Con te, Marlene Dietrich

Morì il 6 maggio del 1992, Marlene Dietrich. Nessuna sa esattamente quanti anni avesse. Anche se la versione più accreditata era che fosse nata il 27 dicembre 1901, a Schöneberg, vicino a Berlino. Fu battezzata come  Marie Magdalene. Libera ed indipendente sin da piccola, però, si presentava agli altri come Marlene. Il nome che si diede da sé divenne sinonimo di glamour e mistero.

«Il glamour è essere sicuri di sé stessi. La certezza che vai bene da ogni punto di vista, che la tua mente e il tuo corpo, qualunque occasione si presenti, saranno all’altezza della situazione», disse quand’era ormai una diva decisamente acclamata.

I primati di Marlene Dietrich

L’angelo azzurro (di Joseph Von Sternberg, 1930), il film che la lanciò, fu il primo film sonoro del cinema tedesco. Con la sua performance Marlene Dietrich lo trasformò in un cult. Non si era mai visto nulla di così seducente sullo schermo, come Marlene Dietrich che cantava la canzone Lola Lola. Nel suo secondo film di successo, Marocco (di Joseph Von Sternberg, 1930), vestita da uomo con cilindro e smoking, baciava una donna del pubblico sulle labbra. Era il primo bacio lesbico della storia del cinema. Per il suo grande impegno civile, profuso instancabilmente durante la guerra nella causa antifascista, nel 1947,, ottenne la Medal of Freedom. Fu la prima donna ad essere insignita con tale onorificenza. Avendo le gambe più sexy del mondo, fu la prima diva a farsele assicurare.

Un’infanzia e un’adolescenza non proprio facili

Figlia di una gioielliera e di un ufficiale di polizia, Marie Magdalene, rimase orfana del padre a otto anni. Il nuovo marito della madre la adottò e le diede il proprio nome. Poi morì nel 1916, nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Questo lutto, indusse la giovane Marlene Dietrich a diffidare istintivamente del nazionalismo che aveva seminato morte, miseria e devastazione per quattro interminabili anni [1].

Gli esordi, il matrimonio e la maternità

Appassionata di concerti, musica classica e teatro, all’inizio degli anni venti, Marlene Dietrich frequentò un corso di recitazione diretto dal grandissimo Max Reinhardt (anch’egli poi rifugiatosi negli USA per sfuggire a Hitler). Nel 1922 iniziò a lavorare in teatro e fece le sue prime apparizioni cinematografiche. Naturalmente si trattava di film muti. L’anno dopo conobbe un aiuto regista, Rudolf Sieber, di cui si innamorò e lo sposò. Ebbero una bambina, Maria Elizabeth, anche lei futura attrice, conosciuta, poi, con il nome di Maria Riva. Ma già Marlene indossava spesso abiti maschili e non esitava ad avere relazioni sessuali o sentimentali con uomini e donne. La relazione con Rudolf era finita, anche se non divorziarono mai

Marlene Dietrich diventa l’angelo azzurro

Nel 1929 per la prima volta ebbe una parte da protagonista nel film Enigma, di Curtis Bernarhardt (anch’egli poi profugo del nazismo negli Stati Uniti, dove ebbe un’apprezzabile carriera cinematografica). In questo ruolo venne notata dal regista viennese, Josef von Sternberg, che già lavorava stabilmente e con notevole successo commerciale e critico a Hollywood. Immediatamente la scelse per il ruolo di una cantante che ogni sera risveglia la libidine di una folla greve e birraiola. Era un ruolo controverso di donna tanto seducente, quanto cinica e senza scrupoli, quello che l’attrice proponeva nel primo film sonoro tedesco in corso di produzione, Angelo Azzurro [2]. Per la parte di Unrat, il regista si era portato appresso dagli Stati Uniti, Emil Jannings, dove il più celebrato attore del cinema tedesco, aveva già ottenuto il plauso generale, ricevendo addirittura in appena tre anni di soggiorno hollywoodiano ben 2 Oscar. Ma fu la quasi esordiente Marlene Dietrich, abilmente diretta da Sternberg, ad imporsi nell’immaginario collettivo fin dalla prima proiezione de L’angelo azzurro, il 1° aprile 1930 al gloria Palast di Berlino [3]. Marlene-Lola, col frac, il cappello a cilindro e le calze a rete divenne immediatamente l’icona della Berlino libertina, disperatamente affamata di pane, di vita e di libertà, del periodo precedente al nazismo. Ma la carriera tedesca dell’attrice era già conclusa. Tra lei e von Sternberg si svilupparono quasi immediatamente un sodalizio artistico e una relazione amorosa. Marlene Dietrich non ebbe indugi nel seguirlo a Hollywood (dove avrebbero realizzato altri sei film). Ottenne subito un contratto con la Paramount, che in quel periodo era alla caccia di un’attrice europea da contrapporre alla svedese, divina, Greta Garbo della MGM. La Paramount, perciò, con la collaborazione di Sternberg si dedicò senza risparmio alla Dietrich, promuovendola con un investimento pubblicitario senza precedenti [4].

Marlene Dietrich, la disonorata venere bionda

In breve la Dietrich diventò una grande diva. In  Marocco (1930), affiancata alla nuova star maschile della Paramount, Gary Cooper, sebbene fosse ancora una cantante, non aveva più l’aggressiva carnalità di Lola. La femminilità esibita e misteriosa di quel personaggio, che aveva scandalizzato le platee, apparendo con le cosce bianche divaricate, mentre la sua voce roca  cantava “dalla testa ai piedi sono fatta per l’amore”, subì una trasformazione. Già al suo primo film hollywoodiano, Sternberg la persuase ad aiutarlo a rappresentare la sensualità allo stato puro [5]. La trasformazione proseguì Disonorata (1931), Shangai Express (1932) e Venere Bionda (1932) [6].

Star maschili a rimorchio della diva Marlene Dietrich

In questi film, la Paramount, d’accordo con Joseph von Sternberg, utilizzava la notorietà di Marlene Dietrich per lanciare i divi di punta della sua scuderia maschile: in particolare Cooper e Cary Grant. E spettatori e spettatrici in egual misura in tutto il mondo accorrevano a bearsi gli occhi della loro bellezza. Ma se i suoi partner maschili erano, di fatto, ) delle figure di supporto -per fossero quanti validissimi attori, destinati di lì a poco a diventare delle superstar amatissime (specialmente Gary Cooper e Cary Grant), era lei ad impressionare il pubblico. Per la gente, in effetti, era difficile non cadere nell’identificazione tra queste ragazze ciniche dal look sempre eccessivo e la vera Marlene Dietrich, il cui stile di vita anticonvenzionale contribuiva  a veicolare un’immagine pubblica carica d’ambiguità, accentuata dal nuovo look cinematografico, costruito per lei dal regista, dal suo direttore della fotografia, il maestro Lee Garmes, e dal geniale costumista, Travis Banton [7].

L’autodisciplina  di Marlene Dietrich e il suo rapporto simbiotico con Joseph von Sternberg

Le prove erano lunghissime, ma la Dietrich sopportava tutto, grazie alla sua ferrea autodisciplina. Marlene Dietrich forniva il suo contributo alla creazione di questi effetti, monitorando le sue interpretazioni, tramite uno specchio semovente adeguatamente posizionato nel set. Ma le trasformazioni erano anche fisiche e perfino psicologiche. Sternberg decideva come lei doveva truccarsi e pettinarsi, la mise a dieta e la convinse anche a levarsi dei molari per rendere il viso più affilato. La Dietrich si lasciò modellare dal regista, creando con lui un rapporto, talmente ambiguo e simbiotico che Sternberg scrisse nelle sue memorie:

«Io sono Marlene. Marlene è me».

Una donna tutta sola e indipendente

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Nel 1933 la Dietrich interruppe momentaneamente il sodalizio con Joseph von Sternberg per lavorare nel film Il cantico dei cantici diretto da Rouben Mamoulian, imposto alla produzione proprio dal suo pigmalione, che non sapeva smettere di gestirla. Nel 1933 il contratto con la Paramount stava scadendo e la Dietrich pensò di non rinnovarlo e di tornare per un po’ in Germania. Ma l’avvento del Nazismo cambiò le cose. Invece di tornare a Berlino accettò di rinnovare il contratto, a condizione che Sternberg continuasse ad essere il suo regista. L’anno dopo tornò a farsi dirigere da  von Sternberg in L’imperatrice Caterina (sua figlia interpretava l’imperatrice bambina), cui seguì l’ultimo lungometraggio con il regista, Capriccio spagnolo. Nel frattempo, però, l’esito commerciale insoddisfacente delle ultime pellicole le fece comprendere che la sua immagine non era più sintonica con i gusti del pubblico. Anche se il suo stipendio era astronomico (nel 1934 la Dietrich arrivò a guadagnare 350.000 dollari l’anno),si accordò con la Paramount non solo per svincolarsi dal controllo di Sternberg, ma anche per modificare la propria immagine. Sapendo di avere un talento multiforme adatto anche per la commedia, intendeva abbandonare i ruoli melodrammatici e interpretare ruoli che la rendessero più umanamente credibile [8]. Niente più mascheramenti esotici e pose statuarie, ma astuzia, fine umorismo e una inedita capacità di relazionarsi non soltanto con la macchina da presa, ma con gli attori [9].

L’amore con Erich Maria Remarque e il rifiuto delle offerte di Joseph Goebbels e del cinema fascista italiano

Dopo Angelo, che non ottenne il successo di pubblico previsto, per oltre due anni Marlene Dietrich non girò alcun film. La Paramount aveva deciso di sciogliere contratto con lei. La sua carriera a Hollywood sembrava finita. Lei, che nel 1937 aveva fatto domanda per ottenere la cittadinanza americana, decise di passare con Douglas Fairbanks Jr. una lunga vacanza in Francia. Qui  si ricongiunse con la sua famiglia allargata: sua figlia Maria ora tredicenne e il marito Rudi con la sua compagna [10]. Poi in un bar di Venezia, la Dietrich conobbe Erich Maria Remarque, immensamente noto autore del romanzo pacifista e antimilitarista Niente di nuovo sul fronte Occidentale. Divennero subito amanti. E, forse, fu l’antinazismo dello scrittore, e la demonizzazione persecutoria di cui era fatto segno da parte dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani, ad incrementare la sua determinazione nel rifiutare le generose offerte di alcuni cineasti italiani e del ministro della Propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels (nel post Goebbels, Fritz Lang e la propaganda cinematografica nazista abbiamo visto come il ministro avesse tentato di arruolare nella sua macchina propagandista anche il regista Fritz Lang ), oltre che dello stesso Adolf Hitler.

La partita d’azzardo di Marlene Dietrich

In ogni caso, nel ’39, ottenuta la cittadinanza Americana, tornò negli USA, il 22 agosto 1939, una settimana dopo che la Germania aveva invaso la Polonia [11].

Nessuno avrebbe scommesso su di lei come attrice western. Ma di nuovo spiazzò tutti e affiancando il più improbabile dei suoi partners, James Stewart, interpretò  una commedia-drammatica western di notevolissimo successo, Partita d’azzardo (1939, di George Marshall). Passata a contratto  con la Universal, affiancò  in tre film un altro divo dal crescente successo, John Wayne. Due di essi erano di ambientazione western

La storia d’amore con Jean Gabin e il suo contributo alla lotta antinazista

Durante la Seconda Guerra Mondiale la Dietrich decide di appoggiare il governo americano attivamente. Non era soltanto un gesto di riconoscenza, di marca patriottica, per la cittadinanza ottenuta, ma anche una questione etica, morale e politica. Inserita in un ambiente in cui molti suoi amici erano intellettuali fuggiti dalla Germania nazista perché perseguitati per le loro idee politiche o perché di origine ebrea o perché omosessuali, aveva deciso di fare quanto poteva contro Hitler e Mussolini. Inoltre, si era innamorata del divo più noto del cinema francese, Jean Gabin. Questi, arruolatosi volontario nell’esercito francese, quando la Francia era stata occupata dalle armate di Hitler, era riparato negli USA. Il legame della Dietrich con Jean Gabin destò l’attenzione dell’FBI, già allertata dalle sue amicizie con liberali, progressisti e comunisti. Gabin, però, aveva moglie e figli e non intendeva trattenersi a Hollywood. Appena poté si arruolò nelle Forze libere francesi e tornò in Europa a combattere il nazifascismo. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra contro le forze dell’Asse, Marlene Dietrich chiese, quindi, di seguire le truppe in Africa e in Italia, con il compito di tenerne alto il morale con i suoi spettacoli, senza preoccuparsi della propria incolumità, anzi rischiando più volte la pelle. Era, infatti, tra i soldati americani durante la battaglia di Monte Cassino. Un secondo tour, tra il settembre 1944 e il luglio 1945, la portò in  Francia e in Belgio. Inoltre fornì la sua interpretazione della tristissima canzone antimilitarista Lili Marleen, che divenne il suo cavallo di battaglia [12]. Incontrò Gabin sul fronte belga nell’inverno del 1944 e poi di nuovo alla fine della guerra a Parigi. Nel 1946 Gabin la convinse a lavorare con lui nello sfortunato mélo di Martin Roumagnac Turbine d’amore. Si rividero ancora in seguito, qualche volta, ma Gabin non se la sentiva di lasciare la moglie e Marlene se ne tornò in America.

Altri ruoli memorabili

La liberazione dell’Europa dal nazifascismo coincise anche con una sorta di liberazione di Marlene Dietrich sul piano dei suoi ruoli cinematografici. Nel ’48, era diventata nonna, ma era una nonna tutta particolare. Continuava ad avere amanti, anche tra le celebrità del cinema (come Burt Lancaster) e ad infischiarsene della marea montante di conformismo che accompagnava quell’epoca di caccia alle streghe anticomunista (su Corsi e Ricorsi, al tema abbiamo dedicato diversi post, tra i quali: A cavallo della paranoia e John Garfield “eroe proletario” distrutto dalla paranoia dominante). Restava sempre “la Dietrich”, ma aveva raggiunto la maturità psicologica e artistica che servivano a farla lavorare come attrice versatile e non soltanto a  preoccuparsi di conservare lo status di diva. E tra i diversi film interpretati, seppe mettere molto di sé, dei suoi dolori e dei suoi conflitti interiori, oltre ad una spiccata vena umoristica nelle collaborazioni con registi-autori di origine europea.

Fu una zingara, che aiuta un fuggiasco (Ray Milland) nell’Europa occupata dai nazisti in Passione di zingara (1947, di Mitchell Leisen).

Quindi, interpretò mirabilmente Scandalo Internazionale (1948, di Billy Wilder), dove tra le macerie della Berlino post bellica era una cantante sospettata dagli Alleati di essere stata l’amante dei gerarchi nazisti. Inoltre, si fece dirigere da Alfred Hitchcock, in una dei suoi rientri in Inghilterra, nel thriller Paura in palcoscenico (1950).

Offrì, poi,  una performance toccante sotto la direzione di Fritz Lang, che, pur litigando con l’attirce, costruì su di lei il suo capolavoro western, dalle complesse sfumature morali, degne di un noir, Rancho Notorius (1952).

Quindi, tornò a collaborare con Billy Wilder, accanto ad attori della bravura e della statura di Tyrone Power e Charles Laughton in un raffinatissimo giallo processuale, tratto da Agatha Chritie, Testimone d’accusa (1957).

Si prestò ad una parte minore, ma memorabile, pensata apposta per lei, accanto all’interprete e regista Orson Welles, in una delle punte più alte e barocche del genere noir, L’infernale Quinlan (1958). Il film fu subito un cult maledetto.

Un immediato e strepitoso successo di critica e commerciale fu, invece, l’ultimo suo film importante. Aveva accolse con entusiasmo la proposta del produttore e regista di Stanley Kramer di interpretare, nel ricco cast di Vincitori e vinti (1961), una nobildonna tedesca decaduta. Anche qui sfruttò le proprie esperienze, nell’interpretare una donna con idee antitetiche alle sue, la vedova di un generale tedesco, giustiziato a Norimberga,  che cerca pateticamente di persuadere un giudice americano, interpretato da Spencer Tracy, dell’innocenza del popolo tedesco rispetto agli orrori commessi dal nazismo.

La fame d’amore

Tra i tardi Cinquanta e i Settanta Marlene Dietrich non ebbe timore nel proporsi in un formidabile ritorno alle origini come cantante, apparendo nei teatri di tutto il mondo. Su consiglio di Nat’ King’ Cole realizzò infatti concerti di enorme successo, incluso uno leggendario (famoso quello del 1959 a Rio de Janeiro). La sua ultima esibizione fu a Sidney nel 1975 [13]. Non lo faceva per i soldi. Di quelli ne aveva decisamente abbastanza. Lo faceva per amore. Disse sua figlia Maria:

«Mia madre era una tedesca prussiana e come tale possedeva un esagerato senso della disciplina e del dovere. Nessuno avrebbe resistito così a lungo sulla scena, come lei fece, fino ad un’ età nella quale le donne, in genere, preferiscono mettersi da parte. Lei si sentì, fino alla fine, impegnata a tenere viva l’ immagine di Marlene Dietrich, fatta di bellezza straordinaria e mistero, creata da Josef von Sternberg, il regista che l’ aveva lanciata, ma che poi aveva ripudiato la sua creazione. Marlene dedicò la sua vita a questa missione».

L’età, la solitudine e la depressione legata alla difficoltà di movimento causata dalle frattura agli arti inferiori, e gli alcolici, ebbero la meglio. Morì in un appartamento di avenue Montaigne, a Parigi, novantenne, il 6 maggio del 1992.

Alberto Quattrocolo

[1] Crescendo nel difficile periodo della Repubblica di Weimar, fece presto esperienza delle durezze della vita. Frequentò le scuole di Berlino e Dessau, studiando inglese e francese. Inoltre imparò a suonare il violino e il pianoforte. Grazie alla sua carica sensuale, non ebbe difficoltà eccessive a lavorare come ballerina e cantante nei cabaret di Berlino.

[2] Sternberg, chiamato a dirigerlo in doppia lingua, inglese e tedesco, doveva scegliere l’attrice giusta per il ruolo di Lola-Lola, la femme fatale che porta alla rovina il vecchio professore Unrat (personaggio nato dalla penna di Heinrich Mann per un dramma di impegno sociale, con un’esplicita polemica anti-autoritaria e di denuncia del bigottismo maschilista e patriarcale). Sottopose Marlene Dietrich ad un provino chiedendole di cantare un ritornello allusivo di una canzoncina da cabaret. Lei lo fece con la sua voce roca ed ebbe subito la parte.

[3] Emil Jannings divenne invidioso di Marlene Dietrich già durante le riprese. Pativa le attenzioni che il regista aveva per lei e cercava di fronteggiare, con il proprio gigionismo il crescente rilievo che, grazie alla collaborazione tra Sternberg e l’attrice, acquistava il personaggio di Lola-Lola nella realizzazione del film. Poi non riuscì più a controllare la rabbia:

«Durante le riprese delle scene dello strangolamento», raccontò in seguito Marlene Dietrich, «Jannings sembrava proprio che volesse strangolarmi. La mia gola rimase coperta di lividi per giorni e giorni, dopo che la scena era stata girata». Il rancore di Emil Jannings si fece ancora più profondo, quando divenuto attore ufficiale della Germania nazista, apprese che Marlene Dietrich, trasferitasi nel frattempo in America, aveva respinto i ripetuti inviti del ministro della Propaganda Joseph Goebbels a tornare in patria.

[4] Ne derivò una vera e propria guerra a distanza tra le due star. E non solo nel cinema, ma anche nel privato, tanto che per un certo periodo condivideranno anche la stessa amante.

[5] Tra le tante scene, due in particolare colpirono il pubblico: in una, vestita da uomo, Marlene Dietrich scendeva dal palcoscenico e baciava sulle labbra una giovane signora del pubblico. L’altra era il finale, in cui la Dietrich seguiva di corsa nel deserto il bellissimo soldato della Legione Straniera di cui era innamorata (Cooper), togliendosi e abbandonando nella sabbia le scarpe coi tacchi.

[6] In tutti questi film, diretti da Joseph von Sterberg, Marlene Dietrich interpretava donne prive di scrupoli e opportuniste, eroine negative, più che disposte a sfruttare la propria bellezza per raggiungere ciò che vogliono.

[7] I capelli diventati di un biondo platino, le sopracciglia ridotte a una linea sottile, la silhouette definita e androgina, erano accarezzati da una fotografia molto complessa, che creava aureole di luce sulle punte dei capelli, scavava le sue guance con le ombre, mentre il trucco si occupava di  ingrandirle gli occhi. Questo meticoloso lavoro sull’immagine dell’attrice sullo schermo era associato ad ambientazioni per lo più esotiche ricostruite interamente in studio, a stupendi costumi, spesso tendenti ad un sublime kitsch, e a scenografie fantasiose e barocche, illuminate da Garmes in modo tale da accentuare i richiami all’espressionismo.

[8] Fu il regista, di origini berlinesi, Ernst Lubitsch, allora a capo della produzione Paramount, a capire le nuove potenzialità dell’attrice, prima come produttore di Desiderio (1936, di Frank Borzage), al fianco di un brillante Gary Cooper, e poi anche come regista di Angelo (1937). Lubitsch “riportò Marlene sulla terra”.

[9] Paradigmatico di questa trasformazione fu tra gli altri La contessa Alessandra (1937, di Jacques Feyder), colossale rievocazione della rivoluzione bolscevica, in cui seppe collaborare meravigliosamente anche con un attore fuori classe come Robert Donat.

[10] Al gruppo occasionalmente si aggiungeva qualche suo o sua amante di turno, come l’ereditiera americana Jo Carstairs, il petroliere e produttore Joseph P. Kennedy, padre del futuro presidente degli Sati Uniti.

[11] Nel luglio del 1938, mentre era in Francia, ricevette una chiamata dal famoso produttore cinematografico Joe Pasternak (ebreo ungherese, che aveva lavorato in Germania e poi era emigrato a Hollywood), che le offriva un contratto alla Universal Studio.

[12] La sua versione di Lili Marlene si collegava alla partecipazione a programmi radiofonici di propaganda (come il MUZAC Project – musica per rendere la propaganda nazista meno efficace – dell’OSS, l’antenato della CIA). Nel 1947 per il suo impegno durante la guerra ricevette la Medal of Freedom, la massima onorificenza civile americana, mai prima d’allora assegnata ad una donna. Nel 1950 le venne anche conferita la Légion d’honneur dal governo francese.

[13] L’ultima apparizione cinematografica fu in Gigolò (1979, di David Hemmings), in cui, accanto a David Bowie, interpretava la tenutrice di un bordello nella Berlino dei primi anni Trenta.

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