La strage di Adis Abeba: una vergogna tutta italiana

La strage compiuta dagli italiani, civili e militari, sulla popolazione inerme di Adis Abeba costituisce uno degli esempi più brutali della sanguinosa storia delle dominazione coloniale in Africa. E una delle più criminali imprese realizzate dai nostri concittadini nella già vergognosa occupazione dell’Etiopia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale il governo etiopico riferì che erano stati massacrati 30.000 cittadini nella strage di Adis Abeba [1]. Tra le testimonianze italiane di quell’orrore, iniziato il 19 febbraio 1937, c’è quella di Antonio Dordoni:

«Nel tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla “Casa del Fascio”, alcune centinaia di squadre composte da camice nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla più forsennata “caccia al moro” che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire a i roghi […]. Molti di questi forsennati li conoscevo personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un solo colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava rancori ed una carica di violenza insospettata».

«Dopo quindici secoli Mussolini ha ridato a Roma il suo impero immortale» (Raffaele Carrieri)

Nel 1935, l’Italia, già detentrice di tre colonie in Africa – la Somalia, l’Eritrea, che era stata una regione dell’Impero Etiope, e la Libia (abbiamo ricordato le atrocità della conquista e della dominazione italiana in Libia qui, qui e qui) -, decise che era arrivato il momento di invadere l’Etiopia. Mussolini voleva dare agli italiani «un posto al sole», della terra da colonizzare e un vero e proprio impero coloniale. Così, il 3 ottobre 1935, senza far precedere l’attacco da una dichiarazione di guerra, si era scagliato contro l’impero etiope. Aveva rovesciato un’onda immensa di orrore sulla popolazione di quello stato, che, dal 1923, faceva parte della Società delle Nazioni e che, insieme alla Liberia ed era l’unica porzione di Africa non soggetta alla dominazione europea (ne abbiamo parlato qui, sulla rubrica Corsi e Ricorsi). Pur facendo da subito ricorso anche ai gas tossici (ne abbiamo parlato in questo post), banditi dalla Convenzione di Ginevra del 1925, le truppe italiane, dopo 7 mesi, non erano riuscite a sottomettere totalmente gli etiopi. Ma il 5 maggio del 1936 il maresciallo Pietro Badoglio riusciva ad entrare in Adis Abeba senza combattere. L’imperatore etiope Hailè Selassiè, tre giorni prima, l’aveva abbandonata, andando in esilio. E il 9 maggio Mussolini annunciava dal balcone di Palazzo Venezia alla folla esultante che

«i territori e le genti che appartennero all’impero d’Etiopia sono posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d’Italia». Era una menzogna, ovviamente. Come era menzognera e grottesca nella sua pretesa solennità quanto scriveva Raffaele Carrieri, il 17 maggio, su L’illustrazione italiana:  «Dopo quindici secoli Mussolini ha ridato a Roma il suo impero immortale».

La resistenza etiope

In realtà, gli etiopi erano tutt’altro che sottomessi e l’Etiopia tutt’altro che occupata. Due terzi del suo territorio restavano liberi. E 100.000 uomini dell’esercito imperiale etiope erano ancora ancora attivi. Di fatto, i 10.000 soldati italiani installati ad Adis Abeba erano sotto assedio [2].

Quegli ordini sanguinari di Mussolini che Graziani era ben felice di eseguire

Tra il 5 e l’8 luglio di quel 1936, Benito Mussolini ordinava espressamente, per iscritto, mediante telegramma, al nuovo viceré, governatore generale e comandante delle truppe d’Etiopia, Rodolfo Graziani, di uccidere tutti i ribelli già catturati, di ammazzare i resistenti, facendo ricorso ai gas, e di attuare una politica di terrore e sterminio [3]. Ma le esecuzioni sommarie, le rappresaglie con i gas (60 tonnellate di bombe caricate a iprite e fosgene), gli incendi di interi villaggi, chiese incluse, le deportazioni di massa, l’attivazione di nuovi campi di concentramento, ecc. non bastavano a soffocare le rivolte.

Altro che colonia di ripopolamento

Mussolini era impaziente. Autorizzava

a «condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni compliciSenza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».

Il fatto è che il duce aveva promesso al popolo italiano che l’immenso territorio etiope sarebbe diventato rapidamente una colonia di ripopolamento, in cui avrebbe insediato da 1 a 10 milioni di italiani. Nei cinque anni di occupazione fascista, invece, si stabilirono in Etiopia solo 3.500 famiglie, su appena 114.000 ettari. Gli etiopi, pur divisi tra loro, non si rassegnavano a cedere le loro terre a questi sanguinari invasori.

L’attentato del 19 febbraio ’37 contro Graziani ad Adis Abeba

Nella capitale etiope la situazione era tesissima. Gli etiopi piangevano per i loro cari uccisi dagli italiani, pregavano per famigliari e vicini finiti nelle prigioni italiani ed erano in ansia per quei giovani che, per ordine di Mussolini, fin dal 3 maggio, dovevano essere presi e fucilati sommariamente [4].

Due giovani studenti di origine eritrea (Abraham Dobotch e Mogus Asghedom), con l’aiuto di un tassista, Semeon Adefres, il 19 febbraio del ’37 realizzarono l’attentato che avevano preparato [5]. In occasione di una cerimonia per la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia, i due eritrei, si introdussero di nascosto nel palazzo del piccolo Ghebì. Dalla balconata, scagliarono otto bombe di limitato potenziale tipo Breda, sul vicerè Graziani e sulle autorità italiane ed etiopiche, che gli stavano attorno sulla scalinata sottostante il balcone. L’esito fu di sette morti e circa 50 feriti, tra cui lo stesso Graziani, trafitto da 350 schegge [6].

La rappresaglia sulla popolazione etiope di Adis Abeba

Il federale fascista di Adis Abeba, Guido Cortese, obbedendo ad un telegramma di Mussolini, di provvedere ad «un radicale ripulisti», provvedeva alla rappresaglia: un massacro raccapricciante per le strade e nelle case etiopi di Adis Abeba.

«Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente»

Così raccapricciante che il giornalista Ciro Poggiali nel suo diario segreto scriveva:

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«Tutti i civili (italiani) che si trovano in Adis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico “squadrismo fascista”. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada […]. Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente» [7].

La rappresaglia dei militari

Accanto a quella condotta dai civili italiani contro la popolazione inerme (che era anche derubata dei pochi denari e averi che possedeva), veniva svolta anche quella, appena più organizzata, dei militari. Questi rinchiudevano 4.000 etiopici in improvvisati campi di concentramento e incendiavano i vasti agglomerati di tucul che fiancheggiavano due fiumi che attraversavano la città. La mattina dopo Alfredo Godio osservava «cumuli di cadaveri bruciati» e il transito di camion «sui quali erano accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi».

L’ordine di cessare le rappresaglie

«Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Adis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano», scrisse un altro testimone italiano, Dante Galeazzi.

Saputo che i diplomatici stranieri, con le loro macchine fotografiche, documentavano le atrocità in corso, il viceré Graziani, dal suo letto di ospedale, ordinava la cessazione delle rappresaglie [8]. Quelle dispiegate dai civili e dalle camicie nere, quindi, furono interrotte dalle ore 12 del 21 febbraio. Non si fermò, però, il bagno di sangue [9].

La strage infinita ordinata da Mussolini

Mussolini, infatti, scrisse a Graziani che nessuno dei fermati attuali o venturi doveva essere rilasciato senza suo ordine, mentre «tutti i civili e i religiosi etiopi sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi».

Un migliaio di altri civili fucilati ad Adis Abeba

Il 22 febbraio Graziani scriveva a Mussolini:

«In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni, con ordine di passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state, di conseguenza, passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul»

La strage dei notabili di Adis Abeba

Poiché l’avvocato militare Bernardo Olivieri aveva riferito, falsamente, che l’attentato a Graziani era stato ordito da un vasto complotto in cui avrebbero avuto un ruolo fondamentale i cadetti della Scuola militare di Olettà (mentre, in realtà, era stato compiuto da due studenti eritrei, con l’aiuto di un tassista), il 21 febbraio il viceré riferì a Mussolini:

«Duce, questa mattina sono stati passati per le armi 45 fra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti dell’attentato del 19 febbraio» [10].

L’eliminazione dell’intellighenzia etiope

Il 22 febbraio venivano assassinate altre 26 persone. La logica era quella di eliminare i giovani ufficiali, gli ancor più giovani laureati negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna, nonché gli alti funzionari governativi e i collaboratori più validi dell’imperatore Hailè Selassiè. Per liquidare la classe dirigente etiope, Mussolini approvò la proposta di Graziani di deportare in Italia i notabili ancora imprigionati dal 19 febbraio nei sotterranei del palazzo del viceré [11]. Così in due tranche furono deportati in Italia, sull’isolotto dell’Asinara, 400 aristocratici etiopi, inclusi alcuni bambini e delle donne. Mentre quelli di livello inferiore erano rinchiusi nei campi di concentramento di Nocra, in Eritrea, e di Danane, in Somalia. La metà sarebbe morta di malattia o di denutrizione [12].

L’elogio del Gran Consiglio del Fascismo ai fascisti e agli operai italiani di Addis Abeba

Il Gran Consiglio Fascismo (di tale organo abbiamo parlato quiqui e qui) nella seduta del 2 marzo espresse la sua piena approvazione per i massacri perpetrati. Il comunicato, pubblicato anche sul Corriere della Sera del giorno dopo, diceva:

«Il Gran Consiglio del fascismo ha infine inviato un cameratesco saluto e un fervido augurio al viceré maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, nella certezza che egli saprà applicare la giusta, ma inflessibile legge di Roma, e ha tributato un particolare elogio ai fascisti e agli operai italiani di Addis Abeba per il contegno da essi tenuto dopo l ’attentato» [13].

Il peggio per gli etiopi doveva ancora arrivare.

Alberto Quattrocolo

[1] La stampa americana, francese e inglese dell’epoca parlava di circa 6.000 etiopi uccisi ad Adis Abeba dal 19 al 21 febbraio 1937.  Angelo Del Boca stima circa in 3.000 le vittime dei primi tre giorni di violenze ad Addis Abeba, come l’inglese Anthony Mockler. Lo storico Giorgio Rochat ipotizza che la cifra potrebbe essere più alta e arrivare a 6.000 vittime, come farebbero pensare le carte del “Fondo Graziani”.

[2] Badoglio, conoscendo la rischiosità della situazioni si faceva richiamare in Italia, lasciando il posto al più giovane e ambizioso maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che il 20 maggio veniva nominato viceré d’Etiopia, governatore generale e comandante superiore delle truppe.

[3] Graziani non aveva alcuna riserva nel dare esecuzione a tali ordini. La sua disponibilità al massacro si era già palesata eloquentemente in Libia.

[4] «Siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopici», aveva ordinato il duce, riferendosi a quelli che l’imperatore Hailè Selassiè, negli anni precedenti l’invasione italiana, aveva mandato a studiare e a laurearsi all’estero e ai cadetti della scuola militare di Olettà.

[5] I due eritrei lavoravano negli ambienti governativi di Addis Abeba, anzi erano informatori dell’Ufficio Politico di Graziani. Proprio per questo, oltre che per la fama di collaborazionismo che avevano gli eritrei in genere, non avevano contatti con i notabili abissini né con i “giovani etiopici”.

[6] Subito dopo, i due studenti, approfittando del caos, raggiungevano il taxi di Semeon Adefres e si dirigevano verso la città conventuale di Debrà Libanòs. Poi da lì tentavano di fuggire in Sudan, venendo, però, misteriosamente uccisi nel viaggio. Mentre l’autista, arrestato, veniva torturato a morte dagli agenti dell’Ufficio Politico di Adis Abeba.

[7] Non sfuggiva alla violenza omicida neppure la chiesa di San Giorgio (costruita ai tempi di Menelik da un ingegnere italiano, Sebastiano Castagna), che veniva data alle fiamme e dentro la quale i civili italiani volevano far bruciare vivi, spingendoceli a scudisciate, una cinquantina di diaconi. Fu solo l’intervento di un colonello dei granatieri ad impedire questo ulteriore crimine.

[8] Graziani decise di arrestare i massacri anche, se non soprattutto, per dimostrare a Mussolini di avere in mano la situazione – malgrado le ferite che lo trattenevano in ospedale (aggravate da una polmonite provocata dall’anestesia a etere) – e per impedire che il federale Cortese acquistasse troppa notorietà.

[9] Il federale Cortese, allora, faceva diffondere un manifesto con il bollo della “Federazione dei fasci di combattimento” di Adis Abeba che iniziava così: «Camerati! Ordino che dalle 12 di oggi 21 febbraio XV (cioè quindicesimo anno della “rivoluzione fascista”, NdA) cessi ogni e qualsiasi atto di rappresaglia». Riguardo a quell’ordine Dordoni scrisse: «Lo lessi e lo rilessi. Non credevo ai miei occhi. Non credevo che dopo una simile strage si potessero mettere in giro documenti del genere, che erano una palese autodenuncia».

[10] Il tenente colonnello Princivalle suggerì a Graziani di mostrare una certa clemenza verso i notabili che avevano collaborato con il governo italiano, per «non ingenerare la convinzione che noi trattiamo allo stesso modo coloro che ci servono e coloro che ci tradiscono». Ma Graziani, seguendo il criterio base della rappresaglia, per il quale del gesto di uno deve pagare tutta la comunità cui appartiene, continuò nella sua spietata politica repressiva. Così rispose, per iscritto, a Princivalle, il capo del suo Ufficio politico: «fatti del genere si reprimono non solo colpendo gli esecutori, ma colpendo la collettività nella quale è sorta l’idea e nella quale vivevano i colpevoli».

[11] Mussolini approvò tale idea, dopo aver respinto la proposta di Graziani di distruggere tutta la parte di Adis Abeba abitata dagli etiopi e deportarne gli abitanti in campi di concentramento. Scrisse Graziani: «Debbo pertanto giungere alla decisione di proporre di radere al suolo la vecchia città indigena e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento fino a che essa non si sarà ricostruita le sue abitazioni. Ne faccio pertanto formale proposta mentre mi riservo rimettere i preventivi dei teli da tenda necessari e tutto il resto[…]. D’altra parte io non posso mitragliare in massa o dare alle fiamme l’intera città, non potendo non preoccuparmi delle ripercussioni all’estero. Invoco pertanto che tutti provvedimenti proposti siano approvati perché possa darvi immediata attuazione. Prego massima urgenza risposta per non tenere più questo puzzolente carnaio [i duecento notabili arrestati] ammassato nei locali del governo generale». Il duce replicò a Graziani che ciò «solleverebbe nel mondo una impressione sfavorevolissima e non raggiungerebbe lo scopo».

[12] Diversi esponenti abissini di provata fedeltà, dopo essersi congratulati con Graziani per lo scampato pericolo, gli consigliarono moderazione nelle rappresaglie per non alienare al dominio italiano le simpatie della popolazione. Graziani interpretò il loro atteggiamento come una prova della loro collusione con gli attentatori e ne ricambiò i cortesi consigli facendoli deportare in Italia.

[13] Lo stesso giorno Starace in un telegramma scriveva al federale Cortese di Adis Abeba: «Mi compiaccio moltissimo con te e con i fascisti tutti». Interessanti sono anche i comunicati dell’agenzia Stefani sulla stampa quotidiana del 22 febbraio («squadre di fascisti hanno ripulito quartieri sospetti della capitale») e del 24 febbraio (tutti gli indigeni «trovati in possesso di armi sulla persona e nei loro tucul sono stati fucilati»).

Fonti

Angelo Del Boca, L’attentato a Graziani, in Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Mondadori, Milano, 1996, in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1998_211-213_12.pdf

Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2014

Angelo Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, in “Italia contemporanea”, settembre 1998, n. 212

Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008

Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Gaspari Editore, Udine, 2009

Giorgio Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-1937, in “Italia contemporanea”, 1975, n 118, pp. 3-38. in www.italia-resistenza.it/wp-content/uploads/ic/RAV0053532_1975_118-121_01.pdf

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