1913, la suffragetta Emily Davison è ferita mortalmente nell’incidente di Epsom

Il 4 giugno del 1913 tutta l’Inghilterra che conta si recò a Epsom, alle porte di Londra, per il Derby, la corsa dei cavalli che richiamava la nobiltà e la ricca borghesia dell’epoca, in una parata di vestiti all’ultimo grido, cappellini con ardite composizioni floreali, livree tirate a lucido; tra il pubblico c’era anche il re, Giorgio V. La corsa ebbe inizio, i concorrenti lanciati al galoppo; in uno dei punti nevralgici del percorso, a un passo dalle ringhiere di protezione, una donna si gettò all’improvviso verso il cavallo del re per tentare di afferrarne le briglie. L’urto, immortalato dalle immagini d’epoca, fu tanto imprevisto quanto spettacolare.

La donna era Emily Davison, una suffragetta, come si diceva allora con malcelato disprezzo; riportò una frattura cranica e varie lesioni interne, e morì pochi giorni dopo.

Subito dopo l’incidente, re Giorgio V si interessò alla sorte del cavallo e del fantino – usciti quasi incolumi dallo scontro – e manifestò grande disappunto per la giornata di festa rovinata dal gesto della Davison. La regina inviò un telegramma al fantino, augurandogli di rimettersi al più presto da “un triste incidente causato dal comportamento deplorevole di una donna lunatica e terribile”. Il fantino rimase invece sconvolto dall’evento e, a distanza di anni, rese un pubblico omaggio alla vittima.

 

La Women’s Social and Political Union (WSPU), il movimento radicale impegnato nella lotta per l’uguaglianza in cui Emily Davison militava, fece di lei un’icona. Il settimanale “The Suffragette” uscì con una copertina celebrativa che la raffigurava come un angelo alato e riportava la famosa citazione del Vangelo di Giovanni che fu poi incisa anche sulla sua tomba:

nessuno ha un amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici.

Sulla lapide fu inciso anche il motto della WSPU: “Atti, non parole”.

Cinquantamila persone, uomini e donne, borghesi e proletari, seguirono i funerali di Emily a Londra, e altre centinaia le resero omaggio lungo il percorso del treno che ne riportò le spoglie al paese natale.

A lungo l’opinione pubblica britannica si è divisa sulla sua figura, anche a causa dell’atteggiamento della stampa e dell’establishment, che l’hanno descritta per molto tempo come una squilibrata e una fanatica. Chi voleva screditarla ha sempre affermato che la quarantunenne originaria del Northumberland aveva scelto d’immolarsi per la causa, trasformandosi in un’antesignana delle odierne donne-kamikaze. Ma le persone a lei più vicine, e soprattutto le sue compagne di lotta, hanno sempre sostenuto con decisione che volesse soltanto attaccare la bandiera viola, bianco e verde del movimento delle suffragette alle briglie del cavallo del re, per farla sventolare fino al vicino traguardo. Questa ipotesi è stata recentemente confermata da una sofisticata analisi digitale delle immagini dei cinegiornali d’epoca e da una nuova ricerca storica basata sul materiale inedito contenuto in un archivio privato, che mostra che Emily si era già procurata un biglietto per il treno che doveva riportarla a Londra, e aveva programmato di recarsi a Parigi in visita alla sorella e al nipotino appena nato.

Nata nel 1872, Emily riuscì con grande determinazione a concludere il percorso di studi in lingua e letteratura inglese, in un’epoca che escludeva il genere femminile dall’istruzione superiore. In seguito, non potendo laurearsi né insegnare all’interno dell’università in quanto donna, divenne docente presso scuole private e poi istitutrice presso una ricca famiglia nel Berkshire. Nonostante conducesse un discreto tenore di vita, si sentì perennemente insoddisfatta della propria condizione, non tollerando la disuguaglianza di opportunità che intercorreva tra i due generi. Perciò nel 1906 decise di iscriversi alla WSPU, che all’epoca incentrava le sue battaglie attorno al tema dell’affermazione del suffragio femminile.

Il suo curriculum di attivista fu impressionante. Scrisse circa duecento lettere, molte delle quali pubblicate, a oltre cinquanta giornali, per illustrare con toni e argomentazioni non violente le posizioni della WSPU, le cui pratiche radicali di protesta suscitavano nell’opinione pubblica un misto di simpatia e distanza. Partecipò a numerose azioni eclatanti, lanciando pietre, infrangendo finestre, facendo esplodere cassette delle lettere, compiendo irruzioni in luoghi o eventi riservati agli uomini; provocò l’incendio, dannoso ma senza vittime, della nuova casa del Cancelliere David Lloyd George; in occasione del censimento del 1911, si nascose in un armadio del Palazzo di Westminster in modo da poter legittimamente indicare sul modulo che la sua residenza, quella notte, era stata la Camera dei Comuni, vietata alle donne.

Fu arrestata in nove occasioni, ogni volta intraprendendo uno sciopero della fame, pratica comune tra le militanti del WSPU per dare visibilità alle vessazioni patite ad opera di un sistema che si ostinava a non riconoscere la dignità delle loro battaglie; i funzionari delle carceri ricorrevano alla violentissima pratica dell’alimentazione forzata: Emily la subì 49 volte, riportando lesioni ai nervi facciali e ai denti, e la definì come una tortura barbara, indescrivibile, “il cui orrore mi perseguiterà per tutta la vita”.

 

In vita e dopo la morte, come tutte le attiviste, fu vilipesa, insultata ed esposta al pubblico ludibrio a mezzo stampa o dai sostenitori dell’ordine costituito, istituzionali e non. Oltre ai giornali, alla legge e agli arresti, le donne in lotta si trovavano spesso ad affrontare ritorsioni sul posto di lavoro e l’allontanamento, minacciato o agito, dai figli minori, a volta con la complicità di mariti pavidi o schierati, come è documentato nel film “Suffragette”, di Sarah Gavron (2015).

Dopo la morte della Davison, la battaglia per il riconoscimento del diritto di voto femminile nel Regno Unito proseguì in varie forme, fuori e, in minima parte, dentro le istituzioni; le strategie radicali di Emmeline Pankhurst, fondatrice e discussa leader carismatica della WSPU, comportarono scissioni nel movimento. Con l’inizio della Prima Guerra Mondiale, fu deciso di sospendere ogni azione, in nome della coesione nazionale contro il nemico esterno; la scelta fu premiata al termine del conflitto con il contentino della concessione del diritto di voto alle sole donne sposate di età superiore ai 30 anni, per arrivare a un vero suffragio universale e paritario con il Representation of the People (Equal Franchise) Act del 1928.

Nel 1991, il deputato laburista Tony Benn collocò di nascosto una targa per commemorare Emily Davison nella cappella di St Mary Undercroft alla House of Parliament: “Questo è il modesto tributo a una grande donna che si è dedicata ad una grande causa, che non ha vissuto abbastanza per vederla realizzata, ma che ha avuto un ruolo importante nel renderla possibile.”.

 

Silvia Boverini

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Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.facebook.com/cannibaliere;  R. Michelucci, “Londra riabilita la suffragetta”, www.avvenire.it; D. Barbieri, “8 giugno 1913: muore Emily Wilding Davison”, http://www.labottegadelbarbieri.org; http://emilydavisonproject.org; C. Geymonat, “4 giugno 1913 – L’eroico sacrificio di Emily Davison”, https://riforma.it

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