1994, omicidio Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Mogadiscio, 20 marzo 1994. È domenica, sono passate da poco le 14.30. Una Toyota attraversa la capitale somala, diretta verso l’Hotel Amana. A bordo la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il cineoperatore Miran Hrovatin, in Somalia per seguire la missione Restore Hope, dove sono impegnati militari italiani. Sono appena tornati dal nord del Paese, dove hanno incontrato il sultano del Bosaso. A poca distanza dall’albergo, da una Land Rover scendono diverse persone armate, almeno sette, e fanno fuoco, uccidendo i due italiani; indenni l’autista (che non è quello che solitamente li accompagna) e l’uomo armato che li scorta. Gli aggressori scappano subito. Cominciano venticinque anni di inchieste e duri scontri, nella procura romana e non solo.

Sulla scena del crimine arrivano immediatamente gli unici altri due giornalisti italiani presenti a Mogadiscio, Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Un freelance che lavora per il network americano ABC riprende l’imprenditore italiano Giancarlo Marocchino, che a caldo dichiara:

“Non è stata una rapina. Si vede che sono andati in certi posti che non dovevano andare”.

Una troupe della Svizzera italiana filma le stanze di Miran e Ilaria, dando adito ai primi dubbi circa una precedente manomissione degli effetti personali dei due.

Tre giorni dopo, in Italia, al momento della sepoltura l’autorità giudiziaria non si è ancora attivata. Sul corpo di Ilaria Alpi non viene disposta autopsia ma solo un esame medico esterno. Spariscono alcune delle cassette girate da Miran Hrovatin e i taccuini con gli appunti della giornalista, l’intervista con il sultano del Bosaso è monca, i bagagli giungono con i sigilli violati. Emerge che i due erano stati richiamati fuori dall’hotel in fretta e furia da una misteriosa telefonata e sono stati uccisi facendovi ritorno.

Nei due anni successivi, dopo colpevoli ritardi nell’acquisizione di documenti e referti, si susseguono perizie balistiche contraddittorie, che avvalorano ora la tesi dell’esecuzione, ora quella del colpo sparato da lontano. Le indagini finiscono poi per incentrarsi su Hashi Omar Hassan, arrivato a Roma nel ’98 per testimoniare sulle presunte violenze di militari italiani ai danni della popolazione somala. Identificato dall’autista di Ilaria Alpi e da un ambiguo personaggio detto “Gelle”, arrestato e rinviato a giudizio per concorso nel duplice omicidio, Hassan viene assolto in primo grado, condannato all’ergastolo in appello e quindi a 26 anni definitivamente in Cassazione. Nel 2010, “Gelle” viene indagato per calunnia. Nel 2016, a seguito della revisione del processo, la Corte di Appello di Perugia assolve Hassan per non avere commesso il fatto, corroborando la tesi da più parti sostenuta che il somalo non fosse che un capro espiatorio; la madre di Ilaria, che fino alla morte si è battuta per ottenere verità e giustizia sostenendo l’innocenza di Hassan, non trattiene l’amarezza:

è come se mia figlia l’avesse uccisa il caldo di Mogadiscio”.

Nelle more del processo Hassan, scatta l’inchiesta bis per identificare gli altri componenti del commando e chiarire i motivi dell’omicidio, senza risultati. Il gip Emanuele Cersosimo respinge la richiesta di archiviazione del pm Franco Ionta e sostiene la tesi dell’omicidio su commissione con l’intento di far tacere i due reporter.

Accanto alla vicenda giudiziaria, quella della Commissione parlamentare d’inchiesta, avviata nel 2003 e chiusa nel 2006 con tre relazioni divergenti. Il presidente Carlo Taormina si fa portavoce della tesi del rapimento fallito:

“Ilaria Alpi era lì in vacanza” e le voci di un’esecuzione sono state messe in giro ad arte, sostiene, affermando di essere in possesso di documenti segreti che lo proverebbero.

Nel 2013, la Presidenza della Camera avvia la procedura di desecretazione degli atti acquisiti dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso: sono più di 600 dossier, alcuni dei quali prodotti dalle agenzie dei servizi segreti Aise e Aisi (ex Sismi e Sisde).

Nonostante il muro di omertà, false testimonianze, indagini arenate o chiuse senza plausibili motivi, destituzioni improvvise di magistrati particolarmente attivi, nel corso degli anni si dipana faticosamente una trama complessa, che a tutt’oggi attende un avallo ufficiale dalla magistratura, e che Luciana Ricciardi Alpi, madre di Ilaria, ha riassunto così:

Ilaria aveva toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia: lo scarico di rifiuti tossici pagato con soldi e armi. La verità è che c’è un filo invisibile che lega la morte di mia figlia alle navi dei veleni, ai rifiuti tossici partiti dall’Italia e arrivati in Somalia. Ci sono documenti che lo provano. Ci sono le testimonianze dei pentiti. Eppure nessuno ha avuto il coraggio di processare i colpevoli. In carcere è finito un miliziano somalo che sta scontando 26 anni, ed è innocente.

Dal novembre 1996, il pm Luciano Tarditi della Procura di Asti, assistito da un pool di investigatori specializzati nelle indagini sul traffico internazionale di rifiuti tossici e radioattivi, indaga sui traffici e sul contesto degli interessi italiani in Somalia. Ha a disposizione una copiosa documentazione che contiene nomi e fatti, comprese le generalità dei faccendieri che dirigono i traffici nell’ombra, gli intrecci con i mercanti d’armi e la mappatura completa che dimostra come ai tempi dell’omicidio tutti gli interessi convergessero sulla Somalia e su altri Paesi dell’Africa costiera. Questa documentazione non verrà utilizzata nelle indagini.

Vengono invece trasmessi alla Procura di Roma, nel ’99, gli atti dell’inchiesta condotta dalla Procura di Torre Annunziata, in cui diversi testimoni raccontano un articolato sistema di traffici di armi, rifiuti pericolosi e scorie radioattive, i cui proventi alimentavano conti neri o tangenti. Un sistema gestito da faccendieri italiani e stranieri, che chiamano in causa complicità politiche legate in special modo all’area socialista craxiana, nonché uomini dell’intelligence italiana e di altri Paesi. In particolare, gli investigatori di Torre Annunziata, sulla base del materiale raccolto, ritengono che Ilaria Alpi possa essere stata uccisa non tanto per aver raccolto informazioni e prove su presunti trasporti di armi fatti con i pescherecci della società italo-somala Shifco, quanto per aver scoperto a Bosaso depositi di armi trasportate da Hercules C-130 italiani e ancora recanti l’indicazione della loro provenienza dai Paesi dell’Europa orientale.

A indicare questa pista è soprattutto l’imprenditore Francesco Corneli, ritenuto vicino ai servizi segreti siriani, nonché ex collaboratore esterno del Sisde, che parla di “armi provenienti dall’Europa dell’Est veicolate attraverso l’Italia con voli militari” tra il ’90 e il ’91, per sostenere il dittatore somalo Siad Barre nella guerra civile che lo vedeva perdente; altri testimoni menzionano aerei militari non identificati del tipo Hercules che scaricavano armi in Somalia con cadenza settimanale. Il collaboratore di giustizia Francesco Elmo, che ha lavorato nello studio di un avvocato svizzero, dai cui uffici transitavano documenti relativi a questi traffici, precisa che le armi non finivano soltanto alle fazioni somale in lotta tra loro, ma pure ad altri paesi (Eritrea, Yemen del Sud, Sudan) o ai guerriglieri palestinesi, irlandesi (Ira) e baschi (Eta).

Un traffico d’armi dall’Italia alla Somalia, via mare e via cielo, sotto gli occhi della missione Onu. Lo ammette perfino il generale Carmine Fiore, ultimo alto ufficiale a guidare l’operazione Ibis in Somalia, in un interrogatorio a Torre Annunziata nel ’97. Ma c’è anche lo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi, probabile contropartita somala per le forniture di armamenti e denaro. Secondo le informazioni rese agli investigatori da Marco Zaganelli:

Tra il 1987 e il 1989 mi chiamò una persona che conoscevo, prospettandomi un grosso affare, perché era stato contattato da alcuni italiani, i quali dovevano sbarazzarsi di un carico di container fermi al porto di Castellammare di Stabia o a quello di Gioia Tauro, contenenti rifiuti tossici o radioattivi, e volevano un referente capace di riceverli e sotterrarli in un’area desertica della Somalia. Successivamente seppi che un carico di materiale radioattivo era stato portato in Somalia e i contenitori sotterrati in un’area desertica nel Nord del Paese.

Guido Garelli, disinvolto ex collaboratore per intelligence italiane e straniere, nonché fonte in una corposa inchiesta di Famiglia Cristiana, annota:

La regìa di tutto questo è appannaggio dei servizi d’informazione coinvolti in quello che è sicuramente il business più redditizio del momento. Non mi riferisco solo al Sismi e al Sisde; vi sono anche gli organismi omologhi dei Paesi che hanno “usato” vari stati dell’Africa per smaltire porcherie.

Lo stesso Garelli, citando un rapporto da lui stilato poco dopo il duplice omicidio, rammenta di aver messo in evidenza il nesso esistente fra il traffico di rifiuti e la fornitura d’armi, ipotizzando da subito l’intervento delle intelligence italiana e somala nella vicenda, perché “era chiaro che Ilaria era capitata su uno dei punti sensibili che la Somalia cercava affannosamente di proteggere e che l’Italia aveva la necessità di coprire.”.

Nel 2012 un’inchiesta per il Fatto Quotidiano mostra documenti inediti inviati dal Sios di La Spezia (il comando del servizio segreto della Marina Militare) a Balad in Somalia, il 14 marzo del ’94, il giorno in cui Ilaria e Miran erano appena arrivati a Bosaso: “Causa presenze anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, nda) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog. Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento”. I giornalisti riconoscono in Jupiter Giuseppe Cammisa, braccio destro di Francesco Cardella, a sua volta collaboratore del giornalista Mauro Rostagno, ucciso mentre seguiva la pista di un traffico d’armi illecito. Al termine di una complessa ricostruzione concludono:

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L’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin potrebbe dunque nascondere qualcosa che va al di là di ogni ipotesi immaginata fino ad oggi, traffici che hanno visto il coinvolgimento di apparati dello Stato, coperti per diciotto anni, grazie a silenzi e depistaggi.

Il generale Carmine Fiore commenta: “Se questo documento è vero vuol dire che esisteva una struttura occulta, non nota al comando del contingente”. Militari e agenti del Sismi interpellati dai giornalisti non hanno contestato l’autenticità. Qualcuno si è chiuso dietro l’obbligo del segreto al solo sentir parlare di Somalia. Per tutti appariva chiaro che quel linguaggio, quel tipo di comunicazione e le strutture coinvolte hanno un marchio di fabbrica ben noto, Gladio, o meglio Stay Behind.

Nel 2017, la procura di Roma chiede nuovamente di archiviare l’inchiesta, in quanto risulta impossibile accertare l’identità dei killer e il movente del duplice omicidio; la richiesta è respinta dal gip. È notizia della settimana scorsa che l’Agenzia di informazione e sicurezza interna (ex-Sisde) ha riferito in Procura a Roma con nota riservata della irreperibilità della fonte confidenziale che nel 1997 aveva riferito dei collegamenti tra l’omicidio Alpi-Hrovatin e i traffici di armi e rifiuti in Somalia, “con la conseguente impossibilità di interpellarla sull’autorizzazione a rivelarne l’identità”. Se questo nodo non sarà sciolto, sulla vicenda giudiziaria rischia di arrivare la parola fine.

Nel 2018 muore la madre di Ilaria, Luciana; in una recente intervista aveva detto:

Questa vicenda non riguarda solo la nostra famiglia. Riguarda chiunque, nel nostro Paese, creda nella verità e nella giustizia. Sono anni che aspetto e spero che sentenze e giudici facciano emergere la verità, ma è tutto inutile perché dietro le quinte ci sono persone che cercano di occultare e nascondere. Non ricordo neppure le numerosi solenni promesse che ho ricevuto.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; “Ilaria Alpi, 20 anni fa l’omicidio della giornalista e di Miran Hrovatin in Somalia” e A. Palladino, L. Scalettari, “L’ultimo viaggio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia e quell’ombra di Gladio”, www.ilfattoquotidiano.it; R. Morrione, “In ricordo di Giorgio Alpi”, www.liberainformazione.org; www.ilariaalpi.it; B. Carazzolo, A. Chiara, L. Scalettari, “Ilaria Alpi: ecco perchè è morta”, Famiglia Cristiana del 28/5/2000, in http://ospiti.peacelink.it; M. Cinquepalmi, www.enciclopediadelledonne.it; https://archivioalpihrovatin.camera.it; www.articolo21.org; G. Sartori, “La morte scomoda di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: un delitto di stato?”, https://riforma.it

Il massacro, tutto italiano, dei cantastorie etiopi

Tra le tante vergognose crudeltà commesse dagli italiani in Etiopia, nel corso della sua occupazione, ce n’è una in cui ferocia gratuita, ottusità oscurantista e razzismo fascista si diedero la mano e produssero un formidabile esempio di bizzarra disumanità. Si tratta del massacro dei cantastorie in Etiopia, perpetrato nel 1937, a partire dal 19 marzo.

Quel «radicale repulisti» degli etiopi, ordinato da Mussolini, e così entusiasticamente realizzato

Su questa rubrica, abbiamo ricordato come Benito Mussolini, il 3 ottobre del 1935, senza prima emettere una dichiarazione di guerra, avesse invaso l’Etiopia [1]. Intenzionato a ripristinare i fasti dell’impero romano, Mussolini, pur di sottomettere gli etiopi, aveva allestito una macchina da guerra imponente, facendo ricorso anche all’uso dei gas, già a partire dal 27 ottobre di quell’anno, per soffocare la resistenza militare e civile etiope all’occupazione italiana. Ma questa non si era piegata [2].

La politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici» (Benito Mussolini)

Amareggiato per gli insuccessi delle truppe italiane di occupazione, già nel 1936, il duce aveva ordinato al governatore generale e comandante delle truppe d’Etiopia, Rodolfo Graziani, di uccidere tutti i ribelli già catturati, di ammazzare i resistenti, facendo ricorso anche ai gas, sollecitandolo a

«condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».

L’attentato a Graziani e la strage di Adis Abeba

Come abbiamo ricordato su Corsi e Ricorsi, il 19 febbraio del 1937, due giovani studenti di origine eritrea avevano realizzato un attentato ai danni del viceré Graziani. Immediatamente era scattata la reazione contro la popolazione etiope, sollecitata da Mussolini. Questi con un telegramma ordinava, infatti, di realizzare un «un radicale ripulisti». Quel che seguiva era di un orrore inconcepibile. E ad esso fornivano un selvaggiamente entusiastico contributo i civili italiani [3].

Un massacro senza fine

«Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Adis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano», scrisse un testimone italiano, Dante Galeazzi. Poi, forse impensierito dal fatto che gli stranieri presenti nella capitale etiope documentavano con le loro macchine fotografiche la strage in corso, irritato perché di quel bagno di sangue si stava intestando il merito il federale Cortese e intenzionato a dimostrare a Roma di avere in mano la situazione, Graziani, dal suo letto di ospedale, ordinò di far cessare le rappresaglie dispiegate dai civili e dalle camicie nere. Mussolini, però, scriveva a Graziani che nessuno dei fermati attuali o venturi andava rilasciato senza suo ordine e precisava che «tutti i civili e i religiosi etiopi sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi». Così, toccò ai militari portare avanti l’escalation parossistica di violenze scatenatesi fin dal 19 febbraio.

Con la scusa del complotto…. Il via libera a fucilazioni e deportazioni della classe dirigente etiope

L’avvocato militare Bernardo Olivieri aveva proposto un rapporto in cui affermava che l’attentato a Graziani era stato ordito da un vasto complotto (mentre, in realtà, era stato compiuto da due studenti eritrei, con l’aiuto di un tassista). E Graziani ne approfittò per cercare di liquidare una buona parte dell’intellighenzia etiope, mediante fucilazioni. Alti funzionari governativi, giovani ufficiali, giovanissimi neolaureati in America, Francia e Gran Bretagna venivano semplicemente trucidati. Inoltre, non potendo mitragliare tutti quanti, come ebbe a lamentarsi Graziani in un telegramma spedito a Mussolini, il viceré, con l’approvazione scritta del duce, faceva deportare in Italia i notabili etiopi, mentre faceva rinchiudere «gli elementi di scarsa importanza ma comunque nocivi» nei campi di concentramento presenti nelle due colonie italiane del Corno d’Africa, Somalia ed Eritrea.

Nessuna eccezione

Non venivano risparmiati neanche quei funzionari e notabili che, per risparmiare al popolo ulteriori abusi, violenza e linciaggi, avevano deciso di collaborare con l’invasore italiano. Infatti, diversi esponenti abissini di provata fedeltà, dopo essersi congratulati con Graziani per lo scampato pericolo, gli consigliarono moderazione nelle rappresaglie per non alienare al dominio italiano le simpatie della popolazione. Però, Graziani interpretò il loro atteggiamento come una prova della loro collusione con gli attentatori e ne ricambiò i cortesi consigli facendoli deportare in Italia. Del resto, si sentì opporre un netto rifiutò anche chi tra gli italiani, tentò di moderare minimamente la repressione in atto. Così, accadde al tenente colonnello Princivalle, che era anche il capo del suo Ufficio politico, quando invitò Graziani a riflettere sulla possibilità di palesare una minima clemenza verso i notabili che avevano collaborato con il governo italiano, per «non ingenerare la convinzione che noi trattiamo allo stesso modo coloro che ci servono e coloro che ci tradiscono». Graziani gli replicò per iscritto: «fatti del genere si reprimono non solo colpendo gli esecutori, ma colpendo la collettività nella quale è sorta l’idea e nella quale vivevano i colpevoli».

Il massacro dei cantastorie

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Il 19 marzo del ’37, un mese dopo l’attentato, Rodolfo Graziani poteva dirsi soddisfatto di aver “risolto il problema” dei notabili, ma, riteneva ancora lontana dall’essere raggiunta la meta della soppressione totale di ogni oppositore, reale o presunto, alla dominazione italiana sull’Etiopia. Tuttavia, per rassicurare Mussolini sulle denunce proposte dalla stampa internazionale, gli scriveva: «Non posso escludere che alcuni abissini giustiziati abbiano prima di morire gridato “viva Etiopia indipendente”. Faccio però presente che esecuzioni ordinate in conseguenza noto attentato vengono fatte in località appartate e che nessuno, dico nessuno, può assistervi». In questa ipocrita e sanguinaria prospettiva si collocò anche l’incredibile sorte che egli riservò ai cantastorie e agli indovini.

Chi sono «i più pericolosi perturbatori dell’ordine pubblico»? I cantastorie, gli indovini e gli eremiti

Quello stesso 19 marzo Graziani scriveva al ministro Lessona:

«tra i più pericolosi perturbatori dell’ ordine pubblico erano da annoverarsi i cantastorie, gli indovini e gli stregoni, giacché essi andavano perfidamente diffondendo tra queste popolazioni primitive ignoranti e superstiziose le più inverosimili notizie circa futuri catastrofici avvenimenti (distruzione completa di tutte le popolazioni da parte degli italiani; prossimi attacchi condotti da imponenti formazioni ribelli con aiuti stranieri; prossimo ritorno del Negus alla testa di imponente esercito eccetera eccetera)».

L’ordine di arrestare e fucilare cantastorie e indovini

Il messaggio a Lessona proseguiva in questi termini:

«Convinto della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta, ho ordinato che tutti cantastorie, indovini e stregoni della città e dintorni fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati e eliminati settanta».

Mussolini scrisse:

«approvo quanto è stato fatto circa stregoni e ribelli. Occorre insistere sino a che la situazione non sia radicalmente e definitivamente tranquilla».

1877 (come minimo) eremiti, cantastorie e indovini ammazzati

Come ha spiegato Giorgio Rochat, «lo sviluppo della caccia a cantastorie e indovini e più in genere del “repulisti”, cioè delle esecuzioni sommarie paralegali per motivi di ordine pubblico, è parzialmente documentato da una quarantina di telegrammi che vanno dal 27 marzo al 25 luglio 1937, con i quali Graziani tenne regolarmente informati Lessona e Mussolini, certamente in seguito ad una richiesta specifica. […] L’ultimo di questi telegrammi fa salire la macabra contabilità a 1877 morti al 25 luglio 1937. […] Si noti comunque che queste cifre non tengono conto dei massacri effettuati nel corso delle operazioni antiguerriglia, né delle eliminazioni eseguite alla spicciolata dai responsabili dei presidi minori […]. Le indicazioni di Graziani si riferiscono inoltre quasi soltanto alla città di Addis Abeba ed ai territori dello Scioa da lui direttamente dipendenti, il che non significa che nelle altre regioni dell’impero fossero più rare le esecuzioni sommarie» [4].

Il massacro dei cantastorie etiopi, quindi, non solo seguiva e accompagnava le rappresaglie sulla popolazione civile e i massacri dei ribelli, ma si collegava all’eliminazione radicale della classe dirigente etiope. Lo scopo era impedire per sempre a quel popolo di parlare, di pensare e di credere. E i cantastorie parlavano, facevano pensare e aiutavano a credere. Dopo di loro, non a caso, saranno preti e monaci ad essere massacrati.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Ricordiamo che Mussolini era ormai da 12 annipadrone assoluto” dell’Italia ed era giunto ad un livello assai avanzato il suo progetto di fascistizzarla, per trasformarla in uno Stato etico, religioso e morale, cioè in una dittatura, in cui non vi fosse spazio alcuno per chi non fosse fascista.

[2] Occorre anche rammentare che l’Etiopia non soltanto era l’unico lembo d’Africa, insieme alla Liberia, che non era sottoposta alla dominazione di qualche potenza europea, ma era anche uno Stato membro della Società delle Nazioni.

[3] Come scrisse il giornalista Ciro Poggiali nel suo diario segreto: «Tutti i civili (italiani) che si trovano in Adis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico “squadrismo fascista”. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada […]. Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente».

[4] Rochat sostiene che «i macabri elenchi di Graziani hanno un valore soprattutto politico, perché non permettono di quantificare la repressione, ma documentano che fu condotta apertamente e dichiaratamente, con il controllo continuo delle autorità romane e l’incitamento del viceré».

Fonti

Angelo Del Boca, L’attentato a Graziani, in Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Mondadori, Milano, 1996, in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1998_211-213_12.pdf

Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2014

Angelo Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, in “Italia contemporanea”, settembre 1998, n. 212

Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008

Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari Editore, Udine, 2009

Giorgio Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-1937, in “Italia contemporanea”, 1975, n 118, pp. 3-38. in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1975_118-121_01.pdf

 

Il giudice Minervini, un uomo abbastanza serio da non prendersi troppo sul serio

Tutte le mattine il giudice Girolamo Minervini saliva sull’autobus 991 per andare dalla Balduina alla Cassazione. In quel marzo del 1980 stava per essere nominato direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena. Una nomina che era anche l’equivalente di una potenziale condanna a morte. Le Brigate Rosse avevano già ucciso due direttori delle carceri –  Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione. Il 18 marzo del 1980, proprio a bordo dell’autobus 991, Girolamo Minervini fu assassinato. Aveva quasi sessantuno anni (era nato a Teramo, il 4 maggio del 1919), una moglie (Orietta), una figlia (Ambra) e un figlio (Mauro), un mutuo da pagare e una vecchia Volkswagen.

Il rifiuto della scorta e la certezza di essere nel mirino

Era preoccupato Minervini? Forse più che preoccupato, era consapevole. Già l’anno prima, nel covo BR di via Giulio Cesare, che aveva dato asilo ai capi brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, era stato trovato un foglio con su scritto il suo nome. Il questore di Roma Augusto Isgrò, pertanto, gli aveva offerto la scorta. Minervini, però, aveva ben presente che appena due anni prima, in via Fani (16 marzo 1978) le Br per sequestrare Aldo Moro avevano fatto strage degli uomini di scorta. Quindi rifiutò

«Non voglio avere sulla coscienza tre o quattro poveri ragazzi».

Il 16 marzo aveva cenato a casa del figlio venticinquenne, Mauro, così da poter stare anche un po’ con la nipotina Sara. Aveva detto a Mauro che la sua nomina sarebbe stata ratificata dal Consiglio dei Ministri entro pochi giorni.

Il figlio gli disse: «Ti ammazzeranno». La risposta di Girolamo Minervini fu: «Quando accade stai vicino alla mamma».

Nell’accomiatarsi aggiunse: «In guerra un generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore».

Il magistrato

Girolamo Minervini era entrato in magistratura nel 1943. Già nel ‘47 era stato assegnato al Ministero di Grazia e Giustizia, cioè alla Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, quando Palmiro Togliatti, segretario del PCI, era ministro della Giustizia. Di Togliatti, quindi, Minervini fu un collaboratore. Dal 1956, questo magistrato riformista, aveva trascorso molti anni presso la Procura generale della Cassazione in qualità di applicato prima di tribunale e poi di appello. Nel 1968 era stato nominato segretario presso il Consiglio Superiore della Magistratura. Nel 1973 aveva prestato servizio presso la Corte di Appello di Roma, in qualità di consigliere, per poi tornare al Ministero di Grazia e Giustizia con funzioni di capo della segreteria della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. Nel novembre del ‘79 era stato ricollocato in ruolo e destinato alla Procura Generale della Cassazione con funzioni di sostituto.

 18 marzo 1980

Il 18 marzo 1980 alle 8,15, Girolamo Minervini lasciò il suo appartamento in via della Balduina 135 e salì sul 991. Alla fermata di via Ruggero di Lauria si sentì uno sparo. Minervini, restò un attimo in piedi, lì, in fondo all’autobus, appoggiato alla macchinetta obliteratrice. Quindi cadde, mentre l’impermeabile si macchiava di rosso. A quel punto un killer gli sparò ancora. Poi, tutto precipitò: tre brigatisti saltarono giù dall’autobus, avendo lasciato dietro di sé tre feriti, tra cui un sedicenne.

Gli assassini

Le Brigate Rosse comunicarono all’Ansa e a Repubblica la loro rivendicazione dell’omicidio di Minervini. Anni dopo, grazie al pentito Antonio Savasta, si seppe che era stata la colonna romana a uccidere il giudice Minervini, nell’ambito della campagna contro le carceri dure. Il sicario di Minervini era stato Franco Piccioni, detto Francone. Un insegnante precario, di 29 anni, già noto tra gli autonomi dei Volsci, durante il ’77 romano. Gli altri due erano Sandro Padula e Odorisio Perrotta.

Giovanni Senzani, il cervello

Nel 1978 Girolamo Minervini aveva partecipato a un congresso di criminologia a Lisbona, cui avevano preso parte anche Tartaglione e il collega Alfredo Paolella: tutti e tre furono ammazzati. Vi era tra i partecipanti al convegno anche il professore Giovanni Senzani. Ventidue anni dopo, Giovanni Pellegrinopresidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi e il terrorismo, lo definì «il leader dell’ala più sanguinaria delle Br». Il professor Senzani, che era stato anche l’autore del volantino di rivendicazione dell’omicidio Minervini, ebbe pure non poche responsabilità negli omicidi del professore Vittorio Bachelet (ucciso il 12 febbraio del 1980) e del generale dei Carabinieri Enrico Riziero Galvaligi (31 dicembre del 1980). E verosimilmente anche in quello di Aldo Moro. Come spiegò Pellegrino, il prof. Senzani era una figura atipica del terrorismo di sinistra, «sia per l’alto livello culturale sia per la rete di amicizie intessute negli ambienti criminologici e universitari italiani e stranieri». Ma soprattutto, «era il cervello politico delle BR e aveva rapporti forti anche con apparati».

Senzani e i servizi segreti deviati

Aggiunse, infatti, il senatore Pellegrino, che il dott. Arrigo Molinari, vice-questore vicario di Genova e poi direttore dell’Ufficio ispettivo della Polizia di Stato per l’Italia del Nord, aveva ipotizzato che fin dall’ingresso nelle Brigate Rosse, alla metà degli anni Settanta, Senzani fosse «protetto dai settori deviati del Sismi, quelli legati alla P2». Oltre al coinvolgimento nel sequestro Moro, Senzani «organizzò e diresse anche il sequestro dell’assessore regionale campano della DC, Ciro Cirillo» (27 aprile – 24 luglio 1981), la cui liberazione fu il frutto di intrecci mai del tutto chiariti tra le BR, la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e i servizi segreti, ancora in mano a funzionari e ufficiali iscritti alla P2, nonché della mediazione del faccendiere Francesco Pazienza, legato al SISMI. Un’altra vicenda che a distanza di quarant’anni presenta ancora risvolti oscuri e inquietanti, come recentemente confermato anche dall’inchiesta di Sandro Ruotolo.

Le parole di suo figlio, Mauro Minervini

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Mauro Minervini ricordò che quella sera del 16 marzo, circa 36 ore prima di essere ammazzato, il padre gli aveva detto di non essere tipo da morire d’influenza.

Una persona abbastanza seria da non prendersi troppo sul serio

Mauro Minervini descrisse suo papà  come una persona dotata «di un humour vivacissimo».

Un uomo che «amava scherzare, “sfottere” ed “essere sfottuto”. I suoi vecchi amici, e lui stesso, mi raccontavano di scherzi da antologia. Delle tante ragazzate che, fortunatamente, ho avuto modo di fare non mi ha mai rimproverato che per dovere parentale. Era una di quelle persone abbastanza serie da non aver bisogno di prendersi sul serio più del minimo indispensabile. Era drasticamente interdetto a chiunque, salvo che alla piccolissima nipote a puro titolo di sfottò, chiamarlo Eccellenza; “giudice”, diceva, è un termine che identifica una funzione di così grande rilevanza da non essere sostituibile. Del proprio ruolo era fierissimo; credo che tra i pochi veri dispiaceri che gli ho inflitto, il più grande sia stato quello di essermi ritirato dal concorso in Magistratura. Però fu contento quando si accorse che in Banca, appena entrato, guadagnavo quasi quanto Lui, che portava (in teoria) l’ermellino. In famiglia, lo vedevamo poco… I suoi numerosi impegni, lo tenevano fuori casa 15 o 16 ore al giorno. In compenso, non gli rendevano una lira. Quando morì aveva una bella casa – di cooperativa, col mutuo ancora da pagare per un paio di lustri – un milione in banca ed una Volkswagen degna di uno studente fuori corso. Ed un patrimonio, dentro, che spero di aver ereditato seppure in minima parte. La mattina del 18 marzo, in autobus e senza scorta, andò a fare la sua parte, senza chiedersi se l’avessero fatta anche gli altri. Sul volto, da morto, aveva l’espressione serena di sempre

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, Segreto di Stato, Einaudi, Torino, 2000

www.antimafiaduemila.com

http://www.associazionemagistrati.it

www.poliziapenitenziaria.it

www.vittimeterrorismo.it

Il Sudafrica decide di chiudere la pagina dell’apartheid

Siete a favore del prosieguo del processo di riforma avviato dal capo dello Stato il 2 febbraio 1990, finalizzato all’elaborazione, attraverso il dialogo, di una nuova Costituzione?

Questo è il testo che, il 17 marzo 1992, si trovarono di fronte i 3 milioni e 280 mila Sudafricani con diritto di voto. Il numero così esiguo fu dovuto alla limitazione all’accesso al voto: solo gli “appartenenti alla razza bianca” potevano recarsi alle urne per decidere il futuro del paese.

In effetti, bisognava capire se la minoranza bianca che governava il Paese fosse disposta a sostenere le trattative della Codesa (Convention for a Democratic South Africa) tra il governo bianco e l’Anc (African National Congress, il partito di Nelson Mandela). Nonostante l’evidente paradosso (far scegliere ai bianchi se mettere fuori legge il razzismo nei confronti dei neri), lo stesso Anc ne riconobbe l’importanza. Probabilmente, fu l’unica strada percorribile.

Così, due anni dopo la liberazione di Madiba, il paese era posto di fronte a un bivio di importanza basilare. La spaccatura ci fu, ma non a sufficienza da impedire quel movimento di riforma iniziato due anni prima: più di due terzi dei bianchi sudafricani tracciò un segno sul SI’, permettendo a De Klerk, l’allora presidente, di vincere la sua scommessa. E quella di milioni di altre persone, finalmente libere.

Oggi abbiamo scritto il punto di svolta fondamentale della nostra storia.  […] La chiusura della pagina dell’apartheid.
(De Klerk)

Alessio Gaggero

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Il referendum più importante nella storia d’Italia

Il 16 marzo del 1946 veniva indetto il referendum più importante nella storia dell’Italia. Il decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo del ’46, n. 98 stabiliva che gli elettori, mediante referendum, avrebbero scelto se la forma dello Stato sarebbe stata quella della repubblica o se sarebbe rimasta una monarchia. Ma quali elettori avrebbero avuto il diritto di votare? Per la prima volta in Italia avrebbero votato anche le donne in una consultazione nazionale. Come si arrivò a queste svolte decisive per il nostro Paese?

Il ritorno del sistema liberale dopo vent’anni di fascismo.

Dopo la sfiducia a Mussolini, votata dal Gran Consiglio del Fascismo, il 25 luglio 1943, il Regno d’Italia intraprese, in mezzo ai disastri della Seconda Guerra Mondiale, un tortuoso e tormentato percorsi di ripristino delle istituzioni liberali del periodo pre-fascista. Già nell’agosto del 1943 il Regio decreto-legge n. 705 sciolse la Camera dei Fasci e delle Corporazioni e stabilì che entro quattro mesi dalla fine del conflitto bellico si sarebbero svolte le elezioni per la nuova Camera dei Deputati. Gli eventi bellici e politici, però, ebbero sviluppi tali da non consentire la realizzazione di queste disposizioni e da rendere necessaria una revisione complessiva del sistema istituzionale.

Lo stallo politico successivo all’8 settembre

Dopo l’armistizio dell’8 settembre l’Italia era diventata un campo di battaglia. Mentre le truppe tedesche occupavano il centro-nord, il re e il governo lasciavano Roma per trasferirsi al sud, controllato dalle forze alleate, i partiti antifascisti, costituitisi in Comitato di Liberazione Nazionale e intenzionati ad essere la guida dell’Italia democratica, rifiutavano di collaborare con il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, capo del Governo, e con il sovrano, Vittorio Emanuele III, ritenendoli entrambi troppo compromessi col regime fascista. A sbloccare lo stallo, provvide il lavoro delle diplomazie e l’intervento di Palmiro Togliatti, segretario del PCI. L’iniziativa di Togliatti, su impulso dell’Unione Sovietica, mirava, attraverso un compromesso tra i partiti antifascisti, da una parte, e Vittorio Emanuele III e Badoglio, dall’altra, alla formazione di un governo di unità nazionale. Un governo, cioè, costituito da rappresentanti di tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale.

La svolta di Salerno

In base a tale compromesso, la soluzione della questione istituzionale venne posposta. Il liberale Enrico De Nicola, presidente della Camera dei Deputati dal 1920 al 1924, propose, infatti, non soltanto il trasferimento di tutte le funzioni di Capo dello Stato da Vittorio Emanuele III ad Umberto di Savoia, il principe ereditario, quale Luogotenente del Regno, ma anche l’indizione di una consultazione elettorale per la formazione di un’Assemblea Costituente e per la scelta della forma dello Stato. Consultazione da svolgersi solo al termine della guerra. Con il patto di Salerno sorgeva, quindi, il primo governo politico post-fascista (il governo Badoglio II). Tale governo, cui partecipavano i sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), PCI compreso, si formò a Salerno, il 22 aprile 1944 [1].

La “Costituzione provvisoria

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Il “patto di Salerno”, che segnò, dunque, un cambio di rotta decisivo rispetto sia alla liberazione dal nazifascismo sia alla nascita della democrazia dalle ceneri della dittatura, fu l’esito di una complessa trattativa. Se, da un lato, fu accettato che venisse eliminata dalla scena la scomoda e ormai disprezzata figura del re, Vittorio Emanuele III, dall’altra si accettò che venisse salvato momentaneamente l’istituto monarchico. In tal modo si ponevano le basi politiche di quella che fu definita la “Costituzione provvisoria“. Un periodo di passaggio verso la fase costituente vera e propria. Le basi giuridiche di tale ordinamento provvisorio furono introdotte con il decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151. Questo documento fondamentale della “Costituzione provvisoria” stabiliva che, alla fine della guerra, mediante suffragio universale diretto e segreto, si sarebbe eletta un’Assemblea Costituente, per scegliere la nuova forma di Stato e per preparare la nuova Carta Costituzionale. Contestualmente il Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi nominò i Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato nelle persone di Vittorio Emanuele Orlando e Pietro Tomasi della Torretta, per sottolineare una ideale continuità tra l’antica Camera dei Deputati e l’Assemblea che sarebbe stata liberamente eletta sulla base della nuova Carta Costituzionale.

La Consulta Nazionale

In assenza di un’assemblea elettiva, che rappresentasse la Nazione nei confronti del Governo e che assumesse il potere legislativo, che, in quel momento era ancora nelle mani dell’Esecutivo, man mano che si avvicinava la definitiva liberazione dalle truppe nazifasciste, si cercò di costituire un organismo con il compito di interloquire con il Governo. Anche se non elettivo, tale organo valeva a temperare, pur in tempo di guerra, la centralità del potere esecutivo. Il decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 146, istituì, quindi, la Consulta Nazionale, deputata ad affiancare il Governo con i propri pareri su questioni normative di particolare rilevanza. Si trattava di un apparato consultivo teso ad ovviare alla mancanza di quegli organi parlamentari, ai quali si intendeva dare vita alla fine della guerra, con la riorganizzazione complessiva dello Stato. La Consulta Nazionale, tra le altre cose, predispose il testo della legge elettorale per la nomina dei membri dell’Assemblea Costituente.

Il riconoscimento del diritto di voto e dell’eleggibilità delle donne e il referendum tra monarchia e repubblica

Prima di quel provvedimento, un altro atto legislativo aveva esteso il diritto di voto alle donne.

Il suffragio universale e l’eleggibilità delle donne

Il 31 gennaio del 1945, mentre il territorio italiano era ancora diviso tra un Nord sottoposto all’occupazione tedesca e un Centro-Sud ormai liberato dalle forze armate anglo-americane, il Consiglio dei ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne. Era il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945. Venne così riconosciuto il suffragio universale, dopo i tentativi falliti del 1881 e del 1907, compiuti dalle donne dei vari partiti. Grazie a quel decreto potevano votare le donne con più di 21 anni ad eccezione delle prostitute che esercitavano «il meretricio fuori dei locali autorizzati». Il decreto, però, aveva trascurato un piccolo particolare: l’eleggibilità delle donne. Questa venne stabilita con un decreto successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946. La prima occasione di voto per le donne furono le elezioni amministrative del 1946. Votò l’89 per cento delle aventi diritto e 2 mila candidate furono elette nei consigli comunali (la maggioranza nelle liste di sinistra).

Il decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98

Il decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98, successivo di quasi un anno alla Liberazione del Paese (25 aprile del ’45), modificò ed integrò il decreto n. 151 del 25 giugno 1944. Fu il decreto del 16 marzo ‘46, infatti, ad affidare ad un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello Stato. Inoltre essa stabilì che, qualora la maggioranza degli elettori votanti si fosse pronunciata a favore della Repubblica, l’Assemblea Costituente, come primo atto, avrebbe eletto il Capo Provvisorio dello Stato. Il 16 marzo 1946 il principe Umberto, quindi, aveva firmato un decreto in virtù del quale, come previsto dall’accordo del 1944, la forma istituzionale dello Stato sarebbe stata decisa mediante referendum da indirsi contemporaneamente alle elezioni per l’Assemblea Costituente. Com’è noto i voti favorevoli alla repubblica saranno numericamente superiori alla somma complessiva non soltanto di quelle favorevoli alla monarchia, ma anche di quelle bianche e nulle [2].

Le posizioni dei partiti

Come i tradizionali partiti di orientamento repubblicano (PCI, PSIUP, PRI e Partito d’Azione), anche la Democrazia Cristiana, nel suo primo Congresso, decise di schierarsi a favore della Repubblica. Il solo partito del CLN favorevole alla monarchia fu il Partito Liberale, mentre il neocostituito Fronte dell’Uomo Qualunque prese una posizione agnostica.

L’ultima mossa della corona: l’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto

Un mese prima del referendum Vittorio Emanuele III abdicò in favore del luogotenente del Regno, suo figlio Umberto. La speranza era che la successione del principe ereditario, meno compromesso del padre con la sciagurata catastrofe del fascismo, potesse far pendere l’esito del referendum a favore della monarchia. I partiti favorevoli alla Repubblica, dal canto loro, protestarono, poiché l’assunzione dei poteri regali, da parte del luogotenente del Regno, contrastava con l’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo ’46. Quell’articolo, infatti, prevedeva che: «Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della Monarchia, continuerà l’attuale regime luogotenenziale fino all’entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione e sul Capo dello Stato». Partito subito l’ex re per l’esilio volontario ad Alessandria d’Egitto (vi morì due anni dopo), Umberto II confermò la promessa di rispettare il volere liberamente espresso nel referendum dai cittadini circa la scelta della forma istituzionale. Però, non lo accetterà mai.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Salerno rimase la sede del governo fino al giorno della liberazione di Roma (il 4 giugno ’44).

[2] La partecipazione delle donne al Referendum e all’elezione dei componenti dell’Assemblea Costituente fu elevatissima. Per quanto riguarda le donne elette alla Costituente, esse furono 21 (su 226 candidate), pari al 3,7%: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e una dell’Uomo qualunque. Cinque deputate entrarono poi a far parte della “Commissione dei 75”. La commissione era incaricata dall’Assemblea di scrivere la nuova proposta di Costituzione. Fu la socialista Merlin a battersi perché venisse specificata la parità di genere nel testo dell’articolo 3 comma 1° della futura Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»

 

Non sono pazzi, ma razzisti pieni di odio

Oggi, in Nuova Zelanda, non si sono svolte le bellissime manifestazioni, stimolate da Greta Thunberg e da altri giovani leader ambientalisti, per chiedere politiche determinanti contro il riscaldamento globale. In Nuova Zelanda, a Christchurch49 delle persone intente a pregare in due moschee sono state massacrate in quello che la premier Ardern ha definito un attacco terroristico pianificato, inteso a colpire migranti e rifugiati. Uno dei killer in un manifesto pubblicato online, “The great replacement”, ha sostenuto che

è in corso un «genocidio dei bianchi» e che, pertanto, egli è «costretto a combattere» chi cerca di «sostituire e soggiogare la mia gente e fare la guerra al mio popolo».

È un’applicazione sanguinaria della fasulla tesi della sostituzione etnica, che include la spudorata balla complottista del cosiddetto Piano Kalergi. Ma sarebbe da ottusi pensare che si tratti di un pazzo invasato. Come le altre analoghe stragi, neppure questa è il sanguinoso gesto di qualche semplice “lupo solitario”. Questi lupi, tutt’altro che solitari, infatti, prima di avventarsi vigliaccamente sulle loro vittime inermi, si nutrono di abbondanti porzioni di odio e di razzismo, somministrati sempre più su vasta scala da altri. Essi assumono in dosi massicce la rabbia e il rancore diffusi da seminatori di odio professionisti. Quelli che usano sistematicamente tutti i mezzi possibili per spargere paura e per alimentare il disprezzo e l’ostilità verso l’Altro, criminalizzandolo e demonizzandolo. Insomma, per rappresentarlo come un soggetto subumano e pericoloso.

Questa costante propaganda, com’è noto a tutti coloro che non si ostinano nel rifiuto di guardare, non è priva di conseguenze dannosissime. Anche in senso fisico: perché essa permette a chi insulta e discrimina, offende e umilia, picchia e uccide l’Altro, non soltanto di non sentirsi in colpa per la propria violenza razzista, ma, anzi, di credersi dalla parte giusta e di convincersi che le sue vittime non solo tali, essendo in realtà meritevoli di essere colpite brutalmente. Non a caso gli autori della strage di oggi in Nuova Zelanda, si sentono eroi patriottici. Non diversamente da come si si rappresentavano Luca Traini o Anders Behring Breivik, l’autore della più grave strage (77 vittime) commessa in Norvegia dai tempi dell’occupazione nazista. Costui si definiva «salvatore del cristianesimo» e «il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950» [1].

Il presidente Mattarella ha fatto notare che gli assassini neozelandesi

«sulle loro armi hanno messo come riferimento e simbolo alcuni nomi. Tra questi quello di Luca Traini, l’uomo che pochi mesi fa a Macerata ha sparato a casaccio contro ogni immigrato che incontrava per strada. Hanno messo anche il nome di un canadese che due anni fa in Canada ha ucciso alcune persone in una moschea. Questi due nomi i terroristi li hanno affiancati, nella loro dissennatezza, al Doge di Venezia della battaglia di Lepanto di cinquecento anni fa, e a Carlo Martello, vincitore a Poitiers 1300 anni fa. Questo cancellare la storia, questo rifiutare la storia, questa condizione che cancella la civiltà che la storia ha costruito è il pericolo che abbiamo di fronte».

Nel nostro piccolo, noi dell’Associazione Me.Dia.Re. cerchiamo quotidianamente di sciogliere alcuni di quei nodi dai quali inizia il processo di disumanizzazione dell’altro. Lo facciamo sia nei nostri Servizi gratuiti (in quelli di Ascolto e Mediazione, quelli di Mediazione Familiare e di Mediazione Penale, come anche, in qualche misura, in quelli di ascolto, mediazione e sostegno per le vittime della Crisi, quelli di ascolto e supporto per le vittime di reato, per le donne vittime di violenza, ecc.), sia attraverso iniziative formative e culturali.

Tra queste ultime rientra la rubrica quotidiana Corsi e Ricorsi. Al suo interno tentiamo di ricordare i fatti, i progressi e i regressi, accaduti dall’anno 1900 in poi, includendovi, ad esempio, anche le più o meno recenti stragi da parte di estremisti di destra [2].

Siamo convinti, infatti, che occorra ricordare (e discutere) per diverse buone ragioni, non ultima quella di evitare che si affermi una rilettura della storia con le lenti dell’odio e del pregiudizio. Una rilettura, in realtà, molto comoda per chi volesse, manipolando valori e coscienze, assicurarsi un crescente consenso culturale e morale, oltreché politico, nel presente e nel futuro.

Alberto Quattrocolo

[1] Il suo programma politico prevedeva lo scioglimento dell’Unione Europea, la creazione di un’alleanza con la Russia di Putin, la cacciata dall’Europa tutti gli immigrati entro il 2083, la condanna a morte di tutti coloro (intellettuali, politici, giornalisti, docenti…) che si sono macchiati della colpa dell’antirazzismo, poiché, secondo lui, hanno tradito le loro patrie favorendo “il genocidio culturale” degli europei.

[2] In particolare quelle commesse: il 22 luglio 2011, in Norvegia (77 morti, la maggior parte dei quali ragazzi), il 12 dicembre nel Connecticut (26 vittime, di cui 20 bambini tra i sei e sette anni) e il 22 luglio 2016 a Monaco di Baviera (9 vittime). Senza scordare, oltre al ferimento di 6 persone a Macerata, da parte di Luca Traini, tra le altre, quella del liceo di Parkland, del 14 febbraio del 2018 (17 vittime, di cui 14 di età compresa tra i quattordici e diciotto anni), e quella del 1° ottobre del 2017, a Las Vegas (58 morti).

1939, invasione tedesca della Cecoslovacchia

La mattina del 15 marzo 1939, le truppe tedesche entrarono nei territori cecoslovacchi di Boemia e Moravia, senza incontrare resistenza; il giorno seguente, dal Castello di Praga Hitler proclamò l’istituzione di un protettorato tedesco sulle due regioni.

Così, tra tensioni interne, aggressioni straniere e disinteresse di comodo delle maggiori potenze europee, la Cecoslovacchia indipendente che era stata idealizzata dai suoi padri fondatori come unico baluardo della democrazia, circondata da regimi fascisti e autoritari, finì di essere annientata. Era stata condannata dai suoi detrattori come insostenibile creazione artificiale degli intellettuali: in effetti, la Cecoslovacchia interbellica comprendeva terre e popoli ben lontani dall’essere integrati in un moderno stato-nazione; inoltre, la componente dominante dei cechi, che avevano sofferto la discriminazione durante la dominazione asburgica, non fu in grado di relazionarsi con le istanze delle altre nazionalità, anche se è da riconoscere che alcune delle richieste delle minoranze servirono come mero pretesto per giustificare l’intervento della Germania nazista. Ciononostante, la Cecoslovacchia era stata in grado di mantenere un’economia fiorente, con un PIL superiore anche a quello italiano degli anni Trenta, e un sistema politico democratico.

Il pretesto per la spartizione del territorio cecoslovacco furono le supposte privazioni sofferte dalla popolazione tedesca residente nelle regioni di confine nel nord e nell’ovest, i cosiddetti “tedeschi dei Sudeti” (più di tre milioni di persone). La Cecoslovacchia, formatasi dopo la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico con il Trattato di Saint-Germain-en-Laye (1919), era uno stato multietnico costruito intorno a una regione abitata prevalentemente da Cechi e da Slovacchi; altre minoranze di lingua ungherese, polacca, rutena e tedesca si trovavano sparse lungo i confini e nessuna di esse gradiva l’atteggiamento egemone dell’elemento ceco, nemmeno gli slovacchi, i più vicini ai cechi per lingua e cultura: questo rendeva fragile lo stato.

In particolare, i tedeschi dei Sudeti, che rappresentando il secondo gruppo etnico più popoloso ambivano allo status di nazione riconosciuta, diedero luogo a un crescente attrito con la maggioranza ceca. Nell’ottobre ‘33 a Konrad Henlein fu richiesto di dirigere un nuovo movimento che assorbisse gli altri partiti tedeschi, il Fronte Patriottico dei Sudeti, che si portò progressivamente su posizioni sempre più filo-hitleriane, fino a diventare uno strumento del Drang nach Osten, ovvero della politica nazionalsocialista di espansione verso est, ottenendo quasi subito un vasto consenso elettorale. Nel ‘38 Henlein fu incaricato da Hitler di avanzare pretese inaccettabili in nome dei tedeschi dei Sudeti, con lo scopo di aumentare la tensione interna e destabilizzare la fragile democrazia cecoslovacca, affinché i Sudeti potessero “ritornare nel Reich”.

Dopo l’ingrandimento del Terzo Reich con l’Anschluss,  l’annessione dell’Austria del marzo 1938, il territorio cecoslovacco era venuto a trovarsi in una nuova posizione strategica, come la punta di una freccia che penetrava fin quasi al centro della grande Germania, e, in un’ottica bellica, veniva considerato come una potenziale portaerei straniera al servizio degli stati nemici dei tedeschi, come Francia e Regno Unito, legati diplomaticamente e militarmente allo stato slavo: di qui l’urgenza, da parte di Hitler, di occupare questo stato prima di altri, nell’ambito della sua politica di espansione territoriale verso i territori slavi, condotta cercando di evitare il più a lungo possibile uno scontro armato con le potenze nemiche.

Di fatto, anche Francia e Regno Unito apparivano restie a confliggere apertamente, e lo stesso Anschluss non suscitò significative prese di posizione. Il governo inglese era disponibile ad accettare una revisione dei confini tedeschi fissati nel 1919, a patto che ciò non alterasse eccessivamente l’equilibrio politico europeo nel suo complesso: il primo ministro Neville Chamberlain sosteneva la politica dell’appeasement, disponibilità alla pace a qualunque costo. Essa nasceva dalla consapevolezza che, se fosse scoppiata una nuova guerra, l’Inghilterra ne sarebbe uscita stremata e, anche in caso di vittoria, con ogni probabilità avrebbe perso l’impero. Chamberlain credette che le richieste dei tedeschi dei Sudeti fossero giuste e che le intenzioni di Hitler fossero limitate, e il governo francese non volle affrontare la Germania da solo.

Sia Gran Bretagna che Francia consigliarono alla Cecoslovacchia di accondiscendere alle richieste dei sudeti, ma il presidente Beneš resistette. Dopo tentativi di mediazione falliti, mobilitazioni di truppe sul confine, ultimatum, capitolazioni e tumulti popolari, il 28 settembre Chamberlain chiese a Mussolini di intervenire presso Hitler per convincerlo a partecipare a una conferenza che avrebbe affrontato il problema. Si incontrarono il giorno successivo a Monaco di Baviera, con i capi di governo di Francia e Regno Unito; il governo cecoslovacco non fu invitato né consultato. Il 29 settembre fu siglato l’Accordo di Monaco da Germania, Italia, Francia e Regno Unito. Il governo cecoslovacco capitolò il 30 settembre, e acconsentì ad adeguarsi all’accordo, che prevedeva che la Cecoslovacchia dovesse cedere il territorio dei Sudeti alla Germania.

A Monaco si trattò di un incontro tra grandi potenze, ognuna delle quali seguiva un proprio programma consono ai propri obiettivi generali: l’interesse della Cecoslovacchia come stato non risultò mai in primo piano. I rappresentanti delle potenze occidentali si sforzarono di trovare un modus vivendi con la Germania, senza rendersi conto del fatto che dalla sicurezza della Cecoslovacchia dipendeva la loro stessa sicurezza. Il governo cecoslovacco fu così condannato ad  accettare il Diktat; l’opinione pubblica mondiale, in quel periodo, era lungi dal preoccuparsi per un piccolo paese dell’Europa centrale.

La politica delle grandi potenze occidentali non fu catastrofica soltanto per la Cecoslovacchia, ma spianò la strada all’espansionismo hitleriano su tutto il continente. Nel discorso pronunciato al suo ritorno da Monaco, Chamberlain proclamò:

Credo che sia la pace per il nostro tempo”.

Pessimisticamente lungimirante, Winston Churchill non fu dello stesso avviso:

Dovevate scegliere tra la guerra ed il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra.”.

 

Come stabilito, Hitler annesse i territori dei Sudeti nell’ottobre del 1938. Quasi in contemporanea la Polonia costrinse la Cecoslovacchia a cedere alcune aree mentre l’Ungheria occupò in novembre alcuni territori slovacchi e, nel marzo ‘39, la Rutenia subcarpatica. Nel novembre ‘38, Emil Hácha fu eletto Presidente della Seconda Repubblica, rinominata Ceco-Slovacchia e consistente di tre parti: Boemia e Moravia, Slovacchia e Ucraina carpatica. A causa della mancanza di frontiere naturali e avendo perso tutto il costoso sistema di fortificazioni di confine, il nuovo stato era militarmente indifendibile.

Hitler, che puntava alla guerra con la Polonia, necessitava di eliminare prima la Cecoslovacchia; pianificò l’invasione di Boemia e Moravia, negoziando con slovacchi e ungheresi per preparare lo smembramento della repubblica. In base a tali accordi, il 14 marzo ’39 la Slovacchia si dichiarò indipendente, con la protezione tedesca. L’Ucraina carpatica dichiarò anch’essa l’indipendenza, ma le truppe ungheresi la occuparono il 15 marzo; il 23 marzo occuparono invece la Slovacchia orientale. Hitler convocò il Presidente Hácha a Berlino e lo informò sull’imminente invasione tedesca; minacciando un attacco della Luftwaffe su Praga, lo persuase a ordinare la capitolazione dell’esercito cecoslovacco.

Le truppe tedesche entrarono a Praga, annettendo il resto della Boemia e della Moravia, trasformate in un protettorato tedesco; a est fu creato un regime-fantoccio in Slovacchia: quasi tutta la Cecoslovacchia si trovava sotto il controllo di Hitler. Anche se nessuna reazione immediata venne da Francia o Regno Unito, di lì a poco sarebbe scoppiata la seconda guerra mondiale. Chamberlain cambiò atteggiamento e condannò finalmente il “tradimento” di Hitler. Litvinov, ministro degli esteri sovietico, a nome del suo governo, propose a Gran Bretagna, Francia, Turchia, Polonia e Romania di costituire una coalizione per fermare altre aggressioni tedesche: erano evidenti le mire naziste, ma gli inglesi giudicarono prematura l’iniziativa e la Polonia non accettò di entrare in una coalizione alla quale partecipasse l’URSS.

Con la Cecoslovacchia veniva cancellato dalla carta geografica uno dei pochi stati democratici rimasti in Europa, nonché l’unico in Europa centro-orientale. La conferenza di Monaco aveva posto le basi per la fine di una millenaria convivenza, in Boemia e Moravia, tra popolazioni ceche e tedesche: dopo il secondo conflitto mondiale, queste ultime saranno espulse dal paese.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.italia-resistenza.it; F. Vighi, “Quel maledetto 1939”, www.patriaindipendente.it; S. Romano, “Francia nel 1939 e Italia nel 1943: un confronto”, www.corriere.it; “L’occupazione dell’Austria e della Boemia”, www.assemblea.emr.it; www.it.wikipedia.org

I sei di Birmingham sono rilasciati dopo 16 anni di detenzione

Birmingham, Inghilterra, 21 novembre 1974, ore 20.25: una bomba esplode nel Mulberry Bush Pub. Passano due minuti e un’altra bomba esplode nel Tavern in the Town, un altro locale della città. Il terzo ordigno, posizionato fuori da una banca, non detonerà mai. Per fortuna, poiché i primi due furono sufficienti a segnare l’attacco terroristico più sanguinoso d’Inghilterra, almeno fino al 2005: Londra subì perdite molto più ingenti.

La città delle West Midlands, comunque, registrò 21 morti e 182 feriti. Nell’intero paese si scatenò un’ondata emotiva che non lasciò scampo a nessuno. Nemmeno alle forze dell’ordine. Il giugno dell’anno successivo, infatti, furono condannati quelli che passarono alla storia come i sei di Birmingham: sei persone innocenti.

Già a poche ore dall’attentato, quattro di questi avevano firmato le proprie confessioni, poco più tardi smentite da loro stessi, ma non solo: l’IRA (l’Esercito repubblicano irlandese, che si batte per la fine della presenza britannica in Irlanda del Nord e la riunificazione con la Repubblica d’Irlanda) non li ha mai riconosciuti come propri militanti. Proprio queste quattro confessioni saranno, anni dopo, utilizzate per corroborare la tesi della non colpevolezza dei sei uomini, in quanto, in esse, mancava ogni riferimento alla preparazione e all’attuazione degli attentati.

Intanto, però, nel giugno del 1975, furono scoccate sei condanne all’ergastolo: per sedici anni Patrick Hill, Gerard Hunter, Richard McIlkenny, William Power, John Walker e Hugh Callaghan si svegliarono in una cella che non avevano fatto nulla per meritarsi.

Solo nel 1990, infatti, il rinvio del caso in Corte d’Appello ebbe un seguito concreto. Una svolta decisiva alla vicenda venne dai risultati di un’inchiesta condotta dalla polizia di Cornovaglia e Devon sui verbali di un interrogatorio: quattro pagine dello stesso, stilato dal commissario George Reade, responsabile delle indagini sugli attentati, erano state aggiunte in seguito.

In sede dibattimentale cadde anche la prova decisiva: l’esame fatto per stabilire se gli imputati avessero maneggiato la nitroglicerina non risultò attendibile. Bastarono, dunque, appena dieci giorni di processo a revocare tutte le pene e condanne comminate: scarcerazione immediata ordinò il giudice. Era il 14 marzo 1991.

Quello di condannare un innocente è forse il rischio più grave che corrono i magistrati nello svolgere il proprio lavoro. Eppure, a volte si concretizza, come accadde anche nel caso, risolto un paio di anni prima, dei quattro di Guildford.

Alessio Gaggero

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Cracovia: il ghetto viene liquidato dalle SS nel 1943

L’occupazione nazista della città avvenne il sei settembre 1939. All’epoca, Cracovia aveva circa 250.000 abitanti, di cui 70.000 di origine ebraica. Nell’arco dei quattro anni successivi, la quasi totalità sarà uccisa o deportata.

Da secoli in Polonia lavoravano come commercianti e come artigiani: dopo il loro sterminio non si riusciva più a trovare chi sapesse tagliare un vestito, far un paio di scarpe, costruire uno strumento musicale o cucire una pelliccia. Gli ebrei di Cracovia stavano qualche gradino sopra, molti di loro erano avvocati o medici. Cracovia è sempre stata una città influenzata dalla cultura progressista, da un ceto intellettuale: qui si stampava il più importante quotidiano in lingua polacca del paese.
(Alberto Nirenstein)

Dunque, dopo l’arrivo dei nazisti più di 40.000 ebrei cercarono riparo nelle campagne e nei paesi limitrofi: nonostante il passaggio dall’amministrazione militare a quella civile, il pericolo era ancora incombente. Il neo governatore, Hans Frank, aveva infatti il preciso scopo di ripulire il paese da quella che riteneva essere un’infezione.

Il ghetto fu approntato il 3 marzo 1941 nel quartiere di Podgorze, a sud della città, dove, entro la fine dell’anno, furono rinchiuse 18.000 persone. Una peculiarità macabra riguarda proprio i muri del ghetto: venne loro data una forma che ricordasse le lapidi dei cimiteri ebraici.

Dopo pochi mesi di relativa tranquillità, iniziarono le attività di sterminio. Il 19 marzo 1942 i tedeschi iniziarono la Intelligenz Aktion, cioè l’arresto e l’assassinio di tutte le persone considerate come punti di riferimento per la comunità: circa 50 persone furono deportate ad Auschwitz.

Eliminati i leader, il 5 maggio successivo iniziarono le azioni di epurazione vere e proprie. Circa 6000 furono spediti a Belzec, campo di sterminio nel sud della Polonia. Durante le operazioni, guidate dalle SS e coadiuvate da poliziotti ebrei, furono commessi i peggiori massacri, per semplice brutalità: persero la vita più di 300 persone.

Seguirono lunghi mesi di attesa, che si conclusero il 27 ottobre 1942 con la seconda aktion. 7000 deportati tra Auschwitz e Belzec, a fronte di 600 morti durante il rastrellamento. La bestialità sanguinaria non era più contenibile: vennero uccisi i malati dell’ospedale, gli anziani della casa di riposo e i bambini dell’orfanotrofio.

I rimanenti furono divisi in due gruppi: abili e inabili al lavoro. I primi vennero internati nel tremendo campo di lavoro di Plaszow, che fece da sfondo alla celebre vicenda di Oskar Schindler, raccontata dal film di Steven Spielberg. L’industriale tedesco riuscì, utilizzando una sua fabbrica come copertura, a salvare migliaia di vite. Purtroppo, molte di più furono spezzate dalle deportazioni alla volta di Auschwitz-Birkenau e dalle violenze della “liquidazione”, che ne lasciò sul posto alcune migliaia, considerati lavorativamente inutili. Era il 13 marzo 1943.

Alessio Gaggero

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La “modestia” del mediatore e la sua formazione

Perché si dovrebbero tirare in ballo la modestia del mediatore e la sua formazione in un post di questa rubrica?

La modestia del mediatore come atteggiamento in sede operativa

Vi sono un paio di risorse che il mediatore dei conflitti (quindi il mediatore familiare, il mediatore penale, il mediatore civile e commerciale di cui al D.lgs. 21/2010, nonché coloro che operano come mediatori in altri ambiti, quali quello sanitario, quello organizzativo-lavorativo, ecc.) dovrebbe avere ed esercitare: la prima – la più ovvia – è quella di sapere ascoltare; la seconda, connessa alla prima, è la “modestia”.

Con tale termine – modestia – non si intende un tratto caratteriale o una qualità morale, ma un atteggiamento connaturato alla peculiarità della posizione di chi si presenta come terzo neutrale e privo di potere tra gli attori del conflitto.

Il mediatore, infatti, è co-protagonista – cioè deuteragonista o tritagonista, a seconda dei casi -, in quanto incontra un altro essere umano e condivide con questi la scena dell’incontro (ed è, ovviamente, protagonista dell’esperienza dal proprio punto di vista), ma deve (dovrebbe) tendere a proporsi come lo sfondo da cui far emergere e risaltare con la massima nitidezza possibile la figura del mediante o dei medianti.

Il mediatore sullo sfondo

Non si tratta di un compito facile. Proporsi come sfondo, significa riuscire contemporaneamente ad essere presenti e a mettersi da parte [1]. Si tratta di dar vita ad un equilibrio instabile, tanto delicato quanto difficile, poiché implica trovarsi per tutto il tempo dell’incontro nella posizione di chi segue la narrazione altrui, e in un certo senso la rivive, ma senza potere intervenire su di essa. Il mediatore si pone accanto al mediante o ai medianti, assiste al prodursi, o riprodursi, concreto e drammatico del conflitto, si lascia condurre nel conflitto, cioè nelle sue valenze emotive e affettive, però, ne resta spettatore neutrale. Uno spettatore sui generis, poiché, in realtà, egli c’è e comunica la sua presenza testimoniando le sue sensazioni. Le sue sensazioni, tuttavia, non sono le “sue”: sono i vissuti che egli avverte nei medianti. Soltanto questo è quanto egli testimonia ai protagonisti. Le emozioni “veramente sue”, i suoi sentimenti e le sue opinioni, non possono essere comunicate alle parti. Le deve silenziare. Diversamente non potrebbe porsi come facilitatore di racconti e confronti i cui narratori e protagonisti sono altri.

La modestia del mediatore come sapere di non sapere

La modestia, quindi, intesa in senso lato (o vago), c’entra. E c’entra anche perché il mediatore deve avere quel minimo d’umiltà – e di prudenza – necessaria a ricordare costantemente che le sue parole – ad esempio, quelle usate nel suo specchiare le emozioni e i sentimenti altrui – non sono mai “vere”. Egli dice, non dichiara, poiché, in fondo, il suo rispecchiare resta una testimonianza che egli propone di quanto ricevuto dall’altro in se stesso. Di ciò che avverte dell’altro, dunque, ma sempre dentro di sé. Occorre, pertanto, che abbia quel tanto di modestia sufficiente a rammentarsi che, come quella presentata da ogni testimone, la sua è una verità squisitamente soggettiva. In quanto tale, dunque, suscettibile di contraddizione.

Quel vedere l’altro che significa entrare dentro di sé

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Inoltre, dovrebbe rendersi conto che in questo testimoniare egli espone se stesso. Si affaccia sulla scena ed è più o meno nudo agli occhi del mediante. Quest’ultimo per lo più è troppo preso dai propri guai e tormenti per soffermarsi su tale nudità. Tuttavia, nel corso d’incontri in cui il mediatore invariabilmente ascolta narrazioni nelle quali è facile ritrovare pezzi di sé ed echi della propria storia, questo presentare la propria sensibilità, attraverso l’ascolto empatico, costituisce inevitabilmente l’apertura di una finestra sul proprio mondo interiore. Una finestra attraverso la quale il mediante non ha normalmente il tempo di guardare, ma il mediatore, contestualmente e/o successivamente, sì. Non sarebbe male, perciò, se quella visione fugace che egli ha durante l’incontro con il mediante, fosse non troppo sorprendente per lui. Il rischio, infatti, è che un eventuale, repentino, spiazzamento lo induca a soffermarsi su di sé, su tale panorama interiore, o lo porti a chiudere repentinamente le imposte e magari anche gli occhi e le orecchie, allontanandolo, in entrambi i casi, emotivamente e cognitivamente dall’altro.

Sembra opportuno, allora, che il mediatore abbia trascorso un po’ di tempo in compagnia di se stesso e abbia raggiunto una certa familiarità con le sue parti. Non tutte, per carità. Alcune sì, però. Quel tanto che basta per non fare sistematicamente confusione tra gli elementi propri e altrui.

La formazione sul piano emotivo

Per queste ragioni, nel corso della formazione, sono (dovrebbero essere) così numerose le attività in cui si chiede ai partecipanti di riconoscere le emozioni e i sentimenti percepiti nell’altro e di distinguerli da quelli avvertiti dentro di sé. Accorgersi di ciò che si pensa e si prova e “dimenticarsene” in ogni istante per consentire al protagonista di emergere come figura tendente alla nitidezza e alla pienezza, presuppone il possesso di una certa dimestichezza con la propria, sempre limitata, capacità di sostenere il dolore, l’angoscia e la rabbia altrui e di sospendere il giudizio.

Sperimentarsi, nella formazione, come mediatori è utile e necessario, ma farlo come protagonisti del conflitto è illuminante, oltre che prezioso.

Una buona palestra per l’acquisizione e l’affinamento di queste competenze, credo, sono le situazioni (ad esempio, in ambito formativo) in cui il mediatore assume la posizione di attore del conflitto. Riflettere su queste esperienze, sui vissuti che ne derivano, sui comportamenti che pone in atto e che registra presso il proprio antagonista, costituisce un’occasione per incrementare la duttilità e la solidità delle proprie competenze di mediatore, per rivedere criticamente le prestazioni compiute e sottoporre ad una qualche verifica la propria teoria del conflitto.

Alberto Quattrcolo

Rielaborazione da A. Quattrocolo (2005) La mediazione trasformativa. Un modo d’intendere e di praticare la mediazione dei conflitti. Quaderni di Mediazione, n1. settembre 2005, Punto di Fuga Editore, pp29-37.

 

[1] Che il mediatore debba porsi come sfondo lo si è già sostenuto in un altro post di questa rubrica.