La legge sul divorzio è approvata

Il primo dicembre 1970 fu approvata dal Parlamento italiano la legge 898, nota come Fortuna-Baslini (dal nome dei due deputati promotori, un socialista e un liberale), che regolamentò l’istituto giuridico del divorzio; significativamente, in tutto il testo della legge la parola divorzio non compare mai, sostituita dal più neutro “scioglimento del matrimonio”, segnalando la complessità del dibattito che, fuori e dentro le istituzioni, aveva accompagnato l’elaborazione della normativa.

Nonostante i mutamenti sociali e di costume sviluppatisi dal dopoguerra in poi, l’Italia repubblicana era rimasta a lungo senza una legislazione specifica. Le persone facoltose potevano rivolgersi al Tribunale ecclesiastico della Sacra Rota, oppure far delibare in Italia sentenze di divorzio pronunciate dai tribunali di Paesi (come il Messico o la Repubblica di San Marino) dove la legislazione locale consentiva il divorzio anche di cittadini stranieri; diversamente, i coniugi potevano separarsi “di fatto”, ma non per la legge, e dovevano rassegnarsi a non poter regolarizzare le unioni con i/le nuovi compagni/e né i figli nati da esse, i quali, fino alla riforma del diritto di famiglia nel 1975, continuarono a subire discriminazioni.

L’art. 34 del Concordato del 1929 (“Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è a base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili…”) dava alla Chiesa Cattolica un ampio potere in materia matrimoniale. Per questo, quando l’Assemblea Costituente decise di inserire i Patti Lateranensi nella Costituzione, all’art. 7, ci furono legittime perplessità da parte laica; con tali presupposti, parve importantissima la vittoria riportata dallo schieramento laico, il 23 aprile 1947, con soli tre voti di scarto, che impedì l’inserimento nel testo costituzionale dell’aggettivo “indissolubile” accanto alla parola “matrimonio”.

Sul tema si scontrarono due visioni difficili da conciliare.

Per i politici di area cattolica diritti e doveri della famiglia erano “il problema fondamentale di tutta la Costituzione”, essendo il nucleo familiare una comunità naturale basata su principi etici e spirituali, preesistente alle leggi del diritto positivo: dunque, prima la famiglia, poi lo stato, con il matrimonio come vincolo naturale e inscindibile. Per la sinistra le famiglie italiane erano il vettore principale della ricostruzione materiale e morale del paese: in questa prospettiva, la possibilità di esercitare il diritto di voto, attivo e passivo, il diritto al lavoro e allo studio sottrasse il matrimonio a una logica secolare di scelta quasi obbligata per le donne per assicurarsi l’esistenza, sistemarsi ed essere socialmente accettate.

Alle spalle della battaglia per il divorzio ci fu indubbiamente il contesto storico e sociale degli Anni Sessanta. La famiglia italiana di quel periodo fu l’indicatore più attendibile delle trasformazioni della società nel passaggio dall’economia di guerra alla crescita impetuosa degli anni del boom economico, fino alla rottura del ‘68; meglio di qualunque altra istituzione, il nucleo familiare riproduceva i meccanismi e le contraddizioni del cambiamento, e sarà proprio nella famiglia che esploderanno i contrasti, le fratture, gli attriti anche generazionali del decennio.

Fin dall’inizio dell’iter parlamentare del progetto di legge si infiammò nel paese lo scontro fra il fronte antidivorzista e quello laico, un dibattito così aspro che si protrasse per dieci anni, senza esclusione di colpi, di mezzi e forze in campo, tra l’intransigenza della DC, il favore del PSI, il tatticismo del PCI, che non assunse subito una posizione netta, sostenendo una posizione più sfumata di riforma del diritto di famiglia.

Partì invece subito la mobilitazione della stampa: il settimanale milanese “ABC” iniziò una campagna di sostegno al progetto di legge del socialista Fortuna.

Loris Fortuna era un avvocato di Udine fuoriuscito dal PCI dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria; fin dal suo esordio alla Camera dei Deputati per il PSI si era impegnato sulla materia del divorzio, ma fu inizialmente scoraggiato da Pietro Nenni. L’occasione per ritentare gli fu fornita da Marco Pannella che, attivatosi insieme alla Lega italiana per l’Istituzione del Divorzio (LID), portò l’attenzione dell’intero paese su un tema fino a quel momento tabù, mobilitando l’opinione pubblica con grandi manifestazioni di massa e una continua azione di pressione sui parlamentari laici e comunisti ancora incerti. Nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica e nel dibattito, ebbero un ruolo importante anche le associazioni culturali che promossero centri di discussione costruttivi sulla questione (tra queste quella facente capo alla rivista “Il Mulino”). Tuttavia, la singolarità della nuova stagione divorzista stava nel fatto che l’interlocutore di Fortuna, della LID e di “ABC” fosse non solo la classe colta, ma la gente qualunque: Loris Fortuna ricevette oltre 36.000 messaggi di sostegno da comuni cittadini.

Così, nella notte del 1º dicembre ’70, la proposta di legge, risultato della combinazione del progetto di legge di Fortuna con quello (più moderato) presentato dal deputato liberale Antonio Baslini, fu approvata con 325 sì e 283 no alla Camera e 164 sì e 150 no al Senato. Votarono a favore tutta la sinistra e il Partito Liberale Italiano, contrari la Democrazia Cristiana, il Movimento Sociale Italiano, la Sudtiroler Volkspartei e i monarchici.

Meno di due mesi dopo, fu depositata in Cassazione la richiesta di referendum da parte del “Comitato nazionale per il referendum sul divorzio”, presieduto dal giurista cattolico Gabrio Lombardi, con il sostegno dell’Azione cattolica e l’appoggio esplicito della CEI e di gran parte della DC e del MSI. Dopo un’iniziale contrarietà circa l’uso dello strumento referendario (appena introdotto nell’ordinamento) in materia di diritti civili, il Partito Radicale e il PSI parteciparono alla raccolta delle firme necessarie, mentre lo stesso non fecero gli altri partiti laici.

La campagna referendaria fu scandita da anni di durissima battaglia politica e culturale – contro o a favore del divorzio – col coinvolgimento di tutti i partiti di allora, di tutte le componenti della società civile e di quasi tutti gli organi di stampa, i principali quotidiani nazionali e locali e anche i periodici più disparati, comprese le riviste femminili. Tuttavia il mondo cattolico non era tutto compatto e appiattito sul fronte del SI, cioè contro il divorzio: c’era l’impegno dei “Cattolici per il NO”; nemmeno il fronte a sostegno del NO, cioè per il mantenimento della legge, era monolitico e compatto, e il PCI tentò di evitare il referendum anche a rischio di modifiche, in senso restrittivo e peggiorativo, della legge approvata.

La mobilitazione attorno al referendum del 1974 fu la prima lotta politica di vero impatto mediatico.  Se il fronte del SI era più tradizionalista e si limitava a interviste “all’uomo della strada” sul tema, a comizi di un agguerrito Fanfani e a qualche video in cui si demonizzava il divorzio, la vera ventata di novità proveniva dal fronte divorzista, che chiamò a raccolta la società civile e ingaggiò numerosi testimonial del mondo del cinema e della musica, inaugurando il connubio tra politica e spettacolo. Il PCI, per esempio, finanziò la produzione di filmati pro divorzio diretti da Ugo Gregoretti, con protagonisti come Gianni Morandi e Nino Manfredi.

Il 12 e 13 maggio del 1974, 33 milioni di italiani si recarono alle urne, pronunciandosi nettamente a favore del mantenimento del divorzio (59,2 % dei votanti). Fu una vittoria clamorosa che rivelò un’Italia divisa, con il NO in vantaggio al Nord (ad eccezione del Veneto) e nelle isole e il SI vincente al Sud, e manifestò la spaccatura dell’unità politica del mondo cattolico.

Era la prima volta che in Italia la libertà di scelta si imponeva su una concezione diffidente verso la libertà individuale e della donna, a torto ritenuta tutelata da matrimoni indissolubili. Un aspetto importante della legge, all’epoca all’avanguardia, fu l’introduzione del principio per cui, trascorso il periodo stabilito dalla formalizzazione della richiesta, indipendentemente dai comportamenti e dalla volontà, il divorzio è un diritto di ciascun coniuge, anche per scelta unilaterale: se un coniuge vuole il divorzio, lo ottiene anche senza avere dimostrato la colpa dell’altro o averne acquisito il consenso.

Successivamente, la normativa fu modificata, ampliata e migliorata nel 1978 e nel 1987, snellendo tempi e procedure e nel 2015 è entrato in vigore il cosiddetto “divorzio breve” (L. n. 55/2015): i tempi si sono ridotti a 6 mesi nel caso di separazione consensuale e a 12 mesi negli altri casi.

La “battaglia sul divorzio” lasciò sul campo due governi, provocò la fine anticipata della quinta legislatura e portò allo svolgimento del primo referendum popolare nella storia repubblicana. Come ha osservato in tempi recenti una nota associazione laica:

La separazione era già in uso nell’antichità presso i greci e i romani, nonché nei primi secoli della cristianità: il Codice di Giustiniano ancora consentiva il divorzio. […] L’assurdità di costringere a vivere insieme persone che non hanno più nulla da dirsi ha dunque richiesto oltre un millennio per essere dichiarata nuovamente tale.

Silvia Boverini

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Fonti:

www.it.wikipedia.org; www.uaar.it; F. Seccia, “1 dicembre 1970: l’Italia si dà il divorzio”, www.agenziacomunica.net;  “1 dicembre 1970: approvata la legge sul divorzio”, www.lalottacontinua.it; “Il divorzio. Quando la società italiana cambiò radicalmente”, www.novecento.org; S. Ferrari, “L’anno del divorzio”, http://www.instoria.it; www.radicalifriulani.it

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