Viene uccisa Teresa Gullace che ispirerà il personaggio di Anna Magnani in “Roma città aperta”

A Roma, a pochi passi da San Pietro, c’è Vicolo del Vicario; qui, accanto alla zona abitata dai fornaciari, chiamata non a caso Valle dell’Inferno, sorgeva uno dei tanti baraccamenti che ospitava i più miserabili tra i poveri. Erano perlopiù meridionali che si erano trasferiti nella capitale in cerca di lavoro nell’edilizia; lavoravano a giornata come manovali, manodopera non specializzata costretta a continui spostamenti e licenziamenti. Il poco salario non era sufficiente a sfamare la famiglia, tantomeno per procurarsi una casa, così vivevano in baracche di fortuna, nonostante contribuissero con le loro fatiche a costruire i palazzi dei quartieri ricchi. Per una parte di questa umanità dimenticata, il regime fascista aveva costruito delle borgate con case provvisorie, come San Basilio o Gordiani, con lo scopo di allontanare i reietti dal centro della città: la Roma imperiale non poteva tollerare tanta miseria. Tuttavia, molti baraccamenti come quello a Vicolo del Vicario nel 1944 ancora esistevano, malgrado la propaganda di regime tentasse di nasconderli.

In questo “villaggio” di invisibili vive, ammassata in una sola stanza, una famiglia di sette persone, Girolamo e Teresa Gullace con i loro cinque bambini; la donna è incinta, il marito lavora nei cantieri, la paga è scarsa, per mangiare ci si arrangia rimediando un pasto dalle suore o scambiando i bollini della tessera annonaria, una razione di burro per una di pasta.

Una mattina, Girolamo esce a piedi, ignaro che per le vie di Roma è in corso un rastrellamento, ordinato dai tedeschi per avviare una vasta quantità di uomini adulti ai campi di lavoro e prigionia in Germania; viene così fermato dai carabinieri, portato prima al distaccamento di via delle Fornaci e successivamente al comando tedesco. I tedeschi lo internano alla caserma dell’81° Fanteria in via Giulio Cesare insieme a tanti altri. La famiglia viene a conoscenza del fatto con molto ritardo, attraverso il passaparola.

La mattina del 3 marzo ‘44, Teresa Gullace, accompagnata dal suo secondogenito, si reca in via Giulio Cesare, come già aveva fatto nei giorni precedenti, per cercare di vedere il marito e passargli, magari, un pezzo di pane nero, qualche sigaretta e una camicia pulita. Quella mattina, però, la situazione è differente: le donne degli internati sono centinaia di fronte alla caserma, gridano, piangono, implorano, ma sono bloccate da una muraglia di soldati tedeschi. I rastrellati sono rinchiusi all’ultimo piano e si affacciano. Sulla via passa avanti e indietro una motocicletta con due SS, uno guida e quello dietro agita in aria il mitra, lo punta contro l’assembramento delle donne per non farle scendere dal marciapiede, poi lo alza e spara contro le finestre per far rientrare i reclusi.

Dissimulati tra la folla vi sono anche alcuni partigiani della Resistenza romana, una ventina di gappisti armati: hanno mobilitato la popolazione, soprattutto donne da tutti i quartieri della città, per fare delle dimostrazioni e avere notizie sui parenti fermati, ma l’intento è quello di attaccare la caserma per liberare quanti più prigionieri possibile.

Teresa Gullace è impaurita di fronte a tanta moltitudine, ma si fa coraggio, sgomita tra la folla e riesce a raggiungere la prima fila. Vede il marito aggrappato alla grata della finestra, si fa ancora più avanti, ha in mano l’involto di cibo, si stacca dal marciapiede e attraversa la strada dirigendosi decisa verso la caserma. Le si para davanti un soldato tedesco, le sbarra il passo, spiana il fucile. Teresa tenta di spiegargli che vuole solo lanciare quel pezzo di pane a suo marito, quello che si agita sopra la finestra; di fronte all’indifferenza del militare, la donna comincia ad alzare la voce, inveisce, si dispera. Forse il soldato capisce male, forse si sente minacciato e, senza dire una parola, spara e la colpisce in pieno.

Il caos è totale, la folla esplode, accorrono truppe tedesche di rinforzo, alcune militanti partigiane e comuniste presenti inveiscono e minacciano i militari tedeschi, una di loro viene arrestata, mentre le altre improvvisano una protesta pacifica, pregando e ricoprendo il corpo dell’uccisa con mazzi di fiori sempre più numerosi; i gappisti devono rinunciare all’azione pianificata, ma un piccolo gruppo di loro uccide alcuni soldati prima di darsi alla fuga.

Il figlio di Teresa, che si era allontanato per recuperare i documenti attestanti che il padre “non era uno sfaccendato” giacché aveva un regolare posto di lavoro, ritorna in via Giulio Cesare ignaro dell’accaduto:

Arrivo, scendo dal tram, e vedo tutta questa gente zitta, silenziosa, sembrava una cosa surreale. Io mi dicevo: ma cosa è successo. Allora inizio a guardarmi intorno per cercare mia madre. Mi avvicino verso il marciapiede e vedo che ci stava una montagna di mimosa e vicino un vecchietto seduto su uno sgabello. Io fra me mi sono detto: ma che è scemo questo, co’ ‘sto macello che ce sta questo venne la mimosa. Mi avvicino e vedo che sotto la mimosa ci stava una macchia di sangue. Allora inizio a girare tra la gente e sento che dicevano: povera donna, disgraziati, che fine le hanno fatto fare. Capirai, a me mi ha preso un colpo, perché non vedevo mia madre.

La protesta è tale che i nazisti sono costretti a liberare il vedovo Girolamo Gullace. Nel pomeriggio, viene stilato un manifestino sull’accaduto, che viene ampiamente diffuso. Nei giorni e nelle settimane seguenti (segnati, fra l’altro, dalla strage delle Fosse Ardeatine), la tragica storia diviene una delle icone della Resistenza.

Alla vicenda si ispira liberamente la celebre scena dell’uccisione del personaggio di Anna Magnani in “Roma città aperta”: la corsa disperata di Sora Pina dietro al camion su cui è prigioniero il marito, uno sparo, il silenzio, e lei che cade a terra inerme, senza vita. Una scena straziante e piena di pathos che Ascanio Celestini ha commentato così:

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Lei muore prima di toccare terra, mentre sta volando, leggera ed elegante, spinta da una forza quasi inarrestabile, ad afferrare in volo la mano del suo uomo per trarlo via, unico e solo, da quella massa di derelitti.

Sofferenza, distruzione, rinascita e voglia di riscatto. Dell’enorme impressione che, nella Roma occupata, suscitò l’uccisione di Teresa, il film riporta solo echi molto affievoliti, perché altri erano gli intenti del regista Rossellini e alla pellicola era attribuita una funzione catartica, legata alla redenzione di un popolo dal quale far scaturire una nuova classe dirigente, in vista della ricostruzione.

Più minuti e intimi sono i sentimenti di una donna come Teresa, che si sarebbe forse accontentata di proteggere la sua famiglia. Muore sola, sconosciuta immigrata calabrese, accanto non ha nessuno, non ci sono i figli, non c’è un prete a impartirle l’estrema unzione, le sono vicine centinaia di donne che come lei invocano solo un gesto di umana pietà. Quella muta protesta, quelle preghiere cantilenate, quei mazzi di fiori che aumentano a vista d’occhio, quel corpo riverso sul selciato diventano un simbolo che la trascende.

Insignita della Medaglia d’oro al merito civile, alla sua memoria sono state dedicate narrazioni, celebrazioni, targhe, scuole, stampe filateliche. Ma è ancora il figlio, ormai ottuagenario, a ricordare gli aspetti meno nobili di quel lutto, divenuto pubblico suo malgrado:

Abbiamo fatto il funerale con il camion del Comune, in fretta, perché non volevano che si sapesse. È stata sepolta al Verano. La targa che ricorda la morte di mia madre era sul marciapiede opposto rispetto a dove è ora, è stata spostata. Dove stava prima i fascisti di Prati le davano fuoco, la imbrattavano continuamente, così la donna che aveva la finestra vicino alla targa aveva paura, quindi l’hanno spostata e messa sul muro della caserma, dove si trova adesso.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.it.wikipedia.org; A. Orlando, “Parte da Cittanova Roma città aperta”, www.larivieraonline.com; M. Sestili, “Le braccia verso il marito e le arrivò addosso la morte”, http://anpi.it

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