Quel bombardamento su Tokio di “incoraggiamento”

ll 2 aprile del 1942 iniziò una complessa operazione aereonavale americana finalizzata a realizzare il primo bombardamento su Tokio. Il 2 aprile, infatti, salpò dal porto di Alameda in California, la portaerei Hornet. Portava sedici bombardieri dell’USAAF (United States Army Air Force). La loro missione era colpire Tokio. Ma il loro obiettivo andava molto più in là, ed era assai più psicologico e politico, che non strategico. Ciò che contava, infatti, non erano i danni che si sarebbero prodotti nella capitale dell’impero del Sol Levante. Non si dava neppure grande importanza all’effetto shock sul popolo giapponese. I vertici politici e militari americani era più che consapevoli che i giapponesi non si sarebbero fatti impressionare troppo da questa violazione del loro territorio. Anzi, si sarebbero stretti intorno all’imperatore, senza deprimersi, come, invece, avrebbe potuto accadere ad altri popoli, non così pervasi di nazionalismo e non così inclini ad una forte e salda identificazione con il loro governo. Lo scopo del bombardamento su Tokio era un altro: incoraggiare il popolo americano.

Il bombardamento su Tokio come risposta alla disfatta di Pearl Harbour del 7 dicembre 1941

Il bombardamento su Tokio, infatti, fu ideato come risposta all’attacco giapponese sulla base di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941.

Appena 120 giorni prima che la Hornet salpasse da Alameda, infatti, si consumò quello che il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva definito

«il giorno dell’infamia».

L’attacco nipponico verificatosi il 7 dicembre del ’41 alle Hawaii, era stato condotto, com’è noto, in assenza della dichiarazione di guerra da parte giapponese, che fu formalizzata soltanto ad attacco più che iniziato.

La risoluzione di quei 27 mesi di “camminate sulle uova”

Gli Stati Uniti fino a quel momento si erano tenuti fuori da secondo conflitto mondiale. Le pressioni di coloro (la maggioranza del Congresso e dell’opinione pubblica) che erano per una politica isolazionista erano state tali da non consentire a Roosevelt di tradurre le proprie convinzioni antifasciste – e le sue previsioni sulla volontà dei dittatori italo-tedeschi e di dominare il mondo intero -, entrando in guerra accanto all’impero britannico. Così come doveva astenersi dallo schierarsi contro le forze dell’Asse (Germania e Italia), in Europa, gli era anche precluso contrastare militarmente l’espansionismo giapponese, che si era concretizzato, già dal ’31, con l’occupazione della Manciuria e, dal ’37, con l’invasione della Cina settentrionale, collegandosi a quello nazifascista con la firma del patto Tripartito con Hitler e Mussolini [1]. Dall’inizio della guerra in Europa e fino al 7 dicembre ’41 erano iniziati i 27 mesi in cui, come si espresse Roosevelt, il governo degli USA, dovette

«camminare sulle uova».

Si limitava, cioè, a supportare economicamente e materialmente la Gran Bretagna, che era rimasta sola a fronteggiare le armate naziste dilaganti in Europa e in Africa e che per buona parte della prima parte del 1940 aveva seriamente rischiato di essere invasa dalle armate tedesche (ne abbiamo parlato in questo post di Corsi e Ricorsi).

L’attacco a Pearl Harbour

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Alle 7,55 di domenica 7 dicembre 1941, le esitazioni degli Stati Uniti cessarono. A quell’ora, infatti, le forze aeronavali giapponesi attaccarono la flotta e le installazioni militari statunitensi stanziate nella base navale di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, provocando l’affondamento o il danneggiamento di 8 corazzate, di 3 cacciatorpediniere, di altre 4 navi, di 3 incrociatori e la distruzione di quasi 200 aerei, nonché la morte di 2.402 militari e il ferimento di altri 1.247. Inevitabilmente ne seguì, parallelamente alla vertiginosa crescita nell’opinione pubblica americana di un forte sentimento di odio verso i giapponesi, l’ingresso nella seconda guerra mondiale degli Stati Uniti, il cui governo immediatamente dichiarò guerra al Giappone e poi all’Italia e alla Germania.

Il bombardamento su Tokio nella prospettiva del “su col morale”

I giapponesi, però, non si erano limitati a devastare, sia pur non completamente, le forze americane nel Pacifico stanziate alle Hawaii. La loro espansione pareva inarrestabile, invincibile. Le Indie Olandesi e la Nuova Guinea erano sostanzialmente crollate. La capitale birmana, Rangoon, era caduta nelle loro mani. Era ormai segnata la sorte delle truppe statunitensi e filippine che, pressate dalle forze nipponiche, si erano asserragliate nella penisola di Bataan, nell’isola di Luzon. Insomma, la cronaca bellica per il popolo americano non era che un lungo elenco di sconfitte e di morti. La Casa Bianca sapeva che per tornare a vincere al fronte occorreva che gli americani avessero fiducia in se stessi e fede nella vittoria finale. Ma Roosevelt sapeva anche che i suoi discorsi, come quelli dei suoi ministri, e la propaganda in generale non erano sufficienti.

La valenza psicologica del bombardamento su Tokio e il suo valore propagandistico

Il bombardamento su Tokio, perciò, fu concepito proprio più per il suo effetto sul morale del popolo americano che per il suo valore tattico o strategico. Doveva, certamente, servire a far comprendere ai giapponesi, o almeno suggerire loro l’idea che gli Stati Uniti avrebbero combattuto fino alla fine. Ma, soprattutto, mirava a risollevare il morale del popolo e delle truppe statunitensi. E ciò spiega anche il carattere avventuroso, per certi versi, eroicamente improvvisato che lo caratterizzò, nonché l’ampia risonanza che non soltanto i giornali e la radio, ma anche il cinema diedero a questo primo bombardamento su Tokio [2].

Il Tenente Colonnello James Harold Doolittle, ideatore e conduttore del primo bombardamento su Tokio

Del valore simbolico dell’impresa era ben consapevole anche il 45enne tenente colonnello James Harold (Jimmy) Doolittle. Costui aveva iniziato la sua carriera di aviatore come istruttore di volo militare alla fine della prima guerra mondiale. Poi nel ’32, pur datosi al mondo degli affari, essendo appassionato di volo, aveva partecipato alle gare aeree di velocità, battendo il record mondiale di velocità. Aveva anche contribuito a inventare “il volo cieco”. Quindi rientrò nella United States Army Air Force e, visto il disastro di Pearl Horbour, concepì il piano del bombardamento su Tokio. E lo condusse personalmente. L’idea, però, di far decollare aerei con le dimensioni e il peso necessari allo scopo venne al capitano della marina Francis Low. Costui si era persuaso che, in particolari condizioni, un bombardiere bimotore avrebbe potuto farcela nonostante la limitata lunghezza del ponte di una portaerei.

Un’impresa disperata

Il 2 aprile del ’42, Doolittle e gli equipaggi dei 16 bombardieri B-25, a bordo della Hornet, iniziavano il loro pericolosissimo viaggio per andare ad effettuare il bombardamento su Tokio, dopo due mesi circa di duro addestramento. Per quanto preparati, però, la loro, era un’impresa consapevolmente azzardata. Erano assai di più le cose che potevano andare storte di quelle che si poteva pensare sarebbero andate per il giusto verso [3]. Infatti, la mattina del 18 aprile un aereo nemico avvistò la portaerei il cui ponte era occupato dai 16 B-25. Questa era accompagnata da un’altra portaerei la Enterprise, i cui caccia dovevano appunto proteggere la Hornet da eventuali attacchi giapponesi. L’aereo nipponico, in effetti, fu abbattuto, ma si ritenne che avesse fatto in tempo a dare l’allarme via radio. Benché fossero ancora a 370 km dal punto in cui i B-25 avrebbero dovuto decollare per andare a compiere il bombardamento su Tokio, Doolittle e il comandante della Hornet decisero che i bombardieri si alzassero immediatamente in volo.

L’esito del bombardamento su Tokio e il destino dei 16 bombardieri

L’aggiunta di quei quasi 400 km al loro percorso e il successivo peggioramento delle condizioni meteo ebbero conseguenze nefaste. I bombardieri riuscirono ad arrivare sui loro obiettivi (oltre che su Tokio il bombardamento doveva insistere anche su Yokohama, Kōbe, Osaka e Nagoya) e a sganciare le bombe, procurando in verità danni relativi (ma, come s’è visto, non erano i danni materiali che importavano al governo americano) e colpendo anche insediamenti civili, ma poi iniziarono i guai veri per loro. Il piano prevedeva che volassero sul Mare Cinese Orientale e che atterrassero in Cina, dove le forze antigiapponesi avevano allestito delle basi per accoglierli. Gli equipaggi, però, si resero conto che era quasi impossibile arrivare a quelle basi. Quindici equipaggi scelsero di lanciarsi col paracadute o di tentare un atterraggio di fortuna sulle coste cinesi. Un equipaggio, invece, nonostante il consiglio contrario di Doolittle, raggiunse Vladivostok, in Russia [4]. Doolittle e i suoi uomini, lanciatisi con il paracadute in Cina, vennero messi in salvo dal missionario americano John Birch. Ma due equipaggi, cioè 10 uomini ebbero un destino avverso. Due di essi perirono nel tentativo di atterrare, mentre altri 8 furono catturati e torturati dai soldati giapponesi. Di questi solo 4, pur terribilmente malridotti, sopravvissero alla prigionia. Tre, infatti, furono fucilati il 15 ottobre. Mentre uno morì a dicembre per gli abusi patiti. Doolittle temendo di aver perso tutti e 16 gli aerei e che i danni inflitti fossero minimi, pensava di meritarsi la corte marziale una volta tornato negli Stati Uniti, ma il successo della missione risollevò così tanto il morale americano che non vi furono esitazioni da parte di Roosevelt nell’insignirlo della Medal of Honor, né ve ne furono nel promuoverlo al grado di brigadiere generale, saltando il grado di colonnello. Gli furono assegnati, poi, i comandi della 12th Air Force in Nord Africa, la 15th Air Force nel Mediterraneo e l’8th Air Force in Inghilterra nei successivi tre anni [5]. I civili giapponesi che persero la vita o restarono ustionati o mutilati sotto quel bombardamento finirono, invece, nel dimenticatoio. Non erano altre che vite perdute nel delirio di sangue e fiamme generato dalle spinte nazionaliste e dall’odio che avevano stravolto il mondo, spazzandone l’umanità.

Alberto Quattrocolo

1] Dopo l’invasione giapponese della Cina, Roosevelt a Chicago, in un famoso discorso (“il discorso della quarantena“), aveva chiesto «una quarantena internazionale contro i Paesi aggressori», cioè un embargo generalizzato contro il Giappone, per la sua aggressione alla Cina e contro la Germania, e l’Italia, per la loro partecipazione alla guerra civile spagnola (e la Germania anche per la rioccupazione della Renania e l’Italia anche per l’invasione dell’Etiopia), in affiancamento alle forze franchiste intente a rovesciare il legittimo governo repubblicano. Il presidente americano disse che occorreva evitare che «il morbo» della guerra infettasse l’intero emisfero occidentale. Ma l’opinione pubblica reagì con tale disapprovazione per le sue parole, che da quel momento Roosevelt preferì tenere per sé le proprie convinzioni antifasciste.

[2] Hollywood, infatti, produsse ben tre kolossal diversamente celebrativi, ottimamente diretti e interpretati, i quali riscossero un impressionante successo commerciale in patria e in Inghilterra: Destinazione Tokio (1943, di Delmer Daves), sulla missione del sommergibile Coppefin (vedi nota 3), interpretato da Cary Grant e John Garfield, prodotto dalla Warner Bros.; Missione segreta (1944, di Mervyn Leroy), con Spencer Tracy nei panni di Doolittle, di Van Johnson in quelli del tenente Ted Lawson, di Robert Walker nei panni del caporale Dave Thatcher (vedi nota 5) e di Robert Mitchum in quelli del ten. Gray, prodotto dalla Metro Goldwyn Mayer; Prigionieri di Satana (1944, di Lewis Milestone), con Richard Conte, Dana Andrews e Farley Granger, nei panni di alcuni degli avieri che dopo il bombardamento vennero catturati dai giapponesi, prodotto dalla 20th Century Fox.

[3] . Già era stata quasi miracolosa la riuscita della missione svolta dal sommergibile Copperfin, che era riuscito ad entrare di nascosto nella baia della capitale giapponese, per fare i rilevamenti necessari al successivo bombardamento su Tokio

[4] Ma l’URSS aveva firmato con il Giappone un patto di non aggressione, perciò quel B-25 fu sequestrato e i membri dell’equipaggio vennero internati, per non provocare una reazione dei giapponesi. Nel 1943, però, furono trasferiti ad Ashgabat, in Turkmenistan, e qui il Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, l’NKVD, rilasciò segretamente i piloti, i quali passarono Iran con l’aiuto di un contrabbandiere.

[5] Il mitragliere-ingegnere caporale Dave Thatcher ricevette la Silver Star, a tutti gli altri fu consegnata la Distinguished Flying Cross. Coloro che erano stati feriti (come il ten. Lawson, cui era stata amputata una gamba) o uccisi ricevettero la Purple Heart.

Fonti

Clayton K.S. Chun, Le grandi battaglie della seconda guerra mondiale. Il raid di Doolittle; Incursione aerea sul Giappone. Tokyo, 1942, RBA Italia Srl., Milano, 2008

Peter Herde, Pearl Harbor, Rizzoli, Milano, 1986

Basil Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 2009

Carl Smith, Tora, tora, tora – Il giorno del disonore, RBA Italia Srl., Milano, 2009

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