pieta è moribonda

La pietà è moribonda?

La pietà è moribonda ? È un interrogativo che potrebbe sorgere leggendo alcuni fatti di cronaca.

Sembrano non avere avuto molta pietà il 17enne e il 15enne che, a Nardò (provincia di Lecce), all’inizio di dicembre, sono stati accusati di rapina, sequestro di persona, violenza sessuale, pornografia minorile e tentata estorsione, ai danni di un quindicenne.

Infatti, i due ragazzi hanno rinchiuso in un bagno pubblico il loro coetaneo, lo hanno picchiato, costretto a masturbarsi, riprendendolo in un video, postato su WhatsApp ad altri ragazzi, e lo hanno minacciato di non restituirgli scarpe e giubbotto, se non avesse loro corrisposto il giorno seguente la somma di 10 euro.

Pietà l’è morta era un canto della Resistenza, composto da Nuto Revelli nella primavera del ’44. Terminava così:

Tedeschi e fascisti

per sempre fuori d’Italia

gridiamo a tutta forza

pietà l’è morta!

Era un canto di guerra, di guerra partigiana, di guerra di Liberazione. E non concedeva pietà al nemico, la Germania nazista e la Repubblica Sociale Italiana.

La pietà è moribonda quando si considera l’altro meno di niente

Erano in guerra anche i quattro minorenni con  il liceale, 17enne, che hanno accoltellato nel rione Sanità (tre coltellate: una al fianco, una alla schiena, che gli ha perforato un polmone, e una, per «finirlo», alla gola, che gli ha quasi trafitto la giugulare, ma ha inciso per fortuna solo due millimetri)? Erano così in conflitto con lui da colpirlo «senza alcuna pietà», per citare le parole del Questore di Napoli?

Probabilmente, no. Non prima di somministrargli quel trattamento, in ogni caso. Forse, hanno semplicemente messo in atto uno di quei meccanismi di de-umanizzazione dell’altro che consentono a noi esseri umani di compiere inganni, ricatti, soprusi, abusi, crudeltà ed efferatezze varie ai danni di altri. “Altri”, che, per gli autori delle violenze, si meritano quanto gli fanno.

Ad esempio, forse i due giovani aggressori di Nardò ritenevano il ragazzino meritevole di una tale violenza, perché più ricco e benestante di loro, oppure perché meno ricco e meno benestante. Quale che sia la ragione, non lo vedevano come un soggetto simile a loro.  Non lo pensavano come una persona, non lo sentivano come un essere umano.

Forse, la pietà è moribonda – o almeno lo era – anche nell’animo dei membri della gang di bulli (tutti di buona famiglia), che, a Cologno Monzese, umiliavano, pestavano, derubavano e ricattavano altri minori, incluso un ragazzino disabile. Lo facevano per noia, hanno detto, «per ammazzare il tempo».

Analogamente, si può ipotizzare che avessero “spento” dentro di sé ogni forma di empatia i tre tredicenni, di Bagno a Ripoli (Firenze), che, negli spogliatoi della società sportiva dove si allenano, hanno costretto un ragazzino, tredicenne, disabile, a mangiare un pezzo di schiacciata, dopo averla gettata nell’acqua delle docce. Un suo amico ha tentato di difenderlo, di fermarli, ma quelli lo hanno costretto a sedere e guardare. Il giorno dopo sarà questo amico a parlarne con l’insegnante di sostegno.

A volte la pietà è moribonda anche verso i poveri

Ma non capita solo a qualche minorenne di mettere in stand by la pietà, cioè, il sentimento di partecipazione, anche dolorosa e premurosa, all’infelicità altrui. Succede anche agli adulti.

Per restare nell’ambito delle violenze ai danni di minori, si può pensare alle violenze sessuali, commesse da un anziano agricoltore di Oristano, ai danni di un sedicenne, in cambio di un lavoro in campagna, pagato 30 Euro al giorno. Oppure si può pensare alla tredicenne, costretta a prostituirsi, a Gibellina, da un allevatore sessantunenne.

Oppure si può pensare a quanto successo a Como. Qui, in ottemperanza dell’ordinanza del sindaco, Mario Landriscina, contro i mendicanti del centro storico, la polizia municipale ha impedito ai volontari di dare da mangiare ai senza tetto, italiani e stranieri, che dormono all’aperto, sotto l’ex chiesa di san Francesco.

Così, applicando l’ordinanza intesa a ripristinare «la tutela della vivibilità e il decoro del centro urbano», a tali volontari, che, da oltre sette anni, distribuiscono la colazione alle persone costrette a dormire in strada, è stato detto di non portare più il cibo fino al 10 gennaio.

Come spiega l’Avvenire, «A continuare a mandare via i poveri non si elimina la povertà, la si amplifica, la si fa diventare un nemico da combattere – hanno scritto i volontari del “Gruppo Colazioni”–. Vorremmo che il Natale fosse occasione per la ricerca di un’umanità più dignitosa».

In tal caso, si potrebbe supporre che le persone costrette a dormire per strade siano state considerate dall’amministrazione comunale alla stregua di spazzatura. Delle non-persone.

Dunque, se non proprio morta, a volte, la pietà è moribonda, anche verso costoro, i poveri.

Poveri, che sono sottoposti ad abusi sessuali in cambio di un lavoro, o che non hanno diritto di esistere, perché la loro vista può turbare l’estetica di una città addobbata a festa.

Non è un paese per poveri, verrebbe da osservare.

Quando la pietà è moribonda (o morta) per ragioni di business

Non sembrano avere suscitato empatia gli anziani, nel cuore di un barelliere legato alla mafia, che pare averli uccisi con aria iniettata in vena, a Catania, allo scopo di vendere ai familiari i servizi di onoranze funebri a pagamento.

La prospettiva del profitto è stata più forte anche della pietà per i defunti, nel caso dei furti sui cadaveri e delle truffe di cui sono accusati alcuni necrofori dei cimiteri di Torino.

Uno degli slogan più ricorrenti sulla scena politica, in riferimento al fenomeno migratorio, è “aiutiamoli a casa loro”.

È un argomento proposto non raramente per supportare prese di posizione avverse all’accoglienza di migranti, inclusi i richiedenti asilo e coloro ai quali l’asilo (o altra forma di protezione) è stata concesso.

Un articolo di Pietro Frattini (Aiutiamoli a casa loro, la diga di Gibe), su ilmemoriale.it, ci ricorda un servizio della Cnn sui risvolti spietati di un’operazione di aiuto a casa loro.

Undici anni fa, due mesi prima che la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni fosse adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la EEPC (Ethiopian Electric Power Corporation) appaltò direttamente, senza bando di gara, alla Società italiana Salini Costruttori la costruzione di una diga, con fondi garantiti dal governo Cinese, mentre le infrastrutture elettriche sono garantite dalla Banca Mondiale.

Ma la legge etiope prevedeva che il governo prima di dare l’approvazione ad un progetto dovesse valutare l’impatto ambientale e sociale. E questo impatto c’era e c’è!

Mezzo milione di abitanti erano contrari a subire quel che diventerà un vero e proprio trasferimento forzato in campi di reinsediamento. Il rastrellamento, come documenta la Cnn, portò alla distruzione di un intero villaggio e dei suoi abitanti: di 154 ne sopravvissero solo 7.

Ma fu tutta l’operazione ad essere svolta con violenza agghiacciante: bambini e bestiame scaraventati nel fiume, gli adulti legati agli alberi per essere fucilati, cadaveri dati in pasto alle iene.

La diga venne inaugurata nel dicembre 2016.

Quelli la cui la pietà è moribonda verso gli immigrati, perché bisognerebbe aiutarli – anzi, fregarli – a casa loro

In un altro post (Dove eravamo) su questo blog, si era scritto che, ancor prima di «aiutarli a casa loro», sarebbe gentile, oltre che utile, necessario e improcrastinabile, «smetterla di fregarli a casa loro».

Parrebbe confortare la fondatezza di quella banale osservazione il recente rinvio a giudizio del numero uno dell’Eni. L’accusa è di avere pagato tangenti a uomini del governo nigeriano, in cambio dello sfruttamento di uno dei più grandi giacimenti di petrolio al mondo da parte di Eni e Shell.

Tanto per non scordarsene, la Nigeria è quel luogo in cui l’organizzazione fondamentalista Boko Haram fa stragi continue e in cui c’è un devastante conflitto con le forze governative. La Nigeria è quel paese in cui ci sono oltre due milioni di persone in fuga e che dal ’97 al 2015 ha avuto oltre 50.000 vittime della violenza armata.

In un altro post ancora (Illegalità nazionalrazzista), era stato ricordato che con Isaias Afewerki, il feroce dittatore dell’Eritrea, l’ex colonia italiana, in cui giunsero a suo tempo oltre centomila immigrati nostri connazionali, collaborava, tra gli altri, Pier Gianni Prosperini.

Costui, ex assessore di AN della giunta Formigoni, come ricordava Gian Antonio Stella sul Corriere, non soltanto definiva il dittatore Afewerki «un uomo capace e sagace», un leader dalla «mano ferma e paterna», ma qualificava anche come traditori coloro che fuggivano dalla violenza della regime dittatoriale, sostenendo che erano balle le notizie sulle torture e sulle violenze messe in atto sistematicamente da quella dittatura.

La pietà è moribonda (o morta) quando si considera l’altro come un animale

Prosperini, che è stato condannato per aver rifornito di  armi e munizioni proprio il regime di Isaias Afewerki, eludendo i controlli internazionali e violando gli embarghi, in cambio di  un’entrata illecita semestrale, in ogni occasione ripeteva:

«Camèl, barchèta e te turnet a ca’. Capì? Possono restare da noi solo quelli che condividono i nostri valori e rispettano le nostre leggi. Non ti va bene? Camèl, barchèta e te turnet a ca’».

Nel 2009 Prosperini era stato arrestato per avere incassato una tangente da 230.000 euro su un appalto da 7,5 milioni di euro (richiese un patteggiamento).

Vittorio Mussolini, nel suo Voli sulle Ambe (Firenze, 1937), così commentava l’attività svolta da lui e dal fratello Bruno nella 14esima squadriglia, durante l’invasione italiana dell’Etiopia:

«È un lavoro divertentissimo, tragico ma bello».

Il lavoro di cui scriveva consisteva nello sganciare bombe incendiarie e gas tossici. L’uso di questi mezzi vietati dalla convenzione di Ginevra era stato autorizzato esplicitamente dal loro papà, Benito Mussolini, capo del Governo.

Vittorio Mussolini, in quel libro, aggiungeva che l’abissino «è un animale».

Ecco, basta vedere l’altro come un animale, che anche un’azione mostruosa, come quella di far piovere gas tossici e bombe incendiarie, non soltanto sulle armate del Negus, messe in rotta e prive di aerei e di contraerea, ma anche sulla popolazione civili (bambini inclusi) di villaggi e città, diventa «un lavoro divertentissimo, tragico ma bello».

La pietà è moribonda quando si prova rabbia

Il sentimento della pietà, cioè della partecipazione al dolore altrui, si spegne quando si è arrabbiati o indignati.

Rispetto al ragazzino vittima di atti di grave bullismo a Nardò, è interessante leggere alcuni commenti a tale notizia.

Un’insegnante scrive: È uno schifo…bisogna dare un segnale forte. (…). Pena di morte

Una mamma a tempo pieno lascia questo commento: (…) Brutti bastardi… sono d’accordo per una pena adeguata di pari violenza… In piazza nudi… ripresi e mandati su internet mentre si masturbano e vengono picchiati e derisi dalla folla!! Voglio vedere se vengono ripagati con la stessa moneta se avranno voglia di rifare un simile gesto!! Vergogna!!!

Un’altra commentatrice scrive: Non devo lavorare x sostenere questi vandali in carcere (…). Pena di morte… scusatemi, è ora di grandi punizioni.

Oggi pietà l’è morta ma un bel giorno rinascerà

Fa riflettere il fatto che la mamma del tredicenne di Bagno a Ripoli, verso i tre coetanei che hanno maltrattato suo figlio, non abbia invocato alcuna sanzione violenta. Ha postato la faccia del ragazzino che per la prima volta con l’aiuto del papà si taglia i baffi e ha scritto:

«La risposta ai tre compagni di squadra s…..i che negli spogliatoi del calcio ti hanno fatto uno scherzo orribile, anzi un vero e proprio atto di bullismo, è la tua faccia amore mio! Alta, fiera e timida come sei tu, che chiami amici anche quei tre che amici non sono!».

Forse, allora, la pietà non è morta ovunque, e forse neanche è moribonda. O, come cantava Francesco De Gregori (San Lorenzo),

Oggi pietà l’è morta, ma un bel giorno rinascerà.

Sì, ma quando? Quando rinascerà?

Se la nostra pietà è moribonda, potrebbe riprendersi con una cura di razionalità

Forse, se la nostra pietà è moribonda, potrebbe riprendersi un po’, con una cura a base di razionalità.

Forse si riaccenderà quando, usando i nostri occhi e il nostro cervello, ci accorgeremo che non vi è alcuna invasione [1]. E che non vi è alcuna islamizzazione dell’Italia o dell’Europa [2]. Quando punteremo lo sguardo su qualcos’altro, che non è una panzana propagandistica, di becero livello razzista, tesa a distrarre la nostra attenzione, ma che, invece, è drammaticamente vero. Qualcosa, che da sempre infetta, intossica, imbratta, corrompe il nostro territorio, il nostro futuro, i nostri diritti, i nostri corpi e la nostra moralità: le mafie.

Infatti, è appena il caso di ricordare non solo che sono 290 i comuni sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose in 26 anni, ma anche che il controllo mafioso del territorio si è radicato ormai indubitabilmente anche nel Nord (si pensi alle infiltrazioni della’ndrangheta in ambito politico e imprenditoriale in Lombardia).

Forse, dunque, quando sapremo guardare ai mali che, da sempre, affliggono la Repubblica, e cesseremo di scaricarne la colpa sugli altri, grazie a questo esame di realtà, potremo anche rivitalizzare la nostra capacità di provare pietà.

Se la pietà è moribonda, potrebbe rianimarsi, comprendendo che quando si comincia a discriminare e ad emarginare non ci si ferma più

Forse, se la nostra pietà è spenta, è perché ci rifiutiamo di capire che negare la dignità ad uno – emarginandolo, denigrandolo, umiliandolo, respingendolo – vuole dire toglierla a tutti, come dimostra, tra gli altri, il caso di Como, precedentemente citato.

Forse un giorno realizzeremo che la pietà è moribonda anche perché – non solo durante le campagne elettorali – si diffondono parole che cercano di assassinarla nei nostri cuori. Parole, che servono a farci vedere l’altro non per come è – un essere umano –, ma come un oggetto ingombrante, scomodo, inquietante, pericoloso, minaccioso.

Forse la nostra pietà rinascerà, quando ci accorgeremo che non vi alcuna differenza tra il comportamento di quell’autista di un autobus, che, in Val d’Aosta, ha tentato di costringere un ragazzo disabile, figlio di allevatori, a scendere lontano da casa, paragonandolo alle mucche, dicendogli che «puzza come loro» e che avrebbe dovuto andare a «zappare le patate invece di frequentare la scuola», e quello dell’anziano torinese, che, su un autobus, ha aggredito una giovanissima studentessa italiana, solo perché di pelle scura, “suggerendole” di tornarsene a casa sua (cioè in Africa) e di smettere di andare a scuola, perché tanto finirà a lavorare sul marciapiede. O dell’altro, sempre anziano e sempre italiano, che ha preso a calci, schiaffi e pugni Florentina Grigore, una quarantaquattrenne di origine rumena, minacciandola di pisciarle addosso se non scendeva dall’autobus, perché non aveva obliterato il biglietto. Florentina non aveva timbrato il biglietto perché aveva l’abbonamento [3].

Se la nostra pietà è moribonda, è anche perché una sorta di neo-negazionismo le impedisce di destarsi

Forse, se davvero la nostra pietà è moribonda, si riprenderà quando ci cadrà il velo dagli occhi. E, cadendo, ci lascerà vedere non solo il razzismo (vi sono diversi post su questo blog dedicati al nazionalrazzismo e al socialrazzismo), ma anche il neo-negazionismo implicito in chi, definendosi patriottico, ricorre allo slogan “Prima gli italiani”.

Il negazionismo, cioè di chi non tiene in alcun conto il fatto incontrovertibile che, alla base del fenomeno migratorio, vi sono guerre e terrorismi, persecuzioni e dispotismi, carestie e miseria, malattie e sfruttamento. E che, questi flagelli sono, in larghissima parte, direttamente collegati ai colonialismi di ieri e di oggi: colonialismi, questi ultimi, posti in essere dalle “nostre” multinazionali e dai “nostri” governi.

Forse la nostra capacità di sentire e di sentirci risorgerà quando recupereremo la capacità di pensarci nei panni dell’altro

Forse, la nostra capacità empatica avrà un sussulto di vitalità, quando capiremo che, in quanto esseri umani, non siamo diversi da chi accetta, o è costretto ad accettare, il rischio di morire di sete nel deserto, annegato nel Mediterraneo o assiderato sulle Alpi. Quando recupereremo quel pizzico di razionalità utile a sapere che al posto loro faremmo la stessa cosa.

Insomma, se veramente la nostra pietà è moribonda, potrà guarire quando sapremo guardare a noi stessi per come siamo, con le nostre luci – che sono tante – e le nostre ombre – che non sono poche, e smetteremo questa tendenza a proiettare le nostre ombre sull’altro.

 Alberto Quattrocolo

 

[1] I residenti in Italia sono poco più di 60 milioni. Di questi i cittadini italiani sono 55 milioni e 551mila. Gli immigrati residenti regolarmente in Italia, infatti, sono 5.029.000, secondo gli ultimi dati Istat, aggiornati al 1 gennaio 2017. Questo dato è indiscutibile, essendo basato sulle persone registrate alle anagrafi comunali aventi una cittadinanza diversa da quella italiana. Tale dato, però, comprende tutti gli stranieri, inclusi quelli provenienti da altri stati dell’Unione Europea. Gli stranieri non comunitari, infatti, sono circa 3 milioni 500 mila. Il che vuol dire circa il 6% del totale dei residenti (60 milioni e mezzo). A costoro si aggiungono gli stranieri regolari ma non residenti, quelli, cioè, che hanno cioè un regolare permesso di soggiorno, ma non sono iscritti all’anagrafe di nessun comune italiano. Secondo i calcoli del Ventiduesimo Rapporto sulle Migrazioni 2016 di Fondazione ISMU, si tratta di 410 mila persone (dato riferito al 1 gennaio 2016).

Gli stranieri provenienti dall’Unione Europea e quelli non comunitari, presenti regolarmente in Italia, dunque, ammontano a 5,4 milioni. Si noti che tale dato comprende anche coloro che hanno ottenuto l’asilo (i rifugiati), che sono 147 mila. Ai 5,4 milioni di stranieri legalmente presenti in Italia, si devono aggiungere:

Riassumendo in Italia ci sono 3 milioni 500 mila immigrati regolari provenienti da Paesi extra UE, inclusi i rifugiati, 410 mila regolari non residenti (con permesso di soggiorno, di cui, in realtà, una parte minoritaria è composta presumibilmente da originari dell’Unione Europea), 435 mila irregolari e 200 mila richiedenti asilo, per un totale di 4 milioni e 445 mila persone extra comunitari.

[2] L’unico modo per calcolare il numero dei musulmani presenti in Italia è contare il numero di coloro che provengono da Paesi abitati prevalentemente da islamici. Si tratta, perciò, di un calcolo viziato da un’approssimazione per eccesso, poiché non sono rari coloro che fuggono da regimi islamici o dal terrorismo islamico verso l’Europa, proprio perché sono di un’altra fede religiosa (cristiana per lo più). Ciò premesso, i presunti musulmani sono 2.500.000, di cui il 43% è cittadino italiano (in larghissima parte si tratta di persone che hanno acquisito la cittadinanza italiana secondo la legislazione vigente). Due milioni e mezzo su oltre sessanta milioni. E sono soltanto il 32,6 % dei migranti, essendo il 53% di essi di fede cristiana.

[3] Di questi e altri più violenti, anche con esiti letali, episodi di razzismo si è trattato nel post Giorno maledetto.

altraviolenza

Un’altra violenza sulla vittima

Non vi è soltanto quella derivante dal reato, vi è anche un’ altra violenza sulla vittima. Un’ altra violenza sulla vittima, tanto dannosa quanto sottovalutata e raramente riconosciuta.

L’ altra violenza sulla vittima è una violenza diversa e aggiuntiva

La vittima di una violenza, spesso, è oggetto di un’ altra violenza, cioè di una violenza ulteriore, successiva alla violenza commessa dal reo. Si tratta di comportamenti, per lo più, non sanzionati e, del  resto, difficilmente sanzionabili, dal punto di vista giuridico, che, tuttavia, in termini psicologici, danno luogo, appunto, ad un’altra violenza sulla vittima [1].

Quest’ altra violenza sulla vittima, che può assumere forme diverse, in ambito vittimologico, è indicata come post-crime victimization.

Si usa quell’espressione, soprattutto, rispetto alle situazioni nelle quali istituzioni diverse (amministrazione della giustizia e forze dell’ordine, in primis, ma anche operatori e operatrici sociali e dei media), spesso involontariamente, fanno sentire la vittima oggetto di una colpevolizzazione per quanto le è accaduto [2].

 

Quell’ altra violenza sulla vittima derivante dal mancato, incompleto o tardivo riconoscimento da parte dello Stato

Un’ altra violenza sulla vittima si produce, però, anche quando lo Stato pare non  pienamente riconoscere il carattere ingiusto e illegale del danno che essa ha subito, oppure quando non è in grado di condannare gli autori del delitto [3].

Un esempio recentemente portato all’attenzione della cronaca riguarda una giovane di Novara, disabile, che ha atteso 18 anni perché l’autorità giudiziaria riconoscesse definitivamente che essa, quando andava alle medie, veniva “affittata” dai suoi genitori a loro amici e conoscenti per fare sesso con lei (era stata abusata, peraltro, anche dai nonni).

Racconta La Stampa che è stato punito un solo colpevole: il padre, dato che la madre nel frattempo è morta e che gli altri uomini, cui la giovanissima era ceduta dai genitori, se la sono cavata (perché non identificati alcuni, per prescrizione altri).

Una testimonianza, tanto efficace e completa quanto dolorosa e angosciante, di come la risposta giudiziaria possa tradursi in un’ altra violenza sulla vittima, è costituita anche dalla lettera che Stella ha indirizzato al Presidente della Repubblicain occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, affidandone la lettura alla scrittrice Cristina Obber, all’interno dell’evento #InQuantoDonna (l’apertura della Camera dei Deputati soltanto alle donne che hanno subito la violenza e che con essa hanno avuto a che fare).

Definire la violenza sessuale come una ragazzata significa procurare un’ altra violenza sulla vittima

Stella, allora quindicenne, durante un’assemblea di classe, nel liceo artistico di Besana Brianza, fu attaccata da due compagne e un compagno: dapprima le fecero il solletico, e lei rise, poi le due ragazze la bloccarono sul pavimento e il ragazzo la violentò. Gli altri restarono allibiti ma non intervennero. In aula non c’erano insegnanti.

La sentenza, che arrivò 8 anni dopo, definì, secondo le parole di Stella, quel fatto una ragazzata, punì gli autori della violenza con qualche mese di attività di volontariato e le negò il diritto al risarcimento.

Quella sentenza ha comunicato a Stella che quanto ad essa inflitto

«è stata una ragazzata», perciò, «se riaccade, non è la fine del mondo. (…). Invece, Presidente, quanto ti capita, è la fine di un mondo che non sarà mai più come prima, è il sipario che cala, è il buio».

Scrisse ancora Stella:

«Quella sentenza mi ha fatto sentire in colpa (…) Succede così quando vieni umiliata nel profondo, pensi di non meritarti niente di che».

Leggendo la sua lettera, si direbbe che, per Stella, ciò che conta non è l’entità della pena, cioè che venga inflitta una maggiore sofferenza al ragazzo che la violentò e alle sue complici. Ciò che le preme pare, piuttosto, stare su questo duplice piano:

  • Il riconoscimento inequivocabile, da parte dell’istituzione, del carattere ingiusto e profondamente lesivo del fatto subito. Un fatto disumano, non una ragazzata, in quanto, realizzandolo, i suoi tre compagni l’avevano disumanizzata.
  • Un’azione tesa a far sì che quei tre ragazzi si rendano conto di quanto è grande e duraturo il male che le hanno procurato [4].

«Una voragine, Presidente, di rabbia, impotenza, abbandono. La sensazione di non valere niente. Perché io non cercavo vendetta, io cercavo una giustizia che mi dicesse che non era giusto quello che mi era stato fatto», è scritto in un altro passaggio della lettera.

Il mancato, o un tenue, riconoscimento, da parte dello Stato, del carattere ingiusto di una violenza, come spiegano le parole di Stella, procura un’ altra violenza sulla vittima, la quale sente confermare dall’autorità quel “messaggio” inviatole dall’autore della prima violenza: non meriti alcun rispetto, perciò ti si può stuprare e umiliare. Sei un oggetto, non sei umana.

Anche per il profugo il mancato riconoscimento ufficiale produce un’ altra violenza sulla vittima

Il riconoscimento da parte dello Stato ha una valenza così potente e profonda, perché le decisioni dei suoi tribunali sono pronunciate “in nome del popolo italiano”. Le decisioni delle autorità, le loro parole, quindi, anche sotto questo aspetto, pesano. Sono pietre.

Lo sono anche per coloro che presentano richiesta di protezione internazionale nel nostro e in altri Paesi.

Anche per costoro, le attese per le convocazioni, prima, e per le risposte, poi, da parte delle commissioni territoriali deputate ad accogliere o respingere le loro domande di asilo, sono fonti di stress e di angoscia.

Da quelle decisioni derivano, infatti, non soltanto le più ovvie e fondamentali conseguenze pratiche, legali ed esistenziali, connesse alla concessione o al diniego dell’asilo, ma anche altri implicazioni.

Si tratta di una risposta ad un riconoscimento, chiesto dall’individuo, all’Italia o ad un altro paese europeo, con l’idea che quello stato e, più in generale, l’Europa, rispetti e tuteli quei diritti inviolabili dell’uomo che nel suo paese sono stati violati.

Ad esempio, una donna che è stata stuprata davanti al marito e a uno dei suoi bambini, oppure l’uomo che, dopo aver visto massacrare e violentare moglie e figlie, è stata fucilato e, creduto morto, è stata gettato in una fosse comune dalle milizie jihadiste, attribuiscono un significato speciale alla decisione della commissione territoriale: qualcosa che non attiene solo alla concessione dell’asilo e alla futura possibilità di potersi ricongiungere un giorno con qualche famigliare, nascosto provvidenzialmente da altri parenti o da degli amici.

È l’attesa del riconoscimento ufficiale, da parte del popolo e del governo italiani, che quanto è stato fatto a loro, ai loro cari e agli altri abitanti del quartiere o del villaggio, è una mostruosità inammissibile, è un crimine contro l’intera umanità.

Lo stesso può dirsi per chi fugge dalle bombe, per chi è stato torturato, ingiustamente carcerato, o esposto ad altre forme di violenza.

Si registra costantemente il valore di questa ufficializzazione dello status di vittima, quando si ascoltano queste persone (come accade nei nostri servizi di sostegno psicologico per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale), così come quando si ascoltano le persone vittime di reati diversi, commessi qui in Italia, incluse le donne vittime di violenza e i loro bambini (come accade nei nostri Servizi gratuiti di Ascolto e Sostegno Psicologico per le vittime di reato e le persone ad esse affettivamente legate).

 

Anche il mancato riconoscimento sociale può essere un’ altra violenza sulla vittima

Un’ altra violenza sulla vittima, però, che in quei servizi si riscontra con elevatissima frequenza, può consistere nel suo mancato riconoscimento da parte delle persone ad essa vicine o da parte di una porzione della comunità.

In un precedente post (Autorizzazione della violenza) era stato scritto che senza il riconoscimento da parte della comunità della ingiusta vittimizzazione avvenuta, alla persona colpita da un reato, è come se venisse comunicato che essa non è stata vittima di un atto iniquo, ma di qualcosa di inevitabile, di meritato, di dovuto, di sacrosanto.

Ad esempio, secondo le indagini, quest’ultimo aggettivo (“sacrosanto”) potrebbe applicarsi alla qualifica che pare sia stata data da padre Pio Guidolin al suo stesso comportamento. In particolare, secondo l’inchiesta, non solo costui, ma forse anche una parte della comunità dei fedeli, nel quartiere Villaggio Sant’Agata, di Catania, interpretava la sua pedofilia come “sacrosanta”.

Significativa in tale senso, infatti, è la reazione della comunità dei fedeli nei confronti del ragazzino che rese noti – dopo essersi rifiutato di sottostarvi – i “riti”, cioè gli abusi sessuali, di padre Pio Guidolin su altri ragazzini (tutti minori di 14 anni), affidatigli dalle famiglie: quel ragazzino venne isolato dai devoti del prete [5].

Un altro vissuto doloroso e deprimente – cioè un’ altra violenza sulla vittima – è anche quello dei beneficiari e dei richiedenti la protezione internazionale quando si sentono definiti come «falsi profughi».

Di fronte a tali definizioni sprezzanti sperimentano, nella realtà, qualcosa di simile all’incubo dei deportati nei campi nazisti. Lo illustrò Primo Levi ne I sommersi e i salvati : la devastante angoscia e l’inesprimibile desolazione del sopravvissuto che non viene creduto [6].

Alberto Quattrocolo

 

[1] In particolare, si tratta di un’ altra violenza sulla vittima, perché è diversa dalla prima e perché è ulteriore. Infatti:

  • è un’ altra violenza sulla vittima, nel senso che è diversa dalla prima, poiché è realizzata, in modo diverso e da persone diverse dagli autori di quella violenza che ha vittimizzato inizialmente la persona.
  • è un’ altra violenza sulla vittima, in quanto ulteriore, poiché è successiva alla prima e ne incrementa il danno, nella misura in cui acuisce e approfondisce la sofferenza procurata dalla prima vittimizzazione.

[2] Di questi aspetti si occupavano anche alcuni precedenti post: non solo quello dedicato al Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le Vittime di Reato e le persone ad esse legate, ma anche Colpa della vittima?, presente su questo blog.

[3] Rispetto alle vittime rimaste senza giustizia o con una risposta frammentata in Italia il pensiero corre anche a fatti come quelli di Ustica, alle tante, troppe, stragi della strategia della tensione e ai tanti altri delitti irrisolti in cui sono coinvolti mafie, servizi e poteri deviati.

[4] Ciò rinvia a quel che gli addetti ai lavori definiscono Giustizia Riparativa, che include interventi di mediazione penale, ma non si risolve soltanto in questi.

[5] Uno degli effetti più tragici del mancato riconoscimento sociale della vittima, può essere quello per cui la vittima finisce per credere di non essere vittima di un fatto dannoso ingiusto, ma di qualcosa che, in fondo, è naturale, che si è meritato. Nell’ambito della violenza interna a relazioni affettive è spesso il maltrattante a persuadere la vittima di meritarsi il maltrattamento (psicologico o anche fisico) che le infligge. Per limitarsi ad un recente esempio, si può considerare uno dei pensieri che, secondo quanto riporta il Corriere della Sera del 27 novembre (Merito le botte, è colpa mia) Emily Douet, prima di suicidarsi, scrisse alle sue amiche: «È colpa mia. L’ho fatto arrabbiare troppo. Me lo merito». Essendo convinta che fosse “colpa sua”, credette che non vi fosse una via d’uscita, se non quella di togliersi la vita. Spesso succede che a rinforzare questo pensiero, auto-colpevolizzante, della vittima siano altri (amici, famigliari, colleghi…).

[6] Ne ha parlato la dott.ssa Simona Corrente, psicoterapeuta, coordinatrice di uno dei progetti di sostegno psicologico per rifugiati e richiedenti asilo gestiti da Me.Dia.Re., nell’ambito del convegno Stand by me. A tale riguardo, peraltro, meriterebbe davvero un maggiore approfondimento, soprattutto in sede istituzionale, il modo in cui i richiedenti asilo sono esaminati dalle commissioni territoriali. Infatti, andrebbe seriamente considerata la possibilità che anche in tale sede si proponga nell’interlocuzione con il richiedente asilo, qualcosa di particolarmente rilevante, anche in termini di ri-vittimizzazione.

 

sos crisi

SOS CRISI: per chi e perché?

Da alcuni anni a Torino e in altre città piemontesi l’Associazione Me.Dia.R. gestisce SOS CRISI, un Servizio gratuito rivolto alle persone e alle famiglie il cui disagio personale o relazionale è stato provocato o aggravato da difficoltà economiche o occupazionali.

SOS CRISI come risposta al disagio e allo stress generati dalla Crisi economica

Il progetto SOS CRISI è stato avviato anni fa da Me.Dia.Re., allo scopo di rispondere al forte aumento delle richieste di sostegno psicologico. Richieste, implicite ed esplicite, proposte da persone o da famiglie che, per effetto di difficoltà innescate o acuite dalla crisi economica, come la perdita del lavoro e l’indigenza economica, stavano vivendo situazioni di forte sofferenza personale.

In particolare, emergevano condizioni di stress e dolore tali da compromettere fortemente, fino ad annientarle, talvolta, le capacità di reagire alle avversità. E ciò provocava il progressivo deterioramento delle relazioni familiari e sociali, generando condizioni di emarginazione sociale sempre più gravi e rischiose.

A chi si rivolge SOS CRISI

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Il Servizio gratuito si rivolge alle persone e alle famiglie che soffrono in termini psicologici o relazionali riconducibili a difficoltà determinate dalla Crisi economica e che pertanto si trovano in condizioni di forte esclusione e/o disagio sociale, quali ad esempio: giovani sfiduciati che non studiano e non lavoro (NEET), persone che hanno perso il lavoro, disoccupati di lunga durata, precari, ex imprenditori ed ex artigiani ridotti all’indigenza, giovani professionisti che faticano a entrare o ri-entrare nel mercato del lavoro, ecc.

Cosa offre SOS CRISI: un Servizio gratuito di Ascolto e di Sostegno Psicologico e Psicosociale

Come è noto, negli anni più recenti il tasso di disoccupazione ha subito una fortissima impennata, colpendo in modo particolare le fasce più giovani della popolazione. La difficoltà di accedere al mercato del lavoro, la perdita dell’occupazione o il passaggio a forme occupazionali meno stabili possono

  • causare ansie e sofferenze che rischiano di cronicizzarsi e diventare difficilmente curabili nel lungo periodo
  • accrescere tensioni e difficoltà di comunicazione provocando o aggravando relazioni conflittuali nella famiglia e in altri contesti relazionali
  • determinare o aggravare il rischio di emarginazione ed isolamento, a causa dei suddetti conflitti, se invece di essere fonti di crescita e trasformazione evolutiva, allentano o erodono o spezzano i legami interpersonali, facendo venire meno la fiducia nel loro intrinseco valore contenitivo e nella loro efficacia supportiva.

Ascolto e percorsi di sostegno 

Il Servizio gratuito SOS CRISI è in primo luogo un servizio di ascolto. Chiunque si rivolga al servizio, viene ascoltato individualmente, per offrirgli uno spazio di condivisione e di sfogo, ma anche per valutare quale percorso possa essere il più adatto.

Tra i servizi gratuiti offerti vi sono psicoterapie individualipsicoterapie di coppia e familiaripercorsi di gruppopercorsi di mediazione dei conflitti.

Inoltre, vengono organizzati dei Job Club, cioè la conduzione di gruppi di persone che

  • imparano delle tecniche pratiche per rendere molto più efficace la propria ricerca di lavoro;
  • si scambiano contatti e informazioni su possibili datori e sul mercato del lavoro locale;
  • si supportano e si stimolano a vicenda a rimanere costanti e positivi nella attività di ricerca;
  • non si limitano a cercare un impiego, ma stimolano la creazione di posti di lavoro grazie ad efficaci tecniche di auto-candidatura.

I Job Club sono condotti da trainer certificati dell’Associazione Me.Dia.Re., con la supervisione dell’ideatore del metodo Job Club, Riccardo Maggioli.

Le ragioni del sostegno offerto: le conseguenze psicosociali della crisi economica

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Come è noto, l’impatto della crisi economica sulla condizione emotiva e sugli stili di vita delle persone è importante.

Sul piano psicologico, ad esempio, aumentano i disturbi depressivi, quelli della sfera ansiosa (panico, ansia generalizzata) e quelli somatoformi (cefalee, insonnia, tachicardia, astenia, stanchezza).

L’aumento delle richieste di sostegno psicologico, però, da parte di persone o famiglie colpite dalla Crisi, spesso, non trova adeguata risposta da parte dei servizi pubblici. Questi, infatti, sono per lo più condizionati da costanti tagli alla spesa e da riduzioni del personale.

I servizi di psichiatria delle ASL, pertanto, riescono a mala pena ad accogliere pazienti, tendenzialmente in condizioni cliniche molto gravi, con patologie conclamate, i quali necessitano di un supporto farmacologico.

Sono invece, al di sotto delle richieste, i percorsi di psicoterapia proposti dalle ASL e, per lo più, non sono orientati specificamente alla cura delle situazioni correlate a sofferenze dovute alla crisi economica e/o lavorativa.

Inoltre, viepiù significativo si manifesta il fenomeno dei NEET – “Not (engaged) in Education, Employment or Training”. Si tratta di persone non impegnate nello studio, né nel lavoro e né nella formazione.

Nel 2016 si stimava che i NEET fossero oltre un terzo dei giovani tra i 20 e i 24 anni (Fonte: Istat). Tra il 2005 e il 2015 la loro percentuale era aumentata in Italia in misura superiore rispetto agli altri paesi Ocse: +10 punti percentuali, come riferiva l’ Ocse (I Neet aumentano in Italia. L’80% degli studenti non ha alcun aiuto finanziario) e come rifletteva S. Intravaia (Spesa al lumicino e record di Neet: la scuola italiana secondo l’Ocse”).

Come si è sviluppato il Servizio SOS CRISI

Il progetto SOS CRISI, sorge dalla lunga attività svolta da Me.Dia.Re., fin dai primi anni Duemila, nella gestione di Servizi gratuiti di Ascolto del Cittadino e di Mediazione dei Conflitti.

Infatti, con il sopraggiungere della Crisi economica, nell’utenza di quei servizi crebbero a vista d’occhio le situazioni di sofferenza legate a difficoltà di reddito e di occupazione.

Persone sprofondate di colpo nella disoccupazione, coniugi o genitori di disoccupati, negozianti e altri piccoli imprenditori che non reggevano più.

Tutti o quasi portavano angoscia, frustrazione, paura, senso di fallimento, di colpa, di vergogna e di solitudine. E rabbia. A volte, una rabbia afona, rivolta verso se stessi o proiettata sull’etourage famigliare, altre volte, indirizzata verso l’esterno. Verso la società, verso questa o quella impresa o verso la politica. E, soprattutto, la sensazione di essere completamente in balia degli eventi. Un sentimento di inadeguatezza e di stanchezza. A sua volta fonte di esasperazione.

Di fatto, quel Servizio, per un numero crescenti di utenti, divenne un vero e proprio servizio di sostegno psicologico.

Dal 2009 venne, pertanto, pensato, elaborato, progettato e attivato un sostegno psicologico specificamente dedicato alle “vittime” della Crisi: un supporto rientrante nel più generale Servizio di Ascolto e Mediazione.

Ma dalla fine del 2011, dato l’ulteriore incremento di richieste di sostegno psicologico, fu necessario rendere autonomo dal resto tale supporto alle persone colpite dalla Crisi economica.

Nacque, così, il Servizio SOS CRISI, progettato ed erogato con percorsi ad hoc, per coloro la cui sofferenza era legata alla Crisi economica.

A partire dal 2013 con contributi della Fondazione CRT (per la sua realizzazione a Torino) e della Compagnia di San Paolo (il contributo di questa fondazione era correlato all’implementazione di SOS CRISI su altri territori), dei fondi dell’Otto per Mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdese, della Fondazione SociAL e della Banca d’Italia, fu possibile consolidare i risultati raggiunti, allargare il bacino d’utenza e potenziare l’offerta di servizi.

Tali sostegni economici permisero di costruire un’offerta eclettica, finalizzata a sostenere individui e famiglie nella sofferenza, nel disagio mentale, nelle difficoltà relazionali e nello sviluppare competenze ed empowerment necessari a reagire costruttivamente alle condizioni critiche in cui si trova.

La persistente attualità del Servizio gratuito SOS CRISI

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Secondo quanto emerso dalle ultime rilevazioni, la Crisi economica dovrebbe ormai essere alle nostre spalle.

Diseguaglianze, povertà e rischio povertà

Ad esempio, il Rapporto n.1 – l’Economia del Piemonte della Banca d’Italia evidenziava, infatti, che nel 2016 proseguiva in Piemonte la moderata ripresa dell’attività economica, grazie alla domanda interna e nonostante un indebolimento di quella estera. Il PIL risultava cresciuto dello 0,8 per cento. Già nel 2015, d’altra parte, era tornato ad aumentare, dopo tre anni di recessione, in virtù di una marcata ripresa nell’industria e più contenuta nei servizi. Il miglioramento, inoltre, era proseguito nei primi mesi del 2017 e, pur permanendo un’elevata incertezza, si prevedeva una moderata crescita degli investimenti, grazie anche ad una certa ripresa della domanda estera. Ciò sul piano occupazionale si collegava con una crescita nel 2016

Tuttavia, va considerato che siamo ancora lontani dai livelli occupazionali del 2008, cioè al periodo pre-crisi, e che vi è solo una moderata crescita del reddito disponibile e dei consumi.

L’Istat, peraltro, segnala che alla «significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie» si associa, purtroppo, «un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale».

Per il la stima dell’Istat è che il 30,0% delle persone residenti in Italia fosse a rischio di povertà o esclusione sociale. Ciò segnala un peggioramento rispetto all’anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%.

Aumentano gli individui a rischio di povertà (saliti al 20,6%, dal 19,9%), le famiglie gravemente deprivate (salite al 12,1% da 11,5%) e le persone che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (passate al 12,8%, da 11,7%).

Il rischio di povertà o esclusione sociale interessa soprattutto il Mezzogiorno (46,9%, in lieve crescita dal 46,4% del 2015), ma aumenta anche nel Nord-ovest (dal 18,5% al 21,0% ) e nel Nord-est (dal 15,9% al 17,1% ). Nel Centro continua a interessare il 25,1%.

Vi è, quindi, ancora una notevole quantità di persone per le quali l’uscita dalla Crisi è lungi dall’essere una realtà.

Angoscia e sfiducia

Su un altro registro, anche per coloro che, sul piano materiale, hanno superato in tutto o in parte la fase più buia della Crisi economica, non accusando “danni materiali definitivi”, va annotato che:

  • occorre del tempo per elaborare e superare gli effetti destabilizzanti della Crisi economica sulla condizione psicologica e relazionale di chi ne ha sofferto le ricadute
  • precarietà lavorativa e incertezza sul futuro, senso di vulnerabilità, altre difficoltà di reddito o di impiego persistenti, incidono ancora, e molto, sugli aspetti psicologici e sociali della Crisi
  • si avverte in taluni casi l’angoscia che la Crisi non sia davvero passata, ma sia solo entrata in una fase di latenza, quasi fosse una sorta di sonno ristoratore di questo mostro che prelude ad un risveglio all’insegna della furia più catastrofica
  • molte persone scottate dalla perdita dell’impiego, dalla forte contrazione o dalla chiusura delle loro iniziative private autonome stentano a rimettersi in gioco. Alcuni hanno una rappresentazione di se stessi come di impotenti disvelati. Come se si fosse scoperta e appresa la proprio impotenza, a seguito della destabilizzazione della Crisi, pervenendo ad un profondo senso di sfiducia nella società e in se stessi.

Per queste e altre situazioni i servizi di SOS CRISI sono un possibile sostegno per dare voce a preoccupazioni, paure, dolori e lacerazioni e per ricevere un supporto idoneo a ritrovare la fiducia.

Alberto Quattrocolo

ascolto sostegno vittime reato

Ascolto e sostegno per le vittime di reato

Tra i servizi gratuiti offerti dall’Associazione No profit Me.Dia.Re. da oltre dodici anni ve n’è uno rivolto alle vittime di reato e a coloro che sono ad esse affettivamente legate.

Com’è nato il Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato e per i loro famigliari

Nel 2004, l’Associazione attivò a Torino, con un contribuo economico della Città, un Servizio gratuito di Ascolto del Cittadino e Mediazione dei Conflitti.

Si avvalevano di tale servizio, previo appuntamento telefonico, persone che erano coinvolte in situazioni di conflittualità interpersonale che le facevano stare male.

A gestire tale Servizio, infatti, erano dei professionisti nell’ambito della mediazione dei conflitti e della mediazione familiare. Non pochi casi, in effetti, erano di conflittualità all’interno della famiglia (sopratutto conflitti di coppia, ma non solo), di vicinato e sul luogo di lavoro.

L’approccio di questo Servizio, che caratterizza tutta le attività di mediazione (familiare, penale, sanitaria, in ambito organizzativo-lavorativo, sociale) dell’Associazione, prevede che, sempre, in ogni caso, anche quando si presentano insieme le persone coinvolte in un conflitto, esse vengano ascoltate separatamente.

Si svolgono, perciò, non meno di due colloqui individuali con ciascun protagonista del conflitto.

Dopo pochi mesi dall’apertura, capitò che si rivolgessero al Servizio anche persone che vivevano una situazione e avevano dei vissuti che soltanto sotto un certo aspetto potevano essere ricondotti alla conflittualità interpersonale.

Si trattava di persone che avevano subito dei reati o che erano affettivamente legate alla vittima di un reato.

Naturalmente, non essendo sempre esplicitato il motivo della richiesta al Servizio in sede di contatto telefonico per fissare il primo appuntamento, in alcuni casi soltanto nell’ambito del primo colloquio si veniva a sapere che l’esperienza dolorosa portata dalla persona non era quella di un conflitto di vicinato o familiare, ad esempio, ma quella dell’essere stata vittima di un crimine.

Poiché nel team vi erano persone dotate anche psicoterapeuti e criminologi (e, in quest’ultimo caso, con un curriculum apprezzabile anche sul versante vittimologico), non vi era ragione alcuna per non offrire uno spazio di ascolto e di supporto a chi si rivolgeva al Servizio in quanto vittima di un reato, e non perché in conflitto con un collega, un vicino di casa o un famigliare.

Del resto, lo sportello era definito e promosso come Servizio di Ascolto del Cittadino e non solo di Mediazione dei Conflitti.

In verità, un po’ studiando e un po’ con l’esperienza, quindi sulla pelle dei “nostri utenti”- onestamente, ciò va ammesso -, ci “specializzammo” nell’accoglienza e nel supporto delle vittime di reato.

Il passo successivo fu quello di ottenere un contributo economico, partecipando al bando Otto per Mille delle Chiese metodiste e valdese, con un progetto specifico.

Perché offrire Ascolto e Sostegno ad una vittima

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Perché cercammo un supporto economico per svolgere questo servizio, non facendolo pagare, dunque, a chi ne intendeva fruire?

Perché ritenevamo – e la pensiamo ancora così – che dei vissuti della vittima di un reato dovesse farsi carico in primo luogo la comunità.

Questo servizio gratuito, che, con il tempo e a maggior ragione con l’aumento dei casi e con la formalizzazione derivante dalla progettazione e dalla concessione del contributo ad hoc, aveva assunto una fisionomia propria, si basava su un’idea di fondo.

Essenzialmente questa: dare alle persone che avevano subito un reato uno spazio e un tempo, attraverso più colloqui con dei professionisti, per condividere l’esperienza vissuta ed essere supportati rispetto alle conseguenze sul piano emotivo, affettivo, relazionale, esistenziale, famigliare, amicale, sociale, lavorativo…

Alcuni effetti della vittimizzazione

Perché, ci si potrebbe chiedere, le vittime di un reato e le persone ad esse legate dovrebbero avere bisogno di un servizio di questo tipo?

Una risposta realmente esaustiva implicherebbe centinaia di pagine e, in effetti, sarebbe opportuno rinviare a qualche testo di Vittimologia.

Tuttavia, un paio di aspetti si possono brevemente riassumere. L’uno riguarda i vissuti derivanti dalla vittimizzazione, cioè dall’essere stati vittime di un fatto dannoso ingiusto. L’altro riguarda la nozione stessa di vittima ai fini dell’individuazione di coloro cui rivolgere un simile servizio di sostegno.

Rispetto al primo aspetto, occorre considerare che l’esperienza di vittimizzazione può procurare emozioni e sentimenti di notevole intensità e particolarmente ingombranti. Vissuti, cioè, difficili da gestire e capaci di influenzare la vita quotidiana: rabbia e risentimento, ansia e sgomento, paura e insicurezza, vergogna e imbarazzo, senso di colpa e di inadeguatezza.

Inoltre, quanto più è stato violento il danno subito, possono aversi nelle vittime di reato altri vissuti e conseguenze che interessano sia la sfera psicologica che quella fisica: ipervigilanza, angoscia, reviviscenza del trauma, paura di vivere nuovi eventi simili, variazioni del tono dell’umore, ansia, disturbi del sonno, attacchi di panico, senso di impotenza, riduzione dell’autostima, problemi cardiaci, disturbi gastrointestinali, asma, emicranie o cefalee croniche…

Già solo questa dimensione, lascia intuire perché possa avere senso offrire alle persone che hanno subito un crimine la possibilità di alleggerire il loro carico emotivo.

La solitudine delle vittime

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Ma vi è di più.

Una delle conseguenze del reato per le vittime è, generalmente, quella di sapere di poter contare su una diffusa solidarietà da parte degli altri (i cosiddetti consociati, che non sono soltanto i famigliari, gli amici e i conoscenti, ma tutti coloro che fanno parte di una certa comunità, sia essa locale o nazionale), ma di vivere, spesso, anche un’altra, apparentemente contraddittoria sensazione: la solitudine.

Per molteplici ragioni, sulle quali sarebbe eccessivamente lungo soffermarsi esaustivamente, le vittime di un reato non raramente fanno fatica a trovare un’efficace vicinanza emotiva da parte degli altri.

Ciò accade non solo quando si tratta di persone prive di legami o di relazioni significative.

L’auto-isolamento delle vittime

Accade, infatti, anche a chi una vita relazionale piena ed è circondato da persone che gli vogliono bene.

La solitudine della vittima può essere la conseguenza di un suo timore di appesantire con il proprio stato d’animo le persone cui è affezionata. La vittima, ad esempio, consapevole che anche il partner, il genitore, i famigliari e gli amici soffrono per quanto le è capitato, può essere indotta a ritenere di doverli tutelare dal suo dolore e dalla sua angoscia.

Oppure, la solitudine delle vittime può derivare dal pudore, dal riserbo, dal timore di essere avvertiti dagli altri come fastidiosamente ingombranti o, ancora, dall’idea che dar voce alla propria sofferenza significhi acutizzarla e cronicizzarla. E l’una o l’altra ragione inducono qualche volta le vittime a non condividere gli effetti più disturbanti dell’offesa subita con i loro cari, a tacerli e a viverli, perciò, in una condizione di auto-isolamento.

Non, raramente, però la solitudine della vittima è conseguenza delle difficoltà delle persone ad essa vicine di relazionarsi con le sue emozioni (e, in fondo, con le loro emozioni).

L’isolamento (da parte degli altri) delle vittime

Né va taciuto che, in non pochi casi, capita di rilevare che la solitudine della vittima è stata generata non tanto dallo spiazzamento da parte degli altri nel rapportarsi con una sofferenza che non si sa bene come accogliere, come maneggiare, come contenere, ma da un rifiuto della vittimizzazione stessa, da un mancato riconoscimento del suo avverarsi.

In tali casi, non è la vittima ad isolarsi. Essa viene isolata dagli altri.

Ciò accade quando coloro che la circondano ritengono che il suo soffrire per la vittimizzazione subita sia sinonimo di vittimismo. Oppure, quando, e non è raro, pensano che in qualche misura essa si meriti quel che le è successo (esempi particolare di tali dinamiche sono contenute nei post Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima , mentre altre considerazioni sulle logiche ad esse sottese sono contenute nel post Nessuna vittima è più uguale di un’altra, presenti entrambi nel blog Politica e conflitto, sul sito di Me.Dia.Re.).

Ad esempio, nei casi di violenza domestica può accadere che famigliari e gli amici si rifiutino di accogliere i tentativi di condivisione della vittima. E, addirittura, magari in virtù del legame che hanno con l’autore della violenza, in base ad una stravolta lealtà verso di esso, succede che i famigliari o i parenti censurino duramente la ricerca di un ascolto da parte della vittima (per un approfondimento si può leggere il post Colpa della vittima?).

La ri-vittimizzazione

Inoltre, non va dimenticato che per le vittime di reato l’incontro con le agenzie ufficiali preposte alla repressione del crimine può essere un’importante fonte di stress e sofferenza.

Per quanto da molti anni anche in Italia siano svolte molteplici iniziative di sensibilizzazione e di formazione per le forze dell’ordine, la magistratura penale, gli avvocati, gli operatori sanitari, gli assistenti sociali, ecc., affinché adottino un approccio corretto e tutelante anche sul versante emotivo nel rapportarsi con le vittime di reato, per queste l’impatto con l’istituzione può essere ri-vittimizzante.

Cioè, può dar luogo ad una sollecitazione dei vissuti procurati dal reato che, però, non è accompagnata da un’adeguato contenimento, da un empatica attenzione, sicché la persona si ritrova a patire alcuni degli effetti più disturbanti correlati alla vittimizzazione primaria (cioè quella generata direttamente dalla commissione del reato).

Qui, tra questi vissuti, se ne può segnalare uno solo, ma carico di implicazioni: il sentirsi de-umanizzati.

La de-umanizzazione della vittima

La de-umanizzazione, infatti, è uno dei vissuti più scomodi, angoscianti e dolorosi che la commissione del reato può procurare alla vittima (un maggiore approfondimento di questo aspetto si trova nel post Il rispetto per l’umanità di chi è vittima di una violenza non (è mai stato) procrastinabile, anche in tal caso all’interno del blog Politica e conflitto) .

Non si contano le volte in cui le vittime affermano che il reo le ha trattate come oggetti, come esseri privi di sensibilità.

Tale vissuto può essere provato anche successivamente all’esperienza della vittimizzazione procurata dal reo con la sua condotta lesiva. Può capitare che ci si senta de-umanizzati anche nella relazione con il sistema della giustizia.

Di nuovo, non si contano le volte in cui le vittime esplicitano che, ad esempio, nell’ambito del processo, si sono sentite accantonate, poste sullo sfondo, mentre, metaforicamente parlando, dei trattori passavano sulla loro sensibilità.

Il che, forse, è, almeno in parte, inevitabile, visto che lo scopo principale dell’attività giurisdizionale non è tutelare la condizione psicologica della vittima, ma acclarare i fatti e le responsabilità, al fine di comminare un’eventuale sanzione.

Certo, però, a volte viene da pensare che, per la vittima, l’esperienza del procedimento giurisdizionale, in assenza di un sostegno efficace, sia davvero una Via Crucis.

Non va, però, taciuto che la vittimizzazione secondaria possa verificarsi, in contesta extra-giudiziario, cioè in  situazioni in cui la vittima non è riconosciuta come tale, subendo di fatto una negazione non solo del suo status di vittima, ma della dignità della sua persona. Le viene, infatti, negata ogni legittimazione della sua sofferenza.

Un caso particolare, su questo registro, è stato preso in considerazione, nel post Le vittime di Piazza San Carlo, rispetto ai fatti di Piazza San Carlo, a Torino, il 30 giugno 2017.

A chi si rivolge il Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato?

Quali sono, dunque, i destinatari di un servizio di tipo vittimologico?

Senza dubbio, per usare un’espressione legale, le persone offese da reati dolosi.

Tuttavia, accanto a queste persone, vanno considerate anche le vittime di reati colposi. Anche per costoro, infatti, il danno ha ricadute importanti sotto molteplici aspetti e non meno meritevoli di attenzione.

Inoltre, va considerato che accanto alla vittima diretta del fatto illecito vi sono le persone affezionate alla vittima: famigliari, partner, amici…

Rispetto all’omicidio doloso o colposo, la cui vittima diretta è l’essere umano che ha perso la vita, è immediatamente evidente che le persone che amavano l’ucciso hanno anch’esse perso qualcosa. Hanno perso tantissimo, troppo, in verità.

Vi sono, però, infinite situazioni in cui reati (dolosi o colposi) privi di conseguenze letali feriscono profondamente non soltanto le vittime giuridicamente intese, ma anche altri soggetti.

Uno stupro, ad esempio, può devastare anche la madre, il padre, la sorella o il fratello, il partner della persona che ha subito la violenza. Lo stesso può valere per altri reati.

Per fare un solo altro esempio, si può pensare ai genitori, ai fratelli o agli amici più cari della vittima di bullismo.

Infine, è bene precisare che un simile sostegno non può essere riservato soltanto a quelle persone (vittime in senso legale o vittime in senso esteso, cioè sul piano umano) che abbiano denunciato il fatto o che siano state riconosciute come tali da provvedimenti giudiziari.

Se così fosse, infatti, verrebbe meno una delle funzioni più importante per il singolo e per la collettività di un simile supporto.

L’Ascolto e il Sostegno vanno offerti anche a chi non ha denunciato il fatto.

Per chiarire quest’ultimo aspetto occorre pensare a come, in mancanza di adeguato supporto, sia frequente che soprattutto certe condotte criminose restino ignote all’autorità giudiziaria.

Anche qui per fare solo un (vasto) esempio, si può considerare l’importanza di un simile sostegno ai fini della denuncia (e oltre) per fatti iscrivibili nel filone della violenza di genere.

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La connessione tra il Servizio per le vittime di reato e gli altri Servizi e Progetti di Me.Dia.Re.

Un’ultima considerazione riguarda il fatto che l’esperienza maturata in tale ambito operativo e le riflessioni sorte proprio nella conduzione di percorsi gratuiti di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato (nel senso esteso sopra accennato), sono state di particolare rilevanza anche al di là di tale contesto.

Così, quanto appreso e pensato nell’ambito del Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno delle vittime di reato è stato di particolare importanza per:

D’altra parte, l’esperienza pratica (clinica, per così dire) e umana, accumulata e in corso di sviluppo tutt’ora, nel Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato, quasi inevitabilmente, confluisce in parte in alcune pubblicazioni (tra cui, soprattutto, Giusio M., Quattrocolo A.,  Elementi di vittimologia e di Victim Support, 2013), nonché in diverse iniziative formative di Me.Dia.Re.:

 

Alberto Quattrocolo

colpa della vittima

Colpa della vittima?

 Per il reo è tutta colpa della vittima

Perché si dovrebbe sostenere che è per colpa della vittima se essa ha subito della violenza? In realtà, non si dovrebbe, punto e basta.

Su alcuni media e, soprattutto, sui social, però, con notevole frequenza si manifesta qualcosa di tanto antico quanto scorretto, anzi ingiusto: la tendenza a cercare in qualche presunta colpa della vittima le ragioni della violenza che le è stata inflitta.

Dire che è per colpa della vittima se ha subito una violenza è un atteggiamento frequente del reo

Dire che la colpa è tutta della vittima, in effetti, è esattamente ciò che fa il reo. È uno dei meccanismi di auto-assoluzione[1].

La funzione psichica dei meccanismi di auto-assoluzione è consentire all’autore di un reato di neutralizzare, dentro di sé, la portata dell’azione che sta per compiere (così da riuscire a realizzarla, senza avere, esitazioni che potrebbero trasformarsi in rinunce ad agire dannosamente contro altri), o che ha già compiuto (così da poter dormire, poi, sonni tranquilli).

Tra tali meccanismi auto-giustificativi, quello della colpevolizzazione della vittima è tutt’altro che secondario. Il reo, ancora prima che agli altri, dice a se stesso:

«La vittima non è una vittima, perché, quel che le è successo se l’è meritato».

Occhio! Il reo non dice che la vittima si è meritata quel che lui le è fatto, ma quello che le è successo. Come se la violenza inflitta fosse stata predisposta da una volontà superiore, da un fato, dalle circostanze, cioè da forze esterne al reo. Il quale, dunque, rappresenta se stesso come mero esecutore di un’azione, violenta, che alla vittima era, in qualche modo, dovuta: ad esempio, perché “se l’è cercata”, oppure perché lo “ha provocato”.

Sostenere che è tutta colpa della vittima serve ad auto-assolversi così da poter portare a compimento la violenza e non avere rimorsi poi

Non sono poche, anche leggendo la cronaca, le situazioni in cui l’aggressione sembra essere vissuta da parte dell’aggressore come una reazione ad una qualche colpa della vittima.

Tra i fatti recenti, vi sono due aggressioni che, dall’esterno, risultano essere, in termini razionali, del tutto incomprensibili.

Il primo caso riguarda l’aggressione a due donne anziane a Busto Arstizio (una di 63 e una di 84 anni), accaduta il 17 novembre, per strada, da parte di un ubriaco, un romeno 26enne, con precedenti per rissa e furto. Costui le ha prese a pugni, mandandone una in coma, a causa dell’urto della testa contro il marciapiede a seguito del suo spintone. Per qualche sconosciuta ragione, quell’uomo ha aggredito, così violentemente, proprio quelle due signore e non altri passanti. Per l’espressione del viso o per un fremito nelle spalle di una di loro? Naturalmente, è difficilissimo, se non impossibile, sapere cos’ha “provocato” quell’attacco, cos’ha visto in tali donne quel ventiseienne ubriaco.

L’altro fatto è quello che vede due ragazzi e una ragazza italiani accusati di avere aggredito, la sera del 17 novembre, un 19enne di Lanzo, che, tornava a casa dopo le lezioni sul treno Torino-Ceres.

Si può ipotizzare che, per questi tre giovani, in quel momento, non fossero immotivati i pugni e i calci in testa somministrati allo studente, dopo averlo schernito e insultato.

In virtù di qualche tipo di “ragionamento”, si sono legittimati a malmenare, in tre, all’interno di un vagone deserto, quello studente [2]. Quale ragionamento? Occorrerebbe chiederglielo per saperlo.

Il punto è che, mentre lo picchiavano, non si sentivano in colpa. Non pensavano:

«Sto facendo una cosa orribile: sto picchiando qualcuno! Di più, sto picchiando, spaventando e umiliando uno che non mi ha fatto nulla!».

L’impressione comune ad entrambi gli episodi, così come a tantissimi altri casi di violenza, è che gli aggressori avessero nella loro mente completamente oscurato l’umanità delle persone aggredite.

In fondo, da un certo punto di vista, la colpevolizzazione della vittima, permette di de-umanizzarla e così di attaccarla senza scrupoli e senza esitazioni.

Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni.

Commentando diverse brutte azioni, un personaggio di La regola del gioco (1939, di Jean Renoir) osserva:

«Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni» [3].

I due uomini che hanno sferrato pugni, allo stomaco e in faccia, e preso a calci il regista Sebastiano Riso, il 2 ottobre, a Roma, nell’androne di casa, dove lo stavano aspettando, coprendolo di insulti omofobi, ritengono, probabilmente, di avere fatto una cosa buona e giusta.

Può darsi, cioè, che ritenessero l’ agguato un’azione dovuta, poiché, per loro, la colpa della vittima, Sebastiano Riso, era tale da autorizzare l’aggressione. Il regista, secondo loro, infatti, era colpevole di avere girato Una famiglia, che racconta della vendita clandestina di bambini partoriti da una donna (interpretata da Micaela Ramazzotti) a delle coppie etero e ad una coppia gay.

Ciò, almeno, è quanto si può dedurre dall’intervista che Riso ha concesso a La Repubblica del 4 ottobre.

È importante, dunque, comprendere le ragioni degli autori degli atti violenti, non per farle proprie (ci mancherebbe altro!), ma per altri scopi.

  • Per capire cosa c’è dietro la loro violenza esplicita e cosa li ha sorretti nell’attuarla e nel conviverci poi: ciò che Bandura chiamò anche meccanismi di disimpegno morale. [4]  
  • Per avere qualche informazione su cosa arriva alla vittima di questo loro atteggiamento mentale: ad esempio, può trattarsi di un vissuto di de-umanizzazione  [5]. 
  • Per valutare se c’è un rapporto tra la loro condotta violenta e come la società reagisce ad essa: rientra in questa dimensione il tema della legittimazione culturale della violenza  [6].

Perché le molestie sessuali nella nostra società sono così tante, così… troppe? Perché le vittime temono, con ragione, di essere incolpate per le molestie subite

Dirsi che è colpa della vittima è anche l’atteggiamento di chi violenta, molesta o abusa sessualmente di un’altra persona. In tal modo, l’offender può agire indisturbato. Non disturbato, cioè, da dubbi, incubi e rimorsi.

Ma questo atteggiamento non è proprio soltanto di colui che commette violenze. Sulla rubrica Sette e mezzo, del settimanale 7 del Corriere della Sera, Lilli Gruber, alcune settimane fa, aveva ricordato come il fenomeno delle molestie sessuali fosse oggetto di costante minimizzazione.

«Molestie che sono diventate “normali” per strada, nei luoghi pubblici e di lavoro, tra le pareti domestiche, sui social network».

Aveva poi aggiunto:

«Recenti studi dimostrano che in Italia, in Europa e negli Stati Uniti metà dell’universo femminile ha avuto a che fare almeno una volta nella vita con avances minacciose e sgradevoli».

Naturalmente, Lilli Gruber aveva anche precisato che tali dati includono soltanto i casi denunciati e riconosciuti, mentre restano ignote le vere dimensioni del fenomeno, visto che vergogna e paura rendono difficile alle vittime accusare gli aggressori.

Non casualmente la Gruber impiega il termine “vittima” e fa esplicito riferimento alla vergogna e alla paura. Emozioni, molto ingombranti e inibenti, che impediscono alla vittima di parlare, di condividere e di denunciare.

La colpa della vittima consisterebbe nell’essersela “cercata”

Lavorando in un’associazione che si occupa anche di violenza sulle donne (e sui loro bambini) e che offre un più generale Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno psicologico per le vittime di reato e le persone ad esse affettivamente legate, si riscontra, con drammatica frequenza, uno dei più importanti ostacoli, non solo per la denuncia, ma ancor prima per la condivisione della vittimizzazione subita: nel mondo che circonda la vittima della violenza, anche da vicino (parenti, amici, colleghi), troppo spesso, si tende a giudicarla, ad attribuirle la responsabilità per quanto subisce, invece di ascoltarla a-valutativamente, così da sostenerla e aiutarla a tutelarsi.

La persona oggetto di violenza si sente chiedere:

«Ma tu cos’hai fatto per provocarlo?»

Tale quesito, implicitamente colpevolizzante, così ricorrente nei casi di molestie sessuali, si propone anche in altre situazioni di violenza.

È un quesito, quello, che, dichiarando implicitamente la colpa della vittima, la costringe ad ammutolire o a tentare una disperata difesa argomentativa. Disperata, perché il suo interlocutore, tante volte, non è, in realtà, interessato ad ascoltarla davvero.

Quelli che ragionano come il molestatore, lo stupratore…

Così, la vittima, non riconosciuta come tale, si ritira in se stessa. Si chiude. Subisce, se non riesce a sottrarsi, continuando a soffrire in silenzio, perché ha verificato che la sua voce resterà inascoltata. E, talora, può arrivare a credere che sia normale, dolorosamente normale, che il mondo giri così. A volte, giunge a pensare che, forse, gli altri hanno ragione, quando le dicono che lei esagera, quando minimizzano la sua sofferenza, quando edulcorano la condotta del reo o quando, addirittura, lo giustificano.

In tal modo, l’autore del crimine sa di potere contare su una certa complicità morale. Una complicità, presumibilmente, nella gran parte dei casi, involontaria e inconsapevole, che, però, gli assicura una possibile garanzia di impunità, proprio nella misura in cui vi è chi, sostenendo la teoria della colpa della vittima, si schiera, di fatto, dalla parte del reo.

Quest’estate aveva sollevato molta indignazione un post pubblicato su Faebook da un mediatore culturale di Crotone, di origini pachistane, che, commentando gli stupri commessi a Rimini, affermava:

«Lo stupro? Peggio solo all’inizio, una volta si entra il pisello poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale».

Per questa agghiacciante riproposizione del raccapricciante detto latino, ispirato ad un verso dell’Ars amatoria di Ovidio (Liber I, l. 673-674), “vis grata puellae” (la violenza è gradita alla fanciulla), quest’uomo è stato denunciato ed è indagato per istigazione alla violenza.

Quelli che dicono alla vittima (donna): «Ma dai che ti è piaciuto!»

Uno dei meccanismi di auto-giustificazione del reo consiste nel pensare che la sua azione non procura alcun reale danno, sicché, secondo lui, la vittima non avrebbe nulla di cui lamentarsi.

Questo atteggiamento mentale, questo tipo di narrazione, però, come si è visto, non è proprio solo dell’autore del crimine.

Nel 1979, il 26 aprile, venne trasmesso sulla Rai il documentario Processo per stupro, recentemente richiamato in molti articoli di giornale, sul processo a carico degli autori di uno stupro di gruppo, avvenuto a Nettuno. Erano accusati di avere violentato, per 4 giorni, una 18enne, Fiorella, una lavoratrice in nero, attratta nella loro trappola da una proposta di colloquio di lavoro.

Sì, il processo era a carico dei quattro imputati (tutti, grosso modo sulla quarantina), ma in aula i ruoli furono ribaltati: sotto accusa finì la vittima. Un difensore, per sostenere il carattere consensuale dei rapporti sessuali, affermò, tra le altre cose, che la fellatio, cui Fiorella era stata costretta, era incompatibile con la violenza: secondo l’avvocato, da parte di lei sarebbe bastato «un morsetto» per interromperla. E per interrompere la propria vita, aggiungerebbe chiunque altro, purché dotato di normale senso della realtà [7].

Erano, quelli, altri tempi? Ora non accadrebbe più una cosa simile in un’aula di tribunale o altrove?

Ad entrambe le questioni temo che la risposta sia: “no”. O, almeno, “non proprio”.

Si pensi a quanto riferito da La Repubblica, in ordine all’incidente probatorio teso a valutare le accuse a carico dei due carabinieri indagati per violenza sessuale ai danni di due studentesse americane. Si riferisce nell’articolo che il giudice avrebbe respinto alcune delle domande dei difensori degli indagati, per i toni accusatori e insinuanti dei quesiti da essi posti alle ragazze. Respingendo una di tali domande, avrebbe affermato:

«Questa non la ammetto, non intendo tornare indietro di 50 anni».

 Quelli che…: «Quale molestia? E comunque è tutta colpa della vittima».

Su Facebook ho letto un post scritto da una donna. Una donna italiana:

«Ma è mai possibile che tutto di un colpo sono state tutte molestate, ecc… Ma dai per favore! Come se nessuno sapesse come sia il Mondo dello Spettacolo, Teatro, Cinema, Musica. Prima la date e poi la rivolete indietro»

Occorre fare attenzione all’inversione contenuta nel testo del post citato: “darla via”. Non si fa cenno, nel post di questa donna italiana, all’essere sottoposte al ricatto di “darla” se si vuole lavorare, se si vuole ottenere un contratto, ecc. No, la signora in questione dice che la si dà via.

Come se quello della vittima di una molestia fosse, in realtà, un tentativo di corruzione.

Da vittime a colpevoli. Anzi, le donne che denunciano di essere state molestate, non soltanto, sarebbero colpevoli, perché, non avrebbero subito alcuna reale molestia, essendo consenzienti, secondo quanto scritto da costei, ma sarebbero anche colpevoli d’ipocrisia [8].

Cosa c’è dietro l’attribuzione della colpa alla vittima?

Perché, non solo l’autore del reato, ma anche altri, al pari di quello, pensano che quel che le è accaduto sia conseguenza di una qualche colpa della vittima ?

Perché si incolpano Asia Argento e tutte coloro che hanno affermato di avere subito le violenze del produttore hollywoodiano?

Perché, molto spesso, vi è così tanta rabbia, veicolata attraverso una vera e propria violenza verbale, nel dare la colpa alla vittima?

Vi è chi afferma che è colpa della vittima, credendo di esprimere un pensiero controcorrente o per difendersi dall’angoscia

A volte si direbbe che, più che il sottile piacere derivante dal dire qualcosa di provocatorio, vi sia una sorta di furia iconoclasta. Una rabbia che sembra indurre ad aggredire tutto ciò che ha le sembianze del politicamente corretto.

Allora, per differenziarsi, per ergersi al di sopra di quella che si crede essere la massa priva di pensiero critico, si rivolgono attacchi verbali violentissimi alla vittima di una violenza, ri-vittimizzandola.

Si scrive sui social, ad esempio, che è colpa della vittima se è stata molestata, stuprata, truffata, ricattata, sequestrata, ecc. E lo si fa con leggerezza, senza indugi e senza rimorsi. Nella più completa indifferenza per il dolore che quella arrogante colpevolizzazione può procurarle.

Non va dimenticato, d’altra parte, che può avere una valenza ansiolitica il sostenere che la violenza si sia verificata per colpa della vittima. Addossarle l’errore di essere stata imprudente, rinfacciarle un’eccessiva fiducia in se stessa o negli altri, definirla troppo ingenua, imprudente, avventata o spericolata, può servire a tranquillizzarsi.

Se ci convinciamo che è colpa della vittima, esorcizziamo il timore del “poterebbe capitare anche a me”. Scacciamo questa angosciante prospettiva, dicendoci che noi mai ci metteremmo in una situazione così pericolosa.

Chi dà la colpa alla (donna) vittima (di violenza) perché, essendo troppo libera, avrebbe provocato l’aggressione.

Nella sua arringa, l’avvocato Giorgio Zeppieri, nel ’78, a mo’ di difesa dei 4 imputati di sequestro e stupro ai danni della diciottenne Fiorella, affermava:

«Se questa ragazza fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».

Dunque, secondo questo avvocato, la giovane stuprata per 4 giorni era colpevole di essere stata troppo “libera” di muoversi. Ed erano colpevoli i suoi famigliari di averla lasciata libera di circolare.

Si direbbe che 39 anni siano passati invano, pensando a quanto scritto sulla sua pagina Facebook da don Lorenzo Guidotti, come racconta il Fatto quotidiano.

«Non posso provare pietà per chi vive da barbara con i barbari e poi si lamenta perché scopre di non essere oggetto di modi civili. Chi sceglie la cultura dello sballo lasci che si “divertano” anche gli altri».

È difficile non pensare al film Sotto accusa (1988. Di Jonathan Kaplan), che valse il Golden Globe e il premio Oscar a Jodie Foster, nella parte della protagonista.

La sceneggiatura era ispirata allo stupro compiuto in un bar di New Bedford, Massachusetts, nel 1983, di cui era stata vittima una giovane, Cheryl Arauj.

Il film, durissimo, non casualmente s’intitolava Sotto accusa (Accused, in originale), poiché ad essere posta sotto accusa era proprio la vittima, interpretata dalla Foster: una ragazza dalla “pessima reputazione”, violentata nel locale dopo essersi ubriacata, mentre gli avventori incitavano i tre stupratori.

La colpa della vittima consiste, secondo don Lorenzo Guidotti, più di trent’anni dopo, nell’essersela cercata.

Se un maschio si ubriaca e viene violentato, verrebbe da chiedere a questo parroco, sarebbe altrettanto privato del diritto di lamentarsi e dovrebbe accettare che altri si divertano con il suo corpo?

Quando la colpa della vittima consiste nell’aver dato confidenza al “nemico”

Tuttavia, nelle parole di questo parroco, oltre ad un filo di maschilismo, pare esservi dell’altro. Nel suo post, infatti, egli ravvisa una supplementare colpa della vittima di genere femminile: l’essersi mescolata ai barbari. E, secondo il suo ragionamento, i barbari agiscono come tali.

È naturale, anzi fatale, che si comportino così, poiché sono barbari, sostiene don Lorenzo Guidotti. Perciò, in un certo senso, il vero colpevole non sarebbe il ragazzo di origine magrebina cui la giovane, ubriaca, fidandosi, aveva chiesto aiuto, ma lei stessaIl giovane magrebino – supponendo che egli abbia realmente commesso il reato di cui è stato accusato -, secondo il parroco, avrebbe solo tradotto in azione le inclinazioni della sua natura.

Che capolavoro di ribaltamento! Il colpevole non è chi approfitta della fiducia e dell’estrema vulnerabilità, di matrice alcolica, di una giovane, ma la giovane stessa. Di nuovo, è per colpa della vittima (donna) se qualcuno (uomo) l’ha violentata.

A volte, quindi, anche l’ostilità verso il gruppo cui appartiene il reo porta alcuni a colpevolizzare la vittima con parole particolarmente violente [9].

Infatti, per don Lorenzo Guidotti, la colpa della vittima non è solo di essersi fidata di un magrebino, avendo già bevuto troppi alcolici, ma, ancora prima, di aver bevuto

«tutta la tiritera ideologica sull’accogliamoli tutti».

Quando l’ostilità verso il gruppo cui appartiene l’aggressore porta a strumentalizzare la vittimizzazione

Il vicesindaco leghista, Isabella Tovaglieri, ha commentato l’aggressione alle due donne di Busto Arstizio, cui si è fatto cenno nella prima parte di questo post, con queste parole: 

«Il vero problema di fondo è che si tratta di culture inconciliabili con cui non c’è dialogo. La cultura dell’integrazione è fallita bisogna prenderne atto e riflettere sul fatto che a commettere un reato così grave sia stato uno straniero presente illegalmente sul territorio, non è mai successo che un bustocco abbia compiuto un fatto del genere».

Anche qui, come nel caso del post di don Lorenzo Guidotti, pare esservi la strumentalizzazione di un reato violento. Anzi, violentissimogratuito, come si suole dire quando non ne sono comprensibili le motivazioni.

L’impressione che (anche da parte di altri esponenti della forza politica cui appartiene la vicesindaco di Busto Arstizio) si strumentalizzino queste tragedie è, anche, procurata dal fatto che simili reazioni (e altre ancora più forti: si veda in nota) non si registrano per le aggressioni gratuite commesse da italiani, incluse quelle cui si è fatto cenno in tale post [10].

Non vi è una questione culturale anche in quelle violenze? Sono integrati i loro autori italiani?

Quando la strumentalizzazione della vittima consiste nel sostenere che, ancor prima di essere vittima di un reato, è stata vittima dell’accoglienza

La cultura dell’integrazione è fallita anche nel caso dell’incubo decennale, fatto vivere da un catanzarese, cinquantaduenne, all’ex badante della sua precedente compagna, una romena di 29 anni e ai figli di 9 e 3 anni?

La donna romena è stata segregata, violentata, maltrattata e schiavizzata per 10 anni da quell’italiano (con precedenti penali per reati sessuali). Quando l’hanno trovata, viveva con i due bambini, nati dagli stupri commessi su di lei da questo suo padrone-carceriere, in una baracca fatiscente, invasa da topi, con fogli di cartone al posto dei letti e sacchi della spazzatura al posto del wc.

Era stata stuprata, da quell’uomo, ripetutamente per 10 anni. Veniva spesso ferita, anche durante le gravidanze. A volte, lui l’aveva suturata con del filo da pesca.

Se l’era cercata anche lei? Era colpevole anche lei di aver frequentato i barbari? Perché di questo episodio quasi non si parla? Forse perché ribalta alcuni stereotipi? [11]

Si tratta anche in tal caso di una violenza riconducibile ad un problema di culture inconciliabili?

Parrebbe di no, visto che non vi sono tracce di commenti sulla stampa e sui social aventi un tono paragonabile a quelli sui delitti commessi da stranieri.

Perché, allora, interpretare come un problema di inconciliabilità culturale l’aggressione ai danni di quelle due anziane signore a Busto Arstizio, peraltro da parte di un uomo con precedenti per reati violenti?

Per ragioni politiche, forse? Credo sia lecito supporlo.

Sulle ragioni politiche, in sé, a dire il vero, non vi sarebbe nulla da eccepire. E, magari, i commenti sopra citati (e quelli riportati nella nota 10) sono vissuti da chi li ha pronunciati come se fossero ispirati da un’ alta e nobile visione politica.

Ma, anche in tal caso, resta il fatto che quei commenti tolgono ai protagonisti della vicenda (le vittime e l’autore del reato) ogni spessore umano, rendendole simboliche, astratte. Le parole di Isabella Tovaglieri, come quelle di don Lorenzo Guidotti, magari inavvertitamente, rendono, di fatto, le persone e le loro dolorose vicende degli argomenti da usare nella lotta politica.

C’è chi dice: «Non usare il mio dolore per crearne dell’altro»

Il 15 ottobre, a Torino, Maurizio Gugliotta, di 52 anni, è stato accoltellato da un ambulante nigeriano, al mercato del “libero scambio” di via Carcano. La coltellata alla gola è stata inferta da un ventisettenne nigeriano, con il quale, secondo alcune ricostruzioni, discuteva per avere spazio sufficiente per sistemare la sua roba.

Matteo Salvini aveva commentato:

«Altro sangue sulle coscienze sporche di quelli che hanno spalancato i confini italiani».

Ma qualcuno non ci sta. Qualcuno vuole mettere un altolà alle strumentalizzazioni del dolore.

Si tratta dei famigliari di Maurizio Gugliotta, che hanno fatto un appello «a non usare il loro dolore per prediche razziste», secondo quanto riportato da La Repubblica.

Hanno esplicitamente chiesto che l’omicidio di Maurizio «non diventi la bandiera di qualcuno per andare sui giornali a predicare odio e razzismo».

Queste persone hanno sentito necessario dire ciò che dovrebbe essere ovvio per tutti. Cioè, che le responsabilità, come hanno affermato i famigliari della vittima, «sono sempre individuali e mai collettive».

Perché? Per quale ragione questa famiglia ritiene di dover tentare di prevenire la criminalizzazione di altri popoli, o di altre culture, per i reati commessi da singoli individui?

Perché vuole che il suo «dolore non diventi strumento per crearne altro».

Si tratta di una preoccupazione comprensibile per chiunque sia attento a ciò che si muove nella nostra società, inclusa una preoccupante violenza razzista. Una violenza, questa, che, per autolegittimarsi e per riscuotere consensi, cerca di strumentalizzare tragiche vicende come quelle vissute da Maurizio Gugliotta e dalla sua famiglia.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Su questo blog, si è fatto riferimento ad essi anche in Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima. Inoltre, sia pure da un’angolazione diversa, i meccanismi di auto-giustificazione sono stati considerati rispetto alla legittimazione culturale della violenza razzista (Autorizzazione della violenza) e alla sua concreta realizzazione in danno degli immigrati, di coloro che li aiutano e di chi indaga su alcune organizzazioni che li demonizzano (Giorno maledetto).

[2] Per restare in ambito torinese e a fatti recenti, il 16 novembre, in Piazza della Repubblica, a Porta Palazzo, una donna è stata aggredita nella sua auto da un’altra donna, una trentaseienne, italiana, che l’ha picchiata per derubarla (è stata salvata dall’intervento di una giovane ciclista, che poi ha fornito informazioni tali da consentire l’arresto dell’autrice dell’aggressione). È ipotizzabile che per l’autrice di tale crimine, la sua violenza, mentre la realizzava, le sembrasse “giusta”. La vittima, probabilmente, dal suo punto di vista, “per qualche ragione”, meritava quel trattamento. Era per colpa della vittima, secondo l’autrice dell’aggressione, se lei la stava picchiando per derubarla?

[3] Per fare un altro esempio, è possibile che quei carabinieri della Lunigiana accusati di abusi, violenze varie (anche sessuali) e vessazioni ai danni di cittadini stranieri, commessi «senza ragione alcuna se non razziale», abbiano ragionato in termini auto-assolutori nel compiere quelle azioni. Si dicevano, forse, che le persone da essi abusate e maltrattate, si meritavano quanto loro inflitto. I reati contestati a questi uomini dell’Arma sono: falso in atti, abuso d’ufficio, sequestro di persona, rifiuto di denuncia, possesso illegale di armi (coltelli sequestrati nelle perquisizioni domiciliari); di schiaffi ad un marocchino per obbligarlo ad aprire un appartamento privato chiuso a chiave; di una contravvenzione elevata ad una donna straniera, per aver guidato senza cintura di sicurezza, mentre la cintura l’aveva allacciata; minacce come «Se parli ti stacco la testa», «Ti spezzo le gambe»; manganellate sulle mani appoggiate alle portiere delle auto durante i controlli; lesioni personali e contusioni multiple ai danni di un immigrato, cui avrebbero sbattuto la testa contro il citofono della caserma; scariche elettriche, mediante l’uso di due storditori, per obbligare un presunto spacciatore straniero a rivelare dove erano tenute le sostanze stupefacenti; sevizie, anche sessuali, ai danni di un giovane marocchino.

[4]  I meccanismi di disimpegno morale sono citati anche nel post Giorno maledetto.

[5]. Rispetto al vissuto di de-umanizzazione sperimentato dalla vittima rimando al post Ascolto e sostegno per le vittime di reato – che si riferisce al Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le Vittime di Reato, gestito dall’Associazione Me.Dia.Re. – ai post Violenza razzista e Razzismo e terrorismo.

[6]. Con particolare riguardo alla legittimazione culturale della violenza razzista, rinvio al post Autorizzazione della violenza, mentre rispetto alla legittimazione culturale della violenza quale conseguenza del conflitto politico rimando alla Criminalizzazione dell’avversario politico.

[7] L’avvocato della vittima, Titta Mazzucca, replicò: «Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia. […] Ho letto sul giornale di un’ulteriore violenza fatta ad una ragazza di 17 anni, che non dirà bugie perché è sordomuta, e che è stata molto, molto malmenata perché forse ha fatto quella resistenza che qui si nega. Io mi chiedo, quale sarebbe stata la reazione? Sono quattro uomini. Certo, uno può dare un morsico, può rischiare la vita, e l’avrebbe rischiata. Ed ognuna delle donne ricorda quello che è successo a chi ha cercato di ribellarsi, a chi cerca di ribellarsi alla violenza. Ed ecco che violenza vi è anche se non vi sono reazioni di questo tipo, perché non ci si può aspettare che tutte siano delle Sante Goretti».

[8] A proposito di inversione di ruoli, rispondendo alla lettera di un lettore sulla sua rubrica Sette e mezzo, del settimanale 7 del Corriere della Sera, rispetto al caso Weinstein, Lilli Gruber osserva: «continuiamo a spostare l’attenzione. Vorrei ricordare a tutti di cosa stiamo parlando: un uomo molto potente ha imposto le sue voglie e le sue fantasie sessuali a donne che non intendevano compiacerlo. Le giovani che hanno finito per soccombere possono averlo fatto per mille motivi: per paura, per un tornaconto personale, per soldi, magari erano ubriache e troppo stanche per resistere. Volevano una parte in un film di Hollywood e la mamma ha spiegato loro che il mondo gira così: apri le gambe e pensa ad altro. Ma ripeto: non è questo il punto. Il punto è che un uomo ha violato la privacy del corpo di una donna senza che lei fosse consenziente, precondizione minima per un incontro tra due esseri umani. E quando manca l’assenso si parla di aggressione sessuale, punita per legge in tutti i Paesi civili. Non vorrei che la libertà di abuso e prevaricazione diventasse la “nuova normalità” in un mondo dominato da maschi squilibrati alla Weinstein». La Gruber afferma anche che: «Spesso gli uomini non capiscono neanche cosa significhi una molestia: le battute pesanti, gli ammiccamenti ambigui, i palpeggiamenti, gli sguardi osceni sono gesti violenti, a meno che non facciano parte di un gioco condiviso di seduzione». Il suo ragionamento si fa ancora più esplicito quando asserisce che vi è una «cultura maschilista e prevaricatrice che tollera e giustifica questi atti sessisti e umilianti. Se la legge punisse severamente chi è colpevole o complice, le donne sarebbero certamente più motivate a denunciare». Su tali aspetti si è espresso anche Frans Timmermann, primo vicepresidente della Commissione europea. Dopo aver riconosciuto la sofferenza e la solitudine della vittima e la sua difficoltà di denunciare – ha anche dichiarato di essere stato molestato da ragazzo – , l’ex ministro degli Esteri dei Paesi Bassi ha affermato: «Non ci si può affidare soltanto a una la legge per cambiare modelli culturali, ma è possibile aumentare la consapevolezza su quanto questi modelli culturali producano diseguaglianze che poi danneggiano la nostra società».

[9] Il parroco nel suo post aggiunge: «Tesoro mi dispiace. Ma 1) frequenti piazza Verdi (che è diventato il buco del cu*o di Bologna, e a tal proposito Merola sempre sia lodato!) 2) Ti ubriachi da far schifo! Ma perché? 3) E, dopo la cavolata di ubriacarti, con chi ti allontani? Con un magrebino?!? Notoriamente (soprattutto quelli in Piazza Verdi) veri gentlemen, tutti liberi professionisti, insegnanti, gente di cultura, perbene. Adesso capisci che oltre agli alcolici ti eri già bevuta tutta la tiritera ideologica sull’accogliamoli tutti». Il post di Guidotti si conclude così: «Svegliarti seminuda direi che è il minimo che potesse accaderti».

[10] Su Il Populista si legge che l’assessore leghista alla Sicurezza Max Rogora avrebbe affermato: «È la goccia che fa traboccare il vaso. Non è possibile riempire la nostra città di ‘robe’ così, che nemmeno definisco persone, senza che le forze dell’ordine abbiano i mezzi per intervenire. – spiega al quotidiano varesino – Questa gente deve andarsene fuori dai coglioni: si facciano un esame di coscienza i signori politici che hanno in mano i bottoni e che, come Renzi a Busto ma vale per tanti altri, girano con le scorte».

[11] Come fa notare Karima Moual su La Stampa, nello stesso giorno si discettava su una fake news relativa ad un’immaginaria bimba musulmana che sarebbe stata sposata ad un adulto della stessa religione? Una bufala creata per potere ancora una volta criminalizzare gli stranieri. E immediatamente usata per inveire contro l’immigrazione (Salvini, ad esempio, ha commentato: «cosa mostruosa, non c’è spazio in Italia per questo multiculturalismo»). Il  24 novembre esce un’altra notizia ancora più raccapricciante: un’undicenne nigeriana, che i genitori, entrambi lavoratori, spesso, affidavano ad un connazionale vicino di casa, sarebbe stata ripetutamente abusata e messa in cinta da costui. Si spera che, prima di spargere commenti razzisti, chi è sul punto di farlo conti fino a dieci, pensi per un momento, almeno, a questa bambina e poi si astenga.

giorno maledetto

Giorno maledetto

Un lungo giorno maledetto

Tra il 1 gennaio 2015 e il 31 maggio 2017 vi è stato un lungo giorno maledetto.

Il Quarto Libro bianco sul razzismo, Cronache di ordinario razzismo, a cura di Lunaria, documenta che contro gli immigrati sono state commesse: 1197 violenze verbali, 84 fisiche, 44 danni contro proprietà o cose, 158 episodi di discriminazione. Tra queste 1.483 offese, vi sono stati anche undici omicidi: due nel 2015, quattro nel 2016 e cinque nel 2017.

Ecco quel che è successo ad alcune vittime di violenze fisiche:

  • Muhammad Shazad Kan, 28enne pakistano, padre di un bimbo di 4 mesi che non vedrà mai, è stato pestato a morte, a freddo nel quartiere romano di Tor Pignattara, il 28 settembre del 2014. Ad ucciderlo è stato un ragazzo di 17 anni, il cui padre, Massimiliano Balducci, è stato condannato dalla Corte d’appello per istigazione all’omicidio a 10 anni di carcere.
  • a Roberto Pantic, rom 43enne, è stato ucciso con un colpo di pistola alla nuca, nella sua roulotte mentre dormiva, con la moglie e i dieci figli. L’omicida ha dichiarato di aver sparato per spaventarli e farli sgomberare «perché sporcano».
  • Sare Mamadou è stato ammazzato per aver preso un melone marcio da un campo. Lo hanno freddato, dopo avere discusso con lui e aver gettato via il melone, i proprietari del terreno. Lo hanno inseguito in auto e a piedi e poi hanno sparato con un fucile. Un suo compagno, Adam Kadago, preso al petto da un’altra fucilata, si è salvato.
  • Emmanuel Chidi Namdi, richiedente asilo nigeriano, è stato ucciso a Fermo per strada per avere preso le difese della sua compagna dagli insulti di alcuni razzisti. Profughi entrambi, la loro bambina e i loro genitori erano stati uccisi in un attentato di Boko Haram in una chiesa, erano fuggiti in Europa per trovare quell’umanità che i loro persecutori in Nigeria negavano. Ma hanno trovato la disumanità letale di un razzista.
  • Yusupha Susso, studente gambiano, si è preso un proiettile alla nuca. Yusupha si era difeso da un’aggressione razzista contro di lui e alcuni suoi amici. Ma uno degli aggressori era tornato alla carica con una pistola. Yusupha è sopravvissuto solo perché il colpo non ha leso il cervello.
  • Mohammed Habbassi, 34 anni, tunisino, disoccupato, nella notte tra il 9 e il 10 maggio, è stato mutilato e torturato a morte in provincia di Parma, da un vero e proprio squadrone della morte, nell’appartamento di cui non riusciva a pagare la pigione. Questa era la sua “colpa”. Una colpa non diversa da quella degli italiani sfrattati dalle case delle agenzie di edilizia popolare per morosità: quelli che membri e militanti di alcune organizzazioni politiche decidono di tutelare anche con la violenza.

 

Giorno maledetto. Il film

Nel 1955 uscì nelle sale cinematografiche Giorno maledetto (Bad Day at Black Rock), di John Sturges. Un film di suspense, ma anche di impegno civile, come si diceva un tempo, e segnatamente di denuncia non soltanto del razzismo, magari di pochi, ma soprattutto dell’omertà e dell’indifferenza della maggioranza[1].

La trama di Giorno maledetto era piuttosto semplice. Un uomo senza il braccio sinistro, John J. Macreedy (per questo ruolo Spencer Tracy ottenne all’8° Festival di Cannes il premio per la migliore interpretazione), scende dal treno in una cittadina desertica del Sud Ovest degli Stati Uniti. Accolto con diffidenza ostile, cerca informazioni su Komoko, un nippo-americano, che dovrebbe vivere da quelle parti, in un posto chiamato la Steppaia.

Nell’arco di 24 ore Macreedy arriverà a scoprire che Komoko non è stato internato, a seguito del bombardamento di Pearl Harbour e dell’entrata in guerra degli USA, come gli era stato detto inizialmente da alcuni abitanti di Black Rock.

È stato ucciso, orribilmente bruciato vivo, nella sua casa isolata, da alcuni cittadini di Black Rock, guidati e incitati dall’uomo più influente della cittadina, Reno Smith (interpretato da Robert Ryan). Un razzista violento e manipolatore, che, scartato alla visita di leva, reagì alla frustrazione immolando l’anziano giapponese.

Giorno maledetto e A Ciambra: qualcosa è cambiato ne L’ordine delle cose

Giorno maledetto si inseriva in una serie di altre pellicole hollywoodiane, iniziata già negli anni ’30, intese a denunciare il razzismo e le sue brutalità soprattutto verso afroamericani, latinoamericani ed ebrei[2].

Come altre opere antirazziste dell’epoca, Giorno maledetto toccava delle corde sensibili, ed essendo un prodotto di qualità, adeguatamente promosso e distribuito, incassò molto bene[3].

Non si può dire, invece, che oggi riescano sempre a sfondare al botteghino le opere che trattano temi simili a quelle del film di John Sturges.

L’ultima fatica di Andrea Segre, L’ordine delle cose, ad esempio, dal punto di vista degli incassi e dell’attenzione mediatica è ben lontana dal successo conseguito da Giorno maledetto a suo tempo in Italia. E sarebbe riduttivo pensare che sia solo una questione di distribuzione o di mero richiamo commerciale.

Qualcosa è cambiato.  L’unanimità di consensi che accoglieva allora tali opere, oggi non c’è più.

Guardiamo, ad esempio, alla reazione di Matteo Salvini rispetto al film italiano, A Ciambra. Diretto da Jonas Carpignano e prodotto da Martin Scorsese, la designazione di tale film, per concorrere all’Oscar come miglior film non di lingua inglese, è stata duramente contestata dal segretario della Lega[4]. Il suo disappunto era relativo alle persone e alle situazioni che il film racconta e non allo stile di regia.

Del resto, in quei decenni, in Italia, non vi erano soggetti ed enti politici che stimolavano il razzismo verso gli immigrati (del Sud), rinfacciandogli illegalità, insicurezza, ecc.

 

Giorno maledetto:  «La patria si difende a calci e pugni»

Già, all’epoca, in Italia, sostanzialmente nessuno spettatore si schierava dalla parte di Reno Smith, anzi, il suo personaggio suscitava inquietudine e sgomento[5]. Oggi, invece, i Reno Smith ci sono anche in Italia. E anch’essi, dicendosi patriottici, uccidono coloro sui quali hanno proiettato la loro paranoia, la loro frustrazione, la loro impotenza[6].

In altri post ho definito nazionalrazzisti quei soggetti e quei movimenti politici che identificano la nazione con la razza e stimolano, esprimono e agiscono l’odio verso gli immigrati, in nome della difesa della razza italiana[7].

Sulla sua pagina Facebook, Giuliano Castellino – leader di un movimento denominato “Roma ai romani”, che, con CasaPound e Forza Nuova, svolge una “resistenza etnica” per impedire che siano attribuite abitazioni popolari a persone di origine straniera, – ha scritto il 15 giugno che

«La patria si difende a calci e pugni».

Dalle parole ai fatti e viceversa, in effetti.

Non essendo note le motivazioni, è difficile ipotizzare che tipo di giustificazione davano alla loro coscienza e al mondo esterno quei giovani di Rosarno che, nei pressi della tendopoli di San Ferdinando, hanno commesso decine di gravi episodi di violenza razzista contro i braccianti stranieri, colpendoli con con bastoni di legno, spranghe, catene e coltelli

Hanno fatto ricorso a calci e pugni anche i due 17enni di Acqui Terme, che hanno picchiato un richiedente asilo somalo, l’8 di agosto, e i cinque razzisti, tra i 17 e i 19 anni, che a Roma hanno prima insultato e poi picchiato, il 29 ottobre di quest’anno, un bengalese e un egiziano.

 

Black Rock Italia

Non solo nel West degli anni ’50, ma anche nell’Italia di oggi, il fatto di non essere bianchi può fare diventare vittime di vili, meschine, squallide, forme di violenza.

Come quella ai danni di un minorenne egiziano, in provincia di Napoli, oggetto di più aggressioni fino al tentato omicidio, da parte di un 44enne pregiudicato, oppure come quella accaduta a San Cono (CT), contro quattro minori, anch’essi egiziani, assaliti da 5 italiani, armati di mazze da baseball, che ne ridussero uno in pericolo di vita per trauma cranico. Oppure come la violenza contro il 42enne senegalese, addetto alla sicurezza di una sala di slot machine, preso a calci, pugni e colpi di sgabello da cinque aggressori. Oppure, ancora, come l’aggressione ai danni di un richiedente asilo nigeriano, Emmanuel Nnamani, assalito, davanti ad un supermarket, da un uomo che prima lo offese con insulti razzisti, poi lo accoltellò all’addome, infine cercò di investirlo con l’auto mentre Emmanuel tentava di sfuggire alla sua furia.

Per tacere delle violenze pesantissime di cui sono accusati (189 capi d’imputazione) 37 carabinieri delle caserme della Lunigiana. Le vittime di questi abusi sono tutti extracomunitari. Dagli schiaffi, alle scariche elettriche, dalle manganellate alle minacce e alle multe senza motivo, dalla testa sbattuta contro un citofono alle sevizie sessuali su di un arrestato: tutti questi atti parrebbero essere stati dettati esclusivamente o prevalentemente dal razzismo di chi li ha compiuti.

In realtà, a volere fare un’altra associazione cinematografica, quest’ultima serie di violenze richiama, più che Giorno maledetto, il film L.A. Confidential (1997, di Curtis Hanson) e l’omonimo romanzo di James Ellroy da cui è tratto. Con una differenza, però: in L.A. Confindential l’agente Bud White, il più violento dei picchiatori, non sopportava l’idea della violenza sulle donne, mentre i carabinieri di cui sopra sono accusati di essersela presa anche con donne immigrate.

 

Pestaggi, insulti e minacce anche verso le donne

Neanche le donne, infatti, sfuggono alla furia dei razzisti, che, nella loro violenza, sembrano applicare una sorte di perversa parità di genere.

Ad esempio, non è sfuggita alla violenza razzista Florentina Grigore, 44 anni, di origine romena ma da quindici anni in Italia e residente ad Andora (SV), che nel maggio di quest’anno, alle 5 e mezzo del mattino, assopita sull’autobus che la portava al lavoro (una struttura di assistenza per anziani), è stata improvvisamente presa a calci, schiaffi e pugni da un settantenne italiano.

Perché costui, che minacciava di pisciarle addosso se non scendeva dall’autobus, ce l’aveva tanto con Florentina Grigore? Perché non aveva obliterato il biglietto. E ciò aveva scatenato l’italiano, secondo il quale lei era come tutti stranieri: viaggiano sempre gratis.

Florentina, in effetti, non aveva timbrato il biglietto. Aveva l’abbonamento.

Era in regola, sempre sull’autobus, anche Giulia, la quindicenne, promessa del basket, di nazionalità italiana (nata in Italia, figlia di un’italiana e un senegalese), che, a Torino, è stata presa a calci e insultata da un italiano sulla sessantina. Costui, dopo averle sferrato un calcio ad un ginocchio, cui lei non ha reagito, nel tentativo di ignorarlo, ha continuato ad insultarla: “suggerendole” di tornarsene a casa sua e di smettere di andare a scuola, perché tanto finirà a lavorare sul marciapiede.

Era in regola, oltre che incinta al sesto mese, anche la donna di origini africane che, il 16 agosto, accortasi di un tentativo di borseggio su un autobus, a Rimini, da parte di una 19enne di Ancona e di un 22enne di Caserta, dai due è stata aggredita e insultata. «Negri di me**a. Tornate al vostro paese», ha urlato il ragazzo. E, con un «Ti faccio abortire, negra di me**», ha rincarato la dose la ragazza.

 

Un lungo giorno maledetto per i Macreedy di oggi.

Un’altra donna aggredita per ragioni razziste è un’italiana di 59 anni. A settembre, in provincia di Parma, è stata minacciata e insultata da 50 persone. L’hanno bloccata nella sua auto per un’ora e mezzo.

La sua “colpa”? Aver affittato la casa a una cooperativa che ospiterà 20 profughi.

La sua colpa, quindi, è la solidarietà. Perché, se avesse affittato la villetta a dei turisti, verosimilmente nessuno l’avrebbe assalita.

Nel film Giorno maledetto, si spiega che per quattro anni i cittadini benpensanti di Black Rock, pur sapendo, non avevano fatto nulla, oppure avevano finto, anche con se stessi, di credere alla balla che Komoko fosse stato internato in quanto sospettato di essere una spia giapponese.

Poi, un giorno arriva un forestiero che non se la beve, che non gira la testa da un’altra parte. Che ha paura, ma vuole vederci chiaro[8].

Il regista di Giorno maledetto, John Sturges sfruttò il formato del Cinemascope, il colore, le scenografie e i costumi in termini drammatici, per rendere visivamente l’isolamento del protagonista, Macreedy, rispetto agli abitanti del posto[9].

Proviamo, allora, a dare un’occhiata anche a cosa succede a chi oggi, qui, tenta di opporsi alla violenza (nazional)razzista.

Prendiamo il caso di Paolo E., picchiato e preso a cinghiate a Vignanello in provincia di Viterbo da una quindicina di militanti di CasaPound, incluso il loro leader locale, Jacopo Polidori.

Perché Paolo è stato aggredito?

 

«Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, moglie e figli non merita rispetto», recita un manifesto di CasaPound

Perché il 12 febbraio di quest’anno, Paolo osò condividere sui social un post che ironizzava sui manifesti di CasaPound. In questi era scritto:

«Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, moglie e figli non merita rispetto».

Paolo E. ha usato l’ironia per ridicolizzare lo slogan[10]. Uno slogan il cui fine intrinseco è tentare di stroncare sul nascere quel minimo, civile, senso di comprensione e di solidarietà verso chi patisce le pene dell’inferno.

Dal punto di vista vittimologico, il manifesto, in effetti, offende chi espatria proprio per proteggere la vita dei suoi cari, oltre che la propria (e lo sanno bene coloro che ascoltano i rifugiati e i richiedenti asilo, tra i quali figurano anche gli psicoterapeuti dell’Associazione, sul cui sito si trova questo blog).

Si tratta, dunque, di un’offesa, sovrapponibile alle esternazioni dei seguaci del sedicente Stato Islamico o di altre sanguinarie organizzazioni. Infatti, è una denigrazione che risulterebbe gradita anche a quei terroristi, dato che disconosce l’umanità delle loro vittime e che contiene un’ implicita, indiretta, legittimazione delle loro atrocità.

Paolo E. ha reagito con l’ironia di fronte a questa ri-vittimizzazione di milioni di persone, ai quali il manifesto da lui parodiato cerca di negare non solo lo status di vittime, ma anche il rispetto per i loro sentimenti e i loro vissuti (e sono vissuti pesantissimi, poiché certi orrori non si possono mai archiviare, neppure quando si è lontani nel tempo o nello spazio dalle decapitazioni, dagli stupri, dalle mutilazioni, dai roghi umani, dagli spari e dalle esplosioni).

Concepito con l’intento di farle apparire prive di sentimenti umani, quali l’amore verso i loro cari, così da legittimare ogni offesa (a questo proposito mi permetto di rinviare a quelle strategie di legittimazione della violenza razzista trattate in un altro post) e ogni emarginazione nei loro confronti, quel manifesto affisso nelle città ricorda molto da vicino le denigrazioni antisemitiche indirizzate ai sopravvissuti dell’Olocausto nazista.

 

Colpevolizzazione della vittima e altre forme di disimpegno morale

Col senno del poi, allora, stupisce poco che quella quindicina di militanti di CasaPound abbiano messo in atto contro Paolo E. un’intimidazione brutale, tipica sia delle prassi brutalmente liberticide praticate dai fondamentalisti, che dello squadrismo fascista e nazista, a loro volte affini a metodi gangsteristici tutt’ora in voga[11]. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle intimidazioni cui fu sottoposta la giornalista di Repubblica, Federica Angeli, costretta a vivere sotto scorta per le sue inchieste sulle attività criminali del clan Spada ad Ostia [12].

Tenuto conto di ciò, dunque, stupisce poco anche la moderazione con cui nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il 9 novembre, Luca Marsella, leader di CasaPound Litorale, ha preso le distanze dalla violenza di Roberto Spada (fratello del boss Carmine, detto Romoletto), dopo che costui con una testata e con un manganello aveva aggredito il giornalista della Rai Daniele Piervincenzi, rompendogli il setto nasale.

Leggendo quell’intervista, è difficile non pensare, per associazione mentale, a quelli che Albert Bandura (1986), in una prospettiva interazionista, definì meccanismi di disimpegno morale, vale a dire di auto-assoluzione.

Tra questi vi è l’etichettamento eufemestico: che consiste nel ridimensionare la dolorosità delle conseguenze della condotta dannosa, distorcendo, cioè mascherando, il vero significato dell’azione. Definire, come fa Luca Marsella, «non un bel gesto» l’aggressione impressionante di Roberto Spada ai danni di Piervincenzi, sembra davvero un caso di etichettamento eufemistico, per quanto si tratti di un reato non commesso da chi lo ha così commentato.

Un altro meccanismo di disimpegno morale consiste nell’affermare che in qualche misura la vittima se l’è cercata (Bandura parla dell’attribuzione della colpa alla vittima).

Questa, su Facebook, è stata la posizione assunta da Spada, nonché, a meno di fraintendimenti, pare anche essere quella di Marsella, che asserisce di non condividere quell’aggressione, ma afferma che «questa è una situazione che qualcuno stava cercando, ed è arrivata». Che è come dire: “chi cerca trova”. Quindi Piervincenzi non sarebbe vittima di una violenza, perché se l’è cercata.

D’altra parte, quelli di Roberto Spada, sono atteggiamenti non così dissimili da quelli adottati, nel corso dell’aggressione ai danni di Paolo, da coloro che gli hanno rotto il naso e un dente e gli hanno lasciato escoriazioni da cinghiate sulla schiena (queste ultime inflitte da Jacopo Polidori): non prendere mai più in giro CasaPound, gli hanno detto malmenandolo.

Nel suo post su Facebook, sopra citato, Giuliano Castellino aveva scritto: «La patria si difende a calci e pugni». In tal caso la patria era CasaPound.

Si può reagire alle intimidazioni nazionalrazziste contro chi accoglie e contro chi non discrimina

Gli episodi di intimidazioni nazionalrazziste ai danni di chi si rifiuta di dismettere la propria umanità, non riguardano solo Paolo E. e la signora che intendeva affittare la villetta per ospitare dei profughi. Anche in tal caso vi è un elenco tutt’altro che breve.

Per non fare che due esempi si pensi agli ordigni esplosi o piazzati senza miccia presso le chiese della zona di Fermo, per scoraggiarle dall’aiutare migranti e altri in condizioni di disagio. Oppure ai tentativi di intimidire ,  da parte di Generazione Identitaria, Andrea Palladino per le inchieste da lui realizzate su tale organizzazione di estrema destra impegnata in una campagna antimigranti.

Ma oltre a coloro che tentano di aiutare chi ha bisogno, quando si tratta di stranieri, o a coloro che indagano su chi vuole difendere la patria a calci, pugni e minacce, può capitare di subire violenze anche ad altri. Magari solo perché provano un sentimento di amore: infatti, è una forma di violenza anche la discriminazione di cui fu oggetto quest’estate Chiara, rea di amare un ragazzo di origine nigeriana.

Si potrebbero ridurrebbe significativamente sia l’elenco delle intimidazioni, che quello delle violenze razziste, che probabilmente saranno ricapitolate nel prossimo Libro bianco sul razzismo, se, come gli abitanti di Black Rock, noi tutti, qui, ora, comprendessimo che questa violenza, spacciata talora per (grottesco) patriottismo, uccide anche la nostra anima, e se, come lo sceriffo, il medico e l’albergatore di Giorno maledetto, decidessimo di recuperare la nostra dignità.

Se ci teniamo alla nostra libertà, al rispetto per noi stessi, allora, mi sa proprio che ci tocca reagire collettivamente alle prepotenze dei nostri Reno Smith. Anche soltanto disapprovarle apertamente sarebbe molto.

In fondo, a noi italiani l’hanno insegnato la cronaca e la storia della lotta alle mafie.

L’unico modo della società civile per proteggere coloro che si espongono, quelli che si assumono la responsabilità e il rischio di restare umani, è non lasciarli moralmente e materialmente soli. In realtà, è l’unico modo che abbiamo per conservare il rispetto di noi stessi.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Il film citato nel titolo di questo post non è l’unico dai risvolti antirazzisti della cinematografia del regista, John Sturges. Pur dedito a produzioni mainstream di schietto stampo hollywoodiano, qua e là questo regista ha inserito esplicite condanne a varie forme di pregiudizio e di violento razzismo. In ambito western, per dire, si può pensare a Il giorno della vendetta, che inizia con uno stupro ai danni di una ragazza indiana, e alle prime sequenze di I magnifici sette. Del resto, il western in quel periodo fu spesso usato per commentare criticamente la società contemporanea, anche con opere dichiaratamente antirazziste e altre filo-indiane: tra quelle incentrate sul tema del pregiudizio verso gli afroamericani figurano, ad esempio, all’inizio dei ’60, I dannati e gli eroi, del maestro John Ford, e, all’inizio dei ’70, Libero di crepare e Non predicare, spara. Né va sottovalutato che già nel lontano 1936 il genere western aveva offerto al regista William A. Wellman, con Robin Hood dell’Eldorado, l’occasione per una severa e cruda requisitoria sul razzismo, in tal caso verso i messicani, rappresentato dal film come un corollario della politica imperialista USA.

[2] Nell’ambito del cinema sonoro si possono annoverare Black Legion (1937) e Vendetta (1937) tra le prime, durissime, opere di denuncia. Nel primo, diretto da Archie Mayo, Humphrey Bogart (non ancora una star) interpreta un operaio che, surclassato sul luogo di lavoro da un collega di origine straniera, entra a far parte della Legione Nera, organizzazione terroristica di ultra destra, xenofoba e razzista, e giungerà a commettere violenze varie, omicidi compresi. Il secondo è diretto da Mervin LeRoy, già autore di altri film attenti alle tematiche sociali (in particolare, Io sono un evaso e Piccolo Cesare – capostipite gangster movie e cronologicamente primo dei tre capolavori del genere: gli altri due film, di poco successivi, sono Scarface, di Howard Hawks, e l’ancor più efficace Nemico pubblico di William A. Wellaman). Vendetta è forse ancora più disperato e angosciante di Black Legion. Racconta di un giovane afroamericano che, benché processato e prosciolto dall’accusa di aver ucciso una donna bianca, viene linciato dalla folla. Entrambi i film, prodotti e distribuiti dalla Warner Bros., sono esemplificativi dell’attenzione ai temi sociali seguita da questa Major in pieno New Deal. Dopo la parentesi della guerra (periodo nel quale, tuttavia, si colloca una potente denuncia del linciaggio in danni di tre uomini innocenti, ritenuti colpevoli, in fondo, solo perché forestieri: Alba fatale del già citato William A. Wellman), il ciclo sulla violenza razzista si apre con delle pellicole, alcune a basso costo, di rilevante successo commerciale e di critica, anche a livello internazionale, quali Odio implacabile, Linciaggio, Nella polvere del profondo Sud, Uomo bianco tu vivrai, La setta dei tre K, Il sole splende alto, L’imputato deve morire e prosegue negli anni sessanta, con Il buio oltre la siepe, La scuola dell’odio, L’odio esplode a Dallas, La caccia, e propone all’inizio degli anni ’70 Il silenzio si paga con la vita, l’ultima fatica di una leggenda della Hollywood del periodo classico, Wiliam Wyler, Joe – La guerra del cittadino Joe e L’uomo del Klan. Non sono citati nell’elenco precedente alcuni film antirazzisti usciti negli stessi decenni, assai noti, pluripremiati e apprezzati dal pubblico mondiale – quali: Barriera invisibile, Pinky, la negra bianca, La parete di fango, La calda notte dell’ispettore Tibbs e Indovina chi viene a cena? -, perché, a differenza dei titoli sopra riportati, non propongono vicende in cui l’odio razziale assume le forme della violenza fisica letale, individuale o di gruppo.

[3] Al pari di altre pellicole tra quelle citate nella nota precedente, anche Giorno maledetto riscosse un buon successo commerciale a livello internazionale. Non solo negli USA, dunque, ma anche in altri Paesi, Italia inclusa. Grazie anche al premio attribuito a Spencer Tracy, che costituiva ormai una garanzia pressoché costante circa le qualità dei film in cui appariva. Accanto a Tracy, del resto, Sturges aveva diretto un cast di qualità impressionante: Reno Smith era interpretato da Robert Ryan, che sapeva sempre rendere i suoi villain ricchi di sfumature e credibilità. Gli altri attori, superlativi, erano: Walter Brennan, che aveva già ottenuto 4 volte il premio Oscar come miglior attore non protagonista; Lee Marvin, non ancora divo ma già bravissimo; Ernest Borgnine (di origine piemontese), che quell’anno avrebbe meritato l’Oscar come protagonista, nella parte di un italoamericano, in un film a modestissimo budget ma di enorme successo, prodotto dalla società di Burt Lancaster, Marty, vita di un timido (1955, di Delbert Mann), che fu vincitore dell’Oscar come miglior film e della Palma d’oro proprio a quell’8° Festival di Cannes in cui fu premiato Spencer Tracy per Giorno maledetto; Dean Jagger, anch’esso già vincitore dell’Oscar come miglior attore non protagonista; i più giovani ma molto efficaci Anne Francis e John Ericson. A garantire il buon successo dell’opera, inoltre, vi erano alcune scelte produttive, come il fatto di essere girato a colori e con il formato panoramico del Cinemascope. Inoltre anche l’ambientazione western, nel caso di Giorno maledetto, a quei tempi era un fattore capace di spingere il pubblico ad entrare in sala.

[4] L’opera, con un approccio tutt’altro che banale, mette in discussione stereotipi e pregiudizi, in particolare verso i rom.

[5] Roberto Ryan era conosciuto dalle platee per i suoi personaggi ambigui, spesso violenti. Anche per questo, oltre che per la sua bravura, fu una scelta di casting azzeccatissima. Robert Ryan, infatti, 8 anni prima che uscisse Giorno maledetto, aveva già interpretato un antisemita assassino nel noir Odio implacabile (1947, di Edward Dmytryk), vincitore del Grand Prix come miglior film sociale al 2º Festival di Cannes. Il personaggio di Reno Smith richiamava fortemente quello interpretato da Ryan in Odio implacabile. I ragionamenti stereotipici, il senso di superiorità, la paranoia dei due personaggi vengono verbalizzate nei loro dialoghi con gli altri interlocutori con argomenti assai simili. Peraltro, è interessante notare che nel romanzo, da cui è tratta la sceneggiatura (scritto dal futuro sceneggiatore e regista Richard Brooks), la vittima dell’intolleranza omicida di Odio implacabile non era un ebreo ma un omosessuale. Robert Ryan tornerà ad interpretare un razzista, il cui odio ha effetti disastrosi, in un altro celebre noir, il cult Strategia di una rapina.

[6] In Giorno maledetto e nelle altre opere hollywoodiane citate nelle note i razzisti inventavano o strumentalizzavano accuse di terribili misfatti rivolte a membri di una minoranza (messicani, afroamericani ed ebrei, soprattutto), onde sfruttare il pregiudizio diffuso nella popolazione e perseguire inconfessati fini politici o di altra natura, personale o economica. La trama di Giorno maledetto, in effetti, è richiamata da quella di un western di serie B, solo per il carattere contenuto del budget, non certo per la resa. Si tratta di Il ritorno di Joe Dakota del 1957. In tal caso l’omicidio dello straniero si collega ad un interesse economico inconfessabile. Restando in ambito hollywoodiano, ma venendo a film più recenti, la bandiera a stelle e strisce veniva sbandierata dai neonazisti di American History X e, ancor prima, dai baroni del bestiame intenti a massacrare gli immigrati europei nel kolossal western di Micheal Cimino, I cancelli del cielo. In quest’ultimo un gruppo di ricchi allevatori, intenzionati ad impedire agli immigrati dell’Europa centro-orientale di stabilirsi legittimamente nelle terre del Wyoming, in nome della difesa dell’ordine e della legalità, decide l’eliminazione di 125 persone, reclutando a tal fine un piccolo esercito di sicari prezzolati. Ispirato ad un fatto realmente accaduto, il film di Cimino vede sostanzialmente solo lo sceriffo James Averill (interpretato da Kris Kristofferson) rifiutarsi di prendere per buone le motivazioni patriottiche e identitarie proposte dal presidente dell’associazione dei baroni del bestiame, Frank Canton (Sam Waterston). E sarà di fatto il solo a schierarsi in difesa degli immigrati europei. Del resto, al personaggio interpretato da Jeff Bridges, che, appresa la notizia della lista della morte, notava «Maledizione! Diventa pericoloso essere poveri, in questo Paese. Non ti pare?», Averill rispondeva: «Lo è sempre stato». Come dire ne I cancelli del cielo, così come in Giorno maledetto, c’era già tutto. Entrambi i film, pur diversissimi tra di loro, mostravano come il fatto di essere stranieri poteva costare la vita.

[7] I post, pubblicati sul blog Politica e conflitto, dedicati al tema del nazionalrazzismo sono: Autorizzazione della violenza(in)giustizia nazionalrazzista Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista(il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzistaDove eravamoPropaganda nazionalrazzista e WelfareIl nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)Nazionalrazzismo e socialrazzismo

[8] Alla fine del film, Macreedy riuscirà a smuovere dall’omertà, dall’inerzia e dall’indifferenza alcuni degli abitanti di Black Rock, che gli diranno ciò che sanno e lo aiuteranno a far arrestare Smith e i suoi complici. Si scoprirà anche che Macreedy, ex ufficiale e reduce di guerra (da qui la mutilazione), era giunto in quel paese sperduto del West per consegnare a Komoko, padre di uno dei suoi commilitoni, la medaglia alla memoria ottenuta dal figlio, caduto in Italia, combattendo contro i tedeschi.

[9] Macreedy, infatti, è filmato mentre si aggira per le strade di Black Rock con un abito da città, con un cappello nero, un completo scuro e la cravatta nera sulla camicia bianca. Gli abitanti, invece, vestono un po’ da cowboy e sopra i blue jeans portano camicie chiare

[10] Il post ironico era: «Chi mette il parmigiano sulla pasta col tonno non merita rispetto».

[11] Si veda quanto riportato su La Stampa del 6 novembre, relativamente alle intimidazioni di Roberto Manno, un piccolo boss in ascesa, che, a Pioltello, ha costretto una famiglia di ecuadoregni ad andarsene dopo un prestito ad usura facendogli esplodere la porta di casa.

[12] Su la Repubblica del 9 novembre nel commento Noi cronisti nelle strade dei boss, relativo alla notizia sull’aggressione al reporter della Rai Daniele Piervincenzi, da parte di Roberto Spada, di cui si parla più avanti nel testo, Federica Angeli ripercorre sinteticamente la vicenda. Risale al 2013 l’indagine di Repubblica sulla commistione tra clan e politica a Ostia. Scoperto che Armando Spada, cugino del capoclan degli Spada, aveva ottenuto la gestione del lido più bello, affidata ad una società di cui facevano parte il genero del capoclan e Ferdinando Colloca, all’epoca leader di CasaPound, Federica Angeli fu sequestrata in quel lido proprio da Armando Spada e da uno dei suoi per due ore. Registrò tutto con la telecamera. Tra le minacce registrate vi erano quelle che prendevano a  bersaglio i suoi figli. «Pensa ai tuoi figli… dimentica questa storia». Da quel momento, 23 maggio 2013, la giornalista vive sotto scorta. Due mesi dopo, dal balcone di casa fu la sola testimone di una sparatoria tra il clan Spada e quello Triassi (il boss Carmine aveva ordinò a tutti di rientrare in casa) e andò a denunciarli. Roberto Spada, colui che, l’8 novembre, ha preso a testate e manganellate il reporter Piervincenzi, allora, nel novembre 2014, su Facebook minacciò esplicitamente i figli di Federica Angeli («Ora il nostro oggetto sono loro, non tu»). Alcuni giorni dopo le fu versata della benzina sotto la porta di casa.

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Autorizzazione della violenza

L’autorizzazione della violenza razzista come aspetto intrinseco del nazionalrazzismo

È in corso da tempo una campagna tesa a generare un’ autorizzazione della violenza. In particolare, un’ autorizzazione alla violenza razzista.

In un precedente post si erano posti in rilievo alcuni tratti della violenza razzista. Quel che si vuol qui aggiungere è un altro aspetto: l’ autorizzazione della violenza razzista è un tratto caratterizzante, connaturato di ciò che in precedenza ho chiamato nazionalrazzismo[1].

In altri precedenti post su questo blog avevo definito nazionalrazzismo quell’insieme di movimenti, organizzazioni e soggetti politici che, a volte esplicitamente altre volte in maniera implicita, sostengono non solo che esistano le razze, ma stabiliscono anche una gerarchia tra di esse, in termini morali, etici, culturali, ecc. Dunque, tali organizzazioni politiche possono essere descritte come nazionalrazziste, perché, ponendo mente a quelle operanti in Italia, affermano che esiste la razza nazionale degli italiani, la descrivono come superiore e la contrappongono alle altre.

 

Attenzione alla vittima

Quando si parla di violenza, oltre a porre l’attenzione su chi la commette e su chi la istiga, la sollecita o la dispone, occorrerebbe porre anche non minore attenzione su chi la subisce.

Prendere in considerazione la vittima è essenziale sotto molteplici profili. Tra questi ve n’è uno che vale la pena qui porre in risalto: la relazione tra la rappresentazione della vittima nella mente dell’aggressore, la reazione della società e i vissuti della vittima stessa.

Questa relazione, infatti, è di particolare rilievo ai fini dell’autorizzazione della violenza. Anche di quella razzista.

Emilio C. Viano[2] ha affermato che lo “status di vittima” si realizza attraverso un preciso processo, di autopercezione e di eteropercezione, distinto in una serie di autonomi stadi:

1° la presenza di un danno: la vittima percepisce un danno, che può essere fonte di sofferenza fisica e /o morale, procurato dall’azione altrui

2° l’autopercezione come vittima: la vittima realizza che il fatto lesivo è ingiusto e si riconosce come vittima di tale condotta dannosa

3° la condivisione della vittimizzazione: la vittima, attraverso la denuncia, il resoconto, la confidenza, ecc., rende noto ad altri quanto le è accaduto

4°il riconoscimento: altri soggetti le riconoscono il carattere ingiusto del danno subito e le procurano una “convalida” dello status di vittima. In tale ambito si colloca l’ufficializzazione, cioè il sostegno da parte della comunità, il riconoscimento da parte di agenzie ufficiali e, laddove esiste, l’aiuto da parte di strutture di sostegno specializzate.

 

I risvolti dannosi del mancato riconoscimento della vittima come tale

Questi stadi sono costitutivi del processo di vittimizzazione. E sono particolarmente importanti per la persona colpita da un crimine e per coloro che ad essa sono affettivamente legati.

Infatti, senza il riconoscimento da parte della comunità della vittimizzazione avvenuta, alla persona colpita da un reato, è come se venisse comunicato che essa non è stata vittima di un atto ingiusto, ma di qualcosa di meritato, di dovuto, di inevitabile, di necessario, di sacrosanto.

Ciò può avere conseguenze nefaste, come dimostrano molte situazioni legate ad abusi e maltrattamenti.

Accade, infatti, che alcune vittime, in mancanza del riconoscimento e della convalida dello status di vittima, finiscano non solo con il sentirsi isolate, indifese e rimosse dalla considerazione della comunità, patendo nuovamente quel trattamento disumanizzante che già connotava il reato subito, ma arrivino anche a convincersi che quel che è loro accaduto in qualche misura è naturale o meritato.

L’ autorizzazione della violenza come legittimazione culturale

Se quanto sopra descritto dovesse apparire non solo ingiusto ma anche infrequente e improbabile, occorrerebbe ricredersi.

Alcuni reati, a causa della considerazione sociale dei soggetti contro cui sono commessi, non suscitano particolare sdegno o allarme. Correlativamente non vi è alcun significativo riconoscimento da parte della società della gravità dell’offesa e quindi della vittima come tale.

Per fare alcuni esempi: non vi è convalida dello status di vittima verso il ladro a sua volta derubato dei propri beni, come non vi è nei confronti del borseggiatore o del rapinatore uccisi per un eccesso di difesa da parte delle loro vittime; analogamente è assai poco considerata la violenza sessuale subita da chi esercita la prostituzione.

Negli esempi citati la reazione della collettività è di indifferenza o di condanna molto contenuta verso l’autore della violenza e, correlativamente, di scarsissime vicinanza, comprensione e solidarietà verso le vittime. Si pensa che quanto accaduto a costoro se lo siano meritato, come una sorta di rischio della carriera illegale seguita o del disprezzato “mestiere” svolto.

Ultimamente anche la violenza commessa contro esponenti politici non suscita unanime riprovazione e preoccupazione, anzi molti commenti sui social indicano una sorta di approvazione verso gli autori delle aggressioni (ne avevo fatto cenno in Le aggressioni a Roberto Speranza e ad Osvaldo Napoli: la radicalizzazione del conflitto dal vertice alla base e ritorno).

L’assenza di reazione negativa da parte dei consociati costituisce, però, in molti casi una sorta di garanzia di impunità morale, se non anche legale, per gli autori della violenza. Quanti sono, infatti, coloro che vengono condannati per violenza sessuale ai danni di prostitute? Quante di queste, sapendo cosa le attende, denunciano?

Quel che si profila rispetto agli immigrati è un vertiginoso incremento della legittimazione culturale alla violenza nei loro confronti. Un’ autorizzazione della violenza razzista, cioè ad aggredirli in vari modi, che si fonda su una peculiare legittimazione culturale. Di matrice politica.

Il fine politico dell’ autorizzazione della violenza razzista

La comunicazione nazionalrazzista è costantemente intenta nel trasmettere l’idea che il principale nemico degli italiani, afflitti dalla decennale crisi economica e da altri più o meno endemici mali, è costituito dagli immigrati stranieri.

Impedendo a migranti di arrivare e scacciando quelli già presenti, secondo la comunicazione nazionalrazzista, gli italiani di “pura razza”, oggi mal messi, dopo staranno meglio. Molto meglio.

Sostenendo queste posizioni, i nazionalrazzisti si propongono come gli unici veri e capaci difensori del popolo, cioè della razza nazionale, giacché, per essi, questa esaurisce la nozione di popolo.

È indispensabile pertanto al nazionalrazzismo assicurarsi che vi sia un nemico rispetto al quale essere considerato un baluardo. Avendo scelto a tale scopo gli immigrati stranieri, sono costoro quelli che vanno demonizzati.

Per il nazionalrazzismo è una necessità vitale, dunque, rappresentarli con caratteristiche minacciose e inquietanti.

Così facendo, però, il nazionalrazzismo, oltre a commettere un’azione violentissima, diretta contro qualche milione di persone, pone in essere anche un’altra forma di violenza, apparentemente indiretta: la diffusione di sentimenti funzionali a far pensare e sentire che vi sia un’ autorizzazione della violenza razzista.

Anche l’ autorizzazione della violenza razzista passa attraverso la legittimazione culturale di tale violenza.

La promozione della paura (xenofobia), della ripulsa e dell’odio (razzismo) verso gli immigrati, quindi, è in relazione circolare con l’opera di legittimazione culturale tesa all’ autorizzazione della violenza. Un’attività condotta dal nazionalrazzismo attraverso tutti gli strumenti con tutte le risorse di cui dispone. E sono ragguardevoli gli uni e le altre.

Nel caso del nazionalrazzismo la legittimazione culturale della violenza verbale, in primis, ma anche fisica, verso gli immigrati consiste nel diffondere la svalutazione di un gruppo di persone (che in verità l’unica cosa che hanno in comune è quella di non essere nate in Italia, data l’estrema varietà di condizioni, provenienze, motivi dell’espatrio, ecc.) fino a deumanizzarle.

Tale esito è perseguito attraverso una serie di operazioni.

  • Uno costante evocazione dello spettro dell’invasione: gli immigrati stranieri, in verità, sono poco più di 5 milioni su oltre 60 milioni di italiani, quindi non il 30% come gli italiani, in virtù di menzognere propagande, credono, ma l’8,3%. E quelli sbarcati sulle nostre coste sono stati al massimo 200.000, cioè un po’ meno degli italiani emigrati all’estero in cerca di lavoro.
  • L’insistente tentativo di fare percepire gli immigrati come elementi parassitari rispetto ai corpi sani e produttivi della nazione italiana, cioè gli italiani di pura razza: in realtà il costo dell’accoglienza è lievemente inferiore alla ricchezza generata in Italia dall’immigrazione (si veda il Dossier Statistico Immigrazione 2017 del Centro Studi e Ricerche IDOS).
  • La rappresentazione degli immigrati come criminali o come attuali o potenziali terroristi: la comunicazione nazionalrazzista cita solo dati parziali, tacendo sempre quelli che disconfermano tale messaggio xenofobo, dato che, in realtà, dati completi alla mano, il tasso di delittuosità degli stranieri regolari è più basso di quello degli italiani. Per una descrizione corretta qualitativa e quantitativa dei reati commessi dagli immigrati si possono consultare i dati di Eurostat o il già citato Dossier sull’immigrazione. Quest’ultimo è particolarmente efficace anche nel porre in evidenza le lacune informative su cui si basa la strumentalizzazione razzista della percentuale degli stranieri sulla popolazione carceraria: in sintesi, tra le altre cose, si ricorda che gli immigrati sono più facilmente arrestati e sottoposti a carcerazione preventiva rispetto agli italiani, ma che man mano che il processo procede vengono scarcerati per l’infondatezza delle accuse. Rispetto all’equiparazione immigrato-musulmano-terrorista, la bassezza è tale da lasciare senza parole, soprattutto di fronte alle dimensioni impressionanti degli attentati commessi ai danni di fedeli dell’Islam proprio dai fondamentalisti (si pensi ai recenti attacchi in Afghanistan – 72 morti solo in nei due attentati del 22 ottobre condotti presso due moschee  e altri 9 in quello del 31 ottobre – e in Somalia – 189 morti nel primo attacco e 23 nel secondo). Inoltre, tanto per restare a quanto scritto su questo blog si possono leggere, al riguardo: (il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzista.
  • La descrizione degli immigrati stranieri come agenti volontari o involontari di una colonizzazione culturale e religiosa: mettendo da parte la difficoltà di contrapporre razionalità a paranoia, viene da chiedersi: occorre ancora ricordare, ad esempio, che il 53% degli stranieri immigrati è di fede cristiana e che i musulmani sono un milione in meno dei cristiani stranieri, essendo appena il 32,6% degli immigrati?

Così, colpevolizzandoli tutti, per gli illeciti commessi da alcuni, demonizzandoli per come sono, anzi per come sono descritti, si arriva a deumanizzarli fino al punto che per una parte rilevante della società ospitante non è considerato riprovevole, bensì inevitabile o perfino meritorio, offendere, umiliare, maltrattare tali persone.

 

Aspetti criminosi dell’ autorizzazione della violenza razzista

Il fine dell’ autorizzazione della violenza razzista, pertanto, consiste proprio nel privare gli immigrati della tutela dell’incolumità fisica e morale.

In particolare, il nazionalrazzismo cerca di indurre la società italiana a spogliarli non (almeno non direttamente) della tutela assicurata dalle forze dell’ordine, ma, in una prima fase, di un’altra importantissima difesa. Mi riferisco alla tutela sociale, culturale, morale, etica e psicologica, di tipo preventivo, consistente nella consapevolezza diffusa e profonda che denigrare, umiliare, calunniare, offendere, picchiare, bastonare, sfruttare, derubare o discriminare qualcuno è considerato inammissibile e riprovevole dal 99% e più dei cittadini.

Se rispetto ad un gruppo di esseri umani viene meno nella coscienza collettiva il principio dell’inviolabilità assoluta della loro persona, qualsiasi offesa verso di essi cessa di essere moralmente disapprovata, non venendo più considerata ingiusta, incivile, bestiale.

L’eliminazione di tale remora nei potenziali aggressori verbali e fisici degli immigrati, naturalmente aumenta significativamente la loro esposizione al pericolo di essere vittime di reato. Sia da parte di chi è animato da obiettivi politici o da odio razziale, sia da parte di chi persegue altre finalità illecite (economiche o di altra natura).

Per una panoramica, indignata e polemica, sulla possibile efficacia criminogenetica dell’ autorizzazione della violenza razzista si può leggere Fuoco e botte contro gli immigrati, il pogrom silenzioso che va avanti da mesi (e la politica dorme) di Francesco Cancellato. Ma, in realtà, andrebbe distribuito casa per casa e inserito nei libri di testo nelle scuole il Quarto Libro bianco sul razzismo, Cronache di ordinario razzismo a cura di Lunaria.

I vantaggi politici dell’ autorizzazione della violenza razzista

Naturalmente, oltre al fine suddetto, l’ autorizzazione della violenza razzista, verbale e fisica, permette al nazionalrazzismo di conseguire dei vantaggi di non poco conto nel perseguimento della sua strategia politica.

  • Più si estende e radica la percezione che contro gli immigrati stranieri tutto è lecito, trattandosi di mostri, più il nazionalrazzismo ha la possibilità di incrementare il tasso di volgarità e parzialità della sua comunicazione. E di farlo senza correre il rischio di suscitare una corposa e inibente reazione avversa da parte della cosiddetta società civile. In tal modo, l’incremento costante della rozzezza e della natura palesemente razzista dei suoi attacchi agli immigrati, gli assicura un consenso e un’approvazione crescenti.
  • Più gli immigrati sono considerati temibili e dannosi e più è considerato naturale, o perfino doveroso, denigrarli e aggredirli, meno avranno voce e attenzione coloro che non sono razzisti. In termini di competizione elettorale, il vantaggio politico di tale promozione della violenza contro gli immigrati non andrebbe minimamente sottovalutato, dal momento che essa permette di azzerare, o almeno ridurre alla percezione che siano solo un mugugno, un brontolio, i discorsi di coloro che contrastano la propaganda di odio nazionalrazzista. Costoro, infatti, si ritrovano ad essere rappresentati, dal nazionalrazzismo alla stregua di traditori, antipatriottici complici di pericolosissimi criminali.
  • Più l’immigrato in quanto tale è considerato dal pensiero dominante come socialmente pericoloso, più si riduce lo sdegno, per le violenze messe in atto direttamente dalla parte più estremista dei nazionalrazzisti verso gli immigrati e verso coloro che difendono i loro diritti fondamentali di esseri umani (per una rassegna si veda il servizio Nazitalia su L’Espresso del 30 luglio, e ancora Il vento fascista dalle periferie al Parlamento. Gli squadristi sono tornati in strada: gli episodi lì citati e altri ancora, in realtà meritano una trattazione più approfondita, anche per i risvolti inquietanti, un po’ squadristi e un po’ mafiosi, delle varie prepotenze, aggressioni, ricatti e intimidazioni).
  • Più cresce e si diffonde nella società l’autorizzazione alla violenza razzista, più il nazionalrazzismo ha la certezza di essere riuscito a trasformarne i valori fondamentali di quell’identità europea che sostiene di volere difendere (libertà, uguaglianza davanti alla legge, rispetto della dignità di ogni essere umano, pari opportunità, ecc.).

Alberto Quattrocolo

 

[1] I post dedicati al tema del nazionalrazzismo sono: (in)giustizia nazionalrazzista,  Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista(il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzistaDove eravamoPropaganda nazionalrazzista e WelfareIl nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)Nazionalrazzismo e socialrazzismo

[2] Criminologo e vittimologo di origine torinese, docente all’Università di Washington, a lungo consigliere statunitense in materia di analisi politica, di difesa e di sicurezza e consulente di istituzioni internazionali impegnate nella lotta al crimine e nella tutela delle vittime.

mediazione in pratica

La mediazione in pratica

Principali modelli di mediazione

Vi sono diversi modi di mettere la mediazione in pratica. Due autorevoli studiosi statunitensi hanno tentato di delineare una classificazione degli approcci maturati negli ultimi decenni[1]. Delle quattro impostazioni rinvenute da Bush e Folger, le più interessanti sono due.

La mediazione in pratica secondo un modello “problem solving” teso a soddisfare gli interessi delle parti

Il primo filone, quello che gli autori definiscono “The Satisfactory Story”, considera la mediazione in pratica come uno strumento per soddisfare nel modo più pieno possibile le esigenze e le richieste dei confliggenti. Si tratta di aiutare le parti a ridefinire il conflitto nei termini di “un problema comune e reciproco”, attraverso l’adozione di atteggiamenti collaborativi, che si rifanno alle tecniche del problem-solving e alla logica distributiva e rivendicativa della contrattazione. La prospettiva, pertanto, è quella di superare il “win-lose approach” per approdare ad una “win-win strategy”.

L’opinione di Elisabetta Nigris è che, pur ricco di molti meriti, soprattutto nell’aver determinato un’importante svolta culturale, quest’approccio nasconde una velata paura del conflitto.

Le tecniche adottate si risolvono spesso nella proposta di pacificazione forzata, che riducono l’aggressività e la violenza immediata, ma che non danno risultati del tutto soddisfacenti nel lungo periodo. Si limitano spesso, infatti, ad un tipo d’analisi e d’intervento che si concentra più sul sintomo – ossia sulle cause apparenti dei conflitti stessi – che sulle motivazioni recondite[2].

La mediazione in pratica secondo il modello trasformativo

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Nel modello definito da Bush e Folger “The Transformation Story”, la mediazione in pratica non ha il fine di trovare necessariamente una soluzione al conflitto, ma quello di aiutare le parti ad elaborarlo positivamente. Il mediatore diventa, quindi, un ponte tra le parti, nel tentativo di ristabilire una comunicazione che faccia emergere quei blocchi emotivi e cognitivi che hanno impedito fino a quel momento la gestione costruttiva della vicenda. In quest’ottica la mediazione trasformativa, più di altri modelli, pone l’accento sugli aspetti relazionali e comunicativi del conflitto: “il richiamo alla riorganizzazione delle relazioni sottolinea la necessità di distanziarsi dal campo in cui si svolge il conflitto stesso, per smascherare le motivazioni apparenti che vengono addotte”.

Quest’impostazione pone in evidenza che una relazione conflittuale può essere gestita non soltanto ponendo attenzione ai fatti, agli interessi in gioco e agli obiettivi, concentrandosi sulle soluzioni che mirano alla cessazione delle ostilità e al ripristino dell’equilibrio turbato, ma anche e soprattutto soffermandosi sugli stati d’animo dei confliggenti.

Le mediazione in pratica nel modello Ascolto e Mediazione dei Conflitti

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Va da sé, dunque, che lo strumento principale adottato, la risorsa centrale, è l’ascolto empatico. E ciò vale anche per la mediazione in pratica proposta da Me.Dia.Re., che non a caso definisce i propri Servizi di Ascolto e Mediazione dei conflitti.

L’ascolto, oltre ad offrire, riconoscimento, contenimento e sollievo da un senso di solitudine e di isolamento. Produce anche un altre effetto: permette al mediatore di accompagnare i confliggenti verso la consapevolezza che nell’incontro di mediazione non vale la logica per la quale se uno è nel giusto ciò avviene necessariamente a discapito dell’altro, il quale, allora, per definizione, sbaglia. Il che non implica che, per il mediatore, le parti debbano rinunciare ai propri punti di vista e ai propri valori, ma significa che, grazie al suo ascolto, sono liberati, in tale contesto, dalla classica preoccupazione secondo cui

dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto” (Beaumarchais).

Dunque ai fini di un esito soddisfacente della mediazione in pratica occorra la preesistente esistenza di una volontà di reciproca apertura dei medianti. Infatti, sono rare le situazioni in cui i confliggenti si rivolgono al mediatore perché realmente alla ricerca di un terzo neutrale che li aiuti nella costruzione di un accordo. Più spesso ciascuna delle parti cerca nel mediatore un giudice che si trasformi in un alleato forte, che attribuisca ragione a sé e torto all’altra parte.

Dall’ascolto al riconoscimento di sé e al riconoscimento reciproco

Il modello di mediazione praticato da Me.Dia.Re., pertanto, fa appello non al bisogno/desiderio delle parti di raggiungere un accordo, ma al loro stare male nel conflitto, al loro sentirsi soli e al bisogno di porre rimedio a tale dolore.

Il mediatore, infatti, riconosce quella solitudine, accoglie rabbie e frustrazioni, comprende la tristezza della fiducia perduta, ma il suo ascoltare e rinviare ai protagonisti della mediazione i loro vissuti, consente a ciascuno di parlare di sé. Così, poco alla volta, entrambe le parti si ritrovano a dar voce a ciò che provano, non per rinfacciarlo all’altro ma per semplicemente per esprimere la loro condizione e, in fondo, anche per dirlo a se stesse. L’espressione dei vissuti, la comunicazione dei dolori e delle angosce consente, allora, di lasciar cadere i ruoli con i quali si sono presentati ed attorno ai quali ruotava il conflitto. Di fronte al mediatore, ma soprattutto al cospetto l’uno dell’altro, non ci sono più soltanto due coniugi in lite e prossimi alla separazione, un padre e una figlia costretti nei rispettivi abiti, o due vicini di casa o due colleghi portatori di valori, abitudini, stili di vita o di lavoro inconciliabili, ma due esseri umani. Due individui che si raccontano e che, attraverso il racconto di sé, offrono all’altro la possibilità di una conoscenza più ricca e complessa, che può condurre alla comprensione e al reciproco riconoscimento.

L’effetto dell’ascolto svolto dal mediatore è proprio questo arrivare a sentire l’altro, a comprenderne empaticamente la realtà e a riconoscere la verità soggettiva ma preziosa di cui è portatore.

Naturalmente non sempre la mediazione arriva a tali esiti. E probabilmente è un bene che sia così. Forse sarebbe alquanto pericoloso un mondo nel quale, coricandosi la sera, il mediatore potesse realisticamente permettersi di pensare con Goethe:

su tutte le vette è pace”.

D’altra parte, se questa fosse la sua aspirazione, sarebbe verosimilmente un pessimo mediatore.

L’altra faccia della medaglia

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Naturalmente questo modello di mediazione, fondato sull’ascolto delle emozioni, presenta delle criticità.

La principale, forse, consiste nell’assenza di certezze, di basi consolidate, anche di tipo teorico, su cui appoggiarsi.

Uno dei pilastri su cui le pratiche di mediazione, compresa quella qui descritta, poggiano è, in effetti, la capacità naturale di mediare presente nelle persone. Ciò che la Klein chiama “accesso alla posizione depressiva”, cioè la capacità di ognuno di uscire dallo schema difensivo e/o aggressivo in cui è, o si è, ingabbiato per “sentire” l’altro, esiste indipendentemente dall’intervento di mediazione, anche se alcuni modelli (incluso quello qui delineato) si fondano proprio su tale potenzialità dell’essere umano.

Dubito fortemente, quindi, che tale modello di mediazione, che non ha scoperto l’ascolto e l’empatia, abbia inventato alcunché ex novo. Credo, invece, che abbia il pregio, piuttosto, di saper amalgamare risorse e competenze particolari, da sempre esistenti nelle attitudini umane, e di applicarle nel delicato settore della gestione del conflitto. Inoltre, è verosimile che abbia più di un debito verso molteplici discipline. Si pensi, ad esempio, alle riflessioni maturate in ambito criminologico che hanno portato alla costruzione del paradigma della “giustizia riparativa”, ai richiami a teorie psicologiche dei più diversi orientamenti e ancora agli spunti forniti dalla sociologia e dalla filosofia.

La mediazione in pratica è l’applicazione di un sapere pratico

Proprio per questa ricchezza di riferimenti, è difficile sostenere che tale modello di mediazione poggi il suo intervento su un complesso definito e organico di teorie sociali, o che si basi su particolari teorie della personalità (anche se nell’ambito della mediazione familiare vi è un saldo riferimento ad un orientamento consolidato della psicologia).,

Tuttavia ciò non significa che questo mediatore si muova sospinto dall’improvvisazione, poiché, evidentemente hanno un‘indubbia rilevanza le conoscenze acquisite sul conflitto e sulle sue dinamiche, nonché le riflessioni elaborate sull’efficacia di particolari strumenti d’intervento, che sono stati modellati proprio sulle peculiarità delle interazioni conflittuali.

Ciononostante, il suo sapere, essendo essenzialmente frutto dell’esperienza propria e altrui, resta suscettibile di costanti smentite, proprio perché egli agisce nel campo della soggettività: multiforme, imprevedibile, caotico (in quanto regolato da un ordine che molto spesso non si comprende).

Per questo deve essere disposto a rinunciare a molte garanzie e sicurezze, avendo solo la certezza che l’imprevisto è dietro l’angolo.

Detto in altri termini, ogni incontro di mediazione – come ogni autentico incontro compiuto nel quotidiano con qualsiasi individuo – mette in gioco anche il mediatore, ne scardina il personale puzzle con cui compone il proprio mondo, e lo modifica, aumentandone la complessità.

Ogni colloquio (si fa riferimento all’accoglienza delle singole parti separatamente, cioè ai c.d. colloqui preliminari che precedono la sessione di mediazione cui partecipano tutti gli attori del conflitto), dunque, significa per il mediatore non solo proporsi come specchio, ma anche porsi davanti ad uno specchio.

Uno specchio che, riflettendo la sua immagine in modo più o meno fedele, potrebbe disorientare.

Il paracadute formativo

Sotto quest’ultimo profilo, il training formativo dovrebbe costituire una sorte di paracadute: maggiore è la conoscenza che tale mediatore ha dei propri limiti, maggiore è la sua disponibilità a mettersi in gioco, a lasciarsi attraversare da argomenti, comportamenti e situazioni potenzialmente disturbanti, minori sono i rischi di destabilizzazione, nonché quelli di compromettere il processo di mediazione.

Sono queste le ragioni essenziali per le quali è consigliabile un percorso formativo caratterizzato da una massiccia quantità di situazioni interattive, nelle quali siano sempre presenti stimoli emotivi di diversa intensità.

Tuttavia, per la delicatezza dei temi affrontati, per il rispetto che merita la sensibilità di ciascuno dei partecipanti – lo stesso rispetto e considerazione che sono dovuti ai medianti in un intervento di mediazione – il formatore deve in ogni momento avere presente il benessere dei suoi interlocutori e salvaguardarlo. Senza tali precauzioni è probabile che invece di rifornire il futuro mediatore di un paracadute, lo si spinga fuori dell’aereo senza neppure un ombrello.

Resta vero che anche una formazione ben condotta non costituisce una garanzia certa: in ogni colloquio preliminare, in ogni mediazione, cioè in ogni salto nel buio, il paracadute può non aprirsi. In tal caso lo schianto, ovviamente, non è fatale, ma può essere piuttosto doloroso.

La risorsa della modestia

Quest’ultima considerazione si lega ad una risorsa che il mediatore dovrebbe avere ed esercitare: la “modestia”.

Intendo con tale termine non un tratto caratteriale o una qualità morale, ma un atteggiamento connaturato alla peculiarità della posizione di chi si presenta come terzo neutrale e privo di potere tra gli attori del conflitto.

Il mediatore, nel colloquio preliminare come al tavolo della mediazione, è co-protagonista – cioè deuteragonista o tritagonista, a seconda dei casi – in quanto incontra un altro essere umano e condivide con questi la scena dell’incontro (ed è, ovviamente, protagonista dell’esperienza dal proprio punto di vista), ma deve (dovrebbe) tendere a proporsi come lo sfondo da cui far emergere e risaltare con la massima nitidezza possibile la figura del mediante o dei medianti.

Non si tratta di un compito facile. Proporsi come sfondo, significa riuscire contemporaneamente ad essere presenti e a mettersi da parte.

Si tratta di dar vita ad un equilibrio instabile, tanto delicato quanto difficile, poiché implica trovarsi per tutto il tempo dell’incontro nella posizione di chi segue la narrazione altrui, e in un certo senso la rivive, ma senza potere intervenire su di essa.

Il mediatore si pone accanto al mediante o ai medianti, assiste al prodursi, o riprodursi, concreto e drammatico del conflitto, si lascia condurre nel conflitto, cioè nelle sue valenze emotive e affettive, però, ne resta spettatore neutrale.

Uno spettatore sui generis, poiché, in realtà, egli c’è e comunica la sua presenza testimoniando le sue sensazioni. Le sue sensazioni, tuttavia, non sono le “sue”: sono i vissuti che egli avverte nei medianti. Soltanto questo è quanto egli testimonia ai protagonisti. Le emozioni “veramente sue”, come le sue opinioni, devono restare dove e come stanno: silenziose dentro di lui. Diversamente non potrebbe porsi come facilitatore di un racconto il cui narratore e interprete è un altro e, poi, come catalizzatore di una trasformazione di cui il soggetto attivo è, ancora, l’altro.

La modestia, quindi, intesa in senso lato (o vago), c’entra.

Riconoscere il confine

C’entra anche perché il mediatore deve avere quel minimo d’umiltà – e di prudenza – necessaria a ricordare costantemente che le sue parole, il suo specchiare le emozioni e i sentimenti altrui, non sono mai “vere”. Egli dice, non dichiara, poiché, in fondo, il suo rispecchiare resta una testimonianza che egli propone di se stesso. Di ciò che avverte dentro di sé: di ciò che avverte dell’altro, d’accordo, ma sempre dentro di sé. Occorre, pertanto, che abbia quel tanto di modestia sufficiente a rammentarsi che, come quella presentata da ogni testimone, la sua è una verità squisitamente soggettiva. In quanto tale, dunque, suscettibile di contraddizione.

Per queste ragioni, nel corso della formazione, sono (dovrebbero essere) così numerose le attività in cui si chiede ai partecipanti di riconoscere le emozioni e i sentimenti percepiti nell’altro e di distinguerli da quelli avvertiti dentro di sé. Di riconoscere il confine

Non per ridimensionare questi rilievi e tali criticità, ma per banali esigenze di realismo, va riconosciuto, infine, che questa mancanza di certezze circa l’efficacia degli strumenti adottati non è propria soltanto della professione del mediatore, ma in maniera e misura diverse di molte altre professioni (se non di tutte): si pensi, per fare solo un esempio, alla professione medica, che pure è fondata su una scienza in continuo progresso, ma che nella pratica continua ad essere talora simile ad “un’arte” e ad essere caratterizzata dall’incombenza di un’alea, a volte assai pesante da sostenere anche per i suoi esercenti più collaudati.

Alberto Quattrocolo

[1] Bush R.A.B., Folger J.P (1994), Promise of Mediation, Jossey-Bass Publ., San Francisco.

[2] Nigris E. (2002), I conflitti a scuola, Bruono Mondatori, Milano, p.26.

 

prima gli esseri umani

Prima gli esseri umani

Prima gli esseri umani, dovrebbe essere lo slogan di ogni forza politica di destra, di centro e di sinistra e di quelle che ritengono che destra e sinistra siano categorie superate.

Prima gli esseri umani dovrebbe essere il principio che guida il nostro relazionarci all’altro, ovunque. Anche sul luogo di lavoro, nel rapporto con i servizi pubblici (quelli della giustizia, della sanità, quelli sociali, ecc.) e nei rapporti di comunità e di vicinato, così come in quelli “virtuali”, che tanto virtuali non sono, e spesso ancor meno virtuosi.

Non è sempre facile anteporre l’umanità

Prima gli esseri umani, tuttavia, rischia di essere solo una frase vuota, retorica, senza spessore, perché nel tran tran di tutti i giorni, la sollecitazione in essa contenuta viene frequentemente disattesa.

Tutti noi ci troviamo, nella vita di tutti i giorni, a non essere considerati e riconosciuti come esseri umani. In tali casi, la nostra umanità passa in secondo piano o scompare addirittura. Così capita che ci sentiamo trattati come mere risorse produttive, come consumatori, come pratiche, come cartelle, come numeri.

Talora, però, siamo noi a trattare gli altri come entità astratte, come meri simboli di qualcosa, come strumenti per la realizzazione di altri fini, magari elevati. Cioè, ci rapportiamo all’altro esclusivamente in funzione del nostro e dell’altrui ruolo di quel momento. Lo trattiamo come un cliente, ad esempio, ma non come una persona che è anche un cliente.

Si può considerare la situazione descritta su Repubblica dell’11 ottobre: “Che la morte di Francesca non sia inutile”. Tra le tante parole dei genitori di Francesca Graziano, parole profonde e alte, toccanti e riflessive, vi è un passaggio che fa pensare: è quello in cui si descrive lo scambio tra Francesca e i suoi datori di lavoro.

Alla domanda sul perché non rendesse più come prima, aveva risposto: perché non mi sento bene. Allora ti dobbiamo sostituire, era stata la replica che le era arrivata.

Ecco: se non mi sento bene, cioè se sono umana, devo essere sostituita. Ma è proprio la mia umanità che fonda la mia competenza, che sorregge la mia motivazione, le mie capacità professionali. Se non fossi umana, non potrei essere quel lavoratore che fino a ieri rendeva, che oggi non ce la fa e che domani tornerà a rendere. E come tutti gli esseri umani a volte sto bene, a volte poco bene e a volte sto proprio male.

Però, la logica nella quale viviamo – quella in cui forse siamo vissuti negli ultimi decenni o negli ultimi secoli – non tiene conto di ciò. Conta solo l’adesso della prestazione attesa.

Lo stesso discorso può farsi rispetto a infinite altre situazioni in cui l’umanità viene negata.

Ma per lo più non c’è cattiveria.

Molto spesso, credo, succede e basta. Nessun dolo. Sono negazioni dell’umanità altrui involontarie, incidentali, collaterali. Necessarie, nel senso di dovute, o ritenute tali, ma non volute.

Il fine della sostituzione di Francesca non era farla sentire gettata via, procurarle sofferenza e portarla alla disperazione. Forse chi le ha dato quella risposta era preso in una morsa, tra l’incudine e il martello, come suole dirsi.

Sei dentro un ingranaggio più grande di te e ti ritrovi ad agire nel modo in cui è previsto che tu faccia. Come da programma. E il programma, in sé, non è necessariamente sbagliato. Perché vi sono contratti da rispettare, attese da soddisfare, diritti da garantire e costi da sostenere e contenere.

Quando non vengono prima gli esseri umani questi si alienano reciprocamente

Si dice che è il Sistema. I nostri arti sarebbero tirati con fili invisibili da burattinai indefinibili. Secondo questa prospettiva, ci troviamo ad agire non ciò che sentiamo e pensiamo, ma ciò che il Sistema ci detta. Ragioniamo e ci comportiamo secondo ciò che il Sistema prescrive alla nostra mente, con tanta quotidiana e irriducibile sistematicità che non ce ne rendiamo neppure conto. Può anche darsi che sia così, che si sia davvero manovrati, manipolati, condizionati dal Sistema.

Quale che sia la causa, quando non vengono prima gli esseri umani, questi si alienano l’uno dall’altro. E si trattano reciprocamente come alieni. Così si affaccia lo spirito del prima io.

A volte tale spirito ci sussurra ad un orecchio, ma riusciamo ancora a sentirci degli esseri umani, a non alienarci dall’altro, conservando quel minimo di capacità empatica che ci permette di riconoscere l’altro come simile a noi.

A volte, lo spirito del prima io non sussurra soltanto, ma ci assorda. Allora l’altro, nella nostra percezione, si allontana improvvisamente. Come se scattasse all’indietro. Finisce sullo fondo. Ne intravvediamo la sagoma, ma non è più una persona. Non ha più lineamenti, occhi, personalità, desideri, intenzioni, bisogni. È un’entità insensibile. È un manichino, un’immagine priva perfino di tridimensionalità.

Lo abbiamo perso, sì, ma non del tutto. Perché a quel punto possiamo anche proiettargli addosso frustrazioni profonde, amarezze, paure e rabbie.

 

Quando non vengono prima gli esseri umani arrivano i conflitti

È difficile per tutti noi tenere a bada queste involuzioni delle interazioni e dei rapporti con le altre persone. Capita di finirci dentro senza avvedersene. E, poi, quando ce ne accorgiamo, stiamo malissimo.

Perché, a quel punto, finalmente, vediamo quel che è accaduto. Misuriamo, centimetro per centimetro, sulla pelle nostra e altrui, la capacità umana di fare e di farsi del male. Ci vergogniamo. Tanto da volere sprofondare, a volte. E ci sentiamo anche un po’ soli, almeno finché non riusciamo a recuperare l’altro, a riparare il legame rotto e a curare le lacerazioni personali.

Molto spesso, però, la consapevolezza non arriva o arriva troppo tardi, quando i danni sono irreparabili.

Capita con le guerre. I due conflitti mondiali furono scatenati sostanzialmente dalla logica del prima io, anzi della sua variante plurale: prima noi. Un criterio guida che, se non è alla base di tutte le guerre, lo è di molte, passate e attuali.

Si potrebbe ritenere che abbiamo visto versare abbastanza sangue, noi esseri umani. Ormai dovremmo avere imparato che quando si sostituisce il prima gli esseri umani con il prima noi presto o tardi arrivano distruzioni e autodistruzioni. E lutti.

 

Prima noi porta allo scontro

Quando è il prima io (solo io) prende il posto del prima gli esseri umani (incluso io) ed è affermato e agito da tutti gli attori della relazione, quasi inevitabilmente questi arrivano allo scontro.

Passo prima io, dice uno. No, tocca a me, dice l’altro. Bum!

Ma ci sono le regole sulla precedenza, si potrebbe obiettare. È vero, ci sono quelle regole. Si tratta delle regole che traducono operativamente il principio per il quale prima vengono gli esseri umani. Le regole poste per evitare che si accumulino le ossa fratturate. Di tutti.

Estromettere dal pensiero e dalla cultura, dalla coscienza e dal sentimento il prima gli esseri umani e soppiantarlo con il prima noi, dunque, significa dirigersi, molto spesso, verso il muro del conflitto. Andarci contro a velocità folle, con l’incoscienza dell’automobilista spericolato che si sente onnipotente. Quello che pensa di avere tutto sotto controllo e non riesce neppure a pensare a quanti e quali danni – cioè costi umani, sociali, politici, economici e culturali – procurerà lo schianto. Solo dopo lo scontro, forse, di fronte alle macerie, avrà un’immagina di quanto i danni saranno, anche sul lungo periodo, insostenibili e spaventosamente invalidanti.

Anteporre il noi all’umanità, però, non presenta soltanto potenziali risvolti bellici, ma ha anche altre implicazioni. Implicazioni in termini morali, etici, culturali, economici, ambientali, sociali e psicologici.

 

Prima gli esseri umani non è sinonimo di slealtà verso i compatrioti, ma di istinto di autoconservazione come specie umana

Così, vendiamo armi ad estremisti, a dittatori, a regimi dalla politica interna ed estera discutibilissima (più controversa ancora della nostra), ci concludiamo affari, li sosteniamo finanziariamente o con altri mezzi. Facciamo guerre, (non) dichiarate per esportare pace e democrazia, allo scopo di trarne utili economici enormi. Inquiniamo a destra e a sinistra, ecc. Sempre seguendo il criterio del prima noi, della cura dei nostri interessi, dei nostri posti di lavoro, della nostra insaziabile fame di energia, dei nostri consumi, dei nostri equilibri[1].

Prima noi, viene detto, perché in gioco c’è la tutela del nostro gruppo, del nostro mondo, del nostro way of life. Mentre il prima gli esseri umani risuona come minaccioso per la nostra vita, per come la conosciamo.

Poi, però, la natura umana e quella fisica presentano il conto. Sommosse, rivoluzioni, tensioni internazionali, regimi dispotici, terrorismo, carestie, diseguaglianze, tensioni sociali, immigrazioni epocali, disastri ambientali e cambiamenti climatici angoscianti. E ci tocca realizzare che il rifiuto del prima gli esseri umani in nome del prima noi ci costa parecchio, ci minaccia, in fondo, in maniera radicale. Ci fa esplodere fisicamente e simbolicamente. Ci spezza nella contraddizione fondamentale che avevamo tentato di negare.

 

Prima gli esseri umani non è sinonimo di uno stanco internazionalismo buonista ma di lealtà verso la propria umanità

Nel ripudio del prima gli esseri umani e nella sua sostituzione con il prima noi, che va dilagando dagli USA all’Austria (un ripudio fieramente e, in un certo senso coerentemente, rivendicato dal nazionalrazzismo[2]), il meccanismo di giustificazione costantemente proposto ai fini della propria auto-assoluzione e della persuasione altrui, si declina, in sintesi così: la coperta è troppo corta per riuscire a coprire tutti coloro che hanno freddo, quindi copriamoci noi, che ce l’abbiamo già addosso, e gli altri si aggiustino.

Ma è la coperta davvero troppo corta?

Se guardiamo alla realtà del nostro Paese, la tesi per la quale vengono prima gli italiani andrebbe integrata con alcuni dati.

Si dice che, data la ristrettezza delle risorse, occorre pensare prima agli italiani. Più di quanto non si faccia attualmente. È la logica, appena malcelata, del mors tua e vita mea, cui già facevo in un post dedicato all’antibuonismo nazionalrazzista. Una logica che, in natura, a volte, si impone.

L’Italia, però, si trova davvero in questa situazione?

Da non esperti, da profani dei conti pubblici, parrebbe plausibile nutrire parecchi dubbi e farsi qualche idea.

A leggere l’editoriale di Francesco Riccardi su l’Avvenire del 16 ottobre ce n’è d’avanzo per farsene un’ideina. Infatti, ci viene ricordato che il lavoro nero, l’economia sommersa e le attività propriamente illegali pesano per il 12,6% del Prodotto interno lordo, 208 miliardi di euro complessivamente, secondo la stima dell’Istat relativa al 2015. Secondo i calcoli più drastici, quelli proposti da Il Giornale, i migranti ci costerebbero 4,7 miliardi.

Appare, pertanto, dubitabile che azzerare quest’ultima spesa significhi aiutare davvero i cittadini italiani. Se il ladro della mia auto mi lasciasse sul marciapiede l’ombrello che tenevo sul sedile posteriore, non ne caverei una grande soddisfazione.

L’alibi della coperta corta

La coperta è troppo corta davvero, oppure, è comodo affermare che lo è affinché nulla cambi?

Viene il sospetto, assai poco paranoico, che l’argomento della coperta corta sia un comodo alibi.

O, peggio ancora, vi è qualche margine per supporre che la storia della coperta corta sia utile a sostenere la teoria del prima noi, così da stimolare una sorta di istanza difensiva tra gli italiani, una sorta di sentimento apparentemente autoconservativo, ma in realtà autodistruttivo.

Perché sedare i cittadini italiani e indurli a proiettare sul più archetipico dei nemici immaginari (lo straniero) le sofferenze generate da storiche magagne, tutte interne, così dal non doversi impegnare a risolverle, non significa voler il bene degli italiani, ma l’esatto contrario.

 

Prima noi al posto di prima gli esseri umani è il nocciolo del reato

Alla base del reato (contro la persona, contro il patrimonio, contro lo stato, contro il popolo, ecc.), vi è, in fondo, quasi sempre se non sempre, il pensiero del prima io.

È questa la prospettiva che, per lo più, guida e supporta l’azione criminale.

L’evasore fiscale non dice: prima gli esseri umani e il loro bisogno di servizi. Ma dice: prima io e il mio bisogno, o desiderio, di tenermi il denaro. Allo stesso modo, il corruttore, il corrotto, lo stupratore, il magnaccia, il pedofilo, il mafioso, ecc. non considerano l’umanità delle loro vittime dirette e indirette, ma si dicono: prima vengo io. Oppure, quando agiscono nell’interesse di un gruppo particolare, si dicono: prima veniamo noi.

Gli autori di tali e altri delitti non si limitano a realizzare l’azione che concretizza il prima io. Ma teorizzano questa prospettiva. Attivano, per dirla rozzamente, meccanismi di auto-giustificazione o auto-legittimazione della condotta criminosa. E tali meccanismi funzionano abbastanza efficacemente. Permettono, infatti, già prima di delinquere di auto-assolversi, così da poter compiere il delitto e, dopo averlo commesso, da riuscire a conviverci[3].

 

Il prima io è la negazione dell’umanità dell’altro

Alla base del delitto vi è la negazione dell’umanità della vittima. L’interruzione del sentimento, della consapevolezza del legame che accomuna ogni essere umano è ciò che consente di rapinare, violentare, emarginare, sfruttare e discriminare l’altro.

La negazione dell’umanità dell’altro, l’oscuramento del volto altrui, però, non è soltanto ciò che consente al reo di agire, ma è anche ciò che connota l’escalation conflittuale.

Lo si riscontra in quei conflitti di coppia, familiari, di vicinato e in altri contesti relazionali, giunti a livelli esasperati di spersonalizzazione e deumanizzazione reciproca. Non a caso lo scambio di auguri e i contatti tra soldati schierati in trincee contrapposte durante il Natale del 1914 (la cosiddetta Tregua di Natale) fu presto interrotto.

Come si fa a scannare uno che si sente simile a sé? È difficile, tanto difficile. Quasi impossibile.

L’unico modo per riuscire a scannarlo è odiarlo o averne paura da morire e, soprattutto, non considerarlo simile a sé. Anzi, percepirlo come una minaccia, meglio, appunto, se mortale.

Ecco allora che per fondare la legittimità del prima noi e l’illegittimità del prima gli esseri umani occorre convincere che gli altri sono alieni, cioè stranieri rispetto alla nostra umanità. Sub-umani o disumani.

Se si dipingono gli altri come mostri, allora il prima noi è vissuto come se fosse in realtà uguale al prima gli esseri umani, poiché diventa: solo noi siamo esseri umani

Non occorre dirlo apertamente. Anche se vi è chi lo fa. Può bastare suggerirlo con una costante rappresentazione dell’altro, del migrante, come un soggetto pericoloso, destabilizzante, violento, antitetico e portatore di caos.

Non è un’operazione particolarmente sofisticata. Basta poter contare su alcune condizioni:

  • mezzi e risorse necessarie per realizzare una campagna ininterrotta, svolta su vasta scala e capillarmente
  • una disponibilità dei destinatari della campagna di odio ad essere manipolati. Cioè, il loro sentirsi già in gran parte non considerati come esseri umani. Se tale presupposto c’è, essi, alienati da quell’umanità che gli dovrebbe essere riconosciuta, più facilmente saranno propensi a disconoscere l’umanità altrui. Magari proprio per riaffermare la propria superiorità di essere umani.

Potendo contare su tali due presupposti, la sostituzione del prima gli esseri umani con il prima noi è sdoganata, legittimata, addirittura nobilitata.

Simili dinamiche sono poste in essere, scientemente, dai tanti fondamentalismi politici e religiosi, che hanno insanguinato la storia dell’umanità fino ad oggi.

Se ce ne ricordassimo, non sarebbe così utopico recuperare in termini più pregnanti quel prima gli esseri umani che, in fondo, mettiamo in atto tutti i giorni. Dando la precedenza al pedone sulle strisce pedonali, rispettando la raccolta differenziata, astenendoci dal fare i furbi…

 

Alberto Quattrocolo

 

[1] Tanto per fare un esempio, si pensi alla discussa decisione della Camera dei Deputati relativa all’embargo delle armi nei confronti dell’Arabia Saudita.

[2] Sono molti ormai i post dedicati al nazionalrazzismo sul blog Politica e conflitto.

[3] Nei percorsi di mediazione penale (ma anche in altre situazioni, naturalmente) capita di osservare cosa accade nell’istante in cui tali meccanismi cessano di funzionare.

 

(in)giustizia nazionalrazzista

(in)giustizia nazionalrazzista

Il carattere iniquo della (in)giustizia nazionalrazzista

Il nazionalrazzismo – termine che ho proposto per descrivere quelle organizzazioni, politiche e non, e quei soggetti che teorizzano l’esistenza di un razza italiana che sostanzia ed esaurisce la nazione italiana e a cui ho dedicato diversi post[1] – da tempo svolge un’assidua comunicazione finalizzata a promuovere una particolare visione della giustizia, cioè una (in)giustizia nazionalrazzista.

Al cuore di questa (in)giustizia nazionalrazzista vi è la colpevolizzazione di tutti gli immigrati per le colpe (vere o presunte), cioè i reati e altri comportamenti devianti, commesse da alcuni. Si tratta di uno schema che, a chiunque sia applicato, rappresenta la quintessenza dell’ingiustizia.

Da sempre, infatti, una delle forme archetipiche e più detestabili di ingiustizia consiste nel punire anche l’incolpevole per le colpe commesse dal reo.

Tale ingiustizia è ancora più intollerabile quando sono tanti, tutti, i membri di un gruppo ad essere puniti per le colpe di una minoranza di esso (fosse pura una minoranza numerosa). Si tratta, nientemeno, della logica sottesa alla rappresaglia.

Perciò, nel titolo e nel resto del testo, si potrebbero tranquillamente liberare le lettere “in” dalle parentesi e attaccarle senza problemi alle parola “giustizia”.

Quale ulteriore aggravante del carattere ingiusto di tale propaganda, che il movimento nazionalrazzista persegue nei vari Paesi in cui si manifesta con prepotenza, vi è un altro aspetto: negare la realtà e soppiantarla con la mistificazione, attraverso una campagna incessante, fino a far sì che la bugia diventi una verità oggettiva nella percezione collettiva.

Infatti, consapevole della manifesta iniquità insita nella colpevolizzazione di persone innocenti, il nazionalrazzismo cerca di far crede che, in realtà, a tutti gli immigrati siano imputabili delle colpe effettive o potenziali.

I fini della campagna sulla (in)giustizia nazionalrazzista

Analogamente a quanto proposto nel post su (il)legalità nazionalrazzista e in quelli sull’antibuonismo nazionalrazzista, mi permetto di rilevare che tale campagna, declinata in molteplici contesti e con i più diversi mezzi (dai social, alle manifestazioni di piazza, agli articoli sulla stampa, ecc.), la (in)giustizia nazionalrazzista persegue in definitiva un triplice fine.

  • Demonizzare i migranti, si tratti dei cosiddetti migranti economici o di richiedenti protezione internazionale e rifugiati, tale fine è perseguito con una doppia operazione:
    • la costante divulgazione sui social e su altri mezzi di “fatti” proposti per confermare gli stereotipi negativi verso i migranti;
    • la negazione di altre possibilità di interpretazione degli stessi fatti e il rifiuto o l’oscuramento di altre notizie astrattamente capaci di erodere la montagna di preconcetti e pregiudizi nutriti nei loro confronti.
  • Screditare, fino a delegittimarli, i soggetti, gli enti e le organizzazioni pubbliche e private che sono favorevoli alle attuali (o a più accentuate) politiche di accoglienza e inclusione (“i buonisti”, secondo la ricorrente definizione nazionalrazzista).
  • Accreditarsi come unica barriera contro una marea montante di ingiustizie e illegalità.

In sostanza, il fine ultimo della campagna sulla (in)giustizia nazionalrazzista, mi pare che sia quello di procurare una gran massa di consensi e di tradurla in voti in occasione delle prossime consultazioni elettorali – le elezioni regionali in Sicilia e quelle nazionali del 2018 – nonché di quelle successive a queste. La visione, direi, perciò, è di lungo periodo.

 

Qual è l’essenza dell’(in)giustizia nazionalrazzista? “Fermare l’invasione” e difendere la “razza italiana”

L’idea di fondo che il nazionalrazzismo cerca di veicolare, anzi di diffondere, è che la razza italiana è trattata ingiustamente. Attenzione: non i cittadini italiani, ma la razza italiana.

Infatti, non rientrano in questa “razza” i cittadini italiani di origine straniera. Questi sono considerati dal nazionalrazzismo come facenti parte di un piano criminoso per portare africani ed asiatici a soppiantare gli italiani (e, su scala europea, a soppiantare gli europei, mentre, oltreoceano, destinati ad essere sostituiti sarebbero i bianchi, preferibilmente, anglosassoni).

Si possono ricordare a questo proposito le affermazioni di Matteo Salvini, relative al piano della presidente della Camera dei Deputati per “la grande invasione”. La posizione del segretario leghista, in realtà, non è espressione di un’idea nuovissima, visto che questa teoria fu proposta già diversi anni fa da altri “pensatori”[2].

L’elemento di novità nelle “teorie sostitutive” proposte oggi in Italia consiste, dunque, esclusivamente nel fatto che tali idee trovino non solo ospitalità nel dibattito politico nostrano,  ma anche una concreta attuazione.

Un esempio per tutti è quello degli scontri tra militanti nazionalrazzisti e polizia per impedire la presa di possesso di una casa popolare assegnata ad una famiglia la cui coppia genitoriale è composta da un italiano e un’eritrea.

 

(in)giustizia nazionalrazzista dal punto di vista sociale

In un post su Facebook il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, ha affermato:

«Il modo in cui il sindaco di Roma Virginia Raggi e la Questura capitolina sta affrontando una vera emergenza sociale equivale a soffiare sul fuoco per trasformare la protesta civile e silenziosa in protesta violenta. Forza Nuova si fa carico delle doglianze dei romani costretti a vedere i propri quartieri in stato d’assedio e famiglie sfrattate portate via e messe in mezzo alla strada. Forza Nuova chiede l’immediata liberazione dei patrioti italiani colpevoli solo di aver reagito ad una vergognosa azione antipopolare»

L’idea di (in)giustizia nazionalrazzista dal punto di vista sociale è efficacemente espressa dalle parole di Fiore: gli italiani vengono sfrattati per lasciare spazio allo straniero, dunque, per ristabilire la giustizia, o meglio per dare corso ad una (in)giustizia nazionalrazzista, i patrioti italiani devono impedire l’esecuzione di un provvedimento amministrativo applicativo di una legge.

Anzi, per boicottare l’applicazione della legge, avrebbero addirittura il diritto-dovere di attaccare le forze dell’ordine, colpevoli di garantire l’esecuzione di “una vergognosa azione antipopolare”.

 

La lotta senza quartiere nei quartieri delle nostre città svolta dalla (in)giustizia nazionalrazzista 

A parte il linguaggio e le condotte dispiegate, che sono indiscutibilmente da camicie nere, da fascismo squadrista (violento) della prima ora, è assai significativo il fatto che la lettura e la risposta data alla situazione citata da questi nazionalrazzisti siano di questo tipo: si vuole far lasciare l’abitazione ad una famiglia “tutta italiana”, che da tempo è morosa rispetto al pagamento del canone, solo per impedire che tale appartamento di edilizia residenziale pubblica sia attribuito ad un’altra famiglia di non proprio pura razza italiana.

Non è la sorte del primo nucleo famigliare che interessa ai nazionalrazzisti, ma il fatto che subentrino degli italiani non puri. I quali, però, legalmente ne hanno diritto, versando in analoghe o peggiori condizioni di disagio[3].

A riprova della latitante sensibilità sociale di questa forma di (in)giustizia nazionalrazzista vi sono due banali considerazioni:

  • le organizzazioni nazionalarazziste quando una famiglia italiana è sfrattata a favore di altri italiani si astengono da analoghe iniziative patriottiche 
  • invece di lasciare sfrattare quella famiglia italiana per morosità, non hanno pensato di aiutarla economicamente a saldare il debito, pagandoglielo di tasca loro o con una sottoscrizione.

Quest’ultima sembra una provocazione? La sciocchezza proposta da un buonista irrecuperabile?

Be’, è vera la prima affermazione e lascio giudicare gli altri sulla seconda. Faccio presente, però, che la realtà supera la fantasia anche dei più inguaribili buonisti: è successo qualcosa di simile, infatti, ad Orbassano, come racconta il Quotidiano di Torino Sud.

 

Il patriottismo sociale “strabico” e la discutibile sensibilità sociale della (in)giustizia nazionalrazzista

In realtà, più che la giustizia sociale, quella che interessa al nazionalrazzismo è la realizzazione di una lotta senza quartiere nei quartieri delle nostre città. Gli preme solo arrivare a stabilire un’ingiustizia nazionalrazzista.

Infatti, assumiamo pure un punto di vista patriottico: se essere patrioti vuol dire difendere gli italiani in condizioni di povertà e disagio, allora cosa dire degli italiani che fanno danni ad altri italiani, aumentandone rovinosamente le difficoltà, i disagi e le sofferenze?

Prendiamo qualche recente esempio di truffe, limitandoci a quelle ai danni dell’INPS:

  • quanto costano a ciascuno di noi fatti come la truffa all’INPS realizzata da 370 italiani, che incassavano l’assegno sociale, fingendosi poveri, mentre erano residenti all’estero? In tal caso il costo è di 10 milioni di Euro. Sai quanti affitti si possono pagare agli enti di edilizia popolare con quei 10 milioni?
  • Altre due recenti truffe all’INPS sono stata scoperte in Calabria, rispettivamente in provincia di Cosenza (a Castrovillari), con 324 false assunzioni e un danno di 880.000 Euro, e a Corigliano Calabro, grazie all’invenzione di 335 falsi braccianti, scherzetto costato ai contribuenti onesti altri 800.000 Euro. Ci si costruirebbero un bel po’ di casette per le famiglie italiane con quei soldi. Ma anche per delle famiglie straniere e perfino marziane – contando anche i 2 milioni di un’altra truffa a Palermo, relativa a false invalidità e false malattie -, se truffe simili non fossero compiute dai nostri connazionali.

Se, poi, spostiamo lo sguardo alle truffe proprio sul tema della casa, come si spiega che coloro che si definiscono patriottici non contestano, con una protesta civile e silenziosa, come dice il leader di Forza Nuova, i 120 italiani di pura razza che avrebbero trasferito la loro residenza da Roma ad Amatrice, per incassare i contributi previsti per i residenti nelle zone terremotate (anche 900 Euro al mese)?

Oppure: perché non manifestano solidarietà ad Angelo Cambiano, l’ex-sindaco di Licata (Ag), che vive sotto scorta perché minacciato più volte per il suo impegno contro l’abusivismo edilizio (tra le intimidazioni patite vi è stato l’incendio di due case di famiglia), che è stato sfiduciato dal consiglio comunale proprio perché intenzionato a far eseguire le sentenze di abbattimento delle costruzioni abusive?

Ancora: perché non si adoperano a Napoli per sollecitare, civilmente, il pagamento delle multe e degli affitti, visto che il Comune non riesce a riscuotere tale somme di denaro per mezzo miliardo di Euro (pari al 50% dell’importo complessivo)?

 

(in)giustizia nazionalrazzista e capri espiatori

Come mai mentre recitano gli slogan della (in)giustizia nazionalrazzista sulla concorrenza sleale degli immigrati nel lavoro, Fiore e altri non si indignano per il fatto che, in realtà, anche qui sono gli italiani quelli che fregano altri italiani?

Un esempio? I concorsi all’Università di Firenze.

In realtà, l’idea di giustizia che il nazionalrazzismo vuole affermare, come scritto in apertura di questo post, è di semplicissima descrizione: è un’ingiustizia.

Un’ingiustizia, poiché sostanzialmente individua nell’immigrazione la fonte di tutti i mali e cerca di proiettare sui migranti la frustrazione, la rabbia, l’angoscia e la desolazione degli italiani, affinché questi abbiano qualcuno di concretamente tangibile da odiare e a cui far pagare anche le loro colpe.

Infatti, il nazionalrazzismo non si limita a svolgere una campagna di criminalizzazione degli immigrati, sfruttando e amplificando i fatti di cronaca relativi a reati commessi da stranieri (aspetto già visto nei post sulla strumentalizzazione degli stupri e sull’illegalità nazionalrazzista).

Affianca quella costante denigrazione ad un martellamento insistente sulle fasce sociali più colpite dal disagio generato dalla Crisi (quindi sia quelli già prima sofferenti che le la media borghesia impoverita, ma  mirando soprattutto ai vecchi e ai nuovi poveri), per convincerle che responsabili della loro sofferenza sono:

a) gli immigrati 

b) le pubbliche amministrazioni nazionali, regionali e locali che, secondo la propaganda nazionalrazzista, privilegiano gli stranieri sul piano dell’assistenza sociale e sanitaria.

Il messaggio ripetutamente inviato è che sono gli italiani ad essere discriminati dall’ente pubblico a favore degli stranieri.

Il nazionalrazzismo dice che i migranti costano una montagna di soldi,  che vengono perciò sottratti agli italiani. In tal modo spera che quelli, tra costoro, che si sentono poco supportati dallo Stato (una grandissima percentuale di italiani) siano inclini ad avvertire gli immigrati come parassiti.

Gli immigrati costerebbero allo Stato 4,6 miliardi, secondo quanto riporta Il Giornale: un bel po’ di quattrini, certamente, ma l’evasione fiscale ce ne costa 111, cioè 24 volte di più!

Ciononostante il messaggio nazionalrazzista funziona. A dispetto di quanto sia ingenuo pensare che i problemi dell’occupazione, dei tagli ai servizi, ecc., siano attribuibili all’emigrazione, visto che sono, invece, senza dubbio, ascrivibili all’evasione fiscale.

Forse perché da sempre gli esseri umani hanno bisogno di capri espiatori e hanno bisogno di crederli realmente colpevoli.

Ad esempio, il fatto che i reati in Italia siano calo da anni (pur essendo sempre, comunque, troppi), mentre l’immigrazione è costantemente cresciuta, non porta una parte degli italiani a concludere che l’affermazione per la quale l’immigrazione è sinonimo di delinquenza è una mistificazione.

Anzi, quel messaggio viene acriticamente accettato da un numero crescente di italiani. E l’immigrato è sempre di più sentito come un nemico. Un nemico insinuatosi slealmente entro le pareti domestiche. Un nemico da scacciare spietatamente.

 

Alberto Quattrocolo

 

[1] Gli altri post sul tema o ad esso implicitamente correlati sono: Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista, (il)legalità nazionalrazzista, La strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri, La doppia morale nazionalrazzista, Dove eravamo, Propaganda nazionalrazzista e Welfare, Il nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale), Nazionalrazzismo e socialrazzismo

[2] Ad esempio, Renaud Camus, nel 2001, con La grande sostituzione (Le grand remplacement) sosteneva che in breve i francesi di “pura razza” e la loro cultura sarebbero stati sostituiti dagli immigrati (e dai loro figli), individuandone i segnali in un decadimento della lingua francese, correlata ad un minor consumo dei testi classici: anche a voler prendere sul serio Renaud, ci sarebbero non poche obiezioni sulla valenza probatoria dei suoi argomenti. Su L’Espresso del 1° ottobre di quest’anno (“Non è lo straniero che uccide la cultura”), lo psicoanalista Luigi Zoja, che cita proprio le idee di Renaud, evidenzia anche la loro palese infondatezza. In quell’articolo Zoja cita anche Samuel Huntington. Costui già nel ‘96 aveva presentato le sue “teorie” anti-islamiche, in Lo scontro di civiltà, poi nel 2004 era tornato alla carica con La nuova America. Qui denunciava la perdita d’identità degli americani di razza pura, quelli discendenti dai coloni originari, a causa del melting pot, legittimato dai movimenti per i diritti civili degli anni ’60 e ’70. A suo parere l’America è in via di snazionalizzazione a causa degli immigrati e del mancato, radicale, contrasto ad essa da parte del Governo (tra quelli che Huntington considera minacciosi per l’identità americana vi sono anche gli italoamericani).

[3] Avevo già proposto delle osservazioni sulla logica del mors tua vita mea che informa questo tipo di azioni nel primo post relativo all’antibuonismo nazionalrazzista.