Quelli del ghetto di Varsavia

Il ghetto di Varsavia alla fine del 1940

Verso la fine del 1940, all’incirca un anno dopo che le armate naziste avevano occupato la Polonia (abbiamo già ricordato la battaglia di Varsavia, che si era conclusa il 28 settembre del ’39, dopo un mese di combattimenti), il ghetto di Varsavia, che normalmente contava 160.000 abitanti, era divenuto terribilmente sovraffollato. Le misure anti-ebraiche subito introdotte dall’invasore tedesco non erano sufficienti per la politica di sterminio di Adolf Hitler. Allora, le SS avevano trasferito nel ghetto di Varsavia gli ebrei che risiedevano all’esterno, stipandone quasi mezzo milione [1].

Avvicinare o varcare il muro del ghetto di Varsavia significava la morte immediata

Per essere certi che vi restassero, i tedeschi eressero un’alta muraglia, che circondava un’area lunga due miglia e mezzo e larga uno e racchiudeva l’antico ghetto di Varsavia di epoca medievale. Si sparava a vista, senza preavviso, a chi varcava il muro o anche a chi ci si avvicinava troppo. Gli ebrei potevano lavorare soltanto nelle poche fabbriche di armi collocate dentro il ghetto, gestite dalla Wehrmacht o da imprenditori tedeschi che, con un cuore da sciacallo, facevano profitti spaventosi grazie al lavoro coatto degli ebrei.

La deportazione nel ghetto come primo passo verso “la soluzione finale della questione ebraica”.

Il governatore tedesco dei territori polacchi occupati, Hans Frank, che aveva fatto adottare queste disposizioni anche dai Governatori delle altre città, a partire da quella di Cracovia, in cui risiedeva, però non si accontentava delle sofferenze provocate dal sovraffollamento del ghetto di Varsavia, di quello di Cracovia e delle altre città [2]. Il programma del Terzo Reich prevedeva, infatti, non soltanto di spremere economicamente la Polonia ed eliminare fisicamente l’élite polacca, ma anche di sterminarne tutti gli ebrei. E la fame, pensò Frank, poteva essere un modo efficace ed efficiente per adempiere a questa parte del programma. Così rifiutò di assegnare al ghetto viveri sufficienti per mantenere in vita gli ebrei lì rinchiusi: se tutti nel ghetto di Varsavia pativano la fame, all’incirca 100.000 persone si nutrivano soltanto di una ciotola di minestra al giorno, spesso fatta di paglia bollita e ottenuta grazie alla solidarietà degli altri. Himmler, tuttavia, era insoddisfatto [3]. Nel ghetto di Varsavia il ritmo della morte  – per fame, per malattia (si era diffuso anche il tifo) e per le violenze realizzate dai nazisti – era troppo lento [4].

«Dobbiamo distruggere gli Ebrei ovunque li troviamo, e ovunque sia possibile» (Hans Frank)

Il 16 dicembre del ’41 Hans Frank tenne il seguente discorso:

«Se la stirpe ebraica sopravvive alla guerra mentre noi sacrifichiamo il nostro sangue per tenere in vita l’Europa, questa guerra sarà vinta solo in parte. Devo pertanto partire dal presupposto che gli Ebrei scompariranno […] Ho avviato delle trattative per cacciarli a Est […] In ogni caso, si verificherà un esodo di massa di Ebrei. Cosa succederà agli Ebrei? Credete che la gente li ospiterà nei villaggi nei territori orientali conquistati? A Berlino ci hanno detto di non rendere le cose troppo difficili: a meno che quei territori o i nostri territori se ne facciano qualcosa, dobbiamo semplicemente liquidarli! Dobbiamo distruggere gli Ebrei ovunque li troviamo, e ovunque sia possibile».

Su richiesta di Hitler, il Reichsmarschall Hermann Göring ordinò l’avvio di una conferenza, che si tenne sulla riva del lago Wannsee, a Berlino, il 20 gennaio del 1942, tra alti ufficiali e burocrati nazionalsocialisti per coordinare l’attuazione della “Soluzione finale della questione ebraica“. La decisione assunta fu quella di realizzare una vera e propria pulizia etnica, eliminando tutti gli ebrei presenti in Europa, cioè oltre 11 milioni di esseri umani, inclusi quelli residenti in stati alleati come l’Italia o amici come la neutrale Spagna. In esecuzione del programma lì elaborato, nell’estate del ’42, non soltanto si svolsero le esecuzioni di massa in Polonia, in Cecoslovacchia, nei paesi baltici, in Russia e in altri territori orientali occupati (ne abbiamo parlato qui), ma venne ordinato che anche gli ebrei del ghetto di Varsavia fossero trasportati altrove per «ragioni di sicurezza». Entro il 3 ottobre di quell’anno vennero deportati 310.322 ebrei nei campi di sterminio, soprattutto a Treblinka, dove venivano soppressi per lo più con i gas (abbiamo ricordato nel post precedente a questo il tentativo nazista, nell’inverno del ’45, di cancellare l’orrore Auschwitz di fronte all’avanzare delle truppe sovietiche).

L’insoddisfazione di Himmler nel gennaio del 1943: ancora troppi ebrei nel ghetto di Varsavia.

Nel gennaio del ’43, Himmler – che poche settimane prima, il 16 dicembre del ’42, aveva ordinato di internare gli individui appartenenti al popolo Rom ad Auschwitz (lo abbiamo ricordato qui all’interno della rubrica Corsi e Ricorsi) -, durante una visita a sorpresa in Polonia, non fu “soddisfatto” della gestione del ghetto di Varsavia: vi vivevano ancora più di 60.000 ebrei. Ordinò allora di terminare il «trasferimento» entro il 15 febbraio. Ma sul fronte russo meridionale le armate tedesche e italiane se la passavano decisamente male, la battaglia di Stalingrado si era risolta in un disastro per i tedeschi, e l’esercito aveva la precedenza sui mezzi di trasporto. Inoltre, nel ghetto di Varsavia stava accadendo qualcosa di insolito. Addirittura di imprevedibile, anzi di inconcepibile per i nazisti. Gli ebrei rimasti avevano deciso di non essere disposti ad essere «trasferiti».

Quel 18 gennaio del 1943 gli ebrei iniziarono a sparare contro le SS tedesche.

Il 18 gennaio del ’43, quando le SS tedesche e le unità di polizia ripresero le deportazioni di massa dal ghetto di Varsavia, un gruppo di ebrei, armati di pistola, si infiltrò in una colonna persone costrette a raggiungere il punto di raccolta e, al segnale stabilito, sparò contro le guardie. Quasi tutti ci rimisero la vita durante la battaglia, ma oltre ad avere dato agli altri la possibilità di disperdersi, quei combattenti avevano acceso un fuoco che di lì a poco sarebbe divampato. Il fuoco della rivolta. La decisione tedesca del 21 gennaio di sospendere le deportazioni (dopo aver catturato circa altri 6.500 residenti del ghetto per deportarli) indusse i membri del ghetto a credere che tale sospensione fosse imputabile alla loro reazione e cominciarono a costruire bunker e rifugi sotterranei, per preparare una rivolta nel caso in cui i tedeschi avessero tentato una deportazione finale di tutti gli ebrei rimasti.

19 aprile del ’43: l’inizio della rivolta armata nel ghetto di Varsavia

I tedeschi, in effetti, intendevano iniziare la liquidazione finale del ghetto di Varsavia il 19 aprile 1943, cioè la vigilia della Pasqua ebraica e quella mattina, quando le SS e le unità di polizia (2090 uomini di cui metà erano appartenenti all’esercito regolare e alle Waffen-SS, circa 800 alla polizia delle SS e 335 alla milizia lituana e alla polizia collaborazionista e al corpo dei pompieri polacchi), comandate dal tedesco Jurgen Stroop, SS-Brigadefuhrer e maggiore generale della polizia, con carri armati, lanciafiamme e squadre guastatori, entrarono nel ghetto, restarono nuovamente sorprese: le strade erano deserte. Quasi tutti i residenti del ghetto, ridotto ad una superficie di 1000 metri per 300, si erano nascosti nei rifugi o nei bunker. Ed erano pronti a battersi, anche se potevano contare solo su qualche pistola, qualche fucile, una ventina di mitragliatrici, tutte contrabbandate di nascosto nel ghetto, e granate fatte in casa.

Stroop riferì che i suoi uomini furono «fatti segno a un fuoco concentrato da parte degli ebrei e dei banditi» e che, dato che «una tank e due carri blindati erano stati tempestati da bottiglie Molotov», aveva dovuto ritirarsi. Alle 17,30 riprese l’attacco, ma, come spiegò Stroop, «gli ebrei e i criminali combattevano di nido in nido sfuggendoci all’ultimo momento», e i tedeschi persero 12 uomini.

L’indisponibilità ad arrendersi di «quella marmaglia di razza inferiore» che sconcertava il generale Stroop

Nei primi giorni, guidati da Mordecai Anielewicz, il comandante dell’Organizzazione Combattente Ebraica (Zydowska Organizacja Bojowa – ZOB), creata clandestinamente già a fine luglio del ‘42, i difensori del ghetto di Varsavia si ritiravano a poco a poco davanti ai carrarmati, all’artiglieria e ai lanciafiamme, ma continuavano a resistere. Il terzo giorno i nazisti presero a radere al suolo il ghetto, edificio per edificio, per costringere ad uscire i resistenti, che tentavano degli assalti dai loro bunker [5]. Ma sia singoli individui sia diversi gruppi di abitanti continuarono a nascondersi o a combattere contro i tedeschi per quasi un mese. E ciò aumentava la perplessità sorta in Stroop fin dal 19 aprile [6]. Non comprendeva perché «quella marmaglia di razza inferiore» non si arrendesse, rassegnandosi ad essere liquidata. Nel suo rapporto scrisse:

«Mentre nei primi giorni è stato possibile catturare un numero considerevole di ebrei, che sono codardi per natura, durante la seconda metà dell’operazione è divenuto sempre più difficile catturare i banditi e gli ebrei. Più e più volte si sono accesi nuovi nuclei di resistenza, ad opera di gruppi di combattenti costituiti di una ventina o trentina di ebrei, a cui si sono unite altrettante donne». Queste ultime, annotò Stroop, erano abili nel maneggiare le pistole con entrambi le mani e nel lanciare le bombe che tenevano nascoste sotto i vestiti.

«Malgrado il pericolo di bruciare vivi, gli ebrei e i banditi preferivano spesso tornare tra le fiamme anziché rischiare di essere catturati da noi» (Stroop)

Quando il quinto giorno di combattimenti Himmler, imbufalito, aveva ordinato a Stroop di radere al suolo il ghetto e costui aveva deciso di ardere tutti i fabbricati, vi fu un’altra “sorpresa”. Gli ebrei non si arrendevano, restavano nelle case in fiamme e poi si gettavano dai piani superiori.

«Con le ossa rotte, cercarono tuttavia di attraversare la strada per raggiungere gli edifici cui non stato dato ancora fuoco»[7].

«Il ghetto di Varsavia non esiste più», ma la sua rivolta (r)esiste ancora

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Il 16 maggio fu l’ultimo giorno della battaglia, il ghetto di Varsavia non esisteva più. Ma singoli ebrei, nascosti tra le rovine del ghetto, continuarono ad attaccare le pattuglie tedesche e il personale ausiliario. Stroop, che ordinò anche la distruzione della Sinagoga Grande di via Tlomacki, scrisse nel suo rapporto che durante la rivolta 56.065 ebrei erano stati catturati e 631 bunker distrutti, mentre le sue unità avevano ucciso fino a 7.000 Ebrei [8].

La liquidazione del ghetto di Varsavia, che avrebbe dovuto essere eseguita in tre giorni, trovò una resistenza inaspettata, la quale costituì non soltanto la rivolta ebrea più estesa e simbolicamente più importante, ma anche la prima rivolta urbana nell’Europa occupata dai nazisti. Inoltre la rivolta del ghetto di Varsavia inspirò le rivolte di altri ghetti, tra cui quelli di Bialystok e Minsk, e quelle nei campi di sterminio di Treblinka e Sobibor.

Władysław Szpilman, Marek Edelman, Irena Sendler e Simcha Rotem

Tra i resistenti del ghetto di Varsavia sopravvissuti alla ferocia nazista, oltre a Władysław Szpilman, il compositore e pianista, morto quasi novantenne, nel 2000 a Varsavia, dalla cui autobiografia fu tratto il film di Roman Polanski (sfuggito da bambino alla deportazione e al massacro degli ebrei del ghetto di Cracovia), Il pianista (Palma d’oro al Festival di Cannes nel 2002 e premiato con l’Oscar per il miglior film , la miglior regia, la miglior sceneggiatura e il miglior attore protagonista), vi fu anche Marek Edelman. Costui, al momento della rivolta del ghetto di Varsavia, era il ventenne vicecomandante dello ZOB. Scampato al massacro, combatté l’anno dopo nell’insurrezione della città (l’abbiamo ricordata qui). Era stato educato alla scuola del Bund, il partito socialista dei lavoratori ebrei, e dopo la guerra divenne cardiologo all’ospedale di Lodz, venendo perseguitato (licenziato e arrestato) dal regime comunista. Con la vittoria di Solidarnosc, i suoi ideali democratici ed umanitari lo portarono negli anni ’90 a Sarajevo, per soccorrere la popolazione, durante l’assedio da parte dei serbi. Restò in Polonia e morì novantenne, il 2 ottobre del 2009. Irena Sendler, nata nel 1910 e scomparsa nel 2008, non era ebrea. Era una socialista polacca, una donna libera, emancipata, di rarissimo coraggio, che, servendosi del suo ruolo di assistente sociale e di infermiera, con la “scusa” di verificare la diffusione del tifo, salvò circa 2.500 bambini ebrei durante l’occupazione tedesca della Polonia. In particolare, faceva uscire bimbi e neonati dal ghetto di Varsavia (in sacchi di juta e in casse degli attrezzi) e collocandoli in famiglie e conventi, con documenti falsi (ma conservò un registro di questi bambini, in modo che, una volta finita la guerra, potessero tornare alle loro prime e vere identità). Arrestata, fu selvaggiamente ma metodicamente torturata dalla Gestapo, che le spezzò anche le gambe (restò inferma a vita), ma resistette. Nel 1965 le fu conferita dagli israeliani la medaglia di Giusta tra le nazioni, ma lei disse: «Avrei potuto fare di più. Questo rimpianto non mi lascia mai». Nel ’68 uscì dal Partito Comunista Polacco (cui era iscritta dal ’48), per protesta contro la campagna antisemita avviata nel mese di marzo. Simcha Roten, l’ultimo ebreo sopravvissuto alla rivolta del Ghetto di Varsavia, si è spento a Gerusalemme, all’età di 94 anni, meno di un mese fa. Anch’egli faceva parte della ZOB ed era riuscito a sfuggire ai tedeschi, guidando anche alcune decine di suoi compagni attraverso i condotti di scarico. Era poi entrato nella resistenza polacca, lottando contro i nazisti fino alla liberazione della Polonia. Nel 1946 era emigrato in Israele.

 Alberto Quattrocolo

[1] Fin dal 21 settembre del 1939, ancor prima di aver totalmente sconfitto l’esercito polacco, il Brigadeführer Reinhard Heydrich, comandante della Gestapo, elaborò insieme al suo superiore Heinrich Himmler, un progetto di deportazione e di trasferimento nei ghetti urbani delle città polacche di centinaia di migliaia di ebrei. Tale piano, sostenevano, doveva costituire il primo passo verso la endlösung, “la soluzione finale della questione ebraica”.

[2] Alla fine della Prima Guerra Mondiale, Frank militava in un’organizzazione paramilitare anticomunista di estrema destra (Freikorps). Nel ’19 entrò nel Partito Tedesco dei Lavoratori poi diventato il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP). Nel ’23 prese parte al fallito putch (Colpo di Stato) della birreria, organizzato da Hitler e Ludendorff, ma riuscì a sottrarsi alla giustizia tedesca, fuggendo in Austria. Laureatosi nel frattempo in giurisprudenza divenne poi avvocato personale di Hitler ed entrò nel parlamento nel 1930 per diventare Ministro della Giustizia nel ’33. Nel settembre ‘39 fu messo al vertice dei servizi amministrativi del feldmaresciallo Gerd von Rundstedt nel Governatorato Generale, cioè nella parte della Polonia che non stata annessa alla Germania ma che era sottoposta comunque al controllo tedesco, a seguito dell’invasione. E dal 26 ottobre di quell’anno ebbe il grado di obergruppenführer delle SS e l’incarico di Governatore Generale per i territori occupati (circa 90.000 km ² sui 170.000 complessivi dell’ex territorio polacco conquistato), con l’incarico di trasformarli in una colonia tedesca nella quale prelevare la manodopera necessaria all’industria del Reich. Qui vi sorsero i lager di Auschwitz-Birkenau, Majdanek, Treblinka, Chełmno, Bełżec, Sobibór. Dopo la guerra, Frank, condannato dal tribunale di Norimberga, fu giustiziato il 16 ottobre del 1946.

[3] Heinrich Himmler, comandante della polizia dal 1936 e delle forze di sicurezza del Terzo Reich (Reichssicherheitshauptamt) dal 1939 (poi dal 1943 ministro dell’Interno del Reich) era colui al quale Hitler aveva affidato anche il compito di realizzare il programma di sterminio degli Untermenschen, ovvero degli “esseri umani inferiori” rispetto alla razza ariana. Himmler delegò dapprima il suo braccio destro Reinhard Heydrich e, in seguito, dopo l’uccisione di quello da parte dei partigiani cecoslovacchi, Adolf Eichmann.

[4] Ad ogni persona spettavano settimanalmente 920 grammi di pane e mensilmente 295 grammi di zucchero, 103 grammi di marmellata e 60 grammi di grassi. Ma tali quantità, già ridicole non erano rispettate. Ma, per capirci meglio: secondo le disposizioni naziste, ai tedeschi residenti a Varsavia spettavano giornalmente 2.310 calorie, 1.790 agli stranieri di altre nazionalità, 634 calorie ai polacchi non ebrei e 184 agli ebrei polacchi. All’inizio del 1941, poi, lo spazio a disposizione dei residenti era stato ulteriormente ridotto, così la media di mortalità per fame, malattie e maltrattamenti crebbe in maniera esponenziale, sicché a fine primavera la media dei decessi era salita a 2000 al mese.

[5] I combattenti della Resistenza ebraica risposero con assalti sporadici dai loro bunker. Anielewicz e altri combattenti durante l’attacco al bunker di comando della ZOB furono uccisi e il bunker fu preso definitivamente l’8 maggio.

[6] Stroop redasse un rapporto dattiloscritto di 75 pagine sulla sua repressione della rivolta del ghetto di Varsavia, intitolandolo “Il ghetto di Varsavia non esiste più”. Stroop, catturato dopo la guerra, nel ‘47 fu condannato a morte da un tribunale americano a Dachau, per avere fatto fucilare degli ostaggi in Grecia. Poi, estradato in Polonia, fu processato e condannato per il massacro degli ebrei del ghetto di Varsavia e impiccato l’8 settembre del ’51, proprio laddove sorgeva il ghetto.

[7] Per tutto un mese gli ebrei si batterono soffrendo l’inimmaginabile. Lo stesso Stroop scrisse che molti difensori del ghetto di Varsavia diventavano «pazzi per il caldo, il fumo e le esplosioni».

[8] Le autorità tedesche deportarono circa altri 7.000 ebrei da Varsavia a  Treblinka, dove quasi tutti furono uccisi nelle camere a gas appena arrivati. Altri 42.000 ebrei sopravvissuti, furono deportati nel campo di concentramento di Lublino/Majdanek e nei campi per lavori forzati di Poniatowa, Trawniki, Budzyne Krasnik. Tranne qualche migliaia di lavoratori rimasti a Budzyn e Krasnik, le SS e le unità di polizia tedesca uccisero successivamente quasi tutti gli ebrei deportati da Varsavia a Lublino/Majdanek, Poniatowa e Trawnik, nel novembre del 1943, nell’ambito della macabra “Operazione Festa del Raccolto” (Unternehmen Erntefest).

 

Fonti

William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi editore, Torino, 1962

Wlodek Goldkorn, Irena, che salvava i bambini del ghetto di Varsavia, L?espresso 17/01/2017

www.encyclopedia.ushmm.org

www.fanpage.it

www.iltorinese.it

www.it.wikipedia.org

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