Il buio oltre la siepe e l’umile forza dell’empatia

Il buio oltre la siepe può far paura. Perché ciò che non conosciamo e che ci sembra oscuro, inclusa la diversità dell’altro, può farci sorgere il sospetto di una minaccia incombente. L’inquietudine può farci stare in guardia, tenerci lontano, renderci diffidenti e metterci sulla difensiva. A meno che non si riesca ad accostarsi a quel “buio” con un po’ d’empatia.

«Se riesci ad imparare una cosa sola, vedrai che ti troverai molto meglio anche a scuola. Non riuscirai mai a capire una persona se non cerchi di vedere le cose anche dal suo punto di vista», dice il padre, Atticus. «E cioè?», chiede Scout, la bambina. «Devi cercare di metterti nei suoi panni e andarci a spasso».

In questo scambio di battute c’è, se non tutto, molto del senso de Il buio oltre la siepe. Sia del romanzo, di forte ispirazione autobiografica, di Harper Lee, sia del film su quello basato, girato nel 1962 da Richard Mulligan. Il libro aveva procurato alla Lee il premio Pulitzer. Il film ottenne l’8 aprile del 1963 tre premi Oscar.

 

L’antiretorica de Il Buio oltre la siepe

Come il romanzo anche il film non è declamatorio. Non è un trattato, è una storia. Racconta le esperienze di due bambini – Scout, la bambina, di 6 anni, e suo fratello Jem, di 11, figli dell’avvocato Atticus Finch -, in una piccola città dell’Alabama nei primi anni Trenta, senza mettere mai in bocca ai personaggi frasi altisonanti. Fin dalle prime sequenze Il buio oltre la siepe è, infatti, un saggio di toccante understatement, sul piano visivo, e di naturale calore umano, sul piano dei dialoghi e dei rapporti tra i personaggi. Personaggi molto umani, che, come tali, sbagliano e vengono sconfitti, ma che sanno apprendere dai loro errori e tentano di superare le loro paure, imparando ad ascoltare e riconoscere sia le loro emozioni che quelle degli altri. Perché, in fondo, è questa una delle due cose che Atticus trasmette ai bambini, in modo non didattico, ma con la spontaneità del suo comportamento quotidiano. L’altra è che, per non perdere il rispetto di se stessi, occorre rispettare gli altri e sforzarsi di conoscerli, rendendo, così, il mondo un posto migliore. Un po’ più equo ed umano. Anche se ciò implica lottare e patire tante dolorose sconfitte e amarissime delusioni.

Il vero e pericoloso buio oltre la siepe è quello dell’ignoranza, del pregiudizio e dell’odio

Le vicende raccontate, infatti, sono permeate da un costante rapportarsi con le diverse forme che l’ingiustizia e la violenza possono assumere nella vita di tutti i giorni. E, in questo caso, la quotidianità è quella di una piccola città, immaginaria, del profondo sud degli Stati Uniti, in cui la Grande Depressione continua a produrre povertà e diseguaglianze, non solo in senso economico.

Un padre affettuoso e un po’ grigio che sostiene i loro figli nell’attraversamento del buio oltre la siepe

Qui vivono Jem e Scout, orfani di madre, e il loro affettuoso padre, Atticus Finch, che a loro sembra, in effetti, un po’ troppo tranquillo. Un padre, però, che imparano a conoscere meglio, come imparano a conoscere meglio se stessi, riuscendo, sorretti dalla sua calma presenza, a varcare il buio oltre la siepe. Un buio, che scoprono, non è, in realtà, quello che si trova oltre la siepe del giardino in cui sorge la casa del loro misterioso vicino. Cioè, dove il giovane Boo Radley  vive recluso dalla sua famiglia, per via del disturbo mentale da cui è affetto, e che suscita nei due bambini, tanta paura e tanta incontrollabile curiosità.

Il vero buio oltre la siepe è il lato oscuro della comunità bianca

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Il vero buio oltre la siepe è quello creato dagli altri abitanti della cittadina, quello che si traduce in una rigida segregazione razziale. È il buio del razzismo e dell’ottusità, che criminalizzano chi ha una pelle più scura, così da poterlo ammazzare sena rimorsi, anzi sentendosi e proponendosi come giustizieri e come difensori della comunità. Ed è il lato oscuro di questa comunità, dalla pelle bianca, che Jem e Scout verranno a conoscere.

Infatti, è ad Atticus che il giudice affida la difesa d’ufficio di Tom Robinson, un giovane uomo di colore, accusato ingiustamente di violenza sessuale nei confronti di una ragazza bianca. E i bambini vivranno, non limitandosi ad assistervi, la lotta del loro papà alle prese con il pregiudizio e con la disapprovazione prepotente di molti concittadini.

È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” (Albert Einstein)

Ma Atticus fallisce. Non perché non riesca a provare l’innocenza di Tom Robinson, ma perché la razionale dimostrazione della realtà dei fatti, nulla può contro l’ottusità di chi ha dei pregiudizi. Chi ha un pregiudizio, nella vita vera come nella storia de Il buio oltre la siepe, rifiuta le informazioni che lo contraddicono, ignorandole o respingendole come false, e accoglie solo quelle che lo confermano. Sicché la sconfitta della verità risulta fatale. Mentre l’umanità finisce ammazzata. E, con essa, la giustizia.

To Kill a Mockingbird

Il titolo originale del libro come della pellicola è To Kill a Mockingbird. In un certo senso, anche Tom Robinson è un usignolo.

Non si uccide un usignolo

In una scena Atticus racconta ai figli di quando suo padre gli diede un fucile.

«Me lo ricordo quando mio padre mi regalò quel fucile; mi disse […] di ricordarmi che era peccato sparare a un usignolo […] perché sono uccellini che non fanno niente di male, cantano e fa piacere sentirli, non mangiano le sementi, non fanno il nido nelle madie, non fanno altro che rallegrarci con il loro cinguettio».

Tom Robinson non ha fatto niente di male. Anzi, ha tentato di dare un aiuto a chi gli sembrava stesse soffrendo. Perché condannarlo, allora? Perché Tom Robinson, agli occhi della giuria, e non solo di chi lo accusa sapendolo innocente, non è un essere umano. È un negro. Contro questa de-umanizzazione si scontra Atticus.

Il buio oltre la siepe è la paura, e il rifiuto, del confronto

Atticus Finch ha dimostrato che Tom Robinson non soltanto è innocente del reato di cui è accusato, ma che è un uomo buono. È un nero che è stato capace di empatia verso una ragazza bianca. E per i razzisti dell’Alabama di ieri, come dell’Europa e dell’Italia di oggi, questa rivelazione di umanità non si può accettare né lasciare impunita. Farlo significherebbe ammettere non tanto che possa esistere, eccezionalmente, un nero buono e altruista, ma riconoscere che un nero è un essere umano, proprio come lo sono loro, e che in quanto tale, può essere paragonato a ciascuno di loro, osservando da vicino il suo carattere e la sua condotta. Equivarrebbe a riconoscere che bianchi e neri stanno sullo stesso piano. Quello umano. Il che è, appunto, inaccettabile per i razzisti bianchi. Per i pochi benestanti bianchi e per i tanti più o meno poveri bianchi. Perché, per entrambi, citando un altro film (Mississipi Burning- Le radici dell’odio, 1988, di Alan Parker), vale il principio per cui, «se non sei meglio di un negro, figliolo, allora non sei proprio meglio di nessuno», non vali nulla.

Il buio oltre la siepe che abbiamo davanti tutti i giorni, oggi.

L’illustrazione semplice non declamatoria del razzismo, e di ciò che lo sottende, proposta da Il buio oltre la siepe è valida anche oggi e si può tranquillamente applicare alla realtà italiana, dove essere nero significa essere diverso nel senso peggiore. Cioè, essere pregiudizialmente considerato un criminale per naturale attitudine, un soggetto geneticamente pericoloso, così come succedeva nell’Alabama del 1932. Perché qui come là, per tanti bianchi, la loro presunta superiorità è così indiscutibile e indispensabile, che non possono ammettere che i neri, e gli immigrati in generale, vivano se non in modo indegno.

Il buio oltre la siepe resta ancora attuale, però, anche nel suo risvolto di speranza. Scout e Jem arrivano a comprendere che ciò che c’è al di là della siepe non è oscuro o terribile, ma umano, e perfino rassicurante e protettivo. È un pezzo di realtà non ancora esplorato, un angolo della vita non ancora svoltato. Dice la voce narrante di Scout:

«I vicini portano da mangiare quando muore qualcuno, portano dei fiori quando qualcuno è ammalato, e altre piccole cose in altre occasioni. Boo era anche lui un nostro vicino, e ci aveva dato due pupazzi fatti col sapone, un orologio rotto con la catena, un coltello… e le nostre vite. Una volta Atticus mi aveva detto: “Non riuscirai mai a capire una persona se non cerchi di metterti nei suoi panni, se non cerchi di vedere le cose dal suo punto di vista”. Ebbene, io quella notte capii quello che voleva dire. Adesso che il buio non ci faceva più paura, avremmo potuto oltrepassare la siepe che ci divideva dalla casa dei Radley, e guardare la città e le cose dalla loro veranda. Accadde tutto in una notte, la notte più lunga, più terribile… e insieme la più bella di tutta la mia vita»

L’empatia e l’amicizia, dietro le quinte,

Tutto ciò è narrato in maniera strabiliante. La regia di Robert Mulligan, equilibrata ed essenziale, sa porsi ad altezza di bambino. Ed è con gli occhi di Scout e di Jem che tante volte guardiamo i personaggi adulti del film. E se l’interpretazione di Gregory Peck fu così maiuscola, lo è perché egli non sembrava mai recitare. Peck “ era ” Atticus. E come Atticus sapeva anche lui mettersi ad altezza di bambino. Sapeva ascoltare sia Mary Badham che Phillip Alford, i due bravissimi interpreti di Scout e Jem.

In effetti, Gregory Peck si calò così bene nei panni del protagonista, che Harper Lee volle regalargli l’orologio di suo padre, per ringraziarlo di essere riuscito a farlo rivivere. Del resto, mentre assisteva alle riprese, Harper Lee si commosse e, quando Gregory Peck le si avvicinò, spiegò che, guardandolo, aveva rivisto il suo papà. Restarono amici per tutta la vita. Così come restarono molto legati Gregory Peck e Mary Badham, Costei continuò a chiamare Peck, con il nome del suo personaggio, Atticus. Se un altro legame si stabilì tra Peck e Robert Mulligan, tanto che tornarono a lavorare insieme, un’amicizia vera sorse anche tra Gregory Peck e Brock Peters, l’efficacissimo interprete di Tom Robinson. Tanto che nella scena del pianto di quest’ultimo in tribunale – pianto che gli venne spontaneamente un po’ prima di quanto previsto dal copione -, Peck dovette evitare di guardarlo per evitare di avere gli occhi pieni di lacrime.

Ci credevano tutti a ciò che stavano facendo

L’8 aprile del 1963 Il buio oltre la siepe veniva premiato con l’Oscar per il miglior attore protagonista, la migliore sceneggiatura non originale e la migliore scenografia. Competeva con altri film, alcuni dei quali capolavori assoluti. Per l’interpretazione maschile Peck, doveva vedersela con le straordinarie prove di Peter O’Toole in Lawrence d’Arabia (di David Lean, che vinse l’Oscar per la regia), Jack Lemmon in I giorni del vino e delle rose (di Blake Edwards), Burt Lancaster in L’uomo di Alcatraz (di John Frankenheimer) e Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana (di Pietro Germi). Ed era convinto, Gregory Peck, che Jack Lemmon avrebbe ottenuta la statuetta.

Si potrebbe credere che il film risentisse del clima del periodo. E che questo abbia giovato al suo successo di pubblico, favorendolo anche agli Oscar. Erano gli anni delle lotte contro la segregazione razziale e per i diritti civili. Erano gli anni della Nuova Frontiera di John F. Kennedy (lo abbiamo ricordato nel post L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»). Gregory Peck lo appoggiava convintamente, come poi farà con suo fratello Robert. E come appoggiava e amava Martin Luther King. Ne condivideva così tanto le convinzioni che l’8 aprile del 1968, convinse l’Academy Award e soprattutto gli sponsor a rinviare la cerimonia degli Oscar, svolgendosi quel giorno il funerale di Martin Luther King (abbiamo parlato del suo assassinio qui). Gregory Peck, infatti, era un liberal realmente impegnato, sia in quegli anni che in quelli successivi (come altri attori che abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e RicorsiSpencer Tracy Richard Widmark, Paul NewmanSidney Poitier, Marlon Brando).

Ma, il punto è che lo spettatore di oggi, come quello di 57 anni fa, guardando Il buio oltre la siepe, ha davanti a sé qualcosa che va oltre la fiction. Perché non soltanto Alan J. Pakula (produttore e in seguito regista di valore) e Robert Mulligan credevano profondamente nel progetto della trasposizione cinematografica del romanzo di Harper Lee, ma ci credevano fortemente anche Gregory Peck e Brock Peters. E non di meno ci credeva Robert Duvall, allora esordiente, nei panni del misterioso Boo Radley. Tutti loro erano convinti che non si potesse più rimandare il momento di gettare lo sguardo oltre la siepe, di illuminare il buio e di superare la propria ignoranza e i pregiudizi che quella alimenta.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

La visione del film

John Griggs, Gregory Peck, Gremese Editore, Roma, 1984

Tony Thomas, Gregory Peck, Milano Libri Edizioni, Milano, 1980

http://www.lachiavedisophia.com

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