1977, irruzione della polizia nella sede di Radio Alice

Ancora un appello di radio Alice, radio Alice ha la polizia alle porte e tutti i compagni del Collettivo giuridico di difesa, per favore, si precipitino qui in via Pratello.

……

Mauro: Risponde nessuno ?

Valerio: Non risponde nessuno.

Mauro: Attenzione, tutti i compagni del Collettivo Giuridico di difesa telefonino alla radio e si precipitino immediatamente qui.

(squilla il telefono)

Mauro al telefono: Pronto sì.

Polizia: Aprite! (rumore di colpi).

Mauro al telefono: ascolta (ancora rumori di colpi più forti) c’è la polizia qui, stiamo aspettando gli avvocati…

Attenzione, qui ancora Radio Alice, stiamo aspettando che arrivino gli avvocati per poter fare entrare la polizia. C’è la polizia che sta tentando di sfondare la porta in questo momento (rumore di colpi)… Non so se sentite i colpi per radio (rumori di fondo confusi)… abbassa il coso…

Valerio al telefono: Sì, c’è la polizia alla porta che tenta di sfondare, hanno le pistole puntate e io mi rifiuto di aprire, gli ho detto finché non calano le pistole e non mi fanno vedere il mandato. E poi siccome non calano le pistole gli ho detto che non apriamo finché non arriva il nostro avvocato. Puoi venire d’urgenza, per favore, ti prego d’urgenza, ti prego… c’hanno le pistole e i corpetti antiproiettile e tutte ‘ste palle qua… via del Pratello 41.. ok! ti aspettiamo… ciao.

Sono circa le 23 del 12 marzo 1977 a Bologna; dal giorno prima, il centro cittadino è sconvolto da pesantissimi scontri di piazza tra studenti della sinistra extraparlamentare e le forze dell’ordine, seguiti alla contestazione di un’assemblea di Comunione e Liberazione, durante i quali Francesco Lorusso, studente e militante di Lotta continua, rimane ucciso da un colpo d’arma da fuoco (probabilmente sparato da un carabiniere, ma l’inchiesta sarà archiviata). L’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, dispone l’invio di mezzi blindati nelle strade del centro, suscitando una profonda impressione nell’opinione pubblica, che percepisce e descrive i cingolati come “carri armati nel cuore della capitale dell’Emilia rossa”.

Al momento la città è calma, le forze dell’ordine si sono ritirate dalla zona universitaria e sembra che si stia andando verso una riduzione del livello dello scontro. Radio Alice, espressione del movimento studentesco cittadino, ha seguito per intero i due giorni di guerriglia urbana; in sede ci sono una ventina di persone, si discute degli scontri e della situazione di piazza, sia in onda, sia fra i presenti. Violenti colpi alla porta segnalano l’arrivo della polizia (preannunciato telefonicamente mezz’ora prima, secondo il responsabile dell’operazione Ciro Lomastro): qualcuno fugge dai tetti, cinque persone vengono arrestate, malmenate e incarcerate con l’accusa di aver guidato gli scontri attraverso i microfoni dell’emittente; dopo mesi di custodia cautelare e sette anni di attesa, il processo si concluderà con l’assoluzione.

Radio Alice invece muore quella sera, sulla battuta surreale e dadaista che, alla fine della drammatica diretta dell’irruzione, con la polizia che stava sfondando la porta in assetto da guerra, esce di bocca all’umore nero di Valerio, che stava al piatto del giradischi:

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Ecco qui Beethoven, se va bene bene, sennò, seghe.

Umberto Eco ci farà una lezione alla Sorbona.

Radio Alice era nata nel febbraio del ‘76, al suono di “White Rabbit” dei Jefferson Airplane, dopo molti mesi di fantasiosa gestazione. C’erano almeno due anime all’origine di quella radio, una eticamente intransigente e controinformativa e un’altra poetico-libertaria. I protagonisti raccontano che si tenevano conciliaboli e la notte si facevano prove di trasmissione; poi si salì sui tetti e nelle mansarde e si lanciarono i primi segnali verso il mondo in ascolto.

Di mattina si udivano mantra e lezioni di yoga e la voce di un cantautore pugliese che suggeriva: “Lavorare con lentezza / senza fare alcuno sforzo / ritmo pausa pausa ritmo / pausa pausa pausa pausa pausa pausa…”. All’ora di pranzo si leggevano racconti di Ambrose Bierce, terrificanti e orridi. La sera si riuniva negli studi celesti della radio una piccola folla di suonatori, qualcuno leggeva Majakovski. E squillava il telefono, e le voci seguivano alle voci. Nacque l’idea di rilanciare il grido “abbasso l’arte abbasso la vita quotidiana abbasso la separazione fra l’arte e la vita quotidiana”, che Tristan Tzara aveva lanciato sessant’anni prima. Si faceva tanta controinformazione, con l’idea che

quando il potere dice la verità e pretende che sia naturale, noi dobbiamo denunciare quel che vi è di disumano e di assurdo in questo ordine della realtà che l’ordine del discorso riproduce e riflette, e consolida. Svelare il carattere delirante del potere.

Radio Alice nasce dal collettivo “Cooperativa di Studi e Ricerche sul Linguaggio Radiofonico”: conduttori improvvisati, ma non impreparati. L’attrezzatura radiofonica messa a disposizione da un negozio amico, un trasmettitore recuperato da un vecchio deposito di materiali militari, una soffitta di due locali in via del Pratello, due sentenze della Corte Costituzionale che avevano da poco reso l’etere libero. Ma, soprattutto, un’intuizione, semplice e geniale: collegare il filo del telefono all’antenna della radio. “In termini mediologici: connettere un medium individuale a un medium broadcast, esattamente quello che ora facciamo ogni minuto con i cellulari connessi a Internet”. In Italia solo una trasmissione Rai usava il telefono allora, “Chiamate Roma 3131”, ma era tutto registrato e filtrato.

Le telefonate in diretta cambiano tutto: “Quindici giorni dopo non eravamo più padroni della radio. Nessuno lo era”. Si iniziava al mattino senza sapere cosa sarebbe andato in onda entro sera. Unico appuntamento fisso, le favole per mandare a letto i bambini. Per il resto, microfono a disposizione di chi aveva qualcosa da dire, le due stanzette invase, ci incontravi gli Skiantos, Pazienza, Bifo, Scozzari, Claudio Lolli, Bonvi, i “frocialisti”, le femministe, il collettivo “Rasente i muri” dei compagni mollati dalle compagne diventate femministe, Stockhausen e i Gaznevada, Majakowski e il Dams, quello che chiamava per commentare la politica internazionale e quello che voleva sapere “dov’è Giovanna”; e ancora, la radiocronaca “in diretta” del ritorno di Lenin a Mosca e della presa del Palazzo d’Inverno, la telefonata che, invece della voce di un ascoltatore, trasmette uno struggente assolo di sax, le trasmissioni sulle proprietà dell’acqua o sulla musica modale, le incomprensibili storie raccontate da un gruppo di studenti della Val Camonica, in strettissimo dialetto Camuno, in cui la sola frase intelligibile in italiano era il tormentone “… perché noi camunisti…”. Nei giorni degli scontri del marzo ’77 le cabine telefoniche erano i terminali di una diretta sugli scontri, che la radio ritrasmetteva.

La gente girava per la città con la radiolina accesa, “ascoltando anche momenti di trasmissione orrendi, pur di non rischiare di perdersi quelli meravigliosi ed imprevedibili, che ogni tanto premiavano la costanza”.

In oltre quarant’anni, i tredici mesi di Radio Alice hanno prodotto articoli, saggi, film e documentari, tesi di laurea; la registrazione audio della chiusura della radio manu militari è la trasmissione radiofonica più replicata in Italia. Il carattere di quell’esperienza non è stato frutto del caso, ma di un importante lavoro di analisi e progettazione, all’epoca forse non del tutto consapevole. La letteratura, la musica, il cinema, l’esperienza del viaggio e della poesia, l’ironia, il “dare voce a chi non l’ha avuta mai” ne sono stati gli strumenti, mettendo in scena sensibilità, opinioni, punti di vista. Al produrre teoria politica si è preferito il produrre comportamenti e linguaggi nuovi: alla classe operaia non si parlava di salario o capitale, ma di tempo sottratto alla vita, di un’idea del vivere non più come fatica, sacrificio, lavoro ma come esperienza di piacere e leggerezza, di scoperte che non regala la politica ma la vita. Nelle parole di uno dei fondatori, Radio Alice è stata “un’esperienza avviata senza alcuna organizzazione né specificità, ma che nel farsi sviluppò delle pratiche comunicative così interessanti da diventare patrimonio comune”.

Silvia Boverini

 

Fonti:
G. Vitali (“Ambrogio”), “Radio Alice: le vere armi sono la parola, la musica e la poesia”, http://domani.arcoiris.tv; M. Smargiassi, “Il social network prima dei social network. I quarant’anni di Radio Alice”, https://bologna.repubblica.it; www.radioalice.org; A. Rossi, “Radio Alice. Quando i new media correvano nell’etere”, www.artribune.com; V. Minnella, “Un mito di stamattina. A 40 anni dalla prima trasmissione, perché vi interessa ancora #RadioAlice?”, www.wumingfoundation.com; www.it.wikipedia.org

Madrid: le bombe prima delle elezioni

11-M. Questa è la sigla usata per riferirsi a quella mattina di diciassette anni fa, quando, a Madrid, dieci esplosioni scossero la città, la Spagna, l’Europa e il mondo intero. 191 morti, quasi duemila feriti, per uno degli attentati terroristici più sanguinosi della storia recente del nostro continente.

Tredici zaini, di cui tre inesplosi, contenevano gli ordigni letali che furono posizionati sui treni ad alta affluenza di pendolari. Come in un qualsiasi giovedì mattina, alle 7.30 le ferrovie erano piene di persone dirette al lavoro, che a tutto pensavano tranne che a quegli zaini abbandonati sui mezzi.

I soccorsi e la polizia cominciarono ad arrivare intorno alle 8 e riferirono subito di molti morti e di un numero tale di feriti da rendere necessario allestire un ospedale da campo nel vicino centro sportivo municipale di Daoiz y Velarde.

In effetti, per la Spagna quello non era proprio un giovedì qualunque: mancavano appena tre giorni alle elezioni politiche. Inoltre, proprio rispetto al terrorismo era un momento particolare: i due principali partiti, il partito popolare che allora governava con José María Aznar, e il partito socialista con a capo José Luis Zapatero, avevano stipulato un patto contro il terrorismo. Quell’accordo, voluto da Zapatero, aveva permesso un’apertura importante nella lotta contro l’Eta, l’organizzazione terroristica dei Paesi Baschi.

La pressione politica era forte: mentre Aznar puntava il dito contro i Baschi, cercando di affossare il consenso dell’avversario, Zapatero tentò di far leva sulla pista del fondamentalismo islamico, che si sarebbe ribellato alla presenza spagnola in Iraq, al fianco degli Americani. Ebbe ragione il secondo, sia alle urne che in tribunale.

Il partito socialista vinse le elezioni, ribaltando i sondaggi di pochi giorni prima. E’ opinione diffusa che fu proprio l’attentato a condizionarne l’esito, anche a causa della cattiva gestione della crisi nelle ore successive alle esplosioni. Il nuovo governo istituì una specifica commissione d’inchiesta, che condannò 21 persone al termine di un lungo processo finito a ottobre del 2007: gli attentati furono opera di un gruppo di estremisti di ispirazione jihadista non direttamente collegati ad al Qaida. Nel luglio 2008, tuttavia, il Tribunal Supremo modificò la sentenza: assolti quattro condannati, ridimensionate cinque pene e condannato un assolto.

Alessio Gaggero

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Placido Rizzotto: «I nostri nemici non sono i padroni, ma noi stessi»

Il 10 marzo del 1948 finì la vita del trentaquattrenne Placido Rizzotto. Era stato uno dei tanti sindacalisti e dei tanti militanti e politici di sinistra uccisi dalla mafia. E come gli altri, anch’egli, interpretando l’attività politica e sindacale come un servizio alla comunità, e in particolare per l’attuazione dei principi della Costituzione appena entrata in vigore, non poteva che opporsi ad una società divisa fra padroni e schiavi. Quindi, per Rizzotto l’impegno politico e sindacale era una lotta contro ogni forma di autoritarismo. Contro il fascismo – e lo combatté come partigiano nella brigata Garibaldi. E contro la mafia, che, a differenza dei repubblichini e dei nazisti, riuscì a ad ucciderlo.

Una vita difficile

Aveva 34 anni, Placido Rizzotto. E ne aveva già vissute tante di esperienze da bastare a riempire di significati e ricordi un paio di esistenze apprezzabilmente longeve. Aveva sei fratelli più giovani ed aveva perso la madre quando era ancora bambino. Il padre poi era stato arrestato con l’accusa di essere un mafioso. Così aveva dovuto abbandonare la strada per provvedere ai fratellini. Quando Mussolini scaraventò l’Italia nel macello della Seconda Guerra Mondiale al fianco della Germania hitleriana, Placido Rizzotto venne arruolato nell’esercito. Fu sbattuto in Friuli Venezia Giulia, nella Carnia. Divenuto sergente, quando, l’8 settembre del ’43, quarantaquattro giorni dopo la caduta di Mussolini, fu annunciato l’armistizio tra l’Italia e le forze angloamericane, si unì ai partigiani della brigata Garibaldi, contro la neonata Repubblica di Salò. Finita la guerra, non si congedò dalla lotta. Tornato in Sicilia, trasformò la sua battaglia in impegno culturale, sociale e politico. Tenendo sempre integrate queste tre dimensioni, divenne, infatti, dapprima Presidente dei reduci e combattenti dell’ANPI (Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia) di Palermo, poi si iscrisse al Partito Socialista Italiano e, infine, divenne sindacalista della CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro).

La lotta per le terre ai contadini e contro il padrone che è dentro di noi

All’epoca, il capo della cosca corleonese di Cosa nostra era Michele Navarra. Un medico, ma non un medico qualsiasi. Era il direttore dell’ospedale di Corleone. E non poteva tollerare che quel sindacalista socialista corleonese aprisse gli occhi ai contadini, sfruttati ed emarginati. Ancora meno la mafia poteva sopportare che Placido Rizzotto li aiutasse a trovare le terre incolte da occupare, in conformità al decreto Gullo, in virtù del quale era stabilito l’obbligo per i proprietari terrieri di cedere alle cooperative dei contadini le terre abbandonate o mal coltivate.

Contro Cosa Nostra e «contro il nemico che è in no

 Michele Navarra, più volte, tramite i suoi affiliati minacciò Placido Rizzotto, senza, però, riuscire a farlo desistere. Ad aumentare l’ostilità verso il segretario della CGIL di Corleone concorse, poi, il fatto che, in applicazione della suddetta normativa, vennero tolte delle proprietà a Luciano Liggio, affiliato di Navarra e già conosciuto per la sua natura efferata. Inoltre, un giorno scoppiò una rissa avvenuta fra ex partigiani e affiliati del boss corleonese. In tale scontro Liggio fu pubblicamente umiliato da Placido Rizzotto. Tuttavia non si svolgeva soltanto sul piano dello scontro aperto contro il nemico, la battaglia di Placido Rizzotto contro la criminalità mafiosa e contro il latifondo. Come altri Rizzotto sapeva che il popolo avrebbe potuto essere libero, che la vera democrazia, il progresso e la giustizia avrebbero trovato compimento, soltanto se tutti avessero riconosciuto le catene da cui erano avviluppati. Più di ogni altra cosa, forse, Placido Rizzotto e con lui tanti altri (sindacalisti, giornalisti, politici, magistrati, poliziotti, imprenditori, ecc.), ci hanno testimoniato una salutare quanto scomoda verità, cioè che, come egli sostenne:

«I nostri nemici non sono i padroni, ma noi stessi. Non si nasce schiavi o padroni, lo si diventa».

Un lungo elenco di sindacalisti ammazzati

Placido Rizzotto era ben conscio dei rischi che correva, visto che neanche un anno prima, il 1° maggio del 1947, c’era stata la strage di Portella delle Ginestre. Il due marzo del 1948 (appena 8 giorni prima che Rizzotto venisse ammazzato), in contrada «Raffo» (Petralia Soprana), sulle Madonie, il capolega della Federterra, Epifanio Li Puma, mezzadro e socialista, era stato assassinato. Placido Rizzotto, come chiunque altro in Sicilia sapeva che mettersi contro la mafia, voleva dire giocarsi la pelle. Come lo sapeva del resto Calogero Cangelosi, anch’egli socialista, segretario della Camera del lavoro, ucciso alcune settimane dopo Rizzotto, il 15 aprile. Cioè tre giorni prima delle elezioni politiche per il rinnovo dei due rami del Parlamento. Ma, se ci si limita a calcolare il numero di coloro che nel movimento contadino e operaio, dal 1911 al 1948, furono uccisi da Cosa Nostra prima di Rizzotto, si arriva a più di trenta (e non sono incluse le vittime di Portella delle Ginestre). E, di questi trenta, più di venti, tra sindacalisti, militanti e politici di sinistra (socialisti e comunisti), furono trucidati dopo la liberazione della Sicilia dalle truppe nazifasciste (in nota se ne riporta l’elenco [1]).

Placido Rizzotto e gli altri in guerra contro la schiavitù

Placido Rizzotto, reduce e partigiano, quindi era più che consapevole del fatto che quella che andava ad intraprendere era una vera e propria guerra, con tanti caduti e tantissime forme di violenza a cui fare fronte. Minacce velate, pressioni su famigliari e amici, ricatti nascosti sotto la forma di suggerimenti, lusinghe e tentativi vari di corruzione morale, delegittimazioni sul piano politico e morale… E poi la violenza esplicita, che serviva, e serve ancora, a rendere pesanti e potenzialmente efficaci le altre, subdole, forme di violenza. Così, Placido Rizzotto, che, come partigiano, nel settentrione d’Italia, in nome della vita, della libertà, della democrazia e della giustizia, aveva lottato contro chi aveva calpestato ogni senso di umanità e ogni diritto, a Corleone, combatteva un nemico non tanto dissimile. Un nemico, appoggiato da alleati potentissimi. Un nemico che non credeva nell’umanità, ma nella sua negazione, e che usava la violenza per esercitare il suo dominio più totale sulla società e sulla psiche delle persone. Un nemico la cui violenza, agiva sotterranea  nel quotidiano e che si palesava con frequenti sprazzi efferati, anche attraverso gli assalti alle Camere del lavoro, le intimidazioni e i pestaggi dei suoi dirigenti. E gli omicidi [2].

La sera del 10 marzo 1948 a Corleone

La sera del 10 marzo 1948 toccò a Placido Rizzotto. Un gruppo di persone, lo circondò in strada a Corleone, caricandolo a forza sulla 1100 di Luciano Liggio, che guidava la spedizione omicida.  Dopo averlo fatto scendere in una fattoria di Contrada Malvello, lo picchiarono a sangue e gli fracassarono il cranio. Poi buttarono il corpo all’interno di una buca in contrada Rocca Busambra nei pressi di Corleone. Nel 2005 un testimone, all’epoca ventenne, raccontò a Dino Paternostro de “La Sicilia” di aver visto il sequestro di Placido Rizzotto.

«Sì, ho visto con i miei occhi il sequestro di Placido Rizzotto, la sera di quel 10 marzo 1948, ero un ragazzo di appena vent’anni. Stavo percorrendo via Bentivegna per tornare a casa, ero arrivato all’altezza di via San Leonardo, proprio davanti alla chiesa, quando vidi alcune persone che discutevano animatamente, quasi litigando. Tra queste, riconobbi Rizzotto, lo sentii urlare “Adesso basta, lasciatemi andare!”. Ma quelli non lo lasciarono andare. Anzi, l’afferrarono a forza e lo trascinarono dentro una macchina scura col motore già acceso. Allungai il passo, spaventato, rientrai a casa e non dissi niente a nessuno, nemmeno a mio padre. Questa è la prima volta che parlo di quella sera, di quella terribile sera di marzo, in cui sparì il segretario della Camera del lavoro […] La gente penserà che sono stato un vigliacco, e forse lo sono stato davvero. Allora, però, personaggi come Luciano Liggio e i suoi “compari” tenevano nel terrore tutti i corleonesi. Ed io avevo solo vent’anni…»

Le indagini sulla scomparsa di Placido Rizzotto

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Sarà il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa ad indagare sul delitto. La sua indagine porterà all’incriminazione di Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura. Costoro, però, alla fine del 1952, verranno assolti per insufficienza di prove.

L’iniezione letale che azzittì per sempre il giovanissimo Giuseppe Letizia

Un altro testimone oculare – oltre al ventenne che si fece avanti, poi, solo nel 2005 -, aveva assistito a quanto accaduto quel 10 marzo del ’48. E aveva visto in faccia gli assassini. Il pastorello Giuseppe Letizia badava al gregge quella sera vicino al cascinale in cui era stato portato Placido Rizzotto. Il giorno dopo, il ragazzo era talmente sconvolto, da essere in preda al delirio. Il padre decise di portarlo all’ospedale di Corleone. Sì, proprio quello in cui prestava servizio e che dirigeva il mafioso Navarra. Qui, due giorni dopo, Giuseppe Letizia morì per tossicosi. Gli era stata somministrata una dose di veleno.

Le ritrattazioni dei rei confessi

Le indagini, comunque, avevano condotto all’arresto dei due esecutori dell’omicidio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura. Costoro ammisero di aver rapito Placido Rizzotto insieme a Liggio, il quale aveva fatto sparire il corpo di Placido Rizzotto nella foiba. In seguito, però, Criscione e Collura ritrattarono la confessione e in sede processuale furono assolti per insufficienza di prove.

Il ritrovamento e l’identificazione dei resti di Placido Rizzotto

Il 7 settembre 2009, i resti del cadavere di Placido Rizzotto furono recuperati. Il 9 marzo del 2012, grazie alla comparazione con il campione di DNA del padre (preso dalla riesumazione del corpo per l’occasione), furono riconosciuti scientificamente come appartenenti a lui. Il 16 marzo 2012, il Consiglio dei ministri, presieduto da Mario Monti, su sua proposta decise che per Placido Rizzotto andavano celebrati i Funerali di Stato. Nella nota di Palazzo Chigi fu comunicata «l’assunzione a carico dello Stato delle spese per i funerali del sindacalista Placido Rizzotto, figura emblematica della lotta contro la mafia». La cerimonia si svolse, a Corleone, il 24 maggio 2012, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Alberto Quattrocolo

[1] Andrea Raia (05/08/1944), che a Casteldaccia (Pa) si ribellava alla mafia in nome dei diritti dei contadini. Nunzio Passafiume (07/06/1945), sindacalista che lottava per l’occupazione delle terre in mano alla mafia. Agostino D’Alessandro (11/09/1945), segretario della Camera del lavoro di Ficarazzi (Pa). Giuseppe Scalia (25/11/1945), segretario della Camera del lavoro di Cattolica Eraclea (Ag). Giuseppe Puntarello (04/12/1945), dirigente della Camera del lavoro di Ventimiglia di Sicilia (Pa). Gaetano Guarino (16/05/1946), sindaco socialista di Favara e fondatore di una cooperativa agricola. Pino Camilleri (28/06/1946), sindaco socialista di Naro e organizzatore delle lotte contadine. Girolamo Scaccia e Giovanni Castiglione (22/09/1946), entrambi contadini ad Alia, in provincia di Palermo, uccisi nel corso di un attentato alla Camera del lavoro. Giovanni Severino (25/11/1946), segretario della Camera del lavoro di Jappolo Giancaxio (Ag). Filippo Forno (29/11/1946), contadino e sindacalista di Comitini (Ag). Nicolò Azoti (23/12/1946), segretario della Camera del lavoro di Baucina (Pa). Accursio Miraglia (04/01/1947), segretario della Camera del lavoro di Sciacca (Ag). Pietro Macchiarella (17/01/1947), militante del Partito comunista, impegnato nelle lotte contadine. Nunzio Sansone (13/02/1947), militante comunista, impegnato nella lotta per la riforma agraria, a Villabate, in provincia di Palermo. Leonardo Salvia (13/02/1947), impegnato nelle lotte contadine a Partinico (Pa). Michelangelo Salvia (09/05/1947), dirigente della Camera del lavoro di Partinico (Pa). Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lojacono (22/06/1947) militante sindacale, uccisi nell’attacco alla sede della Camera del lavoro di Partinico, sede anche del Partito comunista italiano, sezione “Antonio Gramsci”. Giuseppe Maniaci (25/10/1947), segretario della Confederterra di Terrasini (Pa). Vito Pipitone (08/11/1947), dirigente delle cooperative dei contadini riunite nella Confederterra di Marsala (Tp). Epifanio Li Puma (02/03/1948), dirigente del movimento contadino per l’occupazione delle terre incolte. L’elenco completo è rinvenibile su https://www.rassegna.it/articoli/1911-1982-la-spoon-river-dei-dirigenti-sindacali-uccisi

[2] Ricorda Emanuele Macaluso che «le intimidazioni, quando non addirittura gli atti terroristici contro il movimento sindacale e i suoi leader erano cominciati con l’attentato del 16 settembre ’44 a Girolamo Li Causi, all’epoca segretario del Pci siciliano, avvenuto durante un comizio a Villalba. Quel giorno io mi salvai per miracolo: ero al suo fianco e ricordo per filo e per segno gli attimi che fecero seguito alla sparatoria scatenata dagli uomini di don Calogero Vizzini, dove risultarono ferite 14 persone e in occasione della quale lo stesso Li Causi fu colpito a una gamba, un fatto che lo renderà claudicante per il resto della sua vita».

Fonti

Marta Bigolin, Placido Rizzotto. L’omicidio del sindacalista di Corleone, 10 marzo 2018, su www.cosavostra.it

Ilaria Romeo, Corleone, 70 anni fa. L’uccisione di Placido Rizzotto è una ferita ancora aperta, 8 marzo 2018, su www.strisciarossa.it

Dino Paternostro, Quella sera vidi gli assassini di Rizzotto, in «La Sicilia», 6 marzo 2005

www.cosavostra.i

www.placidorizzotto.it

www.rassegna.it

Michele Reina, il primo politico ucciso dalla mafia

A Palermo sono da poco passate le 22.30 del 9 marzo 1979 quando Michele Reina, che ha appena lasciato la casa di un amico dove ha trascorso la serata, viene avvicinato da due sicari. Sta salendo in macchina, dove lo aspettano la moglie Marina e una coppia di amici. L’attesa è destinata a durare in eterno.

I due uomini si avvicinano e gli sparano tre colpi secchi da distanza ravvicinata, dandosi subito dopo alla fuga a bordo di una Fiat Ritmo rubata poche ore prima; la targa applicata sull’auto risulterà più tardi appartenere ad una Fiat 128, anch’essa rubata intorno alle 19 dello stesso giorno.

Michele Reina ha 47 anni. Da tre è segretario provinciale della Democrazia Cristiana. Dopo la sua elezione, aveva contribuito ad attuare una politica di apertura alle sinistre, tentando un accordo tra lo Scudocrociato e il Pci, suscitando, tuttavia, netta contrarietà nella maggioranza del suo partito.

Tornando a quel 9 marzo, un’ora dopo il delitto, il Giornale di Sicilia riceve una telefonata di rivendicazione a nome di Prima linea, organizzazione molto in vista durante quegli anni scanditi dal terrorismo rosso. Il giorno successivo è il quotidiano palermitano L’Ora a ricevere una chiamata dello stesso tenore, che però si “firma” Brigate rosse, chiedendo la scarcerazione di Renato Curcio. Passano altri due giorni, e il medesimo giornale viene contattato nuovamente: Prima Linea ora dichiara di non avere niente a che fare con l’omicidio, e di avere le prove del depistaggio di Cosa Nostra.

Al tempo, Boris Giuliano (di cui abbiamo ricordato l’assassinio) è a capo della squadra mobile del capoluogo e commenta così le indagini:

Noi stiamo esaminando il delitto Reina come un fatto di sangue, senza privilegiare alcuna matrice. Certo, alla luce delle telefonate arrivate al centralino di un giornale palermitano le cose si incominciano a complicare.

Gli inquirenti proseguono il loro lavoro a lungo, ma la svolta arriva solo dopo cinque anni: Tommaso Buscetta, celebre collaboratore di giustizia, si siede di fronte a Giovanni Falcone e al dirigente della Criminalpol Giovanni De Gennaro, rivelando un fiume di notizie determinanti.

Anche l’onorevole Reina è stato ucciso su mandato di Salvatore Riina.

Per Cosa Nostra, un avvicinamento della Dc ai comunisti rappresentava un pericolo enorme e fu sicuramente questo uno dei motivi che spinse il capo dei capi dare il via agli omicidi politici. Per questi, il processo si aprirà solo otto anni più tardi, per poi chiudersi, nel caso di Reina, con una lunga serie di ergastoli: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Antonino Geraci.

Alessio Gaggero

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Giornata internazionale della donna

In occasione dell’8 marzo 2017, l’ONU ha espresso l’auspicio – ed esortato i suoi membri a realizzarlo – che entro il 2030 possa essere raggiunta un’effettiva parità tra i generi nel mondo intero; nel 2018, la UN-Women ha affermato che “non ci può essere uno sviluppo sostenibile senza parità di genere”. Nell’attesa, la Giornata internazionale della donna ogni anno ricorda sia le conquiste sociali, economiche e politiche, sia le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto.

La ricorrenza ha una storia lunga oltre un secolo, carica di un potente significato sociale e politico di opposizione al potere che, negli ultimi decenni, ha rischiato di disperdersi nelle forme di “una stucchevole liturgia a cadenza annuale in cui le donne vengono omaggiate con fiori e cioccolatini. O in cui si concedono serate di libera uscita.”. Si fanno gli auguri alle donne e si comprano regali, aziende e locali si mobilitano, vengono organizzate serate a tema, si entra gratis nei musei, compaiono menù speciali al ristorante, nei negozi ci sono sconti, omaggi e promozioni dedicate, online si imbastiscono gallery di donne famose, a mo’ di santini. Per molte donne è un giorno diverso dagli altri, possono fare cose che normalmente non fanno: una specie di inversione carnevalesca, in cui quello che succede può succedere solo perché è carnevale e, proprio in quanto eccezione, conferma la regola della narrazione tradizionale che sistematicamente cerca di ridurre le donne a bambole, ancelle, angeli del focolare.

Di “Giornata internazionale della donna” si iniziò a parlare al VII Congresso della II Internazionale Socialista del 1907, a cui partecipavano i più importanti marxisti dell’epoca, tra cui Lenin e Rosa Luxemburg; il Congresso votò una risoluzione nella quale si impegnavano i partiti socialisti a “lottare energicamente per l’introduzione del suffragio universale delle donne, senza allearsi con le femministe borghesi”. In risposta, la socialista americana Corinne Brown scrisse che il Congresso non avrebbe avuto “alcun diritto di dettare alle donne socialiste come e con chi lavorare per la propria liberazione”, e fu proprio negli Stati Uniti che, nel 1909, nacque il Woman’s Day, celebrato l’ultima domenica di febbraio, sull’onda di una mobilitazione collettiva che condusse, qualche mese dopo, al celebre sciopero di ventimila camiciaie a New York.

Fu però poi la Russia a fare da propulsore alla celebrazione: l’8 marzo 1917 le donne di San Pietroburgo dichiararono sciopero e organizzarono una grande manifestazione per chiedere la fine della guerra e ottenere il ritorno dei loro uomini in patria. Quella giornata ebbe un effetto esplosivo, dando vita a una serie di ulteriori manifestazioni: viene infatti considerata l’inizio della Rivoluzione russa di febbraio che portò alla caduta dello zar. Per questo motivo, e in modo da fissare un giorno comune a tutti i Paesi, nel 1921 la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste, tenuta a Mosca una settimana prima dell’apertura del III congresso dell’Internazionale comunista, fissò all’8 marzo la Giornata internazionale dell’operaia.

Nel corso del “Decennio delle Nazioni Unite per le donne” (1976-‘85), con la risoluzione 32/142 del 1977 l’Assemblea generale dell’ONU propose a ogni paese, nel rispetto delle tradizioni storiche e dei costumi locali, di dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale”, riconoscendo il ruolo della donna negli sforzi di pace e l’urgenza di porre fine a ogni discriminazione e aumentare gli appoggi a una piena e paritaria partecipazione delle donne alla vita civile e sociale. L’8 marzo, che già veniva festeggiato in diversi paesi, fu scelto come data ufficiale da molte nazioni, occasione per ricordare tutti quei momenti in cui le donne avevano capito come organizzarsi per inserirsi nelle dinamiche politiche, modificandole.

Se queste furono le origini della ricorrenza odierna, la connotazione fortemente politica della Giornata della donna nelle sue prime manifestazioni, le vicende della seconda guerra mondiale e infine il successivo isolamento politico della Russia e del movimento comunista nel mondo occidentale contribuirono alla perdita della memoria storica delle radici della manifestazione.

Così, nel secondo dopoguerra, cominciarono a circolare versioni alternative, citando la violenta repressione poliziesca di una manifestazione sindacale di operaie tessili a New York nel 1857, oppure scioperi e incidenti avvenuti a Chicago, a Boston o a New York. La narrazione più nota è quella secondo cui l’8 marzo avrebbe ricordato la morte di centinaia di operaie nel rogo di una inesistente fabbrica di camicie Cotton o Cottons avvenuto nel 1908 a New York, facendo probabilmente confusione con una tragedia realmente verificatasi in quella città il 25 marzo 1911, l’incendio della fabbrica Triangle, nella quale morirono 146 lavoratori (123 donne e 23 uomini).

Questa ricostruzione ha avuto molta fortuna ed è tuttora spesso riportata dai mass media, nonostante le ricerche effettuate da diverse femministe tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta ne abbiano dimostrato l’erroneità. Secondo alcuni, la persistenza di questa versione è dovuta al fatto che, negli anni della Guerra Fredda, avrebbe permesso all’Occidente di scollegare l’8 marzo dalle sue origini russe e comuniste; inoltre, il carattere tragico della vicenda meglio si accorderebbe con la tendenza diffusa a vedere le donne più come vittime che come protagoniste:

Quella giornata è nata per celebrare il potere e l’iniziativa femminile, non per commemorare delle morti. Eppure la narrazione delle vittime sacrificali nell’immaginario collettivo ha prevalso.

In Italia i primi tentativi di introdurre un giorno dedicato alla donna risalgono al 1922, ma è solo dal ‘46 che effettivamente si celebra regolarmente la ricorrenza. A chiederne l’introduzione fu l’UDI (Unione Donne in Italia), formata da militanti del PCI, del PSI, del Partito d’Azione e della Sinistra Cristiana. Tutta italiana è la tradizione che lega la “festa della donna” (come inizialmente fu battezzata) alla mimosa, un fiore economico, che fiorisce alla fine dell’inverno, facile da trovare nei campi; Teresa Mattei, un’ex partigiana che nell’Italia repubblicana continuò a lottare per i diritti di tutte le donne, rammentò in un’intervista che

La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette. Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente. […] Quando nel giorno della festa della donna vedo le ragazze con un mazzolino di mimosa penso che tutto il nostro impegno non è stato vano.

Anche in Italia quella data ha rappresentato un giorno di lotte e rivendicazioni. Lo fu negli anni ’50 della Guerra Fredda e del ministro Scelba, quando distribuire la mimosa era ritenuto un gesto che “turbava l’ordine pubblico” e i banchetti delle militanti venivano denunciati per “occupazione del suolo pubblico”. Fu così almeno fino agli anni ’70 dell’esplosione del movimento femminista: l’8 marzo ‘72 a Roma, in piazza Campo de’ Fiori, si tenne una manifestazione in cui Jane Fonda espresse il suo sostegno alle militanti che chiedevano la legalizzazione dell’aborto e la liberazione omosessuale; le forze dell’ordine caricarono e presero a manganellate le femministe, disperdendole e ferendone diverse. Quella giornata era ancora un evento dirompente, qualcosa che si metteva di traverso rispetto allo status quo.

A livello internazionale l’8 marzo sta recuperando l’originaria valenza sociale e politica, dal 19 ottobre 2006, giorno in cui partecipanti del movimento Ni Una Menos e di altre organizzazioni argentine hanno convocato lo sciopero di un’ora, in risposta all’ennesimo efferato femminicidio; l’iniziativa ha colpito l’immaginario pubblico, diffondendosi progressivamente, e l’8 marzo 2017, faceva la sua comparsa in più di cinquanta Paesi del mondo il Primo Sciopero Internazionale delle donne. La rete Non Una Di Meno ha rilanciato anche in Italia per quella data lo “sciopero globale femminista” come risposta a tutte le forme di violenza che colpiscono sistematicamente le vite delle donne in famiglia, nei posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini.

Scriveva un secolo fa Virginia Woolf:

Se le donne smettessero di occuparsi di famiglia, lavoro domestico, cura di bambini, anziani, malati e uomini in perfetta salute, se non volessero più essere un corpo a disposizione di altri, il mondo sarebbe ancora palude e giungla.

Nel 2018 lo sciopero ha coinvolto circa settanta città italiane e più di settanta paesi nel mondo, in risposta a una violenza strutturale che nega libertà alle donne, denunciando le diverse forme di oppressione e i loro intrecci, le discriminazioni e la violenza di genere, omofobica e transfobica, lo sfruttamento del lavoro, il razzismo, la violenza del capitalismo, insostenibile per l’ecosistema:

Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo”.

Silvia Boverini

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Fonti:
www.it.wikipedia.org; “Che storia ha la Giornata internazionale della donna”, www.ilpost.it; J. Bazzi, “Perché l’8 marzo non è la festa della donna”, www.thevision.com; L. Melandri, “Un insolito 8 marzo globale e femminista”, www.ilmanifesto.it; www.noidonne.org; https://nonunadimeno.wordpress.com; https://abbattoimuri.wordpress.com/

La domenica di sangue degli Usa

Stati Uniti, metà anni Sessanta. La questione razziale attraversa tutta la nazione, concentrandosi in particolar modo negli stati conservatori del Sud. Sud, dove, peraltro, l’idolatrato John Kennedy ha da poco perso la vita. A Lyndon Johnson l’arduo compito di raccoglierne l’eredità: dialogare con Martin Luther King, senza, però, perdere l’appoggio di chi ancora non vede di buon occhio l’uguaglianza tra bianchi e neri.

Da Washington D.C. a Selma, Alabama. Amelia Boynton Robinson e suo marito guidano la Dallas County Voters League (DCVL) che tenta di tutelare il diritto di voto degli afroamericani in quella terra difficile. Insieme allo Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC), però, incontrano serie difficoltà a far rispettare quel fondamentale diritto. Decisero di chiamare in causa il pastore di Atlanta e la sua Southern Christian Leadership Conference, nella speranza di attrarre gli occhi della nazione sulle ingiustizie che venivano perpetrate. Il movimento per i diritti civili degli afroamericani stava per far sentire la propria voce una volta di più.

Infatti, nonostante i cittadini neri avessero già legalmente il diritto di voto, una serie di requisiti discriminatori impediva, di fatto, a milioni di afroamericani, nel sud del Paese, di iscriversi al registro elettorale e poter così votare. Fu organizzata, per il sette marzo, una marcia pacifica di protesta: da Selma, i partecipanti avrebbero dovuto raggiungere a piedi Montgomery, la capitale dello stato dell’Alabama.

Arrivati sul ponte Edmund Pettus, i 600 partecipanti furono accolti da manganelli e gas lacrimogeno, dando luogo a quella che sarà poi chiamata bloody sunday. Il ricordo di quei momenti è ancora vivo nella memoria collettiva, in gran parte a causa delle immagini che vennero trasmesse su tutte le televisioni. L’intervento di King aveva sortito il suo effetto: piena visibilità nazionale.

Il pastore partecipò attivamente alla seconda marcia, due giorni dopo: con un atto di grande coraggio e determinazione, guidò i 2500 manifestanti appena oltre il ponte che aveva visto la fine del primo evento. Turnaround Tuesday (martedì dell’inversione di marcia), così fu chiamata, poiché King decise di far tornare tutti indietro, rispettando le decisioni del giudice, che non l’aveva autorizzata.

Una settimana dopo, la Corte Federale concesse agli attivisti la possibilità di manifestare, dichiarando illegittima l’abrogazione del Primo emendamento costituzionale da parte del giudice locale. Il 21 marzo, 8000 persone iniziarono a marciare verso Montgomery, scortate da migliaia di esponenti delle forze dell’ordine, Esercito compreso. Arrivati alla capitale dopo quattro giorni, il numero di partecipanti era più che triplicato.

Cinque mesi più tardi, il voting rights act, la legge che proibiva la discriminazione razziale e rafforzava il diritto di voto difeso dal quindicesimo emendamento della Costituzione Usa, entrava a pieno titolo nella normativa americana. Era stato proposto dallo stesso Presidente Johnson.

Alessio Gaggero

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Radio Veronica One intervista Me.Dia.Re.

Ai microfoni di Radio Veronica One A. Quattrocolo e M. D’Alessandro parlano del modello di Ascolto e Mediazione dei Conflitti utilizzato nei Servizi Gratuiti di Me.Dia.Re. e dei rischi sottesi al DDL Pillon.

Qui il video integrale dell’intervista.

Quei Rosenberg fatti sedere sulla sedia elettrica per niente

Il 6 marzo del 1951 furono denunciati Julius Rosenberg, ingegnere elettrico, di 33 anni, e sua moglie, Ethel Greenglass, trentaseienne, segretaria di una società di spedizioni navali. Entrambi ebrei newyorchesi e membri della Young Communist League di New York, erano accusati di aver trasmesso ad agenti sovietici informazioni utili a costruire la boma atomica. Il loro processo, la loro condanna a morte, pronunciata meno di un mese dopo, il 5 aprile, e l’esecuzione della sentenza, avvenuta nel penitenziario di Sing Sing (Stato di New York), il 19 giugno del 1953, sollevarono un clamore paragonabile a quello del caso Sacco e Vanzetti [1]. E come la vicenda dei due italiani di ventisei anni prima, anche quella dei coniugi Rosenberg, gli unici due civili condannati a morte per spionaggio, ovvero per “attività anti-americane”, risentì enormemente del clima politico interno e internazionale del periodo.

La Guerra fredda

La fine della Seconda Guerra Mondiale, con la vittoria alleata sull’impero giapponese, fu segnata dallo sganciamento di due bombe atomiche, il 6 agosto del 1945, su Hiroshima, e il 9 agosto, su Nagasaki [2]. Le due bombe erano state prodotte nell’ambito del progetto Manhattan, l’operazione messa a punto nella base di Los Alamos, nel Nuovo Messico [3]. Con la loro esplosione, “la guerra destinata a porre fine a tutte le guerre” generava nel mondo la paura di un nuovo e più catastrofico olocausto. Infatti, con la fine del secondo conflitto mondiale, l’effimera alleanza tra Stati Uniti e Unione Sovietica veniva rapidamente liquidata e riprendeva lo scontro ideologico, politico ed economico, sviluppatosi fin dalla Rivoluzione bolscevica del 1917, tra l’Ovest capitalista, e l’Est comunista. Tale conflitto, che coinvolse l’intero pianeta per più di quarant’anni e che fu definito “guerra fredda”, perché, per fortuna, non si tradusse in uno scontro militare diretto tra U.R.S.S. e USA, si sviluppò su diversi registri. Non ultimo, come accade per i tutti conflitti, quello della propaganda interna, che sempre gioca un ruolo potente sulle emozioni e sui sentimenti della collettività [4].

La caccia alle streghe

In tale contesto, dal 1947, negli USA cominciò ad operare la Commissione d’indagine sulle attività antiamericane (House Un-American Activities Committee –HUAC). Tale commissione permise a demagoghi senza scrupoli e politicanti di second’ordine di raggiungere notorietà e potere insperati, perseguitando migliaia di persone, incolpevoli in realtà, ma comodi capri espiatori di quella paura rossa che si diffondeva con la rapidità di un’epidemia. Nel 1949, il deputato repubblicano Richard M. Nixon, membro dell’HUAC, riusciva, infatti, a far condannare per spionaggio Alger Hiss, che era stato un funzionario del Dipartimento di Stato sotto le amministrazioni democratiche dei presidenti Franklin Delano Roosevelt e Harry Truman [5]. Ciò portò ad un’ulteriore escalation dell’isteria anticomunista, tanto che iniziò a diffondersi la convinzione che tutte le istituzioni americane brulicassero di traditori [6].

L’antintellettualismo della caccia alle streghe

Oltre ad un inconfessato antisemitismo, la caccia alle streghe si nutrì ampiamente di un crescente antintellettualismo. Accanto alle indagini a tutto spiano dell’FBI  che squassavano la vita di migliaia di privati cittadini, spesso sospettati di essere dei “rossi” solo per aver firmato appelli per la pace o per aver elargito del denaro ad organizzazioni di tutela dei diritti civili -, e in aggiunta ai vergognosi “processi” dell’HUAC, tra il ’49 e il ’50 proliferarono, infatti, anche comitati ultrapatriottici, più o meno spontanei [7]. Questi, volti a “scoprire” e a stroncare la propaganda comunista ovunque, a loro parere, si annidasse, raggiungevano vertici inimmaginabili di assurdità, Ma erano in pochi a rilevarli e soprattutto a denunciarli pubblicamente [8]. Il pensiero dominante non ammetteva dubbi né critiche. Chi si azzardava era tacciato di filo-comunismo. Il che equivaleva ad essere sospettati di anti-americanismo, vale a dire dei traditori. Come minimo tali accuse, anche informali, implicavano la perdita dell’impiego e l’impossibilità di trovarne un altro.

Il maccartismo

Un solo politico americano si avvantaggiò dell’anticomunismo isterico di quegli anni, più di Richard Nixon. Il 9 febbraio del 1950, Joseph McCarthy, secondo senatore del Winsconsin, durante una conferenza in un club repubblicano femminile, affermò di essere in possesso di una lista di 250 membri del Dipartimento di Stato noti al segretario di Stato, Dean Acheson, come membri del Partito Comunista. Joe McCarthy non dimostrò mai la fondatezza di tale accusa, del tutto campata in aria, ma non ne aveva alcun bisogno. Il popolo era disperatamente incline a credergli sulla parola (abbiamo rievocato la sua parabola in questo post). Le sue balle avevano facile presa su di un popolo angosciato e, perciò, arrabbiato. Moltissimi americani, ben più della maggioranza, preferiva sospendere ogni capacità critica e bersi le frottole di ciarlatani come McCarthy, perdendo, così, fiducia nelle fondamentali istituzioni democratiche e rinunciando ad alcuni diritti inalienabili, piuttosto che tollerare l’ansia [9].

L’atomica russa e i Rosenberg

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Ad accrescere terribilmente l’isteria anticomunista fu la raggiunta “parità” atomica dall’URSS nel ’49 (ne abbiamo parlato qui, ricordando la figura di Andrei Sakharov) [10]. La realizzazione del primo esperimento atomico da parte dell’URSS, che privava gli USA del monopolio sulla “bomba”, anche per la velocità con cui i sovietici ci erano arrivati, sollevò immediatamente il sospetto che ci fosse stata una fuga di informazioni. In tale cornice maturò il caso dei coniugi Rosenberg [11]. Nel febbraio del 1950 l’FBI arrestò il tecnico Kalus Fuchs, sospettato di aver passato ai russi informazioni sulla bomba nucleare. Il suo arrestò portò ad individuare altre presunte spie, ognuna delle quali, interrogata, fece il nome di altri presunti traditori. Tra costoro, David Greenglass, il fratello di Ethel Rosenberg, che, come militare, era di servizio proprio a Los Alamos. Costui, sotto incredibili pressioni, decise di collaborare con gli investigatori in cambio di uno sconto di pena, sostenendo di avere consegnato a Julius Rosenberg dei documenti segreti e dicendo che questi documenti erano stati copiati proprio da Ethel. Il 17 febbraio del 1950 gli agenti dell’FBI arrestarono Julius Rosenberg,  l’11 agosto toccò ad Ethel. Nel frattempo scoppiava il conflitto in Corea [12].

L’accusa nei confronti dei coniugi Rosenberg

L’accusa nei confronti di Julius Rosenberg era di essere il capo di una cellula di spie di cui facevano parte anche sua moglie e un altro attivista di sinistra, Morton Sobell. I principali elementi accusatori erano, quindi, le affermazioni di David Greenglass e di sua moglie Ruth, dato non c’erano altre prove, a parte, appunto, la testimonianza diretta dei Greenglass.

La sentenza di condanna

Il 5 aprile del 1951, neppure un mese dopo essere stati ufficialmente incriminati, i Rosenberg furono condannati a morte, mentre David Greenglass fu condannato a 15 anni di carcere e Morton Sobell a 30. Durante la lettura della sentenza, il giudice Irvin Kaufman disse:

«Considero il vostro crimine peggiore dell’omicidio. Io credo che la vostra condotta abbia messo nelle mani dei russi la bomba atomica molti anni prima di quanto avevano previsto i nostri migliori scienziati e che questo fatto abbia già causato l’aggressione comunista in Corea, che ha portato già a 50 mila morti, mentre nessuno sa quanti altri milioni di innocenti potrebbero pagare il prezzo della vostra infedeltà alla nazione. Con il vostro tradimento avete senza dubbio alterato il corso della storia a sfavore della vostra nazione».

L’esecuzione

Il presidente Dwight Eisenhower respinse la grazia e la sentenza venne eseguita il 19 giugno 1953. Julius Rosenberg venne dichiarato morto dopo le tre scariche utilizzate di solito sulla sedia elettrica. Ethel, invece, dopo le tre scosse era ancora viva. Le furono date altre due scariche.

«Usciva del fumo da sotto l’elmetto della sedia elettrica», raccontò un testimone.

Le proteste e i dubbi sul processo ai Rosenberg

Durante il processo, molte persone, incluse delle figure spicco e moltissimi intellettuali, di sinistra e non, in tutto il mondo, difesero i coniugi Rosenberg, accusando il governo degli Stati Uniti di aver inscenato un processo farsa per soddisfare la paranoia dell’opinione pubblica. Tra costoro vi erano Bertolt Brecht, Dashiell Hammett, Frida Kahlo e suo marito Diego Rivera, Jean Paul Sartre e Pablo Picasso. Anche il Papa, Pio XII, chiese pubblicamente che ai Rosenberg venisse risparmiata la pena di morte. Renato Guttuso immortalò i loro volti in un disegno a matita su carta, che intitolò semplicemente Julius ed Ethel Rosenberg. I figli dei Rosenberg, che avevano al momento della sentenza l’uno, Micheal, 10 anni, e l’altro, Robert, 6, per decenni portarono avanti una campagna tesa dimostrare l’innocenza dei loro genitori, chiedendo la diffusione di documenti secretati e intentando diverse cause legali.

Le rivelazioni di VENONA

Nel 1995 furono pubblicate una serie di comunicazioni russe intercettate dai servizi segreti americani e inglesi negli anni Quaranta e Cinquanta. Queste comunicazioni – chiamate in codice VENONA – sembrarono rivelare che Julius Rosenberg avesse avuto davvero un rapporto con i servizi segreti russi. I figli dei Rosenberg, però, ritennero quelle intercettazioni delle prove scarsamente credibili, anche perché nei messaggi di VENONA non si faceva quasi nessun cenno sulla loro madre, Ethel Rosenberg.

La manipolazione dei testimoni David e Ruth Greengrass

Risultò poi assodato che gli investigatori avevano manipolato i testimoni. In particolare, avevano convinto David e Ruth Greengrass a ritrattare le loro deposizioni originarie, per meglio accusare i Rosenberg. In pratica, quasi certamente, Ethel era stata arrestata e trattenuta al solo scopo di mettere sotto pressione Julius Rosenberg, così da costringerlo a parlare, visto che la minaccia della condanna a morte sembrava non avere effetto su di lui. Nonostante i ricatti e le pressioni, però, nessuno dei due Rosenberg aveva denunciato altri possibili membri di quella rete spionistica, che gli investigatori speravano di perseguire [13].

Le pressioni sul giudice Irvin Kaufman

Inoltre, emerse che il giudice Kaufman aveva ricevuto diverse raccomandazioni e pressioni per orientare il processo verso la condanna dei Rosenberg. In particolare, da parte del procuratore Roy Cohn (che rappresentava la pubblica accusa), il quale di lì a poco divenne un elemento di spicco nello staff del senatore McCarthy.

I Rosenberg e i segreti di Los Alamos

Davvero, però, come aveva sostenuto il giudice Kaufman, i Rosenberg avevano «cambiato la storia»? Avevano davvero consegnato ai sovietici il segreto della bomba atomica? La loro condotta aveva realmente spinto, quindi, la Corea del Nord a cessare ogni indugio e attaccare quella della Sud? Sembra di no. Molti esperti, esaminati i documenti copiati da Julius Rosenberg, spiegarono che, poiché né lui né Greenglass capivano niente di energia nucleare, sempre che davvero lo avessero fatto, avevano sottratto documenti poco utili e per giunta li avevano copiati in modo inappropriato. Del resto, nel 1989 Boris V. Brokhovich (il direttore dell’impianto di arricchimento del plutonio con il quale era stata realizzata la prima bomba atomica sovietica), intervistato dal New York Times, spiegò che lo sviluppo della bomba russa, in realtà, «fu un processo fatto di tentativi ed errori» E aggiunse:

«Non ottenemmo niente dai Rosenberg. Li avete fatti sedere sulla sedia elettrica per niente».

Alberto Quattrocolo

[1] Lo abbiamo ricordato nel post 23 agosto 1927: esecuzione di Sacco e Vanzetti, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, dell’Associazione Me.Dia.Re.

[2] Solo per effetto della loro esplosione i due ordigni atomici spazzarono via 70.000 vite a Hiroshima e 40.000 a Nagasaki. Cinque giorni dopo l’imperatore Hirohito annunciò ufficialmente la capitolazione del Giappone.

[3] L’abbiamo ricordato qui, mentre abbiamo rievocato la vicenda della USS Indianapolis che portava la prima delle due bombe in un altro post: Seconda guerra mondiale: il sottomarino giapponese I-58 affonda la USS Indianapolis, uccidendo 880 marinai. È il 31 luglio 1945.

[4] L’interruzione del processo di smobilitazione dell’esercito sovietico nel febbraio del ’46, ad appena 9 mesi dalla cessazione della guerra in Europa. La totale presa di potere da parte dell’Unione Sovietica nell’Europa dell’Est. La costituzione nel ’47 del Kominform (Ufficio di informazione dei partiti comunisti), con il rafforzamento della rete della rete spionistica sovietica nei paesi occidentali. Lo stalinismo al suo culmine, che costò indicibili sofferenze a centinaia di migliaia di dissidenti, i quali furono perseguitati, incarcerati, fucilati o deportati in Siberia. La vittoria nel ‘48 di Mao Zedong nella guerra civile cinese e poi, nel ’50, l’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord, comunista e appoggiata anche militarmente dalla Repubblica Popolare Cinese:tutti questi fatti seminarono un’ansia diffusa in tutto l’Occidente.

[5] Hiss, che aveva contribuito alla fondazione delle Nazioni Unite, era stato accusato dall’HUAC di essere stato un membro del Partito Comunista Americano. Alger Hiss aveva negato sotto giuramento di essere stato comunista, venendo poi condannato per spergiuro, in virtù della testimonianza di Whittaker Chambers.

[6] Una prima lista di sospetti filocomunisti, oltre ad Hiss, includeva il defunto Frankln D. Roosevelt, il presidente Harry Truman, l’intera organizzazione sindacale, il segretario di Stato Dean Acheson e il suo intero dicastero!

[7] La Commissione passava al setaccio, massacrandoli, funzionari federali, dipendenti pubblici e perfino dei militari, nonché sceneggiatori, produttori e registi dell’industria cinematografica e delle emittenti televisive. Il suo quesito era invariabilmente questo: «Lei è o è stato membro del Partito Comunista?». Se si rispondeva di no, non si veniva creduti e si rischiava la condanna per spergiuro. Se si rispondeva di sì, si rischiava di essere processati come spie, a meno che non si mostrasse il proprio ravvedimento denunciando altri reali o presunti filocomunisti attuali o del passato. Se ci si rifiutava di rispondere invocando le norme costituzionali che consentono di non autoincriminarsi, si veniva denunciati seduta stante di oltraggio alla Commissione e invariabilmente condannati.

[8] Si verificavano così incursioni nelle biblioteche e nelle librerie volte a stanare libri filocomunisti e si rappresentavano come pericolosi sovversivi personaggi improbabili, reali o di finzione che fossero (inclusi, tra i primi Eleonore Roosevelt, la vedova del presidente). Infatti, tra i primi testi ad essere condannati al rogo ci fu Furore (The Grapes of Wrath) di John Steinbeck. Mentre la signora Thomas J. White della Commissione per i libri di testo dello Stato dell’Indiana mise sotto accusa Robin Hood: «Robin Hood rubava ai ricchi e dava ai poveri: questo è comunismo. Quindi è contro la legge e l’ordine». Perfino la vita e le esperienze di Henry Wadsworth Longfellow divennero un tabù, per via delle sue attività pacifiste, considerate pericolosamente assimilabili al pacifismo comunista.

[9] Così, mentre a Hollywood ripartiva una seconda ondata di inchieste da parte dell’HUAC, che, in cerca della massima visibilità, aveva deciso di mettere alla gogna gli attori, inclusi alcuni divi, McCarthy conduceva in proprio la sua campagna, riscuotendo una notorietà impensabile, mentre devastava la vita di coloro che finivano nel suo tritacarne e calpestava la Costituzione. Per alcuni anni, quindi, il senatore McCarthy fu l’uomo più temuto d’America. Molti lo reputavano un difensore della patria, ma per molti altri egli era l’antitesi dei principi e dei valori sanciti dalla Costituzione degli Stati Uniti. Costoro ritenevano che il suo operato fosse oltre che illiberale, sfacciatamente manipolativo e persecutorio. Pensavano, soprattutto, che la diffusione della sua psicosi, che lo portava a vedere nemici in ogni angolo del Paese, fosse quanto di più pericoloso potesse accadere in America. Più pericoloso perfino della cospirazione comunista. Sul clima di sospetto e persecuzione provocato dal maccartismo ci siamo soffermati anche nei post dedicati all’elezione a presidente di John F. Kennedy e in quello su Paul Newman, in occasione dell’anniversario della sua morte.

[10] Il 23 settembre del 1949 il presidente Harry Truman rilasciò alla stampa la seguente drammatica dichiarazione: «Ritengo che il popolo americano abbia diritto ad essere informato nella più ampia misura compatibile con la sicurezza nazionale, di tutto quanto si verifica nel campo dell’energia atomica. Ecco perché ritengo necessario rendere nota la seguente notizia: da prove in nostro possesso, risulta che nelle ultime settimane ha avuto luogo in Unione Sovietica una esplosione atomica».

[11] Julius Rosenberg ed Ethel Greenglass, entrambi attivisti politici di sinistra fin da giovanissimi, si conobbero nel 1936, frequentando la Young Communist League, di cui Rosenberg era leader, e si sposarono nel 1939, lo stesso anno in cui egli si laureò in ingegneria elettrica.

[12] Il 25 giugno 1950, infatti, iniziava il conflitto tra le due Coree, nel quale gli Stati Uniti, sotto l’egida dell’ONU, intervenivano in modo determinante a sostegno di quella del Sud.

[13] Nel 2001 David Greenglass rivelò che nell’accusare Ethel aveva commesso il reato di falsa testimonianza. Spiegò di aver accusato la sorella per proteggere la moglie e che a spingerlo in quella direzione furono gli investigatori e i magistrati dell’accusa. Nel 2008, quando vennero resi pubblici i documenti del gran giurì (l’udienza segreta che portò all’inizio del processo contro i Rosenberg), emerse che in quell’occasione Ruth Greenglass disse che era stata lei a trascrivere il documento segreto: al processo, qualche mese dopo, Ruth cambiò versione e sostenne che era stata Ethel Rosenberg a copiarlo. Ciò sembra davvero confermare che Ethel Rosenberg sia stata coinvolta nel processo per fare pressioni su suo marito e ottenere da lui una confessione in cambio del proscioglimento della moglie. Sempre nel 2008 Martin Sobell, disse al New York Times che sia lui che i Rosenberg erano stati delle spie, ma confermò che Ethel Rosenberg, per quanto a conoscenza delle attività del marito, non lo aiutò mai attivamente. I figli dei Rosenberg, una settimana dopo, affermarono di accettare l’idea che i loro genitori avevano davvero compiuto attività di spionaggio a favore dell’Unione Sovietica.

Fonti

Fabio Cociancich, Il caso Rosenberg e la paranoia collettiva negli USA: ieri e oggi, 29 marzo 2017, http://www.sconfinare.net

Davide Maria De Luca, I Rosenberg e la bomba atomica, 19 giugno 2013, https://www.ilpost.it

Giorgio Ferrari, Ombre rosse. Il caso Rosenberg e la Guerra fredda, BookTime, 2010.

Robert Meeropol, Quando il governo decise di assassinare mio padre e mia madre, Zambon 2003

 

 

 

Idy Diene viene ucciso a Firenze. La rabbia della sua comunità scoppia in città

Il secondo degli eventi di violenza a sfondo razzista del 2018 (abbiamo ricordato qui il primo di una lunga serie) si svolge nel capoluogo toscano, un giorno dopo il voto delle elezioni politiche. La campagna elettorale ufficiale è conclusa, ma i suoi effetti sono appena incominciati.

Quel lunedì, in tarda mattinata, Roberto Pirrone, 64 anni, tipografo in pensione, esce di casa con l’intenzione di suicidarsi. Ha appena discusso con la moglie, probabilmente per l’ennesima volta, dei problemi di natura economica che assillano la famiglia: questa, però, è l’ultima, perché ha deciso di togliersi la vita. Porta con sé la Beretta semiautomatica, per cui ha il porto d’armi, e si dirige verso il centro storico: dalla casa in Oltrarno passa su ponte Vespucci, dove non riesce a trovare il coraggio di compiere il gesto letale.

Decide di chiudere la partita in un altro modo, altrettanto tremendo: togliendo la vita a qualcun altro e finendo in carcere per il resto dei suoi giorni. Sembra che inizialmente abbia desistito dallo sparare a una donna di colore con un bambino, per poi rivolgere l’arma contro Idy Diene, ambulante senegalese di 54 anni. I dipendenti del vicino consolato americano, sentendo gli spari, danno subito l’allarme: sul posto si precipitano i soccorsi, che, però, non possono far nulla per la vittima; una pattuglia dell’esercito ferma invece Pirrone, mentre, a suo dire, stava andando a costituirsi dai carabinieri. Negli stessi momenti, pare che la figlia, avendo trovato in casa un biglietto scritto dal pensionato, abbia chiamato il 113, chiedendo aiuto per il padre.

La sera stessa esplode la rabbia della comunità senegalese. Un centinaio di persone è sceso in piazza qualche ora dopo l’omicidio, per protestare e “chiedere chiarimenti“. Dal ponte, teatro della tragedia, si sono diretti verso la questura, danneggiando le vie del centro: fioriere divelte, cestini rovesciati e scooter gettati a terra. Cittadini e turisti impauriti si sono rifugiati nei negozi vicini. Il corteo si è poi spostato verso la stazione, dove il traffico è stato bloccato su tutta la piazza.

Violenze non giustificabili, ma che trovano fondamento in una situazione di grande tensione, già alta dal 2011: in piazza Dalmazia, l’attivista di CasaPound Gianluca Casseri aveva ucciso a colpi di pistola due uomini senegalesi. Si era poi suicidato durante la caccia delle forze dell’ordine. Evidentemente, quella comunità non aveva ancora dimenticato:

Abbiamo raccolto due morti in questa città e abbiamo mantenuto la calma. Stavolta basta!

Il corteo ha anche incontrato l’imam Izzedine Elzir, presidente dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia:

Dobbiamo dare un grande abbraccio alla famiglia e alla comunità colpita da questa tragedia, non è il tempo delle divisioni: tutta la città di Firenze abbraccia i senegalesi in questo momento di dolore […] Il clima di intolleranza di questa campagna elettorale certo non ha aiutato.

E continuerà a non aiutare.

Alessio Gaggero

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

 

Nicola Calipari viene ucciso da proiettili americani

Nel 2003, una “coalizione di volenterosi”, Italiani compresi, invase l’Iraq per deporre Saddam Hussein e sventare la minaccia dei fondamentalisti islamici di al Qaida. Il capo del regime fu catturato dopo pochi mesi, ma i volenterosi non se ne andarono: il pericolo del terrorismo era ancora vivo.

Giuliana Sgrena era sempre stata contro l’intervento militare. Andò a Baghdad come inviata de Il Manifesto e svolse il suo lavoro di giornalista fino al 4 febbraio 2005: quel giorno fu rapita dall’Orga­niz­za­zione per la Jihad isla­mica. Dopo un mese di rivendicazioni, richieste di ritiro delle truppe e video sul web, l’ostaggio viene liberato: l’annuncio lo dà al Jazeera.

Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo [allora direttore de Il Manifesto. N.d.a], stai tranquilla, sei libera.

Queste sono le prime parole amiche che Sgrena sente una volta liberata. E’ Nicola Calipari a parlare. 52 anni, originario di Reggio Calabria, laureato in giurisprudenza, ha solo tre anni di esperienza al SISMI (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare. Oggi sostituito dall’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, AISE), ma ha già condotto diverse trattative per ostaggi in Iraq.

I due salgono in macchina, ma solo uno dei due ne scenderà sulle proprie gambe. A circa 700 metri dall’aeroporto, dove un volo aspetta proprio il loro arrivo per partire, c’è un posto di blocco americano. E’ stato posizionato alle 19.30 e dovrebbe durare mezz’ora, giusto il tempo di controllare il convoglio dell’ambasciatore statunitense, John Negroponte: tenerlo attivo troppo a lungo espone i militari a un rischio a crescita esponenziale.

I due italiani arrivano alle 20.50, 50 minuti dopo il termine previsto inizialmente; 20 minuti dopo la richiesta di smantellamento da parte del capitano Drew, a cui è stato opposto un rifiuto dal comando. Alla mitragliatrice c’è Mario Lozano, che spara una raffica in direzione dell’auto: Nicola si lancia su Giuliana, salvandole, probabilmente, la vita al costo della propria.

A questo punto la storia si complica oltre ogni possibilità di vederci chiaro. Le versioni si rincorrono, si ostacolano, si contrappongono. La macchina correva troppo? Aveva fari e luci interne spente? Si trattava effettivamente di un posto di blocco? E’ stato davvero un errore? In Italia abbiamo una verità giudiziaria, che offre poche soddisfazioni: nel 2008 la Corte di Cassazione ha stabilito che il soldato americano non poteva essere processato nel nostro paese, a causa della cosiddetta immunità funzionale.

Certo è che gli Stati Uniti fornirono pochissima collaborazione, perlopiù formale, nello svolgimento delle indagini. Così, la mente viaggia con facilità verso un caso più recente, sicuramente diverso, ma a tratti somigliante: quello di Giulio Regeni. Speriamo che allo studente friulano, alla sua famiglia e al suo Paese sia tributato maggior rispetto.

Alessio Gaggero

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background