La mediazione dei conflitti in pillole

La mediazione dei conflitti in pillole. Spunti teorici e metodologici.

In cinque dirette Facebook i professionisti di Me.Dia.Re. presentano il teme della mediazione dei conflitti. I primi due video, già on-line, offrono un inquadramento teorico-metodologico della mediazione dei conflitti nell’ambito delle alternative dispute resolutions e un approfondimento sul tema della mediazione familiare. Cos’è la mediazione dei conflitti? Quali sono i suoi presupposti teorici e metodologici? Quali sono i principi che regolano l’attività del mediatore? Quali sono gli ambiti in cui la mediazione viene più frequentemente adoperata?

La mediazione dei conflitti è suddivisa in una molteplicità di rivoli”, spiega il Prof. Quattrocolo. “Se vogliamo considerarla una foce, fa impressione il numero dei canali che vanno verso il mare.  L’eterogeneità di questo panorama è determinato da due o più elementi: dal significato di mediazione che si ha in mente e che viene declinato nella pratica e l’ambito in cui la mediazione stessa è implementata”. I successivi video offrono approfondimenti su alcuni di questi ambiti, a cominciare, appunto, da quello della mediazione familiare.

E’ possibile seguire le sei puntate in diretta ogni mercoledì mattina su Facebook, o visualizzarle sul nostro canale YouTube. Ecco il programma delle puntate:

– La mediazione dei conflitti. Inquadramento teorico e metodologico nell’ambito delle ADR

– La mediazione familiare

– La mediazione penale

– La mediazione in sanità

– I presupposti filosofici della mediazione dei conflitti

 

La mediazione come spazio di confronto

Contro la “retorica del dialogo”: la mediazione come spazio di confronto.

“Se uno dei presupposti della mediazione è quello dell’assenza di giudizio, il mediatore avrà, dunque, la funzione non di ripristinare il dialogo ma di permettere il confronto rispettando l’esito che i due confliggenti vorranno dare a tale percorso”. M. D’Alessandro

Generalmente intendiamo con il termine dialogo un discorso fra due o più persone che miri a un’intesa. Tant’è che aprire un dialogo fra parti contrapposte indica il tentativo di persone disposte a ragionare con l’intento di raggiungere una verità o un’opinione condivisa: quando infatti si utilizza l’espressione “tra noi manca il dialogo”, indichiamo il fatto che ognuno resti della propria opinione. Escludendo la poesia o il teatro dove si fa genere il dialogo, nasce con Platone per l’esigenza di presentare drammaticamente il processo di disvelamento e di conquista della verità, attraverso il contrasto di opinioni contrapposte.

Il fine del dialogo in generale, sia che si instauri tra due persone o gruppi reali sia che venga utilizzato come strumento retorico per trattare un tema, è trovare un’intesa o percorrere una strada concettuale che abbia come fine la scoperta della verità. Il dialogo trae la propria legittimazione dalla sua ripetibilità, dal suo dover render conto e nel suo tentativo di trovare l’intesa[2].

Se il dialogo presuppone un concetto di verità, il confronto prevede, invece, che ci sia il reciproco presentarsi di due punti di vista a cui viene offerta la possibilità sia di un incontro sia di uno scontro, sia di una convergenza sia di una divergenza.

Se definiamo la mediazione a partire dal concetto di prassi, essa non può essere un semplice agire tecnico-strumentale (cioè un mezzo in vista di un fine come prodotto)[3]. La razionalità dialogica dovrebbe intervenire per escludere la possibilità dell’inganno di molti da parte di uno o anche di un inganno tutti assieme: l’equiparazione dei ruoli e la regolazione del dialogo hanno la funzione di consentire la conduzione del discorso dialogico eliminando la possibilità del perseguimento di scopi particolari. Ma questa forma di conduzione dell’agire necessita di condizioni ideali che assicurino la correttezza del dialogo. Nel quadro del dialogo, in sostanza, si fa sentire il problema dell’inganno sofistico e l’appello alla serietà diventa impotente di fronte alle forme dell’inganno sistematico.

Le teorie che si rifanno al dialogo socratico per questo motivo risultano insufficienti per delineare e fondare un concetto di prassi e, dunque, anche della prassi della mediazione. Il dialogo ha, perciò, solo uno scopo rischiaratore che risulta preliminare e non fondante la prassi mediativa stessa. La tecnicizzazione di un ambito prevede il riconoscimento di una regolarità in una serie di eventi, o un gruppo di cose, e la sua conseguente assunzione a norma regolatrice.

Questo punto di vista fa emergere la critica a qualunque «normativismo» o «costruttivismo» che concepisca la realtà etico-morale a partire da valori che pretendano una universalità a priori e a cui la ragione debba conformarsi. Ciò che viene messo in discussione è in sostanza se esistano valori a priori e se la ragione sia una facoltà tale che possa riconoscerli e che abbia la possibilità di adeguare il reale al razionale.

Nel riconoscimento degli interessi in gioco il dialogo acquista dunque il proprio diritto solo come metodo rischiaratore ma va evitato che il dialogo «dispieghi una forma autonoma di razionalità», la quale viene poi erroneamente presa per la razionalità che spetta all’agire e viene calata sulla prassi per il tramite del dialogo.

Il dialogo che avviene nel processo mediativo ha dunque funzione strumentale all’interno della prassi della mediazione e non è il fine di essa.

[layerslider id=”6″]

Contro la “retorica del dialogo” come tentativo di ripristinare intesa e comunicazione fa da contraltare la mediazione come spazio di confronto in cui lo scambio può dare origine a una maggiore comprensione del punto di vista dell’altro ma che può anche esitare in un arroccamento ostinato nella propria posizione. Se uno dei presupposti della mediazione è quello dell’assenza di giudizio, il mediatore avrà, dunque, la funzione non di ripristinare il dialogo ma di permettere il confronto rispettando l’esito che i due confliggenti vorranno dare a tale percorso.

Se la mediazione pretende di non cadere nell’inganno sofistico di ripristinare a tutti i costi un dialogo tra i due confliggenti deve dunque favorire il confronto ma non utilizzare tecniche o strategie che favoriscano forzatamente il dialogo.

Per non cadere nei dubbi e negli equivoci di un “dialogo forzato”, è necessario che si separino i concetti di obiettivo e speranza[4]. L’obiettivo della mediazione è che i due confliggenti si sentano innanzitutto riconosciuti dai mediatori, la speranza, invece, è che la mediazione porti a un eventuale reciproco riconoscimento e a un ripristino della comunicazione attraverso il confronto.

Nella mediazione, dunque, non si costruiscono spazi di dialogo ma si offre l’opportunità di avere spazi di confronto.

Maurizio D’Alessandro

[layerslider id=”7″]

[layerslider id=”10″]

[1] In quest’articolo si cercherà di approfondire alcuni temi trattati in un precedente lavoro, cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, in La Giustizia Sostenibile vol. VIII, (pag. 273-286), Aracne, Roma, 2015.

[2] Cfr., H.G. Gadamer, Studi platonici I, II, tr. it. di G. Moretto, Marietti, Genova, 1983, si veda in particolare il saggio Etica dialettica di Platone, pp. 25-35.

[3] Cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, op. cit. e M. D’Alessandro, Ermeneutica, ontologia, prassi e conflitto, in C. Ciancio – M. Pagano (a cura di), Religione e ontologia. Studi in onore di Marco Ravera e Ugo Ugazio, Aracne, Roma 2013.

[4] Cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, op. cit., p. 286.

Ascolto e Mediazione Penale

 Ascolto e Mediazione (Penale): uno strumento prezioso per vittima e reo e per la società

Intervista a Monica Cristina Gallo, Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Torino e Mediatrice dei conflitti familiari e penali.

 

“Il conflitto segnala contrasti, ingiustizie e malessere e per evitare che degeneri in un circolo di punizioni, violenze e distruttività sarebbe interesse dell’intera comunità sviluppare quei metodi, in grado di offrire una gestione non competitiva, facilitando la trasformazione dei conflitti e la sua risoluzione, nell’interesse di tutte le parti coinvolte in tutte le situazioni mediabili, valorizzando la spinta al cambiamento originata dall’incontro con l’altro”. M.C. Gallo

 

Ci può descrivere brevemente la sua funzione e il suo lavoro di Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà? Di cosa si occupa concretamente?

[layerslider id=”6″]

Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale nell’ambito del Comune di Torino coopera a garantire i diritti delle persone detenute nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, nell’Istituto per minorenni Ferrante Aporti, in esecuzione penale esterna, e nel Centro di Permanenza per i Rimpatri (già CIE). La sua funzione principale è quindi di tutelare tutti i diritti costituzionalmente garantiti, quali il diritto alla sanità, all’istruzione, alla formazione, alla casa, al lavoro e alle attività culturali; inoltre svolge la funzione di collegamento  tra i luoghi della privazione della libertà e la società libera attraverso azioni di sensibilizzazione sul territorio.

E’ compito del garante monitorare e collaborare con gli enti preposti al sostegno e all’accompagnamento delle persone vulnerabili affinché anche coloro che hanno terminato la pena detentiva possano intraprendere un autentico  recupero sociale e riabilitativo, percorso che necessariamente deve iniziare in carcere. E’ un lavoro che richiede l’attivazione di processi di mediazione e prevenzione,  quest’ultima è a livello europeo riconosciuta come  elemento essenziale della tutela dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale

Qual è la situazione delle carceri in Italia in questo momento?

La situazione generale delle carceri italiane non è certo buona, dopo le condanne della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo nel 2013 ci fu un  accelerata verso il cambiamento prima con l’avvio degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluti dal Ministro Orlando e le successive elaborazioni degli esiti da parte delle  Commissioni  costituite da esperti qualificati, sino alla legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma ad un passo dall’approvazione definitiva il percorso si è arenato. Nulla è cambiato, persistono problemi importanti ed irrisolti: dal sovraffollamento, all’autolesionismo all’elevato numero di suicidi (più di 50 lo scorso anno), alle condizioni strutturali degli Istituti in degrado, alla carenza di personale dedicato al trattamento, e la  mancanza di attività lavorative in relazione all’elevato numero di presenze.

A suo avviso, quale potrebbe essere il ruolo della Mediazione Penale all’interno del carcere?

Gli spazi normativi che consentono l’avvio di un lavoro strutturato di mediazione penale intramuraria non sono previsti, sebbene alcuni possibili spazi (art. 47 L. 26 luglio 1975 n. 354 Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà)  potrebbero consentire percorsi di giustizia ripartiva.

Negli anni abbiamo assistito a  talune sperimentazioni e anche alla nascita di un Osservatorio istituito presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che aveva l’obiettivo di monitorare i percorsi di mediazione penale all’interno degli Istituti. L’incontro fra la vittima e  l’autore di reato quando ancora quest’ultimo sta scontando la pena e si trova in condizione di privazione della libertà è ad oggi un paradigma molto lontano, la visione reocentrica prevale su ogni altro possibile strumento per dare risposte alla parte offesa e alla comunità.

La persona detenuta resta un soggetto passivo con una serie di attività programmate per lui e non con lui, non viene accompagnato ad assumersi una responsabilità “verso l’altro” e verso la società tutta. Vent’anni di esperienza nel campo della mediazione penale minorile in particolare nella nostra città ad oggi non hanno ancora segnato la strada per possibili percorsi rivolti agli adulti in stato di detenzione. Penso che sia mancato il coraggio di un profondo cambiamento culturale e che la mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario ne sia la prova più tangibile.

 La condizione detentiva mina i rapporti con i familiari. Quali potrebbero essere secondo lei le potenzialità della Mediazione tra detenuti e familiari (esempio il proprio coniuge o i genitori)?

[layerslider id=”7″]

E’ proprio in questo preciso ambito che gli spazi della Mediazione dovrebbero essere parte del trattamento penitenziario. L’assoluta mancanza di mediatori familiari e la carenza di operatori specializzati impedisce di poter lavorare in modo adeguato al mantenimento delle relazioni familiari, che inevitabilmente con la detenzione subiscono una frattura. Al momento della carcerazione, la persona detenuto/a, si trova costretto ad abbandonare la famiglia, gli affetti, il lavoro e si scollega dalla realtà che costituiva il suo mondo, entrando in un contesto nuovo, e la sua vita è totalmente da riorganizzare all’interno della comunità carceraria. Egli deve non solo integrarsi seguendo le regole penitenziarie, ma anche adattarsi alla cultura carceraria a discapito della propria personalità che si modifica per l’adeguamento al nuovo ambiente, molto diverso da quello familiare.

Anche la famiglia   deve affrontare tutte le problematiche legate alla carcerazione, e necessariamente deve riorganizzare il nucleo familiare all’interno del quale  viene a mancare anche il sostegno economico apportato dal recluso. Questa condizione di riadattamento della famiglia comporta un cambio di ruoli al suo interno; nuove regole e differenti dinamiche spesso sono accompagnate  da conflitti e da atteggiamenti che colpevolizzano il partner detenuto.

La mancanza di interventi di mediazione con operatori specializzati  rischia di produrre un distacco definitivo della famiglia.

Collocare la mediazione in un campo dove le pratiche processuali occupano gran parte dello spazio vitale, restituirebbe dignità ai conflitti personali, perché il conflitto che deriva dalla separazione appartiene solo alle parti e perché solo loro sono in grado di prendere le decisioni necessarie per la loro vita futura. Delegare anche questo compito all’avvocato o al giudice aggraverebbe ancor più una situazione già estremamente compromessa e deteriorata.

E quali potrebbero essere le potenzialità della Mediazione tra detenuti?

[layerslider id=”10″]

 Il carcere è un luogo conflittuale, le persone che popolano questa comunità non hanno aderito ad essa in modo libero e indipendente cosicché è inevitabile che le “diversità” di ciascuno contribuiscono a renderla una comunità alterata e  non naturale, una riproduzione incessante di  violenza che racchiude il disordine del conflitto.

Il conflitto segnala contrasti, ingiustizie e malessere e per evitare che degeneri in un circolo di punizioni, violenze e distruttività sarebbe interesse dell’intera comunità sviluppare quei metodi, in grado di offrire una gestione non competitiva, facilitando la trasformazione dei conflitti e la sua risoluzione, nell’interesse di tutte le parti coinvolte in tutte le situazioni mediabili, valorizzando la spinta al cambiamento originata dall’incontro con l’altro.

Ad oggi l’unica risposta ai conflitti interni fra detenuti ha un nome: “consiglio di disciplina” strumento molto distante dalla mediazione, consiste infatti in una  metodologia esplicitamente punitiva con  funzioni sia inquirenti sia giudicanti, è un procedimento molto differente dalla pacificazione.

Ritengo che l’avvio di progetti di mediazione, siano urgenti e praticabili sin da subito.  Educare ad affrontare le liti in forma congiunta in un istituto di pena, è un importante passo per la promozione di comportamenti ed atteggiamenti solidali; avviare processi conciliatori significa dare uno spazio all’ascolto e al dialogo, un dialogo aperto ma guidato con regole precise, un dialogo collaborativo utile a raggiungere un accordo e contenere il livello del conflitto, una metodologia molto distante da quella applicata dall’istituzione carceraria.

Infine, quali potrebbero essere le potenzialità della Mediazione tra detenuti e operatori (agenti)?

Il carcere che può esprimersi chiede sostanzialmente tre cose. Innanzitutto di mediare i conflitti, tra compagni di cella, tra detenuti e agenti, tra detenuti e magistrati”. Questa dichiarazione  di Pietro Buffa, grande esperto in materia risponde al quesito, ma parte da un presupposto fondamentale “Il carcere che può esprimersi…”.  Una comunità complessa di tipo gerarchico, con problemi di carenza di personale e un elevato tasso di sovraffollamento  ha pochi spazi all’interno dei quali  si può esprimere. Il compito degli agenti della  Polizia Penitenziaria non è solo garantire ordine e  sicurezza all’interno degli istituti, ma contribuire al trattamento delle persone ristrette. Anche se negli ultimi anni si registra un cambiamento nel rapporto agenti-detenuti in positivo, le dinamiche conflittuali persistono e la loro mancata risoluzione porta ad un clima interno complesso per tutti. In questo ambito la mediazione andrebbe a colmare uno spazio che attualmente è occupato dalle dinamiche dei più forti. Ovviamente l’attivazione richiederebbe un lavoro più complesso proprio per la verticalità del sistema e per la mancanza di quella cultura che mira al cambiamento che ancora non fa parte del sistema penitenziario. Molte sperimentazioni sono state fatte in altri Paesi che offrono spunti e buone pratiche dalle quali dovremmo attingere per lavorare sui sentimenti, perché il carcere è fatto soprattutto di quelli.  In conclusione e per tutte le dinamiche conflittuali sopra raccontate mi sento di dire che l’apertura di uno spazio dedicato alla mediazione dei conflitti all’interno degli Istituti di pena che operi a favore di tutta la comunità penitenziaria interna ed esterna  è un obiettivo da raggiungere affinché venga fornito uno spazio non giudicante per i partecipanti,  dove discutere la storia del rapporto, i conflitti personali, i loro cambiamenti, le loro speranze e le paure per il futuro.

Quale potrebbe essere il ruolo della Mediazione Penale fuori del carcere?

Fuori da carcere si stanno muovendo lentamente alcuni percorsi significativi in particolare in  relazione all’istituto della “messa alla prova” di imputati adulti, introdotto, con l’art. 168 bis del c.p., dalla Legge 28 aprile 2014, n. 67 contenente “Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio,  in particolare, l’art. 464 –bis c.p.p. stabilisce che il programma di messa alla prova “in ogni caso prevede”, tra l’altro, “le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa”.

Con l’adozione delle “norme europee sulle misure e sanzioni alternative o di comunità” nasce l’esigenza di lavorare con ogni strumento possibile perché esse mirano a trovare un giusto equilibrio tra la sicurezza della società e il reinserimento sociale di coloro che hanno commesso un reato.

La ricomposizione del conflitto generato dal reato non è più solo di gestione dello Stato ma è necessario  il coinvolgimento di tutte le parti coinvolte e qui trova il suo ruolo fondamentale la mediazione penale.

Riflessioni ulteriori come Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà?

Il carcere rappresenta per il Garante dei Detenuti un osservatorio privilegiato e non è possibile non vederne il fallimento. Un cambio di rotta è indispensabile e urgente, implementare le misure alternative puntando lo sguardo non solo sull’evento reato ma sul futuro attraverso il coinvolgimento della comunità e costruendo contenuti adeguati è l’obiettivo verso il quale anche il nostro ufficio sta cercando di orientare il proprio lavoro di tutela dei diritti. Pena e sanzione là dove possibile devono lasciar spazio ad altre modalità e il ruolo della mediazione penale diventa fondamentale per offrire una possibilità di incontro verso nuovi cammini.

A cura di: Maurizio D’Alessandro – Me.Dia.Re.

giustizia riparativa

La giustizia riparativa. Una percorso innovativo, per restituire centralità alla vittima

Come è noto, l’esperienza giudiziaria corrente offre scarse forme di autentica soddisfazione per la persona offesa e questo anche in caso di accesso a riti alternativi, quali il patteggiamento, o in caso di sospensione condizionale della pena: in queste ipotesi, la vittima del reato ha per lo più la sensazione amara che tutto sia accaduto “senza lasciare traccia”.

Nelle dinamiche processuali della giustizia ordinaria la vittima, di fatto, risulta estromessa dal processo decisionale in ragione della natura pubblica (statuale) del sistema penale, che “razionalizza” la sua umana vicenda di sofferenza, di paure, di rabbia e dolore, restituendole una compensazione simbolica (la punizione del reo) e una monetaria (il risarcimento del danno). Tuttavia tali provvedimenti non riescono a rendere ragione dei vissuti patiti o a lenire la ferita esistenziale aperta dal reato subito, così come nessuna ricostruzione processuale può permettere una rielaborazione in grado di restituire un senso all’accaduto.
D’altra parte, lo stesso autore del reato in molti casi pare subire passivamente la vicenda giudiziale e la sanzione. Quest’ultima, spesso, è da lui vissuta come una “ritorsione” di un apparato statuale alieno e distante, o come un “incidente di percorso” all’interno del proprio percorso di vita. Non sono molte infatti le situazioni in cui la pena innesca nel condannato una riflessione sul reato compiuto e riesce ad attivare una reale presa di coscienza e un’autentica assunzione di responsabilità circa le conseguenze del proprio gesto.

[layerslider id=”6″]
La Giustizia Riparativa, invece, distinguendosi nettamente dai modelli della Giustizia Retributiva e Riabilitativa, che normalmente prevalgono nei vari ordinamenti – compreso quello italiano – consiste di percorsi che consentono alla vittima di recuperare una posizione di centralità nel procedimento penale e al reo di accettare la responsabilità delle proprie azioni, così sanando la lesione al tessuto sociale che la commissione del reato di fatto ha determinato. Quindi, soprattutto nella forma degli interventi di mediazione penale, l’intervento si concentra sulla relazione interrotta (o mai costituita) tra la persona-vittima e la persona-reo, e si muove in un’ottica di gestione del conflitto, mettendo entrambe le parti nella condizione di ingaggiarsi in un confronto. In tal modo alla verità processuale si affianca un’altra “verità”, ricostruita dalle parti, in grado di rendere conto fino in fondo dei vissuti, delle emozioni, della sofferenza, delle motivazioni e dei bisogni dei soggetti coinvolti.
I processi di Giustizia Riparativa mirano quindi alla responsabilizzazione del reo, da un lato, e a offrire, dall’altro lato, alla vittima la possibilità di riappropriarsi dell’evento, di ritrovare un ruolo attivo e di restituire significato all’accaduto attraverso l’attivazione di un percorso comune che permetta una migliore comprensione reciproca dei fatti e dei loro correlati emozionali ed esistenziali.

Più in particolare, rispetto alle vittime l’obiettivo è fornire loro l’opportunità di uscire dall’isolamento, affrancandosi dal senso di abbandono e solitudine che spesso consegue alla vittimizzazione, attraverso la condivisione del carico emotivo in una condizione di ascolto in un contesto protetto. Inoltre, la possibilità di elaborare ed esporre le proprie istanze, che solo di rado, contrariamente all’opinione corrente, riguardano propositi di vendetta, afferendo invece ad un’esigenza di ricostruzione di senso e di riparazione e superamento del danno sofferto.
D’altra parte, la Giustizia Riparativa fornisce anche al reo una doppia opportunità: da un lato, quella di esprimere i propri sentimenti, di mostrare alla vittima di essere una persona e non un’astratta entità minacciosa, e di porre rimedio alla propria azione delittuosa. Dall’altro, di entrare in relazione con la vittima, in quanto persona in carne ed ossa, non più come estranea o addirittura come figura astrattamente considerata e vissuta, e di riconoscersi responsabile verso un “Altro-da-sé”. In tal modo, per il reo la norma giuridica infranta, da generale e astratta, giunge ad assumere valore concreto di protezione di un bene preciso e individuabile (quello della vittima), con significative conseguenze anche all’interno del percorso di reinserimento sociale.

Silvia Boverini e Alberto Quattrcolo

[layerslider id=”7″]

[layerslider id=”10″]

 

————

1 E’ da notare tuttavia che anche nel nostro ordinamento si è fatto strada il paradigma della Giustizia Riparativa, ad esempio nelle disposizioni legislative che introducono, ai fini della riabilitazione delle persone colpevoli di qualche crimine, la possibilità di intraprendere un percorso di mediazione penale tra condannato e vittima, si pensi alla possibilità di intraprendere un percorso di mediazione reo-vittima promosse dal pubblico ministero in sede di indagini preliminari (ex art. 9 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448) o alle forme di mediazione reo-vittima impartite dall’Autorità giudiziaria minorile nel progetto di messa alla prova (ex art. 28 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448). Il nostro ordinamento prevede per altro in alcuni casi forme di riparazione riconducibili a una nozione ampia di giustizia riparativa, ad esempio negli istituti del lavoro sostitutivo (legge 689/81), del lavoro di pubblica utilità per alcune violazioni del codice della strada (ex art 54 d.lgs. 274/2000), del lavoro di pubblica utilità previsto per i tossicodipendenti (ex art. 73 comma 5-bis d.p.r. 309/90), dei progetti di pubblica utilità per i soggetti ammessi al lavoro esterno (ex art. 21, comma 4-ter, l. 354/75).

Mediazione tra dialogo e confronto

Mediazione tra dialogo e confronto [1]

di Maurizio D’Alessandro

 

Generalmente intendiamo con il termine dialogo un discorso fra due o più persone che miri a un’intesa. Tant’è che aprire un dialogo fra parti contrapposte indica il tentativo di persone disposte a ragionare con l’intento di raggiungere una verità o un’opinione condivisa: quando infatti si utilizza l’espressione “tra noi manca il dialogo”, indichiamo il fatto che ognuno resti della propria opinione. Escludendo la poesia o il teatro dove si fa genere, il dialogo nasce con Platone per l’esigenza di presentare drammaticamente il processo di disvelamento e di conquista della verità, attraverso il contrasto di opinioni contrapposte.

Il fine del dialogo in generale, sia che si instauri tra due persone o gruppi reali sia che venga utilizzato come strumento retorico per trattare un tema, è  trovare un’intesa o percorrere una strada concettuale che abbia come fine la scoperta della verità. Il dialogo trae la propria legittimazione dalla sua ripetibilità, dal suo dover render conto e nel suo tentativo di trovare l’intesa [2].

[layerslider id=”6″]

Se il dialogo presuppone un concetto di verità, il confronto prevede, invece, che ci sia il reciproco presentarsi di due punti di vista a cui viene offerta la possibilità sia di un incontro sia di uno scontro, sia di una convergenza sia di una divergenza.

Se definiamo la mediazione a partire dal concetto di prassi, essa non può essere un semplice agire tecnico-strumentale (cioè un mezzo in vista di un fine come prodotto) [3]. La razionalità dialogica dovrebbe intervenire per escludere la possibilità dell’inganno di molti da parte di uno o anche di un inganno tutti assieme: l’equiparazione dei ruoli e la regolazione del dialogo hanno la funzione di consentire la conduzione del discorso dialogico eliminando la possibilità del perseguimento di scopi particolari. Ma questa forma di conduzione dell’agire necessita di condizioni ideali che assicurino la correttezza del dialogo. Nel quadro del dialogo, in sostanza, si fa sentire il problema dell’inganno sofistico e l’appello alla serietà diventa impotente di fronte alle forme dell’inganno sistematico.

Le teorie che si rifanno al dialogo socratico per questo motivo risultano insufficienti per delineare e fondare un concetto di prassi e, dunque, anche della prassi della mediazione. Il dialogo ha, perciò, solo uno scopo rischiaratore che risulta preliminare e non fondante la prassi mediativa stessa. La tecnicizzazione di un ambito prevede il riconoscimento di una regolarità in una serie di eventi, o un gruppo di cose, e la sua conseguente assunzione a norma regolatrice.

Questo punto di vista fa emergere la critica a qualunque «normativismo» o «costruttivismo» che concepisca la realtà etico-morale a partire da valori che pretendano una universalità a priori ed a cui la ragione debba conformarsi. Ciò che viene messo in discussione è in sostanza se esistano valori a priori e se la ragione sia una facoltà tale che possa riconoscerli e che abbia la possibilità di adeguare il reale al razionale.

[layerslider id=”7″]

Nel riconoscimento degli interessi in gioco il dialogo acquista dunque il proprio diritto solo come metodo rischiaratore ma va evitato che il dialogo «dispieghi una forma autonoma di razionalità», la quale viene poi erroneamente presa per la razionalità che spetta all’agire e viene calata sulla prassi per il tramite del dialogo.

Il dialogo che avviene nel processo mediativo ha dunque funzione strumentale all’interno della prassi della mediazione e non è il fine di essa.

Contro la “retorica del dialogo” come tentativo di ripristinare intesa e comunicazione fa da contraltare la mediazione come spazio di confronto in cui lo scambio può dare origine a una maggiore comprensione del punto di vista dell’altro ma che può anche esitare in un arroccamento ostinato nella propria posizione. Se uno dei presupposti della mediazione è quello dell’assenza di giudizio, il mediatore avrà, dunque, la funzione non di ripristinare il dialogo ma di permettere il confronto rispettando l’esito che i due confliggenti vorranno dare a tale percorso.

Se la mediazione pretende di non cadere nell’inganno sofistico di ripristinare a tutti i costi un dialogo tra i due confliggenti deve dunque favorire il confronto ma non utilizzare tecniche o strategie che favoriscano forzatamente il dialogo.

Per non cadere nei dubbi e negli equivoci di un “dialogo forzato”, è necessario che si separino i concetti di obiettivo e speranza[4]. L’obiettivo della mediazione è che i due confliggenti si sentano innanzitutto riconosciuti dai mediatori, la speranza, invece, è che la mediazione porti a un eventuale reciproco riconoscimento e a un ripristino della comunicazione attraverso il confronto.

Nella mediazione, dunque, non si costruiscono spazi di dialogo ma si offre l’opportunità di avere spazi di confronto.

Maurizio D’Alessandro

[1] In quest’articolo si cercherà di approfondire alcuni temi trattati in un precedente lavoro, cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, in La Giustizia Sostenibile vol. VIII, (pag. 273-286), Aracne, Roma, 2015.

[2] Cfr., H.G. Gadamer, Studi platonici I, II, tr. it. di G. Moretto, Marietti, Genova, 1983, si veda in particolare il saggio Etica dialettica di Platone, pp. 25-35.

[3] Cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, op. cit. e M. D’Alessandro, Ermeneutica, ontologia, prassi e conflitto, in C. Ciancio – M. Pagano (a cura di), Religione e ontologia. Studi in onore di Marco Ravera e Ugo Ugazio, Aracne, Roma 2013.

[4] Cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, op. cit., p. 286.

[layerslider id=”10″]

master_mediatore

La mediazione dei conflitti in pillole

“L’effetto di una mediazione consiste nell’arrivare a “sentire l’altro”, a comprendere empaticamente la sua verità”. A. Quattrocolo

Perché Me.Dia.Re.

Nelle società complesse come la nostra, le occasioni d’incontro tra generazioni, generi, opinioni e culture diverse sono sempre di più. Al progressivo manifestarsi delle diversità e delle contraddizioni corrisponde il crescere dell’incertezza: lo sconosciuto, l’altro da sé incuriosisce ma fa anche paura, confonde, mette in discussione e ridisegna i confini del noto.

Spesso la perplessità o il disorientamento prodotti, invece di incontrare possibilità di evoluzione, degenerano in frustrazione e rabbia, dando luogo anche a violente esplosioni di collera, di fronte alle quali risulta impossibile distinguere le cause dagli effetti, o comprenderne le ragioni reali.

D’altra parte, il conflitto è irrinunciabile. Costituisce una modalità relazionale “naturale” e svolge una essenziale funzione di segnale: ci informa che qualcosa non va, o non va più, e che occorrono dei cambiamenti.

La mediazione dei conflitti si propone allora come innovativo strumento di gestione della conflittualità, in cui le parti possono avere accesso alla conoscenza, alla comprensione e all’accettazione della diversità dell’altro. Durante la mediazione, alla presenza di un terzo neutrale che ha il compito di favorire la circolazione del flusso comunicativo, le parti hanno la possibilità di elaborare le ragioni del loro aspro contendere, e di giungere in piena autonomia, attraverso il reciproco riconoscimento, alla formazione di accordi.

Tanto più significativi, se sorti all’interno di una relazione trasformata. In questi casi, il conflitto può diventare un’occasione preziosa per ricostruire o per modificare i rapporti con gli altri e, in qualche misura, anche un po’ con se stessi.

[layerslider id=”6″]

Quale mediazione

Nel modello di mediazione scelto da Me.Dia.Re., quello della mediazione trasformativa, il mediatore siede tra le parti non per giudicare, né per imporre delle soluzioni, ma per accompagnarle nel confronto, consentendo l’espressione non soltanto dei “fatti” proposti nelle diverse narrazioni in conflitto, ma dei loro significati, nonché dei bisogni e dei vissuti delle persone, al fine di riattivare i canali di comunicazione.

Da questo punto di vista l’effetto della mediazione non è tanto il mero accordo tra i confliggenti, quanto il ristabilirsi di una comunicazione, grazie al riconoscimento reciproco che trasforma la relazione, procurando la responsabilizzazione delle parti in merito al conflitto ed alla soluzione eventualmente trovata.

Lo strumento principale adottato nella mediazione trasformativa è quindi l’ascolto. L’espressione dei vissuti, la comunicazione della rabbia, dei dolori e delle angosce ad essa sottostanti, consente alle parti coinvolte di spiegarsi, di superare i ruoli con i quali si sono presentati o in cui sono stati incasellati dalla controparte. In quest’ottica, ascoltare, non significa cercare a tutti i costi una soluzione, né tentare di ‘guarire’ l’altro dalla sua emozione, ma, anziché eludere la sua sofferenza, aiutarlo ad affrontarla, comunicandogli che non è solo e che si è disponibili ad avvicinarsi ai suoi stati d’animo, senza censurarli né giudicarli.

[layerslider id=”7″]

[layerslider id=”10″]

Ermeneutica e alterità dell’Altro di Maurizio D’Alessandro

La filosofia nascerebbe dalla necessità di dare una spiegazione razionale e non mitologica alla nascita e all’origine del mondo. I primi filosofi erano, dunque, studiosi della physis cioè della natura e per questo definiti tradizionalmente dalla storiografia come “fisiologi”.

Le mutate condizioni politiche nell’Atene del V e IV secolo portarono la discussione filosofica a tematizzare il concetto di verità non più, o non solo, con l’intento di svelare i segreti della natura ma di distinguere il discorso vero da quello falso. L’intento era sia gnoseologico sia etico-pratico e, dunque, politico (il processo a Socrate e il dibattito tra Platone e i sofisti segnano l’inizio di questa nuova sensibilità filosofica).

La filosofia, perciò, sin dall’antichità ha a che fare con la prassi, cioè con l’agire politico distinto dalla produzione tecnica di oggetti e dal semplice atteggiamento astratto-contemplativo che tal volta (magari anche a ragione) le si attribuisce.

Come è già stato notato, la distinzione tra prassi e produzione risale fino ad Aristotele, che può esserne considerato il primo ed uno dei massimi teorizzatori. Meno noto è lo sfondo storico da cui Aristotele derivò questa distinzione, egli, infatti, non fa che trarre le conseguenze dal confronto tra Platone ed i sofisti: in un momento storico in cui la distinzione tra produzione e prassi appare confusa e problematica, diventa un’esigenza distinguere tra i due termini soprattutto per delimitare il potere della sofistica nelle discussioni politiche.

È risaputo che molti dei dialoghi platonici mettono in luce il pericolo della sofistica che, con il suo programma di insegnamento dietro compenso, snaturava il dibattito pubblico eliminando qualunque responsabilità del cittadino verso la collettività.

[layerslider id=”6″]

La sofistica, in questo quadro, costituisce un pericolo perché espone il sapere ad una universale tecnicizzazione. Nel sottoporre qualunque azione a regole codificate che mirano, non alla verità, come fa la filosofia, ma alla persuasione, la sofistica ha la pretesa di insegnare quelle tecniche che mirano al convincimento dell’uditorio, invertendo, in tal modo, il fine (télos) che dovrebbe guidare l’azione. La persuasione e la vittoria nel dibattito prendono il posto dell’obiettivo reale della prassi che è il bene collettivo: l’insegnamento dei sofisti si svolge secondo criteri, astratti e dunque sempre uguali sottomettendo qualunque agire al modello della tecnica.

Le teorie aristoteliche che hanno come oggetto la prassi sono la prosecuzione di questo problema e tentano di fornire una risposta al rischio di tecnicizzazione dell’agire[1].

[layerslider id=”7″]

A presiedere le attività dell’uomo vi sono delle facoltà, Aristotele ne individua tre: la sophia o sapienza che è conoscenza dei principi primi e immutabili (teologia e matematica), la phronesis o saggezza che è la capacità di mediare tra un universale dato e un singolo caso particolare e la techne che è la razionalità volta alla realizzazione di oggetti.

Facendo un salto temporale e liquidando nietzscheanamente la filosofia come storia della metafisica, potremmo affermare che il dibattito postkantiano tenta di rispondere alle seguenti domande: possiamo conoscere solo il modo in cui noi conosciamo il mondo? O è possibile trovare dei codici oggettivi attraverso cui è scritto il “libro della natura” al di là della nostra soggettività?

Queste domande sono alla base di quello che la storiografia chiama dibattito tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften, cioè tra le scienze della natura e le scienze dello spirito.

Buona parte dell’800 filosofico (sto banalizzando e ripercorrendo alcuni temi fondamentali della filosofia senza pretese esaustive ma cercando solo di gettare le basi per il mio argomento) può, forse, esser letto attraverso questa lente.

Il Novecento si apre all’insegna del maestoso tentativo, quello di Edmund Husserl, di superare con la sua fenomenologia le trappole, da un lato dello psicologismo per cui non sarebbe possibile conoscere la realtà fuori di me ma solo il mio modo di conoscere quella realtà (con il rischio di far cadere la conoscenza nei lacci di una eccessiva soggettivizzazione del sapere e del mondo) e dall’altra dello scientismo in cui leggi della natura e della storia apparivano come qualcosa di oggettivo, indipendente dal soggetto, il quale può limitarsi a studiarle e a descriverle[2].

Husserl, con la sua fenomenologia, compie il tentativo di rifondare il sapere per giungere a una “conoscenza assoluta”.

La fenomenologia prevede che, mettendo fra parentesi l’esistenza del mondo, lo si riduca attraverso l’epoché (la “sospensione del giudizio” secondo la nozione degli antichi filosofi scettici) a un insieme di fenomeni che si danno alla coscienza; il “residuo fenomenologico” è la coscienza nella sua purezza che può cogliere così gli oggetti nella loro “essenza” logica, universale e necessaria. Per questo per Husserl la coscienza non coglie mai gli oggetti ma le essenze.

Martin Heidegger, al contrario del suo maestro, non può fare a meno dell’esser-nel-mondo di quell’ente (l’uomo) che s’interroga sull’essere e per questo verrà tacciato di “realismo” e “antropologismo” da Husserl.

Per Heidegger, fenomenologia significa: “lasciar vedere in sé stesso ciò che si manifesta”, liberandolo dall’occultamento in cui rischiano di farlo cadere i nostri pregiudizi.

Se come afferma H.G. Gadamer comprendere «significa sempre applicare»[3], comprensione, interpretazione e applicazione non sono attività da vedersi come separate.

Il tema dell’Altro e del riconoscimento era stato affrontato da Hegel nel IV libro della Fenomenologia dello Spirito, l’enfatizzazione dell’Alterità rischia però di trascurare l’etica dell’io: un io che vede preposto l’Altro e le sue ragioni percepisce sé come nullo e da ciò possono derivare senso di colpa o rancore. È necessario ripensare il mondo della morale e dell’etica a partire dall’io individuale e non dalla collettività che è, invece, l’istanza ultima. L’Io fonda la moralità e l’eticità non il Noi. Solo un io che percepisce sé stesso come riconosciuto (da sé e dall’Altro) può interagire con il mondo morale e etico in modo autentico.

Per queste ragioni appare importante ricordare la figura di Emmanuel Levinàs.

[layerslider id=”10″]

Di famiglia ebraica lituana, Lévinas compie gli studi universitari in Francia e prende la nazionalità francese nel 1930, è stato docente universitario a Poitiers, a Parigi-Nanterre e per diventare, infine, professore alla Sorbona. Il pensiero di Lévinas prende spunto dalla fenomenologia husserliana per approdare all’ermeneutica heideggeriana: «Con Husserl, scoprii il senso concreto della possibilità stessa di “lavorare in filosofia”, senza trovarsi immediatamente rinchiusi in un sistema di dogmi, ma al tempo stesso senza correre il rischio di procedere per intuizioni caotiche» (Etica e infinito pp.51-52).

La fenomenologia, come abbiamo visto, più che un metodo è un atteggiamento e in questa direzione nel testo Totalità e infinito l’autore si scaglia contro quella che definisce “l’imperialismo del Medesimo”: la filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una «riduzione dell’Altro al Medesimo», in un processo che potremmo definire di colonizzazione dell’Alterità «e non parlo della Colonizzazione come fenomeno storico e politico ma di un sottile tentativo di assorbimento, distruzione e inglobamento delle altre culture».

In Hegel il soggetto è inghiottito dall’Assoluto, in Heidegger dall’Essere, Levinàs propugna una “rottura” con la totalità e un incontro con l’Altro che Levinàs definisce “il Volto” non come idea ma come incontro vero (l’altro non è pensato idealmente ma nella sua concretezza). Questo incontro può permette all’Io di autosservarsi senza preporre, all’incontro con l’Alterità, categorie concettuali.

È a questo punto che si gioca la “battaglia” culturale più importante che spinge a chiedere alla nostra razionalità se esistano norme condivise che permettano l’accoglienza e una convivenza, se non pacifica, quantomeno non distruttivamente conflittuale tra culture diverse.

Nel tentativo di rispondere a questo problema e per mettere alla prova i concetti che si stanno esprimendo si può usare un esempio limite, che proprio in quanto tale può mettere a verifica la correttezza del ragionamento ovvero il caso delle mutilazioni genitali e il rapporto che “la nostra società” ha con esse sia da un punto di vista culturale, sia da un punto di vista legale. Le mutilazioni dei genitali sono praticate in alcune culture sia sugli uomini che sulle donne e secondo gli studiosi riguardano a diverso titolo molte religioni tra cui anche gruppi appartenenti alle tre religioni monoteiste.

Entrare nel merito della questione con un approccio scientifico e in assenza di pregiudizi richiederebbe un capitolo a parte che meriterebbe maggiori approfondimenti e che non possono essere discussi esaustivamente in questa sede.

Se alcuni sostengono che l’accettazione dell’Altro e il relativismo culturale siano un valore imprescindibile delle società postmoderne e che quindi vadano rispettati usi e costumi delle altre culture, altri urlano alle “barbarie” e all’impossibilità di accettare usi e costumi diversi da quelli del popolo ospitante. Le due posizioni estreme esibiscono un atteggiamento generale che rischia di estendersi ad altri ambiti del dibattito, relativizzando la morale, l’etica e i principi di legalità da un lato o imponendo il proprio punto di vista pensato come l’unico legittimo.

Per risolvere la questione è utile riprendere alcuni concetti che, a mio giudizio, Aristotele e Hegel hanno ben espresso e che ritornano utili nel dipanare alcuni nodi del dibattito.

In Aristotele sparisce l’idea guida del bene presente in Platone per lasciare spazio al concetto di eudaimonia che indica un’unità compiuta che si concretizza nella totalità dell’esistenza. L’eudaimonia (tradotto in italiano come felicità o meglio vita buona) è la vita riuscita che si compie nell’agire quotidiano grazie ad un tipo di ragione che è la saggezza di cui abbiamo già parlato.

La soggettività segnerebbe il passo di tutta la scienza moderna a partire dall’autocoscienza cartesiana come fondamento della razionalità scientifica e che, attraverso il kantismo (secondo cui «nella natura stessa si deve cercare la ragione legale»), è pervenuto sino a numerose tendenze filosofiche del Novecento.

Il motivo hegeliano della «moralità» kantiana come autonomia della legislazione interiore diventa per Hegel un’assunzione fondamentale, poiché è a partire da essa che viene posto un limite al potere dello Stato, il quale è obbligato a riconoscere e, dunque, a rispettare la libertà del singolo. Questa dialettica tra moralità del soggetto e oggettività dello Stato, trova un superamento e una sintesi nella teorizzazione dell’«eticità». Il superamento della dicotomia è alla base del fatto che la libertà diventa sostanziale non più nell’intimo della coscienza, ma oggettivandosi nella prassi; prassi che non è il semplice fare ma è «agire abitualizzato» che si è conformato al costume e agli ordinamenti etici all’interno del quadro normativo rappresentato dalle istituzioni. È solo nel costituirsi di un complesso di doveri che la coscienza soggettiva può, abitualizzati i comportamenti morali, trasformarli in comportamenti etici che si realizzano all’interno dello Stato. È lo Stato che li rende possibili e ne costituisce la condizione affinché venga raggiunta quell’unità di soggetto e oggetto, che rende possibile la libertà dell’uomo all’interno delle istituzioni.

Etico vuol dire ciò che si acquisisce con l’abitudine, il singolo diventa virtuoso – giusto, temperante, coraggioso – «in quanto si abitua ad agire nel modo che nella polis è “eticamente” giusto», la virtù etica si genera con l’abitudine, tanto che ciò spiega conseguentemente la stretta unione di esistenza del singolo e della polis, in cui si pongono i valori del vivere civile e che svolge una funzione essenziale per l’educazione dei cittadini[4].

Dunque Kant, secondo Hegel, pur nella grandezza del proprio pensiero, ha limitato la moralità in un ambito interiore che resta ferma al «dover-essere». Questi sono i motivi che spingono Hegel, a recuperare il concetto classico di ethos; l’eticità per Hegel è, infatti, l’ambito che comprende individuo, famiglia, società e Stato. Le istituzioni troverebbero, in definitiva, il loro ubi consistam, non nella positività della legge riconosciuta da una ragione legale (o dal contratto sociale che rappresenta un’astrazione dei filosofi), ma in quelle forme di vita che «mediano tra ambito del dovere e ambito della natura» e che sono «articolate in una scala di istituzioni nella cui concreta dinamica si genera, si afferma e si consolida la ragion pratica»[5]. La vita buona, perciò, necessita e si realizza in un quadro istituzionale che è l’agire, in un contesto che non elimina la soggettività del singolo agente, ma la promuove nel quadro di una totalità di esistenza propria e degli altri agenti, all’interno della polis.

Quest’ultima problematizzazione dei concetti di moralità, eticità, legalità sono utili per introdurre un concetto più alto che è quello di giustizia. Se è necessario nell’accoglienza che ciascuno agisca moralmente e eticamente in base alla propria cultura e trovando tutela nello stato laico, è altresì necessario che le usanze culturali non siano contrarie alla legge. Tra legge e giustizia si apre però un divario: tutte le leggi sono giuste? In questa sede ci si può limitare a fornire alcuni spunti di riflessione: la giustizia è un ideale asintotico che va perennemente (e con saggezza) perseguito cercando di adattare le leggi ai valori più alti che tutelino la dignità umana e al contempo la sua libertà. Solo la possibilità di esercitare diritti, di avere un’adeguata formazione e di avere una vita dignitosa possono essere la garanzia che nell’attualità del presente, ma soprattutto nelle società future, non cresca il seme dell’odio, dell’incomprensione, della non accettazione che non potranno che generare parti avverse, chiusure identitarie e i conflitti che ne potrebbero conseguire. Cultura e politica dell’accoglienza sono, dunque, l’unico rimedio per evitare la reciproca deumanizzazione e il baratro del conflitto.

 Maurizio D’Alessandro

 

Letteratura primaria

R. Bubner, Handlung, Sprache und Vernunft. Grundbegriffe praktischer Philosophie. Neuausgabe mit einem Anhang, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1976, trad. It., Azione, linguaggio e ragione. I concetti fondamentali della filosofia pratica, Bologna, Il Mulino, 1985.

R. Bubner, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in «Ragion Pratica» 2 (1994), n. 2., pp. 187-199.

R. Bubner, Quanto e importante la soggettività?, in «Iride» 1995, 8 (16), pp. 603-614.

H.G. Gadamer, Über die Möglichkeit einer philosophischen Ethik, trad. it., Sulla possibilità di un etica filosofica, in Ermeneutica e metodica universale, Genova, Marietti, 1973, pp. 145-164.

H.G. Gadamer, Platos Dialektische Ethik und andere Studien zur platonischen Philosophie, trad. it., Studi platonici I, II, Genova, Marietti, 1983.

H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, trad. it., Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983.

H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode – Ergänzungen – Register, trad. it., Verità e metodo 2. Integrazioni, Milano, Bompiani, 1995.

H.G. Gadamer, Vernunft im Zeitalter der Wissenschaft, trad. it., La ragione nell’età della scienza, Genova, Il nuovo melangolo, 1999.

G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, trad it., Fenomenologia dello Spirito, Milano, Bompiani, 2000.

G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, trad it., Lineamenti di filosofia del diritto, Milano, Rusconi, 1996.

 

Letteratura secondaria:E. Berti,

Le ragioni di Aristotele, Bari, Laterza, 1989.

E. Berti, Saggezza e filosofia pratica, in AA.VV., Imperativo e saggezza, Genova, Marietti, 1990.

E. Berti, Aristotele nel Novecento, Bari, Laterza, 1992.

E. Berti, Filosofia pratica, Napoli, Guida, 2004.

F. Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Roma-Bari, Laterza, 2002.

R. Bodei, Verso una nuova logica dell’agire?, in Tradizione e attualità della filosofia pratica, a cura di E. Berti, Genova, Marietti, 1988.

L. Cortella, Crisi e razionalità. Da Nietzsche ad Habermas, Napoli, Guida, 1981.

L. Cortella, Aristotele e la razionalità della prassi, un’analisi del dibattito sulla filosofia pratica aristotelica in Germania, Roma, Juvenance, 1987.

L. Cortella, Il neoaristotelismo tedesco, in Concezioni del bene e teoria della giustizia. Il dibattito tra liberali e comunitari in prospettiva pedagogica, a cura di G. Delle Fratte, Roma, Armando, 1995, pp. 143-162.

A. Da Re, L’ermeneutica di Gadamer e la filosofia pratica, Rimini, Maggioli, 1982.

A. Da Re, L’etica tra felicità e dovere: l’attuale dibattito sulla filosofia pratica, Bologna, EDB, 1986.

C. Natali, Virtù o scienza? Aspetti della phronesis nei Topici e nelle Etiche di Aristotele, in «Phronesis», 29 (1984), pp. 50-72.

C. Natali, La saggezza di Aristotele, Napoli, Bibliopolis, 1989.

C. Natali, La «Phronesis» di Aristotele nell’ultimo decennio del Novecento, in «Filosofia e questioni pubbliche», 3, 2002, pp. 27-41.

P. Ricoeur, Herméneutique et critique des idéologies, «Archivio di filosofia», Padova, 1973.

F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Abano, Francisi, 1980.

F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Padova, Daphne, 1984.

F. Volpi, La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella modernità, in «Il Mulino», 35, 1986.

F. Volpi, Che cosa significa neoaristotelismo? La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità in Tradizione e attualità della filosofia pratica, a cura di E. Berti, Genova, Marietti, 1988.

F. Volpi, L’esistenza come praxis. Le radici aristoteliche della terminologia di «Essere e tempo», in Filosofia ’91, Roma-Bari 1992, a cura di G. Vattimo, pp. 215-252.

[1] Cfr, R. Bubner, Handlung, Sprache und Vernunft. Grundbegriffe praktischer Philosophie. Neuausgabe mit einem Anhang, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1976, trad. It., Azione, linguaggio e ragione. I concetti fondamentali della filosofia pratica, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 64-65.

[2] Sul fronte delle scienze sociali alla sociologia comprendente di Max Weber per esempio reagirà la scuola di Francoforte con la sua “Teoria dei valori”.

[3] Cfr., H.G. Gadamer, Verità e metodo, p.360. Numerosi altri sono i passi in cui l’autore si rifà alla prassi giudiziaria, in particolare cfr., Verità e metodo, pp. 362 ss., pp. 376 s., Verità e metodo 2, p. 9, pp. 102-103, pp. 269-277 e infine La ragione nell’età della scienza, pp. 78-79 e pp. 94-95.

 

[4] Aristotele, Etica nicomachea, II 1, 1103 a 17-18, cfr., J. Ritter, “Politica” ed “etica” come filosofia pratica, in Metafisica e politica, p. 99.

[5] R. Bubner, La rinascita della filosofia pratica in Germania, p. 192.

SOS CRISI Solitudine

SOS CRISI e la solitudine.

Il servizio gratuito SOS CRISI, che Me.Dia.Re. gestisce a Torino e in altre città, fin dall’inizio della crisi economica, costituisce una risposta alla solitudine generata dalla Crisi economica.

SOS Crisi offre, gratuitamente, un sostegno psicologico individuale, di gruppo e familiare, un’attività di mediazione dei conflitti (che sono prevalentemente interni alla famiglia, ma vi sono anche quelli che si sviluppano in altri ambiti relazionali e sociali: sanitario, di lavoro, di vicinato…), nonché altre forme di supporto psicosociale (Job Club, gruppi di auto-mutuo aiuto, gruppi di confronto e riflessione per genitori di NEET…).

SOS CRISI, dunque, è un servizio teso anche a risolvere la condizione di isolamento emotivo delle persone e delle famiglie vittime della crisi economica.

[layerslider id=”6″]

Con la Crisi emerge anche la solitudine

Infatti, insieme ai risvolti più strettamente clinici, che possono essere generati in coloro che sono stati travolti dalla Crisi economica, vi è un altro aspetto da prendere in considerazione: la solitudine.

A questo proposito, l’Eurostat (Istituto europeo di statistica), che ha diffuso i risultati di una survey sulla solitudine delle persone, relativi al 2015, in ambito europeo, pone l’Italia in testa alla classifica.

Tra questi dati sulla solitudine, si segnalano i seguenti, assai pertinenti con le tipologie di supporto offerte da SOS CRISI:

  • il 13,2% degli italiani over 16 non ha una persona alla quale chiedere aiuto. Si tratta della percentuale più alta a livello europeo, dove il valore medio è del 6%.
  • l’11,9% degli italiani non ha qualcuno con cui parlare dei propri problemi personali, contro una media europea del 6,1% (è vero, però, che in Francia la percentuale è del 17,7% della popolazione).

In sostanza, gli italiani, o perché non possono rivolgersi a nessuno per chiedere aiuto, o perché non hanno un amico o un familiare con cui parlare dei problemi più intimi, vivono, secondo il rapporto Eurostat, una quota di solitudine doppia, in termini percentuali, rispetto alla media europea.

Infodata ha provato ad incrociare i numeri sulla solitudine con altri indicatori per capire quale possa essere la causa di questo sentimento. E il primo elemento riguarda le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale. Quelle cioè che hanno un reddito inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. Emerge che col crescere della povertà aumenta anche il numero di persone che dichiarano di essere sole. E una tendenza simile si ha prendendo in considerazione il tasso di disoccupazione. Inoltre più cresce l’età mediana della popolazione, più aumenta la quota di persone che si dichiarano sole.

2008: l’impennata delle richieste di sostegno psicologico nei Servizi gratuiti di Ascolto del Cittadino e di Mediazione dei Conflitti

Ciò può contribuire a spiegare perché , fin dal 2008 nei Servizi gratuiti di Ascolto del Cittadino e di Mediazione dei Conflitti, gestiti dall’Associazione Me.Dia.Re. dai primi anni duemila, si presentarono molte persone che, più che essere sofferenti per conflitti di coppia e familiari, o legati ad altri contesti interpersonali, erano portatori di un disagio strettamente riconducibile a disoccupazione, precarietà, inadeguatezza del reddito, paura per il futuro.

In breve, chiedevano ascolto, ancor più che aiuto, poiché sentivano di sprofondare in uno strano isolamento. Un silenzio tetro, strettamente connesso alla difficoltà, o all’impossibilità, di condividere i loro vissuti.

Com’è noto, la situazione economico-occupazionale non migliorò negli anni seguenti.

Per effetto della disoccupazione e della precarietà lavorativa, nei primi cinque anni successivi all’esplodere della crisi (tra il 2008 e il 2012) i redditi medi erano calati in provincia di Torino del 15,7%, in linea con quanto avvenuto nelle altre metropoli del Centronord (che vanno da -13% nel caso di Venezia a -17,9% per Firenze). Insieme a Firenze e Venezia, dunque, quella torinese risultava tra le province centrosettentrionali meno ricche.

Il numero di famiglie economicamente assistite dai servizi sociali pubblici del Comune di Torino era in continua crescita: 2.248 nel 2014, laddove l’anno prima erano 1.876.

Anche il privato sociale era oberato da un numero crescente di richieste d’aiuto: ad esempio, alla Caritas torinese (sportello “Due tuniche”) nel 2013 si erano rivolte 2.197 persone, contro le 1.865 del 2012, le 612 del 2010, le 284 nel 2008. Il maggior numero di richieste riguardava problemi di debiti (nel 44,2% dei casi), occupazionali (29%), di salute o disabilità (11,2%), legati a spese per l’abitazione (9,1%).

[layerslider id=”7″]

La solitudine come isolamento emotivo e non come mancanza di compagnia

Per tali ragioni, Me.Dia.Re., oltre sei anni fa, avviò formalmente il Servizio SOS CRISI, ottenendo, nel 2013,  il contributo fondamentale della Fondazione CRT e della Compagnia di San Paolo, e potendo poi avvalersi anche dei contributi e/o della collaborazione dell’Unione delle chiese metodiste e valdese, della Fondazione SociAL, della Banca d’Italia, del Comune di Collegno, delle Circoscrizioni 1,7 e 8 della Città di Torino.

Ancora oggi, SOS CRISI è attivo. Anzi, grazie al contributo rinnovato dalla Fondazione CRT e a quello della Città di Torino, può offrire un ventaglio più ampio di forme di sostegno, poiché il disagio, col passare del tempo è divenuto ancora più profondo e si è maggiormente diffuso. Anche se pare ancora insistere con maggiore danno su quella parte della popolazione che ha, o aveva, lavori di tipo esecutivo. Ad esempio, tra chi chiede aiuto alla Caritas vi sono soprattutto persone che hanno perso posti di lavoro esecutivi, come operaio, operatore delle pulizie, colf (fonte: http://www.osservatoriocaritastorino.org).

La solitudine e l’impressione di non contare nulla e di non poterci fare nulla

Quel che in questi anni di gestione di SOS CRISI è emerso, però, con particolare nettezza è il nesso tra il vissuto della solitudine e la sensazione di non avere valore per la società nel suo complesso.

Da un lato, si riscontra una diffusa percezione di essere considerati soltanto numeri, di essere entrati in qualche statistica sulla povertà, ma di essere stati dimenticati, giudicati ed emarginati dalla società e dalle sue istituzioni.

Dall’altro, vi è una sorta di identificazione di sé, anche in termini depressivi, come vittime impotenti di una Crisi, rispetto alla quale ogni lotta o ribellione risulta impossibile ancor prima che inutile. Ma ciò crea una rabbia sorda, disperata e dolente. Ci si irrita per tale identificazione e si cercano altri soggetti su cui scaricare la rabbia, che, altrimenti, implode con esiti autodistruttivi.

Ma la rabbia, proiettata all’esterno o no, crea lontananza, sia nel senso che tiene lontani gli altri, sia nel senso che ci si allontana dall’altro. Forse, per precauzione in entrambi i casi. E da ciò la solitudine trae origine o sviluppo.

La solitudine generata dalla vergogna

Del resto, in questi anni di gestione del servizio SOS CRISI, assai spesso, si è potuto constatare che, con particolare evidenza presso gli appartenenti alla cosiddetta classe media, impoveritasi improvvisamente, vi è la sensazione di rappresentare agli occhi degli altri qualcosa di sgradevole, di inguardabile. Un brutto spettacolo da evitare.

In molti casi, il vissuto dello stigma, temuto ancor prima di essere esperito, induce a nascondere al resto del mondo non soltanto la situazione di oggettiva difficoltà economica ed occupazionale, ma ancor di più la sofferenza emotiva.

Quest’ultima, quindi, alimentata da un miscuglio di vergogna, senso di colpa e di sconfitta, che inducono facilmente all’autoisolamento, trova una ulteriore causa di incremento, radicamento e approfondimento.

SOS CRISI: l’ascolto della solitudine

Fin dal principio, dunque, il Servizio SOS CRISI, si è declinato anche come luogo in cui dare cittadinanza a tali vissuti di solitudine, come spazio in cui poterli verbalizzare e come occasione per rifletterci sopra.

SOS CRISI, quindi, nelle sue diverse forme di intervento, non sminuisce né ridimensiona la portata di tali sentimenti, ma li accoglie.

I professionisti di SOS CRISI, ovviamente, non giudicano, né propongono facili o vuoti messaggi consolatori, ma ascoltano e accompagnano le persone nelle loro riflessioni, aiutandole così ad elaborare il dolore e l’angoscia, a dare significato alla rabbia, a superare la vergogna e il senso di colpa.

In breve, alle persone che si sentono esiliate o auto-esiliate dalla Crisi si offre la possibilità di ritrovare fiducia nella parola come strumento di connessione e condivisione con l’altro, così da individuare, ove possibile, anche le modalità soggettivamente più opportune per risolvere l’isolamento e la solitudine in cui si è scivolati.

Alberto Quattrocolo

[layerslider id=”10″]

sos crisi

SOS CRISI: per chi e perché?

Da alcuni anni a Torino e in altre città piemontesi l’Associazione Me.Dia.R. gestisce SOS CRISI, un Servizio gratuito rivolto alle persone e alle famiglie il cui disagio personale o relazionale è stato provocato o aggravato da difficoltà economiche o occupazionali.

SOS CRISI come risposta al disagio e allo stress generati dalla Crisi economica

Il progetto SOS CRISI è stato avviato anni fa da Me.Dia.Re., allo scopo di rispondere al forte aumento delle richieste di sostegno psicologico. Richieste, implicite ed esplicite, proposte da persone o da famiglie che, per effetto di difficoltà innescate o acuite dalla crisi economica, come la perdita del lavoro e l’indigenza economica, stavano vivendo situazioni di forte sofferenza personale.

In particolare, emergevano condizioni di stress e dolore tali da compromettere fortemente, fino ad annientarle, talvolta, le capacità di reagire alle avversità. E ciò provocava il progressivo deterioramento delle relazioni familiari e sociali, generando condizioni di emarginazione sociale sempre più gravi e rischiose.

A chi si rivolge SOS CRISI

[layerslider id=”6″]

Il Servizio gratuito si rivolge alle persone e alle famiglie che soffrono in termini psicologici o relazionali riconducibili a difficoltà determinate dalla Crisi economica e che pertanto si trovano in condizioni di forte esclusione e/o disagio sociale, quali ad esempio: giovani sfiduciati che non studiano e non lavoro (NEET), persone che hanno perso il lavoro, disoccupati di lunga durata, precari, ex imprenditori ed ex artigiani ridotti all’indigenza, giovani professionisti che faticano a entrare o ri-entrare nel mercato del lavoro, ecc.

Cosa offre SOS CRISI: un Servizio gratuito di Ascolto e di Sostegno Psicologico e Psicosociale

Come è noto, negli anni più recenti il tasso di disoccupazione ha subito una fortissima impennata, colpendo in modo particolare le fasce più giovani della popolazione. La difficoltà di accedere al mercato del lavoro, la perdita dell’occupazione o il passaggio a forme occupazionali meno stabili possono

  • causare ansie e sofferenze che rischiano di cronicizzarsi e diventare difficilmente curabili nel lungo periodo
  • accrescere tensioni e difficoltà di comunicazione provocando o aggravando relazioni conflittuali nella famiglia e in altri contesti relazionali
  • determinare o aggravare il rischio di emarginazione ed isolamento, a causa dei suddetti conflitti, se invece di essere fonti di crescita e trasformazione evolutiva, allentano o erodono o spezzano i legami interpersonali, facendo venire meno la fiducia nel loro intrinseco valore contenitivo e nella loro efficacia supportiva.

Ascolto e percorsi di sostegno 

Il Servizio gratuito SOS CRISI è in primo luogo un servizio di ascolto. Chiunque si rivolga al servizio, viene ascoltato individualmente, per offrirgli uno spazio di condivisione e di sfogo, ma anche per valutare quale percorso possa essere il più adatto.

Tra i servizi gratuiti offerti vi sono psicoterapie individualipsicoterapie di coppia e familiaripercorsi di gruppopercorsi di mediazione dei conflitti.

Inoltre, vengono organizzati dei Job Club, cioè la conduzione di gruppi di persone che

  • imparano delle tecniche pratiche per rendere molto più efficace la propria ricerca di lavoro;
  • si scambiano contatti e informazioni su possibili datori e sul mercato del lavoro locale;
  • si supportano e si stimolano a vicenda a rimanere costanti e positivi nella attività di ricerca;
  • non si limitano a cercare un impiego, ma stimolano la creazione di posti di lavoro grazie ad efficaci tecniche di auto-candidatura.

I Job Club sono condotti da trainer certificati dell’Associazione Me.Dia.Re., con la supervisione dell’ideatore del metodo Job Club, Riccardo Maggioli.

Le ragioni del sostegno offerto: le conseguenze psicosociali della crisi economica

[layerslider id=”7″]

Come è noto, l’impatto della crisi economica sulla condizione emotiva e sugli stili di vita delle persone è importante.

Sul piano psicologico, ad esempio, aumentano i disturbi depressivi, quelli della sfera ansiosa (panico, ansia generalizzata) e quelli somatoformi (cefalee, insonnia, tachicardia, astenia, stanchezza).

L’aumento delle richieste di sostegno psicologico, però, da parte di persone o famiglie colpite dalla Crisi, spesso, non trova adeguata risposta da parte dei servizi pubblici. Questi, infatti, sono per lo più condizionati da costanti tagli alla spesa e da riduzioni del personale.

I servizi di psichiatria delle ASL, pertanto, riescono a mala pena ad accogliere pazienti, tendenzialmente in condizioni cliniche molto gravi, con patologie conclamate, i quali necessitano di un supporto farmacologico.

Sono invece, al di sotto delle richieste, i percorsi di psicoterapia proposti dalle ASL e, per lo più, non sono orientati specificamente alla cura delle situazioni correlate a sofferenze dovute alla crisi economica e/o lavorativa.

Inoltre, viepiù significativo si manifesta il fenomeno dei NEET – “Not (engaged) in Education, Employment or Training”. Si tratta di persone non impegnate nello studio, né nel lavoro e né nella formazione.

Nel 2016 si stimava che i NEET fossero oltre un terzo dei giovani tra i 20 e i 24 anni (Fonte: Istat). Tra il 2005 e il 2015 la loro percentuale era aumentata in Italia in misura superiore rispetto agli altri paesi Ocse: +10 punti percentuali, come riferiva l’ Ocse (I Neet aumentano in Italia. L’80% degli studenti non ha alcun aiuto finanziario) e come rifletteva S. Intravaia (Spesa al lumicino e record di Neet: la scuola italiana secondo l’Ocse”).

Come si è sviluppato il Servizio SOS CRISI

Il progetto SOS CRISI, sorge dalla lunga attività svolta da Me.Dia.Re., fin dai primi anni Duemila, nella gestione di Servizi gratuiti di Ascolto del Cittadino e di Mediazione dei Conflitti.

Infatti, con il sopraggiungere della Crisi economica, nell’utenza di quei servizi crebbero a vista d’occhio le situazioni di sofferenza legate a difficoltà di reddito e di occupazione.

Persone sprofondate di colpo nella disoccupazione, coniugi o genitori di disoccupati, negozianti e altri piccoli imprenditori che non reggevano più.

Tutti o quasi portavano angoscia, frustrazione, paura, senso di fallimento, di colpa, di vergogna e di solitudine. E rabbia. A volte, una rabbia afona, rivolta verso se stessi o proiettata sull’etourage famigliare, altre volte, indirizzata verso l’esterno. Verso la società, verso questa o quella impresa o verso la politica. E, soprattutto, la sensazione di essere completamente in balia degli eventi. Un sentimento di inadeguatezza e di stanchezza. A sua volta fonte di esasperazione.

Di fatto, quel Servizio, per un numero crescenti di utenti, divenne un vero e proprio servizio di sostegno psicologico.

Dal 2009 venne, pertanto, pensato, elaborato, progettato e attivato un sostegno psicologico specificamente dedicato alle “vittime” della Crisi: un supporto rientrante nel più generale Servizio di Ascolto e Mediazione.

Ma dalla fine del 2011, dato l’ulteriore incremento di richieste di sostegno psicologico, fu necessario rendere autonomo dal resto tale supporto alle persone colpite dalla Crisi economica.

Nacque, così, il Servizio SOS CRISI, progettato ed erogato con percorsi ad hoc, per coloro la cui sofferenza era legata alla Crisi economica.

A partire dal 2013 con contributi della Fondazione CRT (per la sua realizzazione a Torino) e della Compagnia di San Paolo (il contributo di questa fondazione era correlato all’implementazione di SOS CRISI su altri territori), dei fondi dell’Otto per Mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdese, della Fondazione SociAL e della Banca d’Italia, fu possibile consolidare i risultati raggiunti, allargare il bacino d’utenza e potenziare l’offerta di servizi.

Tali sostegni economici permisero di costruire un’offerta eclettica, finalizzata a sostenere individui e famiglie nella sofferenza, nel disagio mentale, nelle difficoltà relazionali e nello sviluppare competenze ed empowerment necessari a reagire costruttivamente alle condizioni critiche in cui si trova.

La persistente attualità del Servizio gratuito SOS CRISI

[layerslider id=”10″]

Secondo quanto emerso dalle ultime rilevazioni, la Crisi economica dovrebbe ormai essere alle nostre spalle.

Diseguaglianze, povertà e rischio povertà

Ad esempio, il Rapporto n.1 – l’Economia del Piemonte della Banca d’Italia evidenziava, infatti, che nel 2016 proseguiva in Piemonte la moderata ripresa dell’attività economica, grazie alla domanda interna e nonostante un indebolimento di quella estera. Il PIL risultava cresciuto dello 0,8 per cento. Già nel 2015, d’altra parte, era tornato ad aumentare, dopo tre anni di recessione, in virtù di una marcata ripresa nell’industria e più contenuta nei servizi. Il miglioramento, inoltre, era proseguito nei primi mesi del 2017 e, pur permanendo un’elevata incertezza, si prevedeva una moderata crescita degli investimenti, grazie anche ad una certa ripresa della domanda estera. Ciò sul piano occupazionale si collegava con una crescita nel 2016

Tuttavia, va considerato che siamo ancora lontani dai livelli occupazionali del 2008, cioè al periodo pre-crisi, e che vi è solo una moderata crescita del reddito disponibile e dei consumi.

L’Istat, peraltro, segnala che alla «significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie» si associa, purtroppo, «un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale».

Per il la stima dell’Istat è che il 30,0% delle persone residenti in Italia fosse a rischio di povertà o esclusione sociale. Ciò segnala un peggioramento rispetto all’anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%.

Aumentano gli individui a rischio di povertà (saliti al 20,6%, dal 19,9%), le famiglie gravemente deprivate (salite al 12,1% da 11,5%) e le persone che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (passate al 12,8%, da 11,7%).

Il rischio di povertà o esclusione sociale interessa soprattutto il Mezzogiorno (46,9%, in lieve crescita dal 46,4% del 2015), ma aumenta anche nel Nord-ovest (dal 18,5% al 21,0% ) e nel Nord-est (dal 15,9% al 17,1% ). Nel Centro continua a interessare il 25,1%.

Vi è, quindi, ancora una notevole quantità di persone per le quali l’uscita dalla Crisi è lungi dall’essere una realtà.

Angoscia e sfiducia

Su un altro registro, anche per coloro che, sul piano materiale, hanno superato in tutto o in parte la fase più buia della Crisi economica, non accusando “danni materiali definitivi”, va annotato che:

  • occorre del tempo per elaborare e superare gli effetti destabilizzanti della Crisi economica sulla condizione psicologica e relazionale di chi ne ha sofferto le ricadute
  • precarietà lavorativa e incertezza sul futuro, senso di vulnerabilità, altre difficoltà di reddito o di impiego persistenti, incidono ancora, e molto, sugli aspetti psicologici e sociali della Crisi
  • si avverte in taluni casi l’angoscia che la Crisi non sia davvero passata, ma sia solo entrata in una fase di latenza, quasi fosse una sorta di sonno ristoratore di questo mostro che prelude ad un risveglio all’insegna della furia più catastrofica
  • molte persone scottate dalla perdita dell’impiego, dalla forte contrazione o dalla chiusura delle loro iniziative private autonome stentano a rimettersi in gioco. Alcuni hanno una rappresentazione di se stessi come di impotenti disvelati. Come se si fosse scoperta e appresa la proprio impotenza, a seguito della destabilizzazione della Crisi, pervenendo ad un profondo senso di sfiducia nella società e in se stessi.

Per queste e altre situazioni i servizi di SOS CRISI sono un possibile sostegno per dare voce a preoccupazioni, paure, dolori e lacerazioni e per ricevere un supporto idoneo a ritrovare la fiducia.

Alberto Quattrocolo

ascolto sostegno vittime reato

Ascolto e sostegno per le vittime di reato

Tra i servizi gratuiti offerti dall’Associazione No profit Me.Dia.Re. da oltre dodici anni ve n’è uno rivolto alle vittime di reato e a coloro che sono ad esse affettivamente legate.

Com’è nato il Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato e per i loro famigliari

Nel 2004, l’Associazione attivò a Torino, con un contribuo economico della Città, un Servizio gratuito di Ascolto del Cittadino e Mediazione dei Conflitti.

Si avvalevano di tale servizio, previo appuntamento telefonico, persone che erano coinvolte in situazioni di conflittualità interpersonale che le facevano stare male.

A gestire tale Servizio, infatti, erano dei professionisti nell’ambito della mediazione dei conflitti e della mediazione familiare. Non pochi casi, in effetti, erano di conflittualità all’interno della famiglia (sopratutto conflitti di coppia, ma non solo), di vicinato e sul luogo di lavoro.

L’approccio di questo Servizio, che caratterizza tutta le attività di mediazione (familiare, penale, sanitaria, in ambito organizzativo-lavorativo, sociale) dell’Associazione, prevede che, sempre, in ogni caso, anche quando si presentano insieme le persone coinvolte in un conflitto, esse vengano ascoltate separatamente.

Si svolgono, perciò, non meno di due colloqui individuali con ciascun protagonista del conflitto.

Dopo pochi mesi dall’apertura, capitò che si rivolgessero al Servizio anche persone che vivevano una situazione e avevano dei vissuti che soltanto sotto un certo aspetto potevano essere ricondotti alla conflittualità interpersonale.

Si trattava di persone che avevano subito dei reati o che erano affettivamente legate alla vittima di un reato.

Naturalmente, non essendo sempre esplicitato il motivo della richiesta al Servizio in sede di contatto telefonico per fissare il primo appuntamento, in alcuni casi soltanto nell’ambito del primo colloquio si veniva a sapere che l’esperienza dolorosa portata dalla persona non era quella di un conflitto di vicinato o familiare, ad esempio, ma quella dell’essere stata vittima di un crimine.

Poiché nel team vi erano persone dotate anche psicoterapeuti e criminologi (e, in quest’ultimo caso, con un curriculum apprezzabile anche sul versante vittimologico), non vi era ragione alcuna per non offrire uno spazio di ascolto e di supporto a chi si rivolgeva al Servizio in quanto vittima di un reato, e non perché in conflitto con un collega, un vicino di casa o un famigliare.

Del resto, lo sportello era definito e promosso come Servizio di Ascolto del Cittadino e non solo di Mediazione dei Conflitti.

In verità, un po’ studiando e un po’ con l’esperienza, quindi sulla pelle dei “nostri utenti”- onestamente, ciò va ammesso -, ci “specializzammo” nell’accoglienza e nel supporto delle vittime di reato.

Il passo successivo fu quello di ottenere un contributo economico, partecipando al bando Otto per Mille delle Chiese metodiste e valdese, con un progetto specifico.

Perché offrire Ascolto e Sostegno ad una vittima

[layerslider id=”6″]

Perché cercammo un supporto economico per svolgere questo servizio, non facendolo pagare, dunque, a chi ne intendeva fruire?

Perché ritenevamo – e la pensiamo ancora così – che dei vissuti della vittima di un reato dovesse farsi carico in primo luogo la comunità.

Questo servizio gratuito, che, con il tempo e a maggior ragione con l’aumento dei casi e con la formalizzazione derivante dalla progettazione e dalla concessione del contributo ad hoc, aveva assunto una fisionomia propria, si basava su un’idea di fondo.

Essenzialmente questa: dare alle persone che avevano subito un reato uno spazio e un tempo, attraverso più colloqui con dei professionisti, per condividere l’esperienza vissuta ed essere supportati rispetto alle conseguenze sul piano emotivo, affettivo, relazionale, esistenziale, famigliare, amicale, sociale, lavorativo…

Alcuni effetti della vittimizzazione

Perché, ci si potrebbe chiedere, le vittime di un reato e le persone ad esse legate dovrebbero avere bisogno di un servizio di questo tipo?

Una risposta realmente esaustiva implicherebbe centinaia di pagine e, in effetti, sarebbe opportuno rinviare a qualche testo di Vittimologia.

Tuttavia, un paio di aspetti si possono brevemente riassumere. L’uno riguarda i vissuti derivanti dalla vittimizzazione, cioè dall’essere stati vittime di un fatto dannoso ingiusto. L’altro riguarda la nozione stessa di vittima ai fini dell’individuazione di coloro cui rivolgere un simile servizio di sostegno.

Rispetto al primo aspetto, occorre considerare che l’esperienza di vittimizzazione può procurare emozioni e sentimenti di notevole intensità e particolarmente ingombranti. Vissuti, cioè, difficili da gestire e capaci di influenzare la vita quotidiana: rabbia e risentimento, ansia e sgomento, paura e insicurezza, vergogna e imbarazzo, senso di colpa e di inadeguatezza.

Inoltre, quanto più è stato violento il danno subito, possono aversi nelle vittime di reato altri vissuti e conseguenze che interessano sia la sfera psicologica che quella fisica: ipervigilanza, angoscia, reviviscenza del trauma, paura di vivere nuovi eventi simili, variazioni del tono dell’umore, ansia, disturbi del sonno, attacchi di panico, senso di impotenza, riduzione dell’autostima, problemi cardiaci, disturbi gastrointestinali, asma, emicranie o cefalee croniche…

Già solo questa dimensione, lascia intuire perché possa avere senso offrire alle persone che hanno subito un crimine la possibilità di alleggerire il loro carico emotivo.

La solitudine delle vittime

[layerslider id=”7″]

Ma vi è di più.

Una delle conseguenze del reato per le vittime è, generalmente, quella di sapere di poter contare su una diffusa solidarietà da parte degli altri (i cosiddetti consociati, che non sono soltanto i famigliari, gli amici e i conoscenti, ma tutti coloro che fanno parte di una certa comunità, sia essa locale o nazionale), ma di vivere, spesso, anche un’altra, apparentemente contraddittoria sensazione: la solitudine.

Per molteplici ragioni, sulle quali sarebbe eccessivamente lungo soffermarsi esaustivamente, le vittime di un reato non raramente fanno fatica a trovare un’efficace vicinanza emotiva da parte degli altri.

Ciò accade non solo quando si tratta di persone prive di legami o di relazioni significative.

L’auto-isolamento delle vittime

Accade, infatti, anche a chi una vita relazionale piena ed è circondato da persone che gli vogliono bene.

La solitudine della vittima può essere la conseguenza di un suo timore di appesantire con il proprio stato d’animo le persone cui è affezionata. La vittima, ad esempio, consapevole che anche il partner, il genitore, i famigliari e gli amici soffrono per quanto le è capitato, può essere indotta a ritenere di doverli tutelare dal suo dolore e dalla sua angoscia.

Oppure, la solitudine delle vittime può derivare dal pudore, dal riserbo, dal timore di essere avvertiti dagli altri come fastidiosamente ingombranti o, ancora, dall’idea che dar voce alla propria sofferenza significhi acutizzarla e cronicizzarla. E l’una o l’altra ragione inducono qualche volta le vittime a non condividere gli effetti più disturbanti dell’offesa subita con i loro cari, a tacerli e a viverli, perciò, in una condizione di auto-isolamento.

Non, raramente, però la solitudine della vittima è conseguenza delle difficoltà delle persone ad essa vicine di relazionarsi con le sue emozioni (e, in fondo, con le loro emozioni).

L’isolamento (da parte degli altri) delle vittime

Né va taciuto che, in non pochi casi, capita di rilevare che la solitudine della vittima è stata generata non tanto dallo spiazzamento da parte degli altri nel rapportarsi con una sofferenza che non si sa bene come accogliere, come maneggiare, come contenere, ma da un rifiuto della vittimizzazione stessa, da un mancato riconoscimento del suo avverarsi.

In tali casi, non è la vittima ad isolarsi. Essa viene isolata dagli altri.

Ciò accade quando coloro che la circondano ritengono che il suo soffrire per la vittimizzazione subita sia sinonimo di vittimismo. Oppure, quando, e non è raro, pensano che in qualche misura essa si meriti quel che le è successo (esempi particolare di tali dinamiche sono contenute nei post Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima , mentre altre considerazioni sulle logiche ad esse sottese sono contenute nel post Nessuna vittima è più uguale di un’altra, presenti entrambi nel blog Politica e conflitto, sul sito di Me.Dia.Re.).

Ad esempio, nei casi di violenza domestica può accadere che famigliari e gli amici si rifiutino di accogliere i tentativi di condivisione della vittima. E, addirittura, magari in virtù del legame che hanno con l’autore della violenza, in base ad una stravolta lealtà verso di esso, succede che i famigliari o i parenti censurino duramente la ricerca di un ascolto da parte della vittima (per un approfondimento si può leggere il post Colpa della vittima?).

La ri-vittimizzazione

Inoltre, non va dimenticato che per le vittime di reato l’incontro con le agenzie ufficiali preposte alla repressione del crimine può essere un’importante fonte di stress e sofferenza.

Per quanto da molti anni anche in Italia siano svolte molteplici iniziative di sensibilizzazione e di formazione per le forze dell’ordine, la magistratura penale, gli avvocati, gli operatori sanitari, gli assistenti sociali, ecc., affinché adottino un approccio corretto e tutelante anche sul versante emotivo nel rapportarsi con le vittime di reato, per queste l’impatto con l’istituzione può essere ri-vittimizzante.

Cioè, può dar luogo ad una sollecitazione dei vissuti procurati dal reato che, però, non è accompagnata da un’adeguato contenimento, da un empatica attenzione, sicché la persona si ritrova a patire alcuni degli effetti più disturbanti correlati alla vittimizzazione primaria (cioè quella generata direttamente dalla commissione del reato).

Qui, tra questi vissuti, se ne può segnalare uno solo, ma carico di implicazioni: il sentirsi de-umanizzati.

La de-umanizzazione della vittima

La de-umanizzazione, infatti, è uno dei vissuti più scomodi, angoscianti e dolorosi che la commissione del reato può procurare alla vittima (un maggiore approfondimento di questo aspetto si trova nel post Il rispetto per l’umanità di chi è vittima di una violenza non (è mai stato) procrastinabile, anche in tal caso all’interno del blog Politica e conflitto) .

Non si contano le volte in cui le vittime affermano che il reo le ha trattate come oggetti, come esseri privi di sensibilità.

Tale vissuto può essere provato anche successivamente all’esperienza della vittimizzazione procurata dal reo con la sua condotta lesiva. Può capitare che ci si senta de-umanizzati anche nella relazione con il sistema della giustizia.

Di nuovo, non si contano le volte in cui le vittime esplicitano che, ad esempio, nell’ambito del processo, si sono sentite accantonate, poste sullo sfondo, mentre, metaforicamente parlando, dei trattori passavano sulla loro sensibilità.

Il che, forse, è, almeno in parte, inevitabile, visto che lo scopo principale dell’attività giurisdizionale non è tutelare la condizione psicologica della vittima, ma acclarare i fatti e le responsabilità, al fine di comminare un’eventuale sanzione.

Certo, però, a volte viene da pensare che, per la vittima, l’esperienza del procedimento giurisdizionale, in assenza di un sostegno efficace, sia davvero una Via Crucis.

Non va, però, taciuto che la vittimizzazione secondaria possa verificarsi, in contesta extra-giudiziario, cioè in  situazioni in cui la vittima non è riconosciuta come tale, subendo di fatto una negazione non solo del suo status di vittima, ma della dignità della sua persona. Le viene, infatti, negata ogni legittimazione della sua sofferenza.

Un caso particolare, su questo registro, è stato preso in considerazione, nel post Le vittime di Piazza San Carlo, rispetto ai fatti di Piazza San Carlo, a Torino, il 30 giugno 2017.

A chi si rivolge il Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato?

Quali sono, dunque, i destinatari di un servizio di tipo vittimologico?

Senza dubbio, per usare un’espressione legale, le persone offese da reati dolosi.

Tuttavia, accanto a queste persone, vanno considerate anche le vittime di reati colposi. Anche per costoro, infatti, il danno ha ricadute importanti sotto molteplici aspetti e non meno meritevoli di attenzione.

Inoltre, va considerato che accanto alla vittima diretta del fatto illecito vi sono le persone affezionate alla vittima: famigliari, partner, amici…

Rispetto all’omicidio doloso o colposo, la cui vittima diretta è l’essere umano che ha perso la vita, è immediatamente evidente che le persone che amavano l’ucciso hanno anch’esse perso qualcosa. Hanno perso tantissimo, troppo, in verità.

Vi sono, però, infinite situazioni in cui reati (dolosi o colposi) privi di conseguenze letali feriscono profondamente non soltanto le vittime giuridicamente intese, ma anche altri soggetti.

Uno stupro, ad esempio, può devastare anche la madre, il padre, la sorella o il fratello, il partner della persona che ha subito la violenza. Lo stesso può valere per altri reati.

Per fare un solo altro esempio, si può pensare ai genitori, ai fratelli o agli amici più cari della vittima di bullismo.

Infine, è bene precisare che un simile sostegno non può essere riservato soltanto a quelle persone (vittime in senso legale o vittime in senso esteso, cioè sul piano umano) che abbiano denunciato il fatto o che siano state riconosciute come tali da provvedimenti giudiziari.

Se così fosse, infatti, verrebbe meno una delle funzioni più importante per il singolo e per la collettività di un simile supporto.

L’Ascolto e il Sostegno vanno offerti anche a chi non ha denunciato il fatto.

Per chiarire quest’ultimo aspetto occorre pensare a come, in mancanza di adeguato supporto, sia frequente che soprattutto certe condotte criminose restino ignote all’autorità giudiziaria.

Anche qui per fare solo un (vasto) esempio, si può considerare l’importanza di un simile sostegno ai fini della denuncia (e oltre) per fatti iscrivibili nel filone della violenza di genere.

[layerslider id=”10″]

La connessione tra il Servizio per le vittime di reato e gli altri Servizi e Progetti di Me.Dia.Re.

Un’ultima considerazione riguarda il fatto che l’esperienza maturata in tale ambito operativo e le riflessioni sorte proprio nella conduzione di percorsi gratuiti di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato (nel senso esteso sopra accennato), sono state di particolare rilevanza anche al di là di tale contesto.

Così, quanto appreso e pensato nell’ambito del Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno delle vittime di reato è stato di particolare importanza per:

D’altra parte, l’esperienza pratica (clinica, per così dire) e umana, accumulata e in corso di sviluppo tutt’ora, nel Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato, quasi inevitabilmente, confluisce in parte in alcune pubblicazioni (tra cui, soprattutto, Giusio M., Quattrocolo A.,  Elementi di vittimologia e di Victim Support, 2013), nonché in diverse iniziative formative di Me.Dia.Re.:

 

Alberto Quattrocolo