Il 28 ottobre 1998 sono pubblicati i risultati della Commissione Verità e Riconciliazione del Sudafrica

Per voltare pagina, bisogna averla letta.
(Arcivescovo Desmond Tutu)

Il 28 ottobre 1998 furono resi pubblici i risultati delle attività della Commissione sudafricana per la Verità e Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, TRC); istituita con la legge “Promotion of National Unity and Reconciliation Act” nel dicembre 1995, la Commissione ebbe l’incarico di investigare sulle gravi e prolungate violazioni dei diritti umani perpetrate nel paese dal regime segregazionista.

Negli ultimi decenni sono state create nel mondo circa una trentina di commissioni per la verità, in differenti contesti storico-politici, ma con un obiettivo di fondo condiviso: confrontare, registrare  e riconoscere quanto realmente accaduto nel passato, dopo un periodo di silenzio, omertà, paura, rassegnazione e profonda disperazione. Paesi quali Argentina, Cile, Ruanda, Ciad, Honduras, Sri Lanka, El Salvador – solo per citarne alcuni – hanno potuto così portare alla luce e riconoscere collettivamente fatti atroci, prima disconosciuti e negati, nell’idea che l’emersione della verità possa restituire a un popolo oppresso un patrimonio comune sottratto e possa avere una funzione di ricostruzione morale, riparazione e prevenzione per il futuro.

A proposito della TRC sudafricana, così si espresse un suo membro, Russell Ally:

Ciò che volevamo costruire era un meccanismo che ci permettesse di capire ciò che era successo, ma senza innescare azioni di vendetta.”.

Col venir meno del regime razzista nei primi anni Novanta, si rese necessario perseguire un difficile compromesso tra due posizioni antitetiche: quella del governo e del National party (NP) che volevano l’amnistia incondizionata per i crimini dell’apartheid, considerati un “errore” da superare, e quella dei movimenti di liberazione nazionale, che chiedevano l’istituzione di tribunali speciali sul modello di Norimberga. La TRC rappresenta ad oggi la più celebre applicazione del concetto di Restorative Justice (giustizia riparativa) nell’ambito della violazione dei Diritti dell’Uomo, in antitesi al paradigma della “giustizia dei vincitori” o della corte penale internazionale, spesso orientata alla sola punizione dei colpevoli.

I 17 membri della commissione furono selezionati in modo tale da rappresentare un campione di nomi illustri quanto più eterogeneo per sesso, professione, etnia, gruppo linguistico e religione, e l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu fu chiamato a presiedere la corte:

Noi sosteniamo che esiste un altro tipo di giustizia, la giustizia restitutiva, a cui era improntata la giurisprudenza africana tradizionale. Il nucleo di quella concezione non è la punizione o il castigo. Nello spirito dell’ubuntu [v. oltre], fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l’opportunità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso.

Il Sudafrica stava tentando con fatica di chiudere, politicamente e simbolicamente, il mezzo secolo in cui l’apartheid era divenuto politica di stato, dopo oltre due secoli di dominazione coloniale boera; dal 1948 il regime di Pretoria aveva promulgato centinaia di leggi volte allo sfruttamento e al progressivo annientamento della comunità nera, privata di ogni diritto e “cancellata” per legge. È ancora Desmond Tutu a ricordare:

La nostra situazione era simile a quella dei neri degli Stati Uniti quando negli anni ‘60 manifestavano per ottenere i diritti civili. Con una differenza: che noi non potevamo combattere per i nostri diritti civili perché, da un punto di vista legale e civile, i neri in Sud Africa non esistevano, non erano nemmeno previsti dalla Costituzione. Noi lottavamo per essere riconosciuti come esseri umani, per il semplice diritto di esistere.

L’intento del percorso di riconciliazione fu proprio quello di sostenere e accompagnare la nascita e il rafforzamento del nuovo Sudafrica democratico, attraverso la ricostruzione di una memoria condivisa: tra il 1995 e il 1998, i membri della TRC ascoltarono deposizioni, racconti, ricordi, testimonianze e confessioni di oltre 20.000 persone che, in massima parte volontariamente, decisero di fornire il proprio contributo.

Si è trattato di un percorso originale e unico, saldamente connesso all’esperienza storica e culturale del paese. Si può individuare nel concetto filosofico africano di ubuntu (o botho per le lingue sotho) un elemento costitutivo della prassi e degli orientamenti seguiti dalla commissione. Ubuntu è come dire “la mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”, oppure “una persona è tale attraverso altre persone”, “io sono perché noi siamo”: è un concetto etico, una regola di vita fondata sul rispetto dell’altro, una spinta ideale verso l’umanità intera.

La tradizione africana del racconto pubblico e della narrazione orale ebbe modo di articolarsi nelle forme più diverse e libere durante le sedute, giacché l’imposizione di un modello assimilabile alle consuete procedure giuridiche avrebbe potuto apparire estranea e inadatta. Fu stabilito che quando le vittime e i sopravvissuti si fossero presentati alle udienze per rendere testimonianza, sarebbero stati accolti in un’atmosfera solenne con preghiere, canti e candele rituali per commemorare coloro che erano caduti nella lotta.

I membri incaricati dalla TRC hanno raggiunto gli angoli più remoti del paese istruendo commissioni in scuole, chiese, palestre, per facilitare la raccolta delle testimonianze di persone cui era sempre stato negato l’accesso a qualsiasi forma di tribunale e di giustizia. Con l’eccezione di alcune sedute speciali – in particolare quelle dedicate alla violenza sulle donne – radio, televisioni e giornali hanno quotidianamente raccontato i lavori della TRC, contribuendo all’apertura di un dibattito pubblico lacerante e dirompente che ha costretto i sudafricani di ogni colore a prendere posizione e fare i conti con un passato che a lungo si era voluto nascondere.

La TRC ha indagato le gravi violazioni dei diritti umani compiute individualmente oppure ascrivibili a interi settori sociali e istituzionali come gli organi dello stato, il mondo degli affari e dell’economia, il settore legale, i media, le chiese. Il mandato della TRC interessava un arco di tempo compreso tra il 1° marzo 1960 (massacro di Sharpeville) e il 10 maggio 1994 (prime elezioni democratiche) e aveva l’obiettivo di fornire un quadro il più completo possibile su cause, natura ed estensione delle violazioni compiute. Per raggiungere questo risultato, la TRC si è declinata in tre comitati chiamati a occuparsi di diritti umani (Human Rights Violations Committee), amnistia (Amnesty Committee) e riabilitazione e restituzione (Reparation and Rehabilitation Committee).

Gravi violazioni dei diritti umani” furono definiti l’assassinio, l’omicidio preterintenzionale, il rapimento, lo stupro e i maltrattamenti gravi che lasciano cicatrici permanenti, mentali o fisiche; si tennero non meno di 140 udienze pubbliche in cui 21.400 vittime resero le loro dichiarazioni, e furono ufficialmente registrati i nomi di 27.000 vittime.

Davanti all’Amnesty Committee si presentarono a richiedere l’amnistia tanto esponenti del regime quanto i suoi avversari. Al comitato spettava il compito di verificare che sussistessero le condizioni per la concessione del provvedimento di clemenza, cioè che i crimini confessati rientrassero tra quelli previsti, che fossero stati effettivamente commessi con finalità politiche tra il 1960 e il 1994 e che la rivelazione di fatti e responsabilità fosse completa. La TRC ha ricevuto più di settemila domande di amnistia, concedendone più di ottocento e respingendone circa cinquemila per la mancanza di una delle suddette condizioni.

Tra la Commissione e il richiedente l’amnistia s’instaurava una sorta di patto: la libertà in cambio della verità. Ha spiegato Desmond Tutu:

Chi fa richiesta d’amnistia deve ammettere la propria responsabilità riguardo ai fatti che l’hanno spinto a richiederla: questo supera il problema dell’immunità. Inoltre chi richiede l’amnistia deve affrontare un’udienza pubblica, tranne casi assolutamente eccezionali: ciò significa che deve fare le proprie ammissioni di fronte a tutti. Proviamo ad immaginare che cosa significa tale circostanza: spesso, per la prima volta una comunità, o una famiglia, venivano a conoscenza del fatto che un loro concittadino, o congiunto, che aveva fatto richiesta di amnistia, non era così rispettabile come a tutti era sembrato, bensì un torturatore incallito piuttosto che un membro di uno squadrone della morte. C’è, quindi, un prezzo da pagare: la pubblica confessione si traduceva in pubblica vergogna ed umiliazione e comportava, a volte, la fine di rapporti, di legami, di matrimoni. […] Noi ci riferiamo ad una giustizia che abbia a che fare con il ristabilimento di un’equità, con la ricomposizione di un’armonia e con l’importanza di una riconciliazione. Ci riferiamo ad una giustizia che sia focalizzata sull’esperienza della vittima e sulla conseguente necessità di un suo risarcimento, una giustizia che noi chiamiamo riparativa.

Per quanto concerne la “riparazione” del danno ingiusto accertato, l’apposito comitato registrò le necessità più impellenti delle vittime, individuando cinque aree di bisogno: medica, psicologica, educativa, materiale e simbolica (per esempio, la sistemazione delle tombe, l’erezione di monumenti e lapidi commemorative, la cancellazione dalla fedina penale delle condanne ingiuste, l’organizzazione di speciali cerimonie di riconciliazione, ecc.). In base a ciò, si stabilirono cinque categorie di risarcimento: il risarcimento urgente provvisorio per le vittime anziane, malate o in stato di grave necessità; il contributo individuale di risarcimento; il miglioramento dei servizi comunitari; il risarcimento simbolico; il risarcimento istituzionale.

I diciotto mesi previsti per i lavori della TRC divennero trenta; il 28 ottobre 1998 fu presentato il Rapporto finale, anche se il Rapporto aggiuntivo sull’amnistia fu concluso solo nel 2003, il Governo approvò il Rapporto finale e a ciò seguì un lungo dibattito parlamentare. Ma sul fronte dei risarcimenti l’attuazione di quanto stabilito fu solo parziale, una parte dei familiari delle vittime contestò i provvedimenti di amnistia e, secondo alcuni commentatori, l’oggettivo ruolo politico ricoperto dalla TRC avrebbe consentito la gestione di un processo di trasformazione democratica formale che non ha intaccato la reale distribuzione del potere economico, vanificando le attese di giustizia sociale.

Un’inchiesta condotta a livello nazionale alla fine del 2000 ha indicato che, mentre il 90% dei sudafricani di colore erano soddisfatti del lavoro della TRC, tra i connazionali bianchi solo un terzo lo giudicava positivo senza riserve, un terzo aveva un atteggiamento negativo e un terzo era indeciso.

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Pur con aspetti di criticità, l’esperienza della TRC sudafricana rimane fondamentale per il coraggioso tentativo di rifondare una nazione su basi democratiche trovando parole condivise per definire e chiudere un passato indicibile, che sarebbe stato forse più agevole lasciare nell’oblio: come ha ricordato il filosofo José Zalaquett, protagonista di un’analoga commissione in Cile:

La verità non riporta alla vita i morti ma li libera dal silenzio.

Silvia Boverini

Fonti:
www.archiviodisarmo.it;
www.wikipedia.org;
D. Franchi , “Sud Africa, il prezzo della riconciliazione”, www.peacelink.it;
“La Truth and Reconciliation Commission (TRC) sudafricana: un’eredità preziosa”, www.ispionline.it;
A. Zamburlini, “Sudafrica nello spirito dell’ubuntu”, www.rivistamissioniconsolata.it;
P. Meiring, “Verità e riconciliazione nel Sudafrica del dopo-apartheid”, www.aggiornamentisociali.it;
“Truth and Reconciliation Commission of South Africa Report”, https://web.archive.org/web/20130925051325/http://www.info.gov.za/otherdocs/2003/trc/

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