Obiettivi della mediazione e speranze del mediatore

È necessario, per non cadere nei dubbi e negli equivoci di un “dialogo forzato”, che, nell’ambito della mediazione dei conflitti, si separino i concetti di “obiettivo” e di “speranza”.

L’obiettivo della mediazione, come sviluppata da Me.Dia.Re. (https://www.me-dia-re.it/ascolto-e-mediazione-dei-conflitti/) è che i due confliggenti si sentano innanzitutto riconosciuti dal mediatore.

La speranza di costui, invece, può essere che la mediazione porti a un eventuale reciproco riconoscimento e a un ripristino della comunicazione attraverso il confronto.

Nella mediazione, dunque, non si costruiscono spazi di dialogo ma si offre l’opportunità di avere spazi di confronto.

Rielaborazione da D’Alessandro M. (2016), Mediazione tra dialogo e confronto, in La Giustizia Sostenibile, vol. IX,  (pag. 27-31), Aracne, Roma

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La mediazione come gestione non giudicante del confronto

Il dialogo che si svolge nel processo mediativo messo in atto da Me.Dia.Re. (nei suoi servizi di mediazione familiare e  in quelli Ascolto e Mediazione dei Conflitti, tra cui sono inclusi quelli di mediazione penale) ha una funzione strumentale all’interno della prassi della mediazione e non è il fine di essa.

Rispetto alla “retorica del dialogo”, come tentativo di ripristinare un’intesa, si colloca questa visione e questa pratica della mediazione come spazio di confronto.

Uno spazio, cioè, in cui lo scambio può dare origine a una maggiore comprensione del punto di vista dell’altro, ma che può anche esitare in un arroccamento ostinato nella propria posizione.

Infatti, se uno dei presupposti della mediazione, in tutti i modelli teorico-operativi in cui questa è proposta, è quello dell’assenza di giudizio, nel modello di Me.Dia.Re., il mediatore, coerentemente con il carattere necessariamente a-valutativo del percorso, ha la funzione non di ripristinare il dialogo ma di permettere il confronto, rispettando l’esito che i due confliggenti vorranno dare a tale percorso.

Il rapporto tra carattere a-valatutativo della mediazione e la sua declinazione come pratica di confronto e non come stimolo al dialogo, naturalmente, si collega al fatto che il mediatore si astiene non solo dal giudicare le posizioni, gli interessi, i comportamenti, i pensieri e le emozioni e i sentimenti delle parti in conflitto, ma anche il loro essere in conflitto.

In altre parole, la mediazione non è – o sarebbe preferibile che non fosse – una guerra al conflitto. Neppure è una crociata contro il peccato o l’eresia-conflitto, né una cura della malattia-conflitto, così come non è una rieducazione rispetto alla devianza-conflitto, ecc.

Se la mediazione, quindi, si sforza di non cadere nell’inganno sofistico di mirare a ripristinare a tutti i costi un dialogo tra i due confliggenti, deve rendere possibile e favorire il confronto, astenendosi dall’utilizzare tecniche o strategie che spingano gli attori del conflitto verso il dialogo.

 

Rielaborazione da D’Alessandro M. (2016), Mediazione tra dialogo e confronto, in La Giustizia Sostenibile, vol. IX,  (pag. 27-31), Aracne, Roma.

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La mediazione come ascolto e confronto

Generalmente intendiamo con il termine dialogo un discorso fra due o più persone che miri ad un’intesa. Tant’è che aprire un dialogo fra parti contrapposte indica il tentativo di persone disposte a ragionare con l’intento di raggiungere una verità o un’opinione condivisa: quando infatti si utilizza l’espressione “tra noi manca il dialogo”, indichiamo il fatto che ognuno resta della propria opinione.[… ]

Se il dialogo presuppone un concetto di verità, il confronto prevede, invece, che ci sia il reciproco presentarsi di due punti di vista a cui viene offerta la possibilità sia di un incontro sia di uno scontro, sia di una convergenza sia di una divergenza.

Se solo e sempre sulla premessa della disponibilità al dialogo si fondasse l’attività di mediazione, sarebbe assai poco frequente il suo concreto e operativo dispiegarsi, poiché raramente in caso di conflitto vi è una tale propensione tra le persone che ne sono protagoniste.

Se la prospettiva della mediazione, però, invece che puntando sull’intenzione di sviluppare un dialogo, è proposta ai confliggenti nei termini di un’occasione per avere uno o più momenti di (eventuale) confronto, allora le possibilità di adesione a tale risorsa aumentano sensibilmente.

Il modello di mediazione sviluppato da Me.Dia.Re., proposto come percorso di Ascolto (della persona) e Mediazione (del conflitto), offre alle persone in conflitto, in primo luogo, dei momenti di ascolto (colloqui individuali) e successivamente, se richiesti, dei momenti di confronto (incontri di mediazione).

Naturalmente anche negli incontri di mediazione, come nei colloqui individuali, il compito del mediatore è quello di svolgere un’attività di ascolto, che in tal caso si declina anche come supporto allo sviluppo del confronto.

Ciò, però, va attuato guardandosi dall’assumere un atteggiamento non solo giudicante ma anche, esplicitamente o implicitamente, direttivo. La funzione del terzo – il mediatore -, infatti, consiste nel tentare di far sì che ciascuno dei protagonisti del conflitto (e della mediazione) senta di essere compreso e riconosciuto da lui.

Questa condizione, a ben vedere, come pone in luce l’esperienza, rende possibile poi il progressivo declinarsi del confronto sul piano del dialogo. Ma si tratta di uno sviluppo scelto e posto in essere autonomamente dai protagonisti, non stimolato, suggerito o indotto dal mediatore.

Rielaborazione da D’Alessandro M. (2016), Mediazione tra dialogo e confronto, in La Giustizia Sostenibile, vol. IX,  (pag. 27-31), Aracne, Roma.

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La mediazione ridà fiducia nella parola

Due aspetti, tra loro intrecciati, terribilmente ricorrenti nei conflitti, specie quando pervengono a livelli significativi di escalation, sono la difficoltà di parlare e quella di ascoltarsi, cioè di ascoltare se stessi e di ascoltare l’altro.

Quando queste due difficoltà arrivano a sembrare insormontabili la comunicazione subisce delle alterazioni, risulta distorta. Gli eventuali sforzi di dialogo, come, del resto, i tentativi di riparazione, possono essere vissuti dalla controparte come manifestazioni di resa riluttante, come ammissioni di colpa mascherate o come segni di debolezza, oppure, addirittura, come possibili, insidiosissime, trappole.

Infatti, in tali circostanze, alla fiducia si è ormai sostituita la diffidenza; e ciascuno vede l’altro come se fosse un nemico. Un nemico infido, che potrebbe essere capace di qualsiasi cosa.

Sono, queste, situazioni intrise di rabbia, dolore, rassegnazione e stanchezza. E talvolta anche di solitudine: infatti, vi è anche da considerare un altro aspetto desolante: in quelle situazioni, la sensazione di incomunicabilità non riguarda solo il rapporto con coloro con i quali si è conflitto, ma spesso anche con quegli altri ai quali si tenta di raccontare, di spiegare, di far capire ciò che ci sta succedendo.

“Perché dovremmo rivolgersi ad un mediatore?”, ci chiediamo, se qualcuno ci propone tale eventualità, quando ci troviamo coinvolti in conflitti di simile portata. Si tratta di una proposta che ci suona come una perdita di tempo, dato che gli atteggiamenti e i comportamenti della nostra controparte ci portano a pensare che, al punto cui si è arrivati, parlare non serve più a niente?

In realtà, l’oggetto della nostra sfiducia non è la mediazione come intervento professionale da parte di un terzo. Il punto è che abbiamo iniziato a perdere la fiducia nella parola. E ciò aumenta i vissuti di frustrazione e di impotenza, poiché, anche se abbattuti, sfiduciati, arrabbiati e delusi, in fondo, un po’ ci piacerebbe che il nostro avversario prima o poi comprendesse un paio di cosette, quelle che tante volte abbiamo cercato di fargli capire.

Seguire un percorso di mediazione, se non ad altro, almeno a questo serve: a ritrovare la fiducia nella parola. Non è una cosa poco quando il conflitto ci sta togliendo il sonno e l’appetito, incupendo l’animo e le giornate, logorando nervi e pazienza, quando ci sta gravando sul cuore e il suo carico si fa più pesante per la sensazione che, nonostante la fatica di spiegare e persuadere, siano pochissime le persone capaci di comprenderci.

Ritrovare fiducia nella parola non è qualcosa di teorico. È un dato di fatto. Ha le forme e le sensazioni di un’esperienza di riscoperta.

Tra le varie ragioni per provare la strada della mediazione, infatti, vi è anche quella di poter essere, in primo luogo, ascoltati. Intendo: proprio ascoltati, ascoltati davvero.

Questa esperienza, non esattamente frequentissima, dunque, ridà fiducia nello strumento della parola. Nella mediazione c’è, infatti, qualcuno che comprende quel che diciamo e quel che cerchiamo di dire. E quel qualcuno può aiutarci a comunicare, a veicolare a coloro con cui siamo in conflitto quei significati che ci stanno particolarmente a cuore.

In fondo, qui sta il nocciolo della mediazione.

Alberto Quattrocolo

Tratto dalla lezione di A. Quattrocolo svolta nel primo incontro della XIII edizione del Corso di Mediazione Penale e in ambito Lavorativo e Sanitario

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La mediazione come contenimento del timore di essere giudicati negativamente per il solo fatto di essere in conflitto

Quando siamo in conflitto, molto spesso, rappresentiamo noi stessi come coloro che non hanno scelto di confliggere, ma che vi sono stati costretti dalle circostanze o dalla condotta della controparte.

Se siamo in lite, ci diciamo e diciamo agli altri, è perché siamo stati forzati a reagire ad un’aggressione di qualche tipo o ad un’altra ingiustizia.

Anche la nostra controparte, però, nella gran parte dei casi, ritiene di essere stata trascinata nel conflitto. E si propone ai terzi come obbligata a reagire all’offesa di un nostro comportamento.

Scriveva Brian Muldoon che prima di arrivare in tribunale il conflitto “arde nella mente e nel cuore degli attori del conflitto”, cioè si sviluppa sul piano cognitivo ed emotivo, prima di manifestarsi con comportamenti visibili. E, aggiungeva, le parti rappresentano se stesse come oggetto di un’ingiustizia, cui reagiscono chiedendo giustizia.

Perché tanto spesso viviamo il nostro essere in conflitto come se si trattasse di una reazione alla condotta altrui e non come se fosse un’azione scaturita da noi, non come se fosse una nostra scelta?

Tra le molteplici ragioni, forse, un ruolo non marginale lo gioca anche la nostra paura di essere giudicati negativamente, da noi stessi e dagli altri, per il solo fatto che siamo in conflitto? 

Non è un’ipotesi da escludere, visto che il conflitto crea nella collettività reazioni all’insegna della preoccupazione, dell’allarme e della riprovazione.

Una delle peculiarità della mediazione consiste nel suo basarsi sul presupposto che l’essere in conflitto non è di per sé un fatto censurabile: non lo è in termini etici, sociali, morali, né sotto profili relazionali, personali, psicologici, ecc. Il conflitto, infatti, è considerato un evento naturale. E quando questo atteggiamento a-valutativo non è solo adottato in termini teorici dal mediatore, ma è da questi declinato nella pratica dell’incontro con i protagonisti del conflitto, gli effetti sono immediatamente visibili. Perché i protagonisti del conflitto, relazionandosi con il mediatore non sono più condizionati dalla necessità di persuaderlo che la Giustizia è dalla loro parte e che l’Ingiustizia è tutta collocata nel campo del nemico.

Tratto dalla lezione di Alberto Quattrocolo svolta nel primo incontro della XIV edizione del Corso di Mediazione Familiare.

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Nella mediazione si ascoltano le persone non (solo) le parti del conflitto

Una mediazione è in primo luogo una condizione di ascolto delle persone in conflitto. Si tratta di un contesto nel quale, quindi, ciascun soggetto può dare voce alla propria sofferenza e alla propria rabbia, potendo contare sul fatto che il mediatore è lì per ascoltarlo senza giudizio, oltreché, naturalmente, senza pregiudizio.

Si tratta di un luogo all’interno del quale ogni soggetto può recuperare la propria complessità di persona ed essere visto e sentito, almeno dal mediatore, al di là del ruolo in cui lo appiattisce il conflitto.

Non si tratta di un aspetto di poco conto, perché sono molti i luoghi, anche istituzionali, cui spesso il conflitto approda, all’interno dei quali noi, come attori di quella vicenda, veniamo ad essere oggetto di un’attenzione rivolta non a noi come persone – con le nostre molteplici sfumature, con le nostre attese, ansie, speranze, frustrazioni, rabbie, ecc., – ma al ruolo che abbiamo. In primo luogo, il ruolo di confliggenti e poi il ruolo sul quale si innesca il conflitto: coniuge e/o genitore, ad esempio, se si tratta di un conflitto familiare; lavoratore e collega, se si tratta di un conflitto sul luogo di lavoro; insegnante o studente, o genitore di quest’ultimo, se si tratta di un conflitto sviluppatosi in ambito scolastico; professionista o paziente, oppure famigliare di quest’ultimo, quando si tratta di un conflitto sorto in un luogo di cura.

Ma questa attenzione, questa focalizzazione sul nostro ruolo sociale e sul ruolo di confliggenti a quello connesso, talora – per quanto inestricabilmente e doverosamente connessa alla natura dell’istituzione deputata a gestire il nostro conflitto -, può procurarci un vissuto di spersonalizzazione. Un vissuto, cioè, non così distante da quello sperimentato nella relazione con l’altra o le altre persone con le quali siamo in conflitto, la quale o le quali, appunto, ci fanno sentire spersonalizzati. E, magari, a volte, perfino, de-umanizzati.

Il compito del mediatore, sotto questo profilo, è diametralmente opposto: ri-umanizzarci e ri-personalizzarci. Vale la pena, però, ribadire che questa ri-umanizzazione si compie attraverso l’ascolto. Un ascolto a-valutativo.

Ciò consente a ciascuno degli attori del conflitto di arrivare a riconsiderare i propri sentimenti, pensieri e comportamenti. E questa riflessione è facilitata anche dal fatto che vissuti importanti, quali il dolore o la frustrazione, la rabbia o la paura, che possono essere stati alla radice del conflitto e averne sostenuto l’escalation, sono stati compresi e riconosciuti dal mediatore.

Alberto Quattrocolo

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conflitto

La prima vittima del conflitto è la verità

Si dice che la prima vittima del conflitto sia la verità.

Ciascuna delle parti è convinta di averne il monopolio e rigetta i contenuti e gli argomenti della controparte, in quanto falsi. Essere dalla parte della verità, del resto significa anche essere dalla parte giusta, cioè della giustizia. Quindi, anche se si dovesse mentire, inventando dei fatti o alterandone la dinamica o il significato, magari nel tentativo di persuadere altre persone della validità e giustezza delle proprie idee e comportamenti, ci si può sentire, comunque, dalla parte della verità: infatti, la menzogna proposta verrebbe considerata solo come uno strumento al servizio del superiore fine della vittoria sulla controparte, che costituirebbe l’affermazione della giustizia sull’ingiustizia, del verso sul falso…

Se ciò è vero, a ben vedere, è perché ad essere ucciso dal conflitto è anche il dialogo. Anzi, ancor di più: perfino il confronto risulta compromesso, quando non del tutto soppresso.
Se si vuole gestire un conflitto altrui, come accade nella mediazione (che sia un’attività di mediazione familiare o di mediazione penale, o di conflitti sorti in ambito organizzativo-lavorativo, sanitario, sociale, scolastico, ecc.), occorre far sì che le parti (le persone) coinvolte abbiano la possibilità di esprimersi, di raccontare e di raccontarsi, e di sentirsi comprese.

Cioè, di essere liberate dal fardello di dover dimostrare la natura obiettiva e indiscutibilmente vera della loro verità.

Se ciascuna parte ottiene da chi gestisce il conflitto soltanto di essere udita, ma non sentita, è assai improbabile che si ristabilisca un confronto. E ancor più arduo è che si giunga ad un dialogo e, a seguito di questo, a quell’autentico riconoscimento reciproco tra le persone, che l’escalation del conflitto aveva seppellito sotto strati di paure, ostilità, risentimenti, pregiudizi, angosce, perdite e tristezze.
Tuttavia, se ciascuna delle persone in conflitto si sente ascoltata e, quindi, riconosciuta dal terzo (mediatore), non essendo più impegnata nello sforzo di farsi capire, di argomentare e di persuadere, avrà maggiori possibilità di svolgere un confronto con la controparte. Un confronto, in realtà, che è suscettibile di assumere le forme del dialogo.

Tratto dalla relazione di A. Quattrocolo (“La Mediazione Sanitaria, Penale e Organizzativo-Lavorativo”) al convegno “LA MEDIAZIONE A 360°. Presso l’Arena Samsung di Piazza della Repubblica, Milano, 18 ottobre 2017

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Utilità della mediazione

Qual è l’utilità di una mediazione quando si è al centro di un doloroso, angoscioso, sfibrante, amaro conflitto? Risparmiare il tempo e il denaro derivante da una gestione giudiziaria? Sì, ma non solo.
Quando siamo coinvolti in conflitti a cui non riusciamo mai a smettere di pensare – quei conflitti che ci fanno bruciare lo stomaco e ci tengono svegli la notte, che ci fanno sentire impotenti e furiosi – tra le tante cose che ci abbattono vi è il sapere che l’altro interpreta tutto ciò che facciamo o non facciamo, tutto ciò che diciamo o non diciamo in termini negativi. Pensa e reagisce a noi e alle nostre azioni, secondo l’immagine negativa che ha sviluppato nella sua mente. L’immagine che ha di noi è l’immagine del nemico. Ebbene, la mediazione aiuta risolvere questi nodi, consente di sciogliere questi blocchi cognitivi ed emotivi, permette alle persone in conflitto di guardarsi l’un l’altro per come sono e non per come il conflitto li ha stravolti.

Tratto dalla relazione di A. Quattrocolo (“Casi pratici di mediazione in materia sanitaria”) nel convegno “La mediazione nella responsabilità medica e nel volontariato”, 3 maggio 2018, realizzato da DPL Mediazione &Co. e A.V.O. Associazione Volontari Ospedalieri presso l’Ospedale G. Pini, Milano

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Il riconoscimento delle emozioni in mediazione

Pur essendo esperienza comune che, quando si litiga, le emozioni spesso prendono il sopravvento sulla nostra supposta razionalità, la dimensione emotiva è quella meno riconosciuta e accolta in tutte le sedi nelle quali il conflitto tradizionalmente approda per essere risolto.

Nel modello di mediazione sviluppato da Me.Dia.Re., il riconoscimento delle emozioni e dei sentimenti costituisce, invece, un aspetto centrale del percorso, che, non a caso, si chiama non solo di mediazione, ma di Ascolto (delle persone) e Mediazione (dei conflitti).

Ciò implica che anche gli stati d’animo più scomodi, quelli che apparentemente sembrano perpetuare o rilanciare le ostilità, vengono accolti e legittimati. Il non farlo, infatti, equivarrebbe a svolgere un ascolto selettivo. In sintesi: io, mediatore, ascolto solo quello che mi pare congruo e funzionale al mio obiettivo e non ciò che, a mio giudizio, allontana il suo raggiungimento.

Non accogliere sentimenti ed emozioni intrisi di conflittualità, quindi, sotto questo profilo, significherebbe giudicare negativamente tali stati d’animo e, sotto sotto, rifiutarli, perché sconvenienti. Equivarrebbe, in altri termini, ad una non accettazione delle persone in conflitto per come sono, ritenendo, forse, che in tal modo possano diventare come si vorrebbe che fossero, cioè: meno conflittuali.

Ma la premessa di ogni teoria e pratica di mediazione è che essa dev’essere non giudicante e  deve fondarsi sull’ascolto, necessariamente a-valutativo delle parti.

Tratto da Quattrocolo A. (2005) La mediazione trasformativa, in Quaderni di mediazione, Puntodifuga Editore, anno I, n.1

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mediazione in materia sanitaria

Casi pratici di mediazione in materia sanitaria.

Estratto dell’intervento sulla mediazione in materia sanitaria di A. Quattrocolo al Convegno “La Mediazione nella responsabilità medica e nel volontariato”.

Nel ragionamento che cerco di proporre verrà esplicitata una particolare dimensione del conflitto, ossia la sua non staticità, il suo carattere dinamico: la cosiddetta escalation del conflitto, ossia quella dinamica che porta le parti a rappresentarsi l’un l’altro come “il cattivo della situazione”.

Parleremo, in altri termini, di quelle relazioni in cui si arriva a pensare che l’altro sia motivato da ragioni inconfessabili, malvagie, losche, che abbia un atteggiamento connotato da cinismo insopportabile, che sia incapace di provare sentimenti umani, quali pietà e affetto: situazioni in cui percepiamo l’altro come “disumano”.

Nel realizzare che nel film dell’altro il cattivo siamo noi, le prime reazioni sono all’insegna dello sconcerto, del dolore e dell’amarezza. Lo sconcerto, ad esempio, del professionista che realizza di essere considerato “il cattivo” nella storia del paziente, il cattivo per antonomasia, il cattivo più cattivo della sua vita. E ci può rimanere molto male. Ma può capitare anche il contrario, ossia che il paziente possa essere considerato il cattivo nella storia del professionista. E allora è il paziente a restare interdetto.

Sono quelle situazioni in cui non si riesce a credere che sia possibile che sia così, ed entrano in gioco meccanismi di giustificazione che sono stati esplorati anche in altri ambiti, non soltanto da chi si occupa di mediazione dei conflitti, ma per esempio anche in ambito criminologico. Sono, cioè, quelle situazioni in cui le parti hanno delle condotte che, viste da fuori, sembrano incomprensibili, anche discutibili su diversi livelli, persino chiamando in causa principi morali ed etici; ma, dal punto di vista di chi è in conflitto, quelle condotte non sono riprovevoli, perché, ciascun confliggente si dice che, in fondo, l’altro se l’è cercata, è colpa sua quel che gli viene inflitto: la reazione, la ritorsione perfino, se l’è meritate.

Sono situazioni in cui l’aggressore, verbale o fisico, pensa che la vittima della sua aggressione non soffra, perché in realtà: l’azione aggressiva-ritorsiva non è realmente dannosa; perché c’è di peggio; perché c’è sempre chi ha fatto cose più gravi, eccetera.

Vengo al dunque. Dal 2005 l’Associazione Me.Dia.Re. ha realizzato numerosi (più di una dozzina) progetti formativi presso Agenzie Sanitarie e singole organizzazioni sanitarie, così dotando tutte o quasi le Aziende Sanitarie pubbliche di Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna di équipe (composte da personale dipendente del SSR) di Ascolto Mediazione per la gestione dei conflitti tra operatori sanitari e cittadini.

Il conflitto di cui sto parlando non è qualcosa di nuovo. Nel IV secolo a.C.  Ippocrate scriveva:

“Che ci siano malati che tra i pazienti guariscono perfettamente è un fatto che tutti riconoscono. Ma siccome non tutti guariscono per questa ragione l’Arte (la medicina) è ormai biasimata e quelli che ne dicono male, prendendo a pretesto i malati che soccombano alle malattie, sostengono che chi ne scampa lo deva al caso e non all’Arte (alla medicina)”.

Riecheggia un po’ quella situazione per cui se vinco una causa è perché ho ragione, se la perdo perché l’avvocato è un incapace. Mi sono permesso una citazione dal Trattato sull’Arte di Ippocrate per dire che, da un certo punto di vista, parrebbe non esserci un granché di nuovo, ma, in realtà, c’è molto di nuovo. Tuttavia allora come adesso, viene a essere presa in considerazione una dimensione relazionale che è veramente profonda, veramente complessa, stratificata.

Venendo ai tempi nostri e a come la relazione terapeutica si è sviluppata, pur all’insegna dell’originaria ambivalenza, ricordo come, le domande da cui partimmo nel 2001, all’interno dell’Associazione Me.Dia.Re., per ragionare sul conflitto in questo ambito erano:

  • rispetto alle forme di manifestazione dei conflitti in termini di reclami, richieste di risarcimento e denunce penali, sono concepibili solo risposte di natura tecnico-organizzativa, cioè quella che tipicamente può dare l’URP, oppure di natura giuridica?
  • Queste soluzioni, formali o non formali, giudiziarie o extra giudiziarie che siano, ricostruiscono la relazione di fiducia? Spesso e volentieri anche quando arriva una risposta firmata dal Direttore Sanitario a seguito di istruttoria svolta dall’URP, non è che automaticamente il cittadino si sente sollevato. Per esempio se nella risposta viene detto che la ragione della sua contestazione, per quanto comprensibile, è sbagliata.
  • Un’altra domanda: ma il cittadino che fa una richiesta di risarcimento danni davvero vuole sempre e soltanto una somma di denaro? Che voglia solo una somma di denaro è possibile, che voglia anche altro oltre alla somma di denaro è possibile, che non voglia la somma di denaro ma voglia qualcos’altro è anche possibile. Come sosteneva Einstein “non tutto ciò che conta può essere contato, non tutto ciò che può essere contato conta”.
  • Un’altra domanda collegata: ma il paziente si è sentito ascoltato e riconosciuto come persona dal professionista e dai professionisti?
  • E ancora: l’operatore che sia stato assolto in sede penale o civile, è in pace con il cittadino? E l’operatore che è posto sott’accusa, per esempio nella segnalazione o nella richiesta di risarcimento danni, cioè che si sente accusato, si è sentito riconosciuto come professionisti e come persone da parte del cittadino? Magari no.

Spesso e volentieri, a lato o sotto la richiesta di risarcimento, nel cittadino vi sono sentimenti ingombranti: la rabbia, il senso di abbandono, di tradimento, la solitudine, la percezione di non essere stati riconosciuti come individui. E sono stati d’animo che difficilmente riescono ad essere contenuti nelle risposte formali. Nell’operatore ci sono altrettanti sentimenti di non poco conto: quello di essere stati offesi, di essere oggetto di mancato riconoscimento, di essere stati messo sotto accusa. Mi ricordo una ginecologa che era stata oggetto di una richiesta di risarcimento danni che, guardandomi con lacrime di rabbia negli occhi, mi disse: di tradimenti nella vita ne ho patiti tanti, ma doloroso come questo non ne ricordo nessuno. Ce l’aveva con una paziente.

Allora l’ultima domanda che ci facemmo all’epoca fu: perché non possiamo dare a queste persone la possibilità di esprimere a dei terzi questi sentimenti, se lo vogliono, ed eventualmente anche la possibilità di comunicarseli.

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Quindi l’idea è stata quella di introdurre un’attività che, ad integrazione dei normali percorsi finalizzati ad accertare l’evento segnalato, rivolga un’attenzione alla persona con lo scopo:

– da un lato di risolvere, cioè di contenere ad accogliere, i vissuti di tradimento e abbandono provati dal cittadino e quindi ridurre l’ostilità che può provare nei confronti dell’Istituzione, intesa come Azienda sanitaria ed équipe che ci lavora dentro o anche verso la categoria (i medici)

– e dall’altro lato, far sentire all’operatore che l’ente presso cui lavora non lo lascia solo in una situazione in cui è sottoposto a un certo stress professionale.

Andando ad ascoltare le persone protagoniste di conflitti in questo specifico ambito e raccogliendo, in termini forse un po’ superficiali, i loro vissuti, vengono fuori alcuni degli stati d’animo più ricorrenti.

Per esempio nel cittadino che si sente vittima, c’è una sensazione spesso di dolorosa, offensiva indifferenza patita: dichiara nel momento che viene ascoltato che quello che ha vissuto è stato un trattamento che lo ha disumanizzato. Ricordo un signore che diceva al dottore: “Ma se sul tavolo operatorio ci fosse stata sua figlia anziché la mia, avrebbe commesso lo stesso errore?”. Questo signore credeva di no, ma il medico diceva di sì. Il primo signore stava dicendo: ho l’impressione che l’errore sia stato generato non da un problema tecnico, da una tua incapacità, ma dal fatto che stai dimenticando che stai operando su una persona umana. Per questo gli ritorna una sensazione di profonda violenza, nel senso di indifferenza alla sua umanità.

Spesso poi il paziente o il famigliare prova una sensazione di solitudine, perché difficilmente trova una rete di vicinanza che svolga un’attività di victim support informale, ossia persone disposte ad ascoltarlo in profondità, empaticamente, perché nessuno ha tanta voglia di sentir parlare di malasanità: è il timore che ciò che è capitato alla persona in questione possa succedere anche a noi. Il che, tra l’altro, può avere un’incidenza di non poco conto sul piano della escalation del conflitto.

Nel caso di una perdita il risarcimento potrà essere anc

he milionario, ma la percezione di un’impossibilità di riparazione continua a permanere. Spesso e volentieri c’è una percezione di ingiustizia nei confronti del sistema. Ricordo una persona che doveva fare una richiesta di risarcimento danni a un’Azienda Sanitaria a cui chiesi come si sentiva. Mi rispose che si sentiva una persona piccola nei confronti di un gigante. Ci si sente soli e si interpreta la propria lotta come animata da principi molto alti. Lo faccio non per me, ma perché non capiti mai più. C’è talvolta anche il senso di colpa, per non aver fatto tutto il possibile per evitare l’errore altrui

Se andiamo a guardare il punto di vista del professionista, anch’esso ha la percezione di essere stato vittima. In particolare, di un’accusa ingiusta e infondata, che gli procura un danno irreparabile: lo screditamento. Spesso e volentieri c’è un vissuto di solitudine nei confronti delle istituzioni, il vissuto di essere stati traditi da un’istituzione che ti mette in prima linea con un minutaggio severo e poi, quando arriva una segnalazione, si volta verso di te e ti chiede in tono accusatorio: “Cos’hai combinato?”; oppure paga quando, secondo il professionista, non dovrebbe pagare. Il professionista si chiede perché l’Azienda o l’assicurazione paghi se l’errore non c’è stato. L’istituzione risponde: “Ci costa di meno”. E il suo pensiero è: “Sì, però così tu mi disconfermi, è come se mi dessi torto”.

C’è nel professionista anche il vissuto di essere oggetto di categorizzazione, nei termini per i quali quello che è il comportamento discutibile messo in atto da un membro del mio gruppo viene immediatamente ad essere rappresentato, da coloro che sono esterni, come se fosse rappresentativo dell’intero gruppo.

Spesso e volentieri, poi, c’è anche nel professionista il bisogno di far capire che resistere in giudizio ad una richiesta di risarcimento danni ritenuta infondata non serve solo a difendere esclusivamente se stessi e la propria immagine, ma il bene della categoria, il bene della medicina.

Talvolta, infine, c’è il senso di colpa, perché errare è umano e accade. E, qualche volta, c’è la paura che l’evento possa ripetersi.

I team che sono stati formati per operare nelle aziende sanitarie lo fanno con un certo approccio, che è, in primo luogo, avalutativo: il loro compito è quello di accogliere non le parti ma le persone, non indagare i fatti segnalati e non sono messi lì per dare delle risposte – per questo c’è già l’URP –, la loro funzione, onvece, è quella di fornire ascolto sul piano dei significati.

“Ti è arrivata una richiesta di risarcimento danni, come stai? Che effetto ti fa?”. “Mi fa arrabbiare”. “Perché? Parliamone”. E la stessa domanda viene rivolta al cittadino, che afferma di essersi sentito trattato come una cartella clinica e basta, o come un animale. Il team gli dice: “A parte la richiesta di risarcimento danni, quell’altra parte di danno che non può trovare ascolto all’interno di percorsi strutturati, ti interessa esprimerla?”

Il percorso è strutturato in fasi:

  • la prima è costituita da colloqui individuali con ogni attore del conflitto
  • la seconda, eventuale, è costituita da incontri di mediazione
  • la terza è rappresentata da incontri di post mediazione.

Gli operatori che lavorano in tali team ci restituiscono un panorama in cui circa l’80% dei casi che gestiscono sono risolti con i soli colloqui individuali. Cioè, in molti casi anche solo il fatto di aver potuto ascoltare singolarmente il professionista e il paziente fa sì che questi ritrovino, poi, un modo diverso di relazionarsi tra loro. Cioè, anche solo all’ascolto dei singoli, il conflitto trova un suo contenimento.

I professionisti all’interno dei team permettono alle parti di esprimere i propri vissuti. Ascoltano nella stessa maniera il cittadino e l’operatore. I mediatori li chiamano e chiedono loro come stanno. Lo chiedono ad entrambi. Agiscono davvero come terzi, pur essendo all’interno dell’Azienda Sanitaria.

Se ci sentiamo accolti come individui, non come parti in conflitto, se ci sentiamo ascoltati e non dobbiamo fare lo sforzo di persuadere chi ci ascolta che i nostri stati emotivi e i nostri ragionamenti sono sensati, allora ci è anche possibile metterci in discussione. E possiamo anche capire che, se il terzo ci propone di incontrare la controparte, non lo fa per farci fare la pace, ma perché ci sta offrendo uno spazio dove incontrare l’altro e aiutarci a dire quelle cose che non siamo ancora riusciti a far arrivare all’altro.

Il compito dei mediatori non è quello di risolvere il conflitto – se lo fosse, infatti, che si tratti di mediatori aziendali o no, non sarebbero neutrali -, ma è quello di essere capaci di ascoltare le parti per farle sentire comprese, restando neutrali circa l’esito del loro confronto.

Grazie per l’ascolto!

 

Il convegno, organizzato da DPL Mediazione&C e dall’Associazione Volontari Ospedalieri, si è svolto il 3 maggio 2018 presso l’Ospedale G. Pini di Milano.