Quando il contingente italiano partecipò al corpo di spedizione in Cina e si diede a violenze e razzie

Un evento da piè di pagina dei libri di storia ma che la dice lunga sul colonialismo di ieri e di oggi.

Il 14 agosto del 1900 il “corpo di liberazione” giapponese, americano, tedesco, francese, russo, inglese e italiano, con un attacco preceduto dal fuoco dei cannoni, liberò il quartiere delle legazioni di Pechino, da 55 giorni posto sotto assedio dai rivoltosi boxer (con l’appoggio di alcuni reparti dell’esercito imperiale e il tacito assenso dell’imperatrice Tsu-hsi).

I boxer (chiamati così dagli occidentali, poiché il loro nome in cinese, yiehetuan, significava “i pugni della giustizia e della concordia”) erano carrettieri, braccianti, artigiani, ex soldati, che guardavano con orrore agli insediamenti stranieri, che con le loro novità tecniche e industriali (navi a vapore sulle vie fluviali, fabbriche tessili, telegrafi e ferrovie) toglievano loro lavoro, gettandoli nella miseria, e ai missionari cattolici e protestanti (stranieri, anch’essi, ovviamente), che intendevano modificarne valori e costumi[1].

In Cina la dinastia manciù era in piena decadenza e molte potenze straniere tentavano di strappare, e per lo più ci riuscivano, concessioni territoriali, appalti, zone di influenza. In breve, la Cina stava per fare la stessa fine dell’Africa, visto che a fine ‘800 vi erano già 62 insediamenti stranieri.

La rivolta dei boxer del giugno del 1900 offrì un formidabile alibi ai governi europei, russi, americani e giapponesi per lanciarsi alla spartizione del bottino cinese.

Così alla fine di luglio del 1900, partivano dai rispettivi porti, contingenti militari russi, americani, giapponesi, tedeschi, austriaci, francesi e italiani: 20.000 in tutto. Costituivano un unico corpo di spedizione, diretto a Pechino dove dall’inizio di giugno 473 stranieri, protetti da 451 militari erano assediati da migliaia di boxer.

Si tratta di un evento da nota a piè di pagina nei libri di storia. Però, significativo ancora oggi. E illustrativo di come negli ultimi 119 anni assai poco siano cambiati i modi per mascherare il colonialismo e la rapacità e il razzismo latente che lo sottendono[2].

Anche allora il risvolto di dominazione e rapina colonialista era ben noto

Partirono, quindi, anche dei soldati italiani, per decisione del governo presieduto dal conservatore Giuseppe Saracco.

Che si trattasse di una scelta colonialista e che in Cina fosse in atto da tempo un tentativo di dominazione diretta e indiretta delle potenze straniere era un fatto noto a tutti, o almeno a tutti coloro che volevano vedere e sapere.

Il deputato repubblicano Napoleone Colayanni, ad esempio, si era rivolto al Governo con queste parole:

«Che direste voi se domani uno straniero esclamasse: “Mi piace il porto di Messina” e se lo prendesse? E poi facesse altrettanto con Napoli? Gli europei hanno operato così in Cina!»

 

Con la scusa di andare proteggere il sacro diritto delle genti e dell’umanità calpestata…

Proprio da Napoli si imbarca il contingente italiano il 19 luglio: Re Umberto I, dieci giorni prima di essere assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, lo saluta affermando che quei 1882 soldati e 83 ufficiali italiani sono inviati a difendere «il sacro diritto delle genti e dell’umanità calpestata», tenendo «alto il prestigio dell’esercito italiano e l’onore del nostro Paese»[3].

L’inviato del Corriere della Sera Luigi Barzini raccontava subito come veniva tenuto alto l’onore degli eserciti e dei Paesi della spedizione: Tianjin, la più importante metropoli del Nord della Cina, era stata rasa al suolo dai cannoni e le acque del suo fiume, Pei-ho, rese putride dai cadaveri di boxer e civili. Vi sono poi rappresaglie ai danni di città di più piccole dimensioni, la cui popolazione vede le proprie case incendiate con sistematicità, dopo essere stata razziata di ogni avere dai militari del contingente internazionale, che hanno anche distribuito generose dosi di violenze gratuite e proceduto a liquidazioni sommarie.

Carneficine, violenze e saccheggi indiscriminati del contingente internazionale dietro la retorica e gli slogan sulla difesa della civiltà.

È subito dopo la liberazione degli assediati a Pechino, però, che il corpo di spedizione dà il peggio di sé. Vengono realizzati una carneficina e un saccheggio di tali proporzioni da far sbiadire il ricordo delle violenze commesse dai boxer. Migliaia di uomini sono trucidati, le donne stuprate, famiglie intere si suicidano per non sopravvivere al disonore[4].

Il generale Chafffee riferiva ai giornalisti che dopo la liberazione del quartiere delle legazioni, «per ogni boxer che è stato ucciso sono stati trucidati 15 innocenti portatori o braccianti, compresi non poche donne e bambini».

L’intramontabile, profondamente falso, mito autoassolutorio degli “italiani brava gente”

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Come sempre i commentatori italiani, incluso l’inviato del Corriere tentavano di esaltare il carattere mite, pacifico, buono dell’italiano in divisa. In realtà, i soldati italiani si erano lasciati andare a rapine e decapitazioni sommarie esattamente come i soldati tedeschi, francesi, austriaci, ecc.

«La sola differenza con i soldati degli altri contingenti era che questi ultimi non avevano il problema di apparire “brava gente”», ha affermato lo storico Angelo Del Boca in “Italiani, brava gente?” (Neri Pozza Editore, 2005), testo cui si è ampiamente attinto per scrivere questo post e altri, sempre su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nei quali si ricordano le nefandezze e gli orrori commessi nelle imprese coloniali italiane.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Il tenente colonello Salsa del contingente italiano scriveva alla madre che la principale causa della rivolta era costituita dall’intolleranza e dagli intrighi dei missionari, intenti a perseguire fini politici e terreni anziché religiosi.

[2] Il fatto, invero, sarebbe finito presto nel dimenticatoio per la stragrande maggioranza delle persone – mescolato e soverchiato nel ricordo dagli eventi della Prima Guerra Mondiale, che quattordici anni dopo avrebbero cambiato per sempre la faccia del mondo e la vita di milioni di persone – se a ripescarlo dall’oblio non avesse provveduto un romanzo di buon successo e un kolossal cinematografico, da quello tratto, di ottima resa commerciale: 55 giorni a Pechino (1963, di Nicholas Ray). Il film, girato in Spagna e prodotto dal statunitense Samuel Bronston, era di quelli che gli spettatori torinesi dell’epoca chiamavano “filmoni”, vale a dire: sceneggiature tratte da best sellers o classici della letteratura, spettacolarità magniloquente, scene di battaglia con un’immensità di comparse, scenografie sontuose, intrecci complessi, superstar nei ruoli principali (qui Charlton Heston, Ava Gardner e David Niven) e attori eccellenti, veterani di Hollywood o del cinema inglese, nei ruoli di contorno (Flora Robson, Paul Lukas, e Leo Genn), insieme ad attori già saldamente piantati in ruoli importanti nel cinema americano a basso budget o nelle produzioni europee (John Ireland e Jacques Sernas, in questo caso, ad esempio) ed emergenti nelle cinematografie nazionali (tra gli italiani, oltre a Massimo Serato figura tra i volti noti anche un giovane Philippe Leroy, che i telespettatori italiani  degli anni ’70 ameranno nel ruolo dell’astuto e sornione Yanez, inseparabile sodale di Sandokan). A dirigere il tutto talora era posto un regista di solido mestiere altre volte un autore. 55 giorni a Pechino rientra nella seconda casistica: il regista era Nicholas Ray, autore di molte opere di “rottura”, divenute cult e, talora, assai redditizie sul mercato cinematografico, come Gioventù bruciata, Johnny Guitar, Il paradiso dei barbari, Dietro lo specchio, Neve rossa e diversi altri titoli dalla forte impronta personale, pur inseriti in generi precisi e consolidati: noir, western, bellico…

[3] Il suo successore, Vittorio Emanuele III, in una lettera del 9 settembre di quell’anno indirizzata al generale Osio, scriverà il suo disaccordo sulla spedizione cinese, concludendo che in Cina «non si deve creare una Seconda Africa».

[4] M. Bastide, M. C. Bergère e J. Chesneaux, La Cina, Vol. II, Einaudi, 1974, p. 118

2 commenti
  1. Adriano Zecchina
    Adriano Zecchina dice:

    So che durante la rivoluzione russa un contingente italiano (battaglione Savoia?) parti da Tiensin per Vladivostok dove participo alla repressione insieme a giapponesi americani e al contingente ceco.
    C’è qualche connessione?

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    • Alberto Quattrocolo
      Alberto Quattrocolo dice:

      Gentile Adriano Zecchina, la risposta al suo quesito è sì. Infatti, la partecipazione alla spedizione “fruttò” all’Italia l’insediamento di Tianjin (Tiensin). Cioè, la proprietà perpetua di un’area di 46 chilometri quadrati, nei pressi di quella città. Un terreno che, dopo i massacri subiti, risultava abitato da 17.000 persone, e confinava con la concessione austriaca e quella russa.
      Non un grande affare, in effetti, poiché si trattava di un villaggio collocato in un’area paludosa, per la cui bonifica la Cassa depositi e prestiti dovette anticipare 400.000 Lire (Fileti V., La concessione italiana in Cina, 1921, citato in Del Boca A., Italiani, brava gente?, 2005, p. 104).
      Va considerato che le potenze straniere non solo avevano soffocato nel sangue la rivolta, ammazzato e rapinato indiscriminatamente, costretto l’imperatrice a fuggire travestita da contadina, saccheggiato il palazzo imperiale, l’intera Pechino, e sottratto beni per importi spaventosi (dalle sole rappresaglie su Pao-ting, gli italiani ottennero un bottino di 26.000 dollari), ma avevano anche imposto alla Cina un indennizzo per le spese della spedizione bellica. Dell’impressionante e gravosissimo importo complessivo di 1.687.500.000 Lire, all’Italia toccarono circa 100 milioni, assegnatagli dagli alleati in base alla quantità di uomini e mezzi impiegati nella spedizione.
      Buona giornata.
      Alberto Quattrocolo

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