Il valore della testimonianza e dell’ascolto

Alcuni avvertono il bisogno di far sapere, di denunciare ciò che capita a casa loro. E depositano, affidano a noi le loro testimonianze. La loro dignità umana è stata annientata dalla tortura e dalla altre crudeltà inflittegli e là non hanno potuto far sentire la loro voce. Anzi le loro parole, quando pronunciate, gli hanno scatenato contro la brutalità e la ferocia.

Quali sono i vissuti di un migrante forzato, costretto ad abbandonare la loro terra in fretta e furia, senza avere la possibilità di congedarsi dalle proprie famiglie? Qual è il senso del sostegno psicologico offerto a costoro? Ce lo racconta Simona Corrente, psicologa di Me.Dia.Re.

Qual è la tua professione e qual è il tuo ruolo all’interno di Me.Dia.Re.?

Sono una psicologa-psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico e mediatrice dei conflitti. Sono membro del Comitato Direttivo dell’Associazione Me.Dia.Re. e coordino il progetto Hopeland, un progetto di sostegno psicologico per rifugiati, richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale e umanitaria adulti collocato all’interno dello SPRAR , realizzato dalla Città di Torino con fondi ministeriali. Inoltre, conduco i colloqui di sostegno psicologico con tali utenti.

Quali sono i principali vissuti che rilevi nei rifugiati e richiedenti asilo che beneficiano di questo progetto?

Le persone inserite in questo progetto hanno subito esperienze di grande violenza sia nella loro terra di origine, nel viaggio per arrivare in Italia e nella fase post-migratoria. Sono quindi persone che presentano sintomi particolarmente invalidanti, come inappetenza, insonnia, cefalee, ansia, depressione, comportamenti autodistruttivi e autolesionistici, attacchi di panico, flashback continui delle violenze sofferte, sicché nella loro mente si ripropongono pensieri intrusivi.

Rispetto alla loro storia passata, i vissuti più ricorrenti sono all’insegna della disintegrazione psichica: come se la loro identità fosse stata polverizzata dagli eventi violenti subiti. Ciò emerge dalle cose che raccontano, dall’angoscia provata, dalla confusione delle loro narrazioni, dalla solitudine e dallo smarrimento portati.

Nel nostro paese si ritrovano isolati, a contatto con sapori, odori, climi, paesaggi, lingue, modi di pensare e di agire anche diversissimi da quelli a cui sono abituati. A ciò si aggiunge l’ansia e lo stress che derivano dal dover affrontare l’audizione in commissione, necessaria ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o delle altre forme di protezione (sussidiaria o umanitaria).

Qui sviluppano vissuti di profonda malinconia e tristezza rispetto alla perdita della loro rete di relazioni sociali: le persone che noi ascoltiamo sono migranti forzati, costrette ad abbandonare la loro terra spesso letteralmente di corsa. Non solo non hanno preparato “le valigie”, ma non hanno potuto preparare neppure i loro famigliari alla loro fuga, lasciando figli, coniugi, fratelli e genitori…

Ecco, a questo proposito, qual è il senso del supporto psicologico offerto a costoro?

Una delle funzioni che è anche uno dei significati di tale forma di sostegno è di permette a queste persone di comunicare una testimonianza: nei colloqui la loro identità ripetutamente interrotta, grazie alla testimonianza da essi resa e da noi accolta, si ridefinisce un po’, prende forma. In questo senso noi fungiamo come una sorta di “collante”, ascoltando la loro storia e sentendo la loro realtà interna, ridando fluidità alla storia di vita la dove quella storia , a causa delle violenze subite, si era cristallizzata. Alcuni, poi, avvertono il bisogno di far sapere, di denunciare ciò che capita a casa loro. E depositano, affidano a noi le loro testimonianze. La loro dignità umana è stata annientata dalla tortura e dalla altre crudeltà inflittegli (stupri, discriminazioni per motivi religiosi, per l’orientamento sessuale, per l’appartenenza politica…) e là non hanno potuto far sentire la loro voce. Anzi non solo le loro parole non hanno cambiato la situazione del loro Paese, ma, quando pronunciate, gli hanno scatenato contro la brutalità e la ferocia.

Ascoltandoli come psicologa quali emozioni provi?

Si tratta di persone che hanno subito una violenza deliberata da parte di un altro essere umano. Prendo a prestito le parole di Roberto Beneduce per spiegare meglio questo concetto: “lo sguardo o l’ascolto psicologico che dà nome alle conseguenze di torture, massacri, violenze, incontra nelle pieghe di cicatrici e sintomi, non le tracce di un virus, non la persistente impronta di una frattura provocata da una caduta accidentale o l’ustione determinata da un’eruzione vulcanica e nemmeno “il disordine la pericolosa alterità” (Foucault 1978: 14) della follia ma la presenza, l’intenzionalità distruttiva dell’uomo stesso”. Questo aspetto è fondamentale da considerare: il trauma è deliberatamente provocato da un altro essere umano. Tutto ciò, come affermava anche Primo Levi, compromette  totalmente la capacità di avere fiducia nell’altro.

Quindi, per chi ascolta le loro parole e i loro sentimenti, può essere faticoso. All’inizio è anche un po’ traumatico. Non a caso si parla di “trauma vicario” che colpisce l’operatore. Quando si sentono raccontare violenze disumane disumanizzanti, vengono meno le parole. Si può solo ascoltare. E, soprattutto, diventa impossibile proporre dei significati all’esperienza vissuta. Il vissuto dello psicoterapeuta, talora, dunque, è di impotenza, rimediabile solo restando lì, nella stanza, con la mente e con il cuore e non solo con il corpo, e aiutando la persona a far vivere delle emozioni rispetto ai fatti narrati. Perché riuscire a farlo significa che il mondo emotivo del soggetto non è stato annientato da ciò che gli hanno fatto.

Cosa ti lascia questo lavoro? Quale riflessione ti stimola?

In questo momento storico, in cui il mondo è contrassegnato dalla conflittualità, dalla sfiducia, del sospetto, dalla paura, dalla violenza – e noi italiani, europei, “occidentali”, siamo, da questo punto di vista, fortunati – il fatto di conoscere queste vicende mi permette, al di là del mio lavoro, di esserne testimone e poter dare un piccolo contributo.

Spesso, queste persone mi fanno venire in mente il Terzo Reich, la sua politica di persecuzione e di sterminio e i milioni di persone che, pur sapendo tacevano e magari fingevano, anche e soprattutto con se stesse, di non sapere. Beh, io so e non posso e non voglio restare ferma e in silenzio. Sotto questo aspetto, perciò, ho un senso di gratitudine rispetto alla possibilità che mi è offerta di poter fare una cosa sia pure piccola.

La riflessione, così a caldo, non proprio meditata in effetti, è questa: all’interno di uno spazio di cura – parlo in termini generali, non solo rispetto ai rifugiati e richiedenti asilo -, mi pare importante  provare a costruire delle buone relazioni, così da ridare fiducia agli esseri umani nell’altro. Per i richiedenti asilo e i rifugiati, come per tutti noi, una relazione sufficientemente buona è una relazione che può curare. Quindi non solo quella con lo psicoterapeuta può essere una relazione di cura, terapeutica.