sono al centro dell’attenzione del mediatore, il cui compito è quello di ascoltare le persone e di farle sentire ascoltate anche, anzi principalmente, proprio sul piano dei bisogni, delle emozioni, dei sentimenti, delle ferite, delle paure di cui sono portatrici. Né, dal nostro punto di vista è pensabile che, come ha scritto Patrizia Romito, se la donna cerca di discutere – per esempio, facendo presente che incontrare l’ex marito per consegnare i bambini la mette in una situazione pericolosa, o esprimendo il timore che lui li trascuri o li maltratti – possa essere ripresa.

Questo approccio dispiegato da un mediatore costituirebbe una gravissima condotta, una negazione radicale della ragion d’essere del suo lavoro, della mediazione stessa, oltre che una clamorosa violenza sulla donna stessa.

Sarebbe quanto di più perverso da parte del mediatore il richiamarla, come afferma la Romito, perché non sta alle regole e il trattarla da donna vendicativa e rancorosa, cioè il rinfacciarle la stessa accusa già descritta nella sindrome di alienazione parentale e nelle false denunce di abuso in fase di separazione. Si tratterebbe, infatti, di una presa di posizione da parte del mediatore rivelativa di qualcosa di assai più grave della già criticissima perdita della neutralità.

Senza dilungare ulteriormente il discorso su piani tecnici, che pure meriterebbero di essere approfonditi ed esaminati, vale la pena osservare che non raramente in questi molti anni di attività è accaduto che proprio nei colloqui individuali, eventualmente preliminari al primo incontro di mediazione, emergesse la presenza di vissuti di vittimizzazione connessi a condotte violente (anche sotto forma di violenza psicologica).

Anche i colloqui individuali preliminari all’eventuale incontro di mediazione non costituiscono una garanzia assoluta

Si è detto più sopra che sono alte le probabilità che la persona vittima di violenza da parte del partner nell’ambito dei colloqui individuali, previsti nel modello Ascolto e Mediazione, comunichi al mediatore la vittimizzazione di cui è oggetto. Non vi è, però, una reale certezza che ciò accada.

La comunicazione della propria esperienza di vittimizzazione, infatti, è di una complessità notevole ed è particolarmente impegnativa sul piano emotivo. Molte ansie e preoccupazioni circa quel che può pensare l’interlocutore, l’angoscia, il dolore, la rabbia, la paura, il senso di colpa possono rendere particolarmente faticosa l’esposizione.

Del resto accade anche che la vittima, quasi desensibilizzata dalla violenza subita, presenti i fatti in maniera completa e razionale, ma tale fredda e distante narrazione potrebbe pregiudicare la sua credibilità. Ciò accadrebbe, in particolare, se il mediatore, nella propria rappresentazione mentale associasse a quel tipo di esperienza il manifestarsi palese di un certo grado di turbamento emotivo nel narratore.

Il mediatore familiare dovrebbe avere una preparazione che lo faciliti nell’individuazione e nell’accoglienza delle situazioni di violenza

In tali situazioni la scarsa preparazione nel fornire un ascolto adeguato pregiudica spesso la possibilità per la vittima di ricevere il supporto necessario, mentre una formazione che procuri una tale competenza presso i mediatori familiari può realmente costituire un aiuto per le donne che vivono queste situazioni, facilitandole nella tutela di sé e nella ricerca di aiuto presso centri ad hoc. Del resto, va rimarcato, per i mediatori esiste anche la risorsa della supervisione, oggi obbligatoria, la quale può ben costituire una risorsa importante su tale registro[2].

Tra le diverse difficoltà cui il mediatore familiare, in tali casi, dovrebbe riuscire a far fronte, infatti, vi è anche, accanto a quella sopra accennata e ad altre ancora, quella costituita dal carattere tortuoso della narrazione proposta dalla vittima. La tormentata condizione emotiva vissuta può far sì che l’esposizione dei fatti non sia fluida e coerente né facilmente intelligibile, e ciò può rendere problematica la recezione del “messaggio” da parte del mediatore familiare che, magari non adeguatamente preparato, rischia di essere poco attento su tale piano.

Quando la violenza emerge, la mediazione familiare va sospesa

Talora va aggiunto, nella pratica della mediazione familiare, ci è accaduto che tale aspetto emergesse soltanto durante il primo incontro di mediazione: in tali casi, il comportamento violento comunicato era costituito da un singolo episodio di violenza fisica (percosse o minacce). Mentre altre rare, ma non rarissime, volte, la violenza è stata comunicata dalla donna, successivamente al primo incontro di mediazione, grazie alla facilitazione svolta dai mediatori, nell’ambito dei colloqui individuali successivi a quel primo incontro di mediazione (dopo ogni incontro di mediazione, il modus operandi di Me.Dia.Re. prevede la realizzazione di colloqui individuali con entrambi gli attori del conflitto).

In ogni caso, ogniqualvolta è emerso il fenomeno della violenza – nelle sue più diverse forme -, il percorso di mediazione familiare è stato sostituito da altre forme di presa in carico o di accompagnamento ad altri servizi.

Alberto Quattrocolo

Rielaborazione da

– lezioni di A. Quattrocolo nella XII Edizione del Corso in Mediazione Familiare e nella XII Edizione del Corso in Mediazione Penale, Sanitaria e Lavorativa

– formazioni di Silvia Boverini e A. Quattrocolo nel progetto “Eyes Wide Open. Cicli di incontri gratuiti sulla violenza psicologica sulle donne”, realizzato nel 2016 con il contributo e il patrocinio della Circoscrizione I della Città di Torino

 

[1] Appare plausibile che anche coloro che praticano un modello di mediazione familiare d’ispirazione sistemica si ritrovino poco nella descrizione proposta dalla Romito, ma sembra sensato invadere il loro campo e lasciare che siano costoro a sviluppare le considerazioni che ritengono più opportune.

[2] L’A.I.Me.F. non solo ha stabilito per i mediatori familiari l’obbligo di effettuare 10 ore di supervisione annue (in base agli articoli 7 e 8 del Regolamento Interno dell’A.I.Me.F.: http://www.aimef.it/statuto/regolamento-interno e alla Norma Tecnica UNI-11644-2016), ma si è anche curata di formare dei Supervisori Professionali, avendoli prima individuati tra coloro che sono in possesso di almeno 5 anni di esperienza nel campo della mediazione e che hanno erogato almeno 100 ore di formazione sulla mediazione familiare.

Il superamento della preoccupazione di persuadere il mediatore della validità delle proprie ragioni

Una delle prerogative del percorso di mediazione e, segnatamente del modello “Ascolto e Mediazione” praticato da Me.Dia.Re., nei suoi Servizi di Mediazione Familiare e in quelli, appunto, di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, è che in esso le parti sono liberate dall’ansia di riuscire ad essere persuasive.

Sia nei colloqui individuali che negli incontri di mediazione, le persone sono sgravate dalla classica preoccupazione secondo cui

dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto” (Beaumarchais).

Infatti, nello sviluppo del percorso, grazie all’approccio declinato dal mediatore nella relazione con ciascun attore del conflitto, si stabilisce un clima permeato dalla consapevolezza dell’assenza di giudizio.

Il mediatore, quindi, non è vissuto come se fosse una sorta di “giudice che valuta ma non decide”. Cioè, non è visto come un soggetto che: da un lato, valuta i comportamenti, le azioni e gli atteggiamenti tenuti dalle parti nello sviluppo del loro conflitto e giudica chi di loro ha agito o pensato bene o in maniera adeguata e ci invece no; dall’altro, non decide esplicitamente e non condanna o assolve chi ha torto o ragione, ma implicitamente e indirettamente darà maggiore sostegno e favorirà la parte che saprà dimostrargli di essere stata colei che nella relazione conflittuale ha saputo agire con maggiore equilibrio, lealtà, nobiltà d’animo, fedeltà a principi condivisibili universalmente, ecc.

Questo tipo di percezione degli attori del conflitto rispetto al mediatore, questo loro rapportarsi con tale professionista, come se fosse imprescindibile convincerlo della congruità delle proprie reazioni conflittuali alle ingiustizie commesse dalla controparte, sussiste, certamente, al momento del primo incontro. Ma, poco per volta, questa dimensione, generativa di un atteggiamento performante e, invero alquanto stressante, viene meno. Gradualmente è sostituita da una condizione maggiormente rilassata.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

E tale transizione si verifica, in particolare, nell’ambito dei colloqui individuali – cioè, separati – con i singoli mediati. L’assenza dell’altro, che, ove fosse presente, sarebbe pronto a ribattere punto su punto ogni affermazione, la consapevolezza di avere quello spazio di ascolto interamente per sé stessi, associati alle modalità relazionali del mediatore, de-tendono le istanze di tipo persuasivo-performante, sicché, la persona svolge di più la comunicazione su un piano di dibattito interno. In breve, mette a confronto le proprie posizioni, idee, frustrazioni, esigenze, ferite, angosce e sofferenze con quelle dell’altro – o meglio con quelle che suppone l’altro sia portatore -, e nel farlo avvia un dialogo con se stesso, con il suo giudice interno, con la rappresentazione che ha di sé e del conflitto e con quella che ritiene abbia la sua controparte.

Tenderà ciascuna parte ancora a darsi più ragione che torto? Verosimilmente sì, altrimenti il conflitto più che già mediato sarebbe quasi risolto. Però, sarà stato rimosso, almeno in gran parte, un enorme ostacolo, potenzialmente impeditivo di ogni possibilità di sviluppo di una relazione efficace tra gli attori del conflitto e il mediatore.

Alberto Quattrocolo

Rielaborazione da:

Lezione di A. Quattrocolo svolta nella quarta lezione della XI edizione del Corso di Mediazione Penale, Lavorativa e Sanitaria

– De Palma A., Quattrocolo A. (2009) La mediazione tra medico e paziente. Un intervento imparziale sul fenomeno crescente del contenzioso per responsabilità professionale medica, Athena Medica srl, Modena.

La mediazione e l’Alterità

Il filosofo francese Emmanuel Lévinas ha messo in luce, come l’intera storia del pensiero occidentale (della metafisica in particolare) abbia rappresentato, come egli afferma, una «riduzione dell’Altro al Medesimo»: si è sempre assistito, cioè, al tentativo di ricondurre l’alterità dell’Altro, del Diverso ad una Totalità unitaria, che, nel tentativo di racchiudere il molteplice, ne avrebbe provocato una neutralizzazione.

La “retorica del dialogo”, con il suo potere ricattatorio (“chi non dialoga non vuole mettersi in comunicazione-relazione”), avrebbe celato, in realtà, una “violenza metafisica”, in cui l’Alterità non trovava posto come concetto a sé stante e irriducibile.

Oggi, come allora, queste osservazioni di Lévinas non sono prive di implicazioni e risvolti afferenti registri e piani diversi. Possono essere interessanti anche rispetto alla dimensione dei rapporti e delle interazioni che sviluppiamo nella nostra quotidianità. Hanno un’attinenza non irrilevante, però, anche con il Conflict Management in generale e con la mediazione dei conflitti, in particolare.

Risguardo a quest’ultimo aspetto, annotiamo che quello della mediazione è un mondo assai vasto, in cui sono presenti prospettive, modelli, chiavi di lettura, modalità di intervento, metodologie e approccio diversi. A volte sommamente eterogenei.

Soffermandoci brevemente sulla mediazione applicata da Me.Dia.Re. in diversi ambiti (familiare, penale, sanitario, organizzativo-lavorativo…), puntualizziamo che il mediatore, in tale modello, chiamato di “Ascolto e Mediazione”, non soltanto si astiene dal giudicare e dal prendere posizione, com’è naturale che sia, ma adotta anche un approccio che, in qualche misura, rinvia alle riflessioni di Lévinas.

In particolare, in tale modello, il mediatore non interviene nel conflitto per contrastarlo o sedarlo, ma accetta rispettosamente le posizioni dei soggetti in esso coinvolti, sostenendo con i propri interventi l’uno e l’altro, aiutandoli ad esprimersi e permettendo, perciò, il confronto. Quindi, non li spinge al dialogo.

Ciò non significa che al mediatore sia personalmente indifferente se si produca o meno il dialogo tra gli attori del conflitto. Spesso accade, infatti, che egli se lo auspichi, per quello che suppone possa essere il loro benee per il bene di coloro che, pur non essendo protagonisti attivi di tale conflitto, ne subiscono gli effetti. Pertanto, deve esercitare un’auto-osservazione per evitare di “agire” tale suo augurio. Ed è quest la ragione per la quale in sede formativa così tanto spazio è dedicato alla riflessione su tali aspetti.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Tuttavia, quale che sia il pensiero o il sentimento del mediatore, nel suo relazionarsi con loro, egli si astiene dal tentativo di contrastare l’eventuale indisponibilità al dialogo con delle esortazioni, dirette o indirette, esplicite o implicite, a stabilirlo.

La mediazione, in altri termini, in tale prospettiva, è proposta e gestita non come spazio in cui stimolare le persone dialogare, se tale non è la loro intenzione, ma come occasione di confronto. Cioè come possibilità di esprimere, in un confronto, posizioni, punti di vista, idee, bisogni, esigenze, aspettative, emozioni e sentimenti differenti, spesso in contrasto.

Il dialogo, del resto, ci sembra, ha più probabilità di affermarsi realmente e sinceramente, e non in termini retorici, allorché il mediatore, con la sua attività di ascolto, con la sua comunicazione, invece di negarla o neutralizzarla, riconosce l’Alterità.

Maurizio D’Alessandro

Rielaborazione da D’Alessandro M., Quattrocolo A. (2015), L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, in La Giustizia Sotenibile vol. VIII (pag. 273-286), Aracne, Roma.

La mediazione familiare non fa il processo ai genitori in conflitto

Senza tanti giri di parole, è opportuno rammentare che la mediazione familiare nasce come forma di “supporto” ai genitori, anche, se non in primo luogo, per aiutarli a tutelare i loro figli dagli effetti del loro conflitto.

La conflittualità, specie quando è esasperata, può prendere la mano ai genitori e diventare una fonte di forte sofferenza per il figlio. Ad esempio, nelle situazioni in cui i genitori non riescono a fargli sentire che le incomprensioni e i conflitti che riguardano il loro rapporto di coppia sono “un problema loro”.

Il bambino nelle situazioni conflittuali più esacerbate arriva a sentirsi non soltanto smarrito e solo, ma, a volte, anche lacerato da, anche inconsapevoli, richieste di alleanza. Richieste che dentro di lui sono incompatibili con la sua rappresentazione di mamma e papà e del suo sentimento di lealtà verso ciascuno dei due. Coinvolto dentro un conflitto che non è il suo, spesso finisce per sentirsene responsabile. E, se uno dei due genitori se ne va di casa, può temere che anche l’altro genitore lo abbandoni. D’altra parte, la rottura stessa delle routine domestiche può costituire un fattore destabilizzante.

La mediazione familiare – che, è bene precisarlo, non può essere proposta nelle situazioni di violenza [1] – sorge per tentare di contenere e regolare queste situazioni, adottando una tipologia di intervento che, in alternativa al processo di delega delle decisioni sulle questioni controverse (affettive, economiche…) ad un soggetto terzo, in nome del principio di autodeterminazione, ne ri-attribuisce la competenza e la responsabilità ai diretti interessati. Sia chiaro, però che la mediazione familiare non dovrebbe mettere sul banco degli imputati i genitori per il dolore che il loro conflitto genera nel bambino: in fondo, la ragion d’essere della mediazione non è soltanto quella di ridurre il numero delle vittime di un conflitto e i danni da esse patiti, ma è anche quella di porsi accanto a degli adulti che vivono un’esperienza conflittuale – generalmente dolorosa, complessa e tormentata -, in termini di accompagnamento e aiuto, con approccio a-valutativo.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

La duplice premessa della mediazione (non soltanto di quella familiare), infatti, è che il conflitto è un fatto naturale, di per sé né positivo né negativo, e che il mediatore non è un giudice.

Pertanto, il mediatore non dovrebbe relazionarsi con i coniugi come un giudice del loro conflitto, né come un soggetto investito della funzione di combattere questo loro conflitto.

Del resto, se ciò accadesse, verosimilmente la mediazione produrrebbe un ulteriore conflitto: quello tra il mediatore e i suoi clienti/utenti.

Alberto Quattrocolo

Tratto dall’intervento di A. Quattrocolo nell’Open Day della XVI edizione dei Corsi di Mediazione Familiare e di Mediazione Penale, Sanitaria e Lavorativa

[1] Naturalmente ciò pone non pochi problemi in capo al mediatore. Infatti, certamente non sta a lui indagare formalmente né certificare la presenza della violenza, ma egli dovrebbe svolgere la sua attività in modo tale da ridurre al minimo il rischio che, ove tale situazione vi sia, egli ne resti del tutto ignaro e che, perciò, il suo operato si riveli accrescitivo delle dinamiche (anche, ma non solo, relazionali) che permettono l’esercizio della violenza, nelle sue varie forme, tra le mura domestiche. Qui ci si limita ad accennare che è anche in considerazione di tale aspetto che Me.Dia.Re. prevede che il percorso di mediazione inizi con dei colloqui separati con i membri della coppia, che vi sia, nell’ambito di tali colloqui, una riflessione attenta con le singole parti sulla loro volontà di incontrarsi successivamente al tavolo della mediazione e che vi siano ulteriori colloqui individuali tra un incontro di mediazione e l’altro.

Perché “Ascolto e Mediazione” e non soltanto “Mediazione”?

I servizi di Me.Dia.Re. sono definiti e declinati non soltanto come di “mediazione”, ma come servizi di “Ascolto e Mediazione”, il che vale anche per quelli di mediazione familiare, di mediazione penale, di mediazione sanitaria, ecc. Perché?

Spesso la parola mediazione tiene lontani coloro che, pur soffrendo non sono disposti a mediare il loro conflitto, ritenendo che mediazione significhi compromesso, che equivalga ad una resa, ad una sconfitta, che sia sinonimo di rinuncia alle proprie ragioni, o che implichi la disponibilità non solo al sacrificio dei propri diritti e interessi, ma anche al tradimento dei propri valori, incluso un basilare senso di giustizia.

Per tale ragione i nostri Servizi sono anche e in primo luogo Servizi di Ascolto, oltre che di mediazione: non per fare arrivare alla mediazione chi non vuole sentire neppure pronunciare tale parola, ma per dare un luogo e un tempo di accoglienza anche a chi ha quel genere di sentimento, di pensiero e di atteggiamento.

Si intende offrire, cioè, la possibilità di essere ascoltati anche a coloro che non sono disponibili a mediare i loro conflitti. E l’esperienza dice che non sono (siamo) pochi, anzi che sono (siamo) tanti. Verosimilmente, la maggioranza.

 

Tratto dall’intervento di A. Quattrocolo nell’Open Day della XVI edizione dei Corsi di Mediazione Familiare e di Mediazione Penale, Sanitaria e Lavorativa

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Il mediatore sullo sfondo

Il mediatore non è un protagonista, semmai è un co-protagonista – cioè deuteragonista o tritagonista, a seconda dei casi. Infatti, come mediatore incontra altri esseri umani e condivide con questi la scena dell’incontro, ma deve tendere a mettersi da parte, a restare il più possibile sullo sfondo. Quello sfondo sul quale emergono le figure dei soggetti il cui conflitto è chiamato a mediare: i medianti.

La sua posizione è quella di chi segue la narrazione altrui, e in un certo senso la vive, ma senza potere intervenire su di essa. Assiste al prodursi, o riprodursi, concreto e drammatico del conflitto, anche nelle sue valenze emotive e affettive, però, ne resta spettatore neutrale. Uno spettatore sui generis, poiché, in realtà, egli c’è e comunica la sua presenza, ma non le sue opinioni ed emozioni. Queste, in effetti, devono restare silenziose dentro di lui.

 

Rielaborazione da A. Quattrocolo (2005) La mediazione trasformativa. Un modo d’intendere e di praticare la mediazione dei conflitti. Quaderni di Mediazione, n1. settembre 2005, Punto di Fuga Editore, pp29-37.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Il fine della mediazione non è prestabilito dal mediatore

Il fine della mediazione non è quello di ottenere un risultato predefinito, non solo perché ciò provocherebbe una ricaduta nell’ambito del “produrre”, ma anche perché un’anticipazione del risultato atteso eliminerebbe il presupposto della libertà dei due contendenti, i quali vedrebbero gestito ed indirizzato il loro conflitto verso un fine prestabilito dai mediatori. Il che contrasterebbe alquanto con il presupposto della mediazione quale spazio in cui il conflitto, anziché essere delegato a figure terze, è gestito dai suoi protagonisti con il supporto di terzi, che hanno un compito di facilitazione della comunicazione.

Non è peregrino svolgere tale considerazioni mentre si avvicina la discussione su di un disegno di legge volto ad introdurre tra le altre norme anche quella sull’obbligatorietà della mediazione familiare per le coppie con figli minori interessate da vicende separative.

 

Rielaborazione da D’Alessandro M., Quattrocolo A. (2007) La Mediazione Trasformativa come Prassi, Quaderni di Mediazione, Anno II, n. 5

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

La libertà e la mediazione

Il fondamento della mediazione sviluppata da Me.Dia.Re. è la libertà dei soggetti protagonisti del conflitto. Da ciò deriva lo svincolarsi di tale pratica da dettami “tecnico-produttivi”.

Tale modello di mediazione dei conflitti (definito “Ascolto e Mediazione“), infatti, utilizza alcune tecniche senza però essere essa stessa una tecnica. Poiché la pratica della mediazione non è descrivibile in termini scientifico-procedurali, essa può essere considerata una forma di “prassi”, cioè di azione pura, e quindi non un fare produttivo.

In altri termini, il rispetto della libertà dei protagonisti del conflitto è alla base dell’astensione, da parte del mediatore, dal tentare di modificare i loro comportamenti, atteggiamenti, pensieri, sentimenti o emozioni. Cioè, in tale modello mediativo, il mediatore, nel relazionarsi con le parti, non impiega delle tecniche per “produrre qualcosa che prima non c’era”.

Tale approccio mediativo, dunque, aspira ad essere “un’azione pura”, proprio perché il fine del percorso non consiste nel dare luogo ad un risultato predefinito, cioè la risoluzione del conflitto.

Infatti, se il mediatore intraprendesse il perseguimento di tale obiettivo, nella sostanza, agirebbe e dispiegherebbe delle tecniche per produrre un cambiamento nella relazione tra i confliggenti e, quindi, per generare in essi stati emotivi e affettivi e di elementi cognitivi e comportamentali differenti da quelli iniziali.

Nell’approccio proposto da Me.Dia.Re., nei Servizi di Mediazione Familiare e nei Servizi di Mediazione in altri ambiti, e nei suoi percorsi di formazione, l’obiettivo del percorso è il percorso. Il senso dell’azione è l’azione stessa. In termini meno astratti: l’ascolto è svolto con l’obiettivo che le persone si sentano ascoltate e non che cambino emozioni, comportamenti o idee.

L’esperienza (non tantissima ma neanche pochissima: si tratta pur sempre di circa vent’anni anni di esperienza) dice, però, che proprio rispettando la libertà di essere e di agire dei confliggenti aumentano significativamente le possibilità che il percorso produca un risultato ulteriore: un’elaborazione e un superamento delle istanze conflittuali inizialmente proposte.

 

Rielaborazione da D’Alessandro M., Quattrocolo A. (2007) La Mediazione Trasformativa come Prassi, Quaderni di Mediazione, Anno II, n. 5.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background