Genova inerme sotto le bombe inglesi

Fu la presenza ingente di cantieri navali e industrie metallurgiche a condannarla? O semplicemente costituiva l’obiettivo più vicino alla base navale inglese? Comunque sia, Genova se la vide molto brutta quella mattina del 1941, quando fu ferocemente attaccata dalla Marina di Sua Maestà. Erano passati solo tre mesi dal disastro di Taranto, dove le navi italiane subirono gravi danni ad opera dello stesso nemico.

Sembra che il programmato incontro tra Francisco Franco e Mussolini sia stato il movente dell’attacco. I due dittatori si sarebbero dovuti incontrare a Bordighera il 12 febbraio: in tale contesto, il Duce avrebbe tentato di convincere l’omologo spagnolo a entrare in guerra a fianco dell’Asse. Naturalmente, se ciò fosse accaduto, le conseguenze per gli Inglesi sarebbero state disastrose: proprio la base da cui partì l’attacco sarebbe stata quasi sicuramente persa.

Gibilterra era, ed è ancora oggi, infatti, uno dei cosiddetti Territori d’oltremare del Regno Unito: un residuato coloniale. In questo caso, si tratta di una piccola lingua di terra che dalla penisola spagnola cerca di raggiungere l’Africa. Una di quelle che un tempo venivano chiamate Colonne d’Ercole. In questo luogo tanto simbolico, la Marina inglese aveva fondato il suo avamposto nel Mediterraneo. Perderlo sarebbe stato un duro colpo.

L’operazione, dunque, costò 144 civili morti, 272 feriti e 254 edifici distrutti o gravemente lesionati, ma raggiunse l’obiettivo: Franco non si alleò a Hitler e Mussolini. Chissà quante vite furono salvate, a fronte di quelle strappate dalle bombe inglesi.

Alessio Gaggero

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A Orangeburg il no al razzismo nel bowling si paga con la vita

Succedeva a Orangeburg, nella Carolina del Sud, 51 anni fa, l’8 febbraio del 1968, che la dignità umana, l’inalienabile e insopprimibile diritto di ogni essere umano ad essere considerato e trattato come una persona, venisse affermata anche in relazione al bowling. Però, tentare di far riconoscere il valore di ogni essere umano poteva essere pericoloso. Talmente pericoloso che quel tentativo sfociò nel Massacro di Orangeburg.

La segregazione razziale

I fatti accaduti a Orangeburg vanno inseriti in una cornice precisa. La schiavitù era stata abolita più di cento anni prima, nel 1865, ma negli Stati del sud, si era affermata la segregazione razziale , cioè il principio secondo il quale bianchi e neri erano “uguali ma separati. E separati dovevano vivere.

Nel 1896 la Corte suprema, in applicazione di tale principio, aveva ratificato la segregazione dei neri nei trasporti, nei servizi pubblici, nelle scuole ecc.

In parole povere, il razzismo non era illegale. Anzi, era illegale ribellarsi al razzismo. Ed era terribilmente pericoloso.

Il movimento anti-segregazionista

Dopo la Seconda Guerra Mondiale i movimenti anti-segregazionisti ebbero uno sviluppo decisivo, grazie al ruolo svolto dalle Chiese evangeliche e al ricorso a forme di lotta nonviolenta, che suscitarono un rispetto fino ad allora insperato nella popolazione bianca non razzista.

Nel 1954, poi, la Corte suprema con una sentenza storica segnò una netta discontinuità rispetto alla tutela della segregazione. Infatti, diede ragione a una famiglia nera che aveva intentato una causa perché la figlia potesse frequentare una scuola per bianchi.

Il principio stabilito dal massimo organo giurisdizionale, però, non scalfì l’ottusità dei razzisti, la cui opposizione all’integrazione fu tale che per alcuni anni in molti Stati gli studenti neri dovettero andare a scuola scortati dai soldati.

Rosa Parks, Martin Luther King e la Corte suprema

Intanto una donna in Alabama diede il via ad un movimento contro la segregazione negli autobus. Su tali mezzi, infatti, i neri non erano solo separati dai bianchi ma dovevano cedere loro il posto. Rosa Parks, che si era rifiutata di cedere il proprio posto ad un uomo bianco, venne perfino arrestata. Ma fu un boomerang per i segregazionisti: un allora sconosciuto Martin Luther King, per protestare contro la segregazione razziale, organizzò un boicottaggio pacifico delle autolinee di Montgomery.

La comunità di colore di Montgomery per ben 381 giorni si astenne dal prendere quegli autobus, come aveva fatto quotidianamente fino ad allora. Accusate di aver intralciato un servizio pubblico, King e altre 90 persone furono arrestate. Il reverendo King, però, ricorse in appello e vinse.

Il 4 giugno 1956, una corte distrettuale degli Stati Uniti d’America stabilì che la segregazione razziale sugli autobus di linea urbana era anticostituzionale.

La nascita del sit-in

Mentre seguivano altre mobilitazioni, tese ad ottenere l’esercizio pieno del diritto di voto e a garantire un’effettiva alfabetizzazione dei neri, guidate dal movimento di Martin Luther King, nel 1960, a Grennsboro, in North Carolina quattro studenti neri tennero a battesimo il sit-in. Dopo aver acquistato alcuni articoli in un magazzino, avevano chiesto un caffé al banco, ricevendo come di consueto un netto rifiuto. Invece, di sloggiare con le orecchie basse, come i razzistisi aspettavano che facessero, restarono seduti, fino alla chiusura del negozio.

Il sit-in diventò una forma di protesta contro la segregazione e la discriminazione così diffusa da essere adottata in 15 città di 5 stati del sud.

Le marce del ’63

Nell’aprile ‘63, M.L.King aveva organizzato una marcia di protesta di 40 giorni, durante la quale erano stati arrestati più di 2500 neri. Anche in conseguenza di questa recrudescenza repressiva, le manifestazioni si erano moltiplicate su tutto il territorio degli Stati Uniti, a sud come a nord.

Il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, proprio in quell’aprile del ‘63, aveva chiesto al Congresso di emanare leggi che: garantissero ai cittadini un uguale accesso ai servizi e alle strutture pubbliche e private; vietassero efficacemente la discriminazione nelle assunzioni da parte di imprese e istituzioni federali; proibissero al governo federale di fornire in alcun modo un sostegno finanziario a programmi o attività favorenti la discriminazione razziale.

Pochi mesi dopo, il 28 agosto si svolse la marcia su Washington contro la discriminazione razziale. Vi parteciparono tutte le maggiori associazioni, ma anche persone comuni e perfino le star del cinema e della musica (abbiamo ricordato l’impegno di Paul Newman in tale ambito in questo post, nonché quello di Sidney Poitier e di Sammy Davis Jr). Quel giorno gli Stati uniti si fermarono: ogni attività venne sospesa e mentre gli americani guardavano l’avvenimento in diretta alla televisione, tutto il mondo ne veniva a conoscenza tramite quotidiani e riviste.

Le leggi sui diritti civili e sul diritto di voto

I partecipanti alla marcia, ribadendo il loro convinto credo nelle istituzioni democratiche e nella capacità del potere legislativo di far rispettare la giustizia, intendevano fare pressioni sul Congresso per la promulgazione del Civil Rights Act.

Com’è noto l’iniziativa legislativa di Kennedy non vedrà la luce che dopo l’assassinio di John Kennedy (il 22 novembre ’63, lo abbiamo ricordato qui).

Portate avanti dal suo successore, Lyndon B. Johnson, con l’appoggio decisivo di Robert F. Kennedy (ministro della Giustizia), queste istanze ebbero infine successo con l’approvazione del Civil Rights Act del 1964, seguito dal Voting Act del 1965.

La discriminazione e la segregazione nella vita quotidiana

Nonostante tutto ciò, nella vita di tutti i giorni, in posti come Orangeburg, si era ben lontani dal vedere compiuto il processo di desegregazione.

Inoltre, i neri vivevano in condizioni di estrema povertà assai più di quanto non accadesse alla popolazione bianca. Nel Paese più ricco del Pianeta, buona parte della popolazione nera non trovava lavoro, era costretta a tirare avanti con sussidi sociali e a vivere nei ghetti in condizioni inumane, dove spesso l’unica prospettiva possibile era quella criminale.

Neppure la violenza razzista era sparita: proseguivano, infatti, gli assassinii e gli attentati ai danni dei neri e di quei bianchi apertamente contrari alla discriminazione. Organizzazioni quali il Ku Klux Klan (KKK) o i White Citizens Councils (Comitati di cittadini bianchi) erano tutt’altro che in crisi. L’ideologia razzista era impermeabile alle leggi e alle sentenze, e i razzisti se ne infischiavano delle marce.

Per essi il presidente Johnson e il suo predecessore, John F. Kennedy, così come il fratello di questi, Robert, o il reverendo King, erano degli “amici dei negri”, degli anti-americani, dei pericolosissimi sovversivi, dei filo-comunisti.

Il massacro di Orangeburg

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Perciò, nel 1968 protestare contro la segregazione razziale, inclusa quella praticata nelle sale da bowling, in una città del sud come Orangeburg, poteva significare il rischio di morire.

La segregazione nelle piste da bowling di Orangeburg

La protesta iniziò il 6 febbraio, quando 200 studenti si riunirono per protestare contro la segregazione razziale nelle sale bowling della zona.

La segregazione nelle sale da bowling poteva sembrare un fatto trascurabile in mezzo a tanta ingiustizia, violenza e prevaricazione. La stessa protesta poteva apparire un po’ bizzarra ai benpensanti, a coloro che si dichiaravano non razzisti ma aggiungevano che i neri un po’ se le andavano a cercare. In realtà, non si trattava di un voler piantar grane a tutti costi.

Reagire al fatto che perfino in quelle sale persistesse la prepotenza bianca significava, a ben vedere, mettere in risalto la squallida cattiveria della mentalità razzista. In particolare, si accendevano i riflettori sulla persistente ottusità dei razzisti dichiarati e sulla meschinità di chi si dichiarava terzo, cioè “né con quegli esagitati del Ku Klux Klan né con quei fanatici estremisti del movimento per i diritti civili. Del resto la ribellione contro tale segregazione finiva anche con lo svelare la bassezza dei proprietari delle sale che, dicendo grosso modo “a casa mia faccio come mi pare”, si trinceravano dietro l’argomento della “proprietà privata” dei loro locali pubblici.

Gli arresti

La prima dimostrazione si svolse senza incidenti, protraendosi per 24 ore di protesta ininterrotta. La notte dopo, tuttavia, 15 studenti vennero arrestati. La notte seguente, la folla, sebbene disarmata, diventava sempre più compatta e determinata a far sentire le proprie ragioni. La notte dell’8 febbraio 1968, quindi, centinaia di studenti, riuniti nel locale campus universitario per la terza notte di proteste, erano già alquanto provati da una lunga serie di confronti sia con le forze dell’ordine che con i politici e la popolazione bianca locale.

Riguardo alle prime, quei giovani stavano affrontando non solo i poliziotti della Carolina del Sud ma anche le truppe della Guardia Nazionale, dotate perfino di veicoli militari.

La sparatoria

Forse per imporre il silenzio, ad un tratto un poliziotto sparò in aria. Quello sparo, però, non fu seguito dal silenzio. Gli altri poliziotti, sentendo la detonazione, aprirono a loro volta il fuoco sulla folla disarmata. Sparavano con dei fucili. Tre studenti furono uccisiSamuel Hammond, Henry Smith e Delano Middleton – e altri 27 rimasero feriti.

Quello di Orangeburg fu uno dei primi scontri tra studenti universitari e forze dell’ordine negli Stati Uniti a sfociare nel sangue. Quelle pallottole sparate contro gli studenti a Orangeburg precedettero di due anni quelle della Kent State University e e di due mesi quelle usate contro il leader dei diritti civili Martin Luther King Jr.

Una sola condanna, per l’attivista Cleveland Sellers, rappresentante dell’ “Associazione studentesca non violenta”

Il Governatore del South Carolina, Robert E. McNair, nella conferenza stampa del giorno dopo, attribuì la responsabilità del massacro di Orangeburg a fantomatici infiltrati del movimento Black Power. Le indagini successive sbugiardarono questo volgare tentativo di trasformare le vittime in colpevoli, negando la palese, assurda, ingiustizia della violenza subita.
Il processo che seguì fu il primo in cui la polizia era accusata di un uso eccessivo della forza durante una manifestazione di protesta. Tutti e 9 gli agenti imputati, però, furono assolti. Anzi, l’unico ad essere condannato alla reclusione, per sette mesi, fu l’attivista Cleveland SellersQuesto rappresentante dell’ “Associazione studentesca non violenta” fu giudicato reo di aver incitato la folla e, quindi, di aver causato la sparatoria. Venticinque anni dopo la condanna, Sellers ricevette la “grazia”, ma la rifiutò: considerava quella condanna un vessillo d’onore.

 

Alberto Quattrocolo

Mattei preferisce il cappio al tradimento

Gianfranco Mattei morì suicida il 7 febbraio 1944. Un gesto di viltà, di coraggio, di fedeltà, di debolezza? Quanti avrebbero saputo resistere alle torture tedesche senza cantare? Quanti sarebbero riusciti a prendere quella decisione e metterla in atto fino all’ultimo passo? Questo fu il suo destino.

In quella notte, tra il sei e il sette febbraio, a testimonianza della lucidità con cui compì quel gesto fatale, lasciò un messaggio ai genitori:

Carissimi genitori, per una disgraziatissima circostanza di cui si può incolpare solo il fato avverso, temo che queste saranno le mie ultime parole. Sapete quale legame di affetto ardente mi lega a voi, ai fratelli e a tutti. Siate forti sapendo che lo sono stato anch’io. Vi abbraccio, Gianfranco.

Sembra che lo scrisse sul retro di un assegno, con solo un mozzicone di matita. Al pari di tanti altri, è conservato all’interno del testo Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana (a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Einaudi editore, 1952). Mattei fu, in effetti, membro dei Gruppi d’azione patriottica (GAP) a Roma, dove si era trasferito con la famiglia. Insieme a Giorgio Labò, fu catturato dalle SS il primo di febbraio, sembra in base alla denuncia di una spia. Pensando di non poter reggere alle violenze naziste, già subite dal compagno, decise di togliersi la vita.

I partigiani persero un contributo importante alla causa: Mattei era infatti docente di chimica al Politecnico di Milano e le sue competenze scientifiche erano state messe subito a frutto in ambito bellico: tra il ’43 e il ’44, proprio insieme a Labò, realizzò ordigni esplosivi particolarmente efficaci. Una vera spina nel fianco di Herbert Kappler, che aveva preso il controllo della polizia fascista proprio per intensificare la lotta di insurrezione. Questo il commento del nazista sul partigiano:

Questo comunista Mattei, è terribile, è terribilmente silenzioso, ma ora useremo il tenente Priebke che saprà farlo parlare, con mezzi fisici e chimici.

Non poterono usare i peggiori mezzi di cui erano capaci, poiché non diede loro il tempo. La sua vicenda ispirò una canzone del ’75 degli Stormy Six, il cui titolo è proprio il nome del professore-artificiere, e il cui ritornello suona così:

Gianfranco Mattei, la tua cattedra è rimasta là: Gianfranco Mattei, la lezione non si perderà.

 

Alessio Gaggero

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Quel “no” di Maurizio Arnesano

Maurizio Arnesano aveva 18 anni quando entrò nella Polizia e 19 anni e mezzo quando incontrò Giuseppe Valerio (detto Giusva) Fioravanti, di due anni più vecchio. Il 6 febbraio del 1980 Maurizio Arnesano era di servizio davanti all’ambasciata del Libano, a Roma, con la sua pistola di ordinanza e l’M-12. Ma quel mattino – come, un anno dopo, raccontò Cristiano Fioravanti, il fratello di Giusva, al sostituto procuratore di Roma – Giusva aveva deciso che si sarebbe procurato un mitra e che a darglielo sarebbe stato un poliziotto. Così si espresse Cristiano:

«La mattina dell’omicidio Arnesano, Valerio mi disse che un poliziotto gli avrebbe dato un mitra; io, incredulo, chiesi a che prezzo ed egli mi rispose: gratuitamente. Fece un sorriso ed io capii».

Maurizio Arnesano, però, non fu disposto a concedergli il mitra, né gratis né in cambio di qualcosa. Neppure in cambio della vita.

«Non vi preoccupate, sono ancora vivo»

Alcuni giorni prima, Maurizio Arnesano aveva spedito alla famiglia una sua fotografia con un biglietto sul quale c’era scritto:

«Non vi preoccupate, sono ancora vivo».

In effetti, ce n’erano parecchi motivi di preoccupazione per la sua famiglia. Non perché Maurizio Arnesano svolgesse un compito particolarmente pericoloso, ma perché quelli erano anni difficili. Brutti, pericolosi per chi indossava una divisa, per chi faceva il magistrato e per altri. Lo era anche per chi si limitava ad andare in banca a Milano, ad una manifestazione a Brescia, alla stazione di Bologna o viaggiava in treno, se vogliamo pensare soltanto a coloro che, come Maurizio Arnesano, furono colpiti dalla violenza terroristica di estrema destra.  Il valzer di sangue danzato da terroristi neri, ma orchestrato da altri livelli, era iniziato con l’esplosione della bomba di Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969 (l’abbiamo ricordata qui, sulla rubrica Corsi e Ricorsi) e proseguito con altre stragi: quella di via Fatebenefratelli, a Milano, quella di Peteano, quella di piazza della Loggia, a Brescia e quelle sul treno Italicus e sul rapido 904… Oltre allo stragismo nero, vi erano le quasi quotidiane “gambizzazioni” degli assassini del terrorismo rosso. Secondo i dati ufficiali, limitandoci al periodo 1969 – 1987, si ha un bollettino di guerra, un fenomeno che nessun altro Paese europeo ha conosciuto. La violenza con motivazioni politiche si è verificata 14.591 volte, uccidendo 491 persone e ferendone altre 1181, senza contare coloro, che, pur senza riportare danni fisici, ebbero la vita devastata.

N.A.R.

Inoltre, non c’erano soltanto i terroristi di destra e di sinistra e i tentati golpe. C’erano anche i killer della criminalità organizzata. Che, ricordiamocelo, in Italia ha tolto la vita a circa 1.000 persone innocenti. Giuseppe Valerio Fioravanti era un terrorista nero, ma, cosa non eccezionale, c’entrava anche con la criminalità organizzata. Giusva, infatti, era, sì, dei N.A.R. (Nuclei Armati Rivoluzionari), anzi ne era il leader, ma questi collaboravano con la Banda della Magliana a Roma, con la banda Turatello a Milano e con la Mala del Brenta nel Veneto. I NAR, sorti a Roma nel ’77, si chiamavano così perché avevano deciso che l’eversione nera doveva emanciparsi tanto dal golpismo e dallo stragismo di organizzazioni, anch’esse fasciste, come Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Ordine Nero, ecc.,  quanto dal neofascismo del Movimento Sociale Italiano (di cui Giusva era stato militante). Per i NAR era scoccata l’ora di colpire direttamente lo Stato e di farlo nella prospettiva dello “spontaneismo armato”:

«Avevamo un punto di vista anarchico: pensavamo che la rivoluzione non potesse essere governata, organizzata o guidata, altrimenti sarebbe stata solo lotta per il potere, e quella non ci interessava. All’interno (dei NAR, ndr) non c’era alcun rapporto gerarchico. Se io mi sono trovato nella posizione di leadership, è stato solo per una maggior capacità organizzativa, non per una questione politica».

«Atti di guerra contro i comunisti»

Da queste e altre parole di Fioravanti si direbbe che egli e i suoi complici avessero forti motivazioni ideali e che fossero queste a costituire il fondamento motivazionale delle loro azioni. Azioni, che essi, parrebbe, interpretavano come eroiche imprese.  Fioravanti spiegò che lui e altri estremisti violenti di destra erano stufi di essere considerati come schierati dalla parte della conservazione e del capitale ed esasperati dal favore con il quale le istituzioni li trattavano rispetto al pugno di ferro riservato ai militanti di estrema sinistra. Le loro prime attività criminose consistettero in attentati con molotov ai danni delle sedi del Messaggero (il 30 dicembre del ’77) e del Corriere della Sera (il 4 gennaio del ’78). Non esattamente delle imprese ammantate di eroismo. E già il 28 febbraio 1978, dimostrarono quanto poco coraggiosi fossero i loro intenti criminali. In occasione del terzo anniversario dell’assassinio di Miki Mantakas (un giovane militante del FUAN che era stato ucciso durante una manifestazione), i due fratelli Fioravanti, con altri sei (Franco Anselmi, Alessandro Alibrandi, Dario Pedretti, Francesco Bianco, Paolo Cordaro e Massimo Rodolfo), a Cinecittà, tesero un agguato a due ragazzi coi capelli lunghi, quindi comunisti per definizione, intenti a fumare una sigaretta, seduti su una panchina. I due fratelli Fioravanti si avvicinarono e subito presero a sparare. Roberto Scialabba, un operaio elettricista, fu colpito a distanza ravvicinata proprio da Giusva, che poi si mese a cavalcioni del suo corpo e gli sparò ancora alla testa. Giusva disse in seguito che lo aveva impressionato, in quel suo primo omicidio, l’espressione di assoluto stupore delle vittime dei suoi spari. Del resto, perché non avrebbero dovuto essere stupite? Lui gli aveva dichiarato guerra, ma loro non lo sapevano.

«Con i valori che avevamo…»

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Come i loro “colleghi” di estrema sinistra e di estrema destra, i NAR non ingaggiavano duelli, non “si battevano alla pari”, commettevano assassinii. Eppure ritenevano di avere dei “valori”, che, asserirono, li condizionavano. Poco dopo, infatti, i NAR tentarono una rapina ai danni di un’armeria, che costò la vita ad uno di loro, Franco Anselmi (per loro divenne subito un eroe-martire). Di qualche interesse sono le parole con le quali Valerio Fioravanti ricordò quell’impresa.

«Eravamo turbatissimi: con i valori che avevamo, arrivare a rapinare un privato ci sconvolgeva. Un conto era l’atto di guerra contro il comunista, cosa diversa era andare a toccare la proprietà privata. Così, mentre a menare o a sparare ai compagni non ci sentivamo in colpa, l’idea di aggredire e derubare un cittadino innocente, che non c’entrava niente, ci faceva sentire dei criminali».

Naturalmente seguirono altre rapine ai danni di privati.

L’attacco a Radio Città Futura

Il 9 gennaio 1979 i NAR, sempre impegnati nella loro guerra anticomunista, presero di mira la sede romana di “Radio Città Futura”, dove era in corso una trasmissione gestita da un gruppo femminista. Armi in pugno fecero stendere sul pavimento le donne presenti e appiccarono il fuoco ai locali. Quindi spararono alle ragazze, terrorizzate, che tentavano di fuggire. Ne ferirono quattro, di cui due gravemente.

Colpire «i rappresentanti dell’antifascismo di Stato»

«Ieri un nucleo armato rivoluzionario ha colpito la sezione del Partito Comunista Italiano di via Cairoli […] se ieri abbiamo colpito semplici attivisti del PCI, complici morali in quanto portatori dell’antifascismo più reazionario, domani colpiremo i responsabili materiali, già individuati e condannati (questa volta a morire). Ribadiamo ancora una volta che i nostri veri nemici sono i rappresentanti dell’antifascismo di Stato, in quanto i loro mezzi subdoli (dai mass media alla magistratura) ci colpiscono certo di più di chi ci affronta apertamente in piazza. Ma chi oggi ha riempito le galere di camerati ed insozzato sui giornali e alla televisione la memoria dei nostri caduti sappia che dopo averli distrutti sapremo anche convincere la gente che quello che abbiamo fatto rientra nel giusto».

Con queste parole veniva rivendicato dai NAR il ferimento di 27 persone nella sezione del PCI dell’Esquilino, dove l’11 dicembre del ’79, era in corso un’assemblea cui partecipavano oltre 50 persone. Avevano lanciato due bombe a mano Srcm e sparato alcuni colpi all’interno dei locali.

Antonio Leandri, quel ventiquattrenne ucciso perché si voltò al grido «avvocato!»

Sei giorni dopo insieme a militanti di Terza Posizione (altra formazione nera) tesero un agguato contro l’avvocato Giorgio Arcangeli, secondo loro, reo di aver denunciato e fatto arrestare Pierluigi Concutelli, uno dei capi dell’organizzazione fascista Ordine Nuovo, autore dell’omicidio del giudice Vittorio Occorsio (lo abbiamo ricordato qui).  A rimetterci la vita, tuttavia, fu Antonio Leandri, un ventiquattrenne, geometra, che si era voltato al grido «avvocato!». Anche in tal caso a sparare il colpo di grazia che uccise il giovane fu Giusva Fioravanti. Un mese e mezzo dopo circa toccò a Maurizio Arnesano imbattersi nella spietatezza di Valerio Fioravanti.

L’omicidio di Maurizio Arnesano

Il 6 febbraio del 1980, Maurizio Arnesano prestava servizio presso la Questura di Roma, il suo incarico era quello di agente di guardia davanti all’Ambasciata del Libano, di via Settembrini. Quel giorno, però, Fioravanti, stando sul sedile del passeggero di una “Vespa” guidata da Giorgio Vale, passava proprio dinanzi alla sede diplomatica.

Arnesano era un ragazzo del Meridione come ce n’erano e ce ne sono tanti. Poche prospettive e necessità di andare a cercare lavoro altrove, lontano da casa. Era nato  il 20 luglio 1960 a Carmiano, in provincia di Lecce. Dopo aver frequentato la Scuola Allievi di Vicenza, era stato assegnato alla Questura di Roma. Ed era contento dell’ incarico che gli avevano affidato.

Fioravanti voleva un mitra

Quel 6 febbraio, però, Fioravanti voleva un mitra. Di pistole e fucili ne aveva razziati tanti, ma gli mancava un mitra. Così la Vespa si fermò. L’ M-12 di Maurizio Arnesano faceva proprio al caso loro. Fioravanti scese impugnando una pistola munita di silenziatore e andò incontro ad Arnesano. A pochi passi da lui gli intimò di consegnarli l’M12.  Maurizio probabilmente lo spiazzò. Non solo perché non volle cedere la sua arma, ma anche per il tentativo di reagire. Fioravanti, a quel punto, gli sparò alcuni colpi di pistola, ferendolo gravemente al braccio con tre pallottole.

In quelle condizioni, per Maurizio Arnesano era impossibile rispondere al fuoco. Col mitra ancora a tracolla, corse, quindi, verso l’ingresso dell’ambasciata, cercando di sottrarsi a quel killer. Fioravanti avrebbe potuto andarsene. Lasciar perdere. Il poliziotto era ferito e gli voltava la schiena nel tentativo di trovare un riparo. Però, Giusva non era tipo da lasciarlo andare via. Presa la mira, gli sparò altri 4 proiettili nella schiena, poi con calma si avvicinò, prelevò l’M12 e se ne andò via.

Il giorno seguente il presidente della Repubblica Sandro Pertini andò a rendere omaggio alla salma di Maurizio Arnesano. I funerali si svolsero l’8 febbraio a Carmiano, il suo paese natale. Ventiquattro anni dopo, gli venne conferita la medaglia d’oro al merito civile dall’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.

«Non sparare alle spalle è un lusso» e gli omicidi di Evangelista e Amato

Giuseppe Valerio Fioravanti continuò ad uccidere. E il bersagli successivo fu un altro poliziotto, l’appuntato Francesco Evangelista (detto “Serpico”), crivellato con sette colpi di pistola, davanti al Liceo classico “Giulio Cesare”. Per l’omicidio, fu arrestato Nanni De Angelis, militante di Terza Posizione, ma totalmente estraneo alla vicenda (fu poi ritrovato impiccato in carcere con evidenti segni di violenze e percosse).

In seguito a chi gli rinfacciò la viltà dell’omicidio di Maurizio Arnesano, Fioravanti replicò:

«Non sparare alle spalle è un lusso»

Non minore vigliaccheria aveva dimostrato anche nel caso di “Serpico”. Neppure un mese dopo, il 23 giugno 1980, un altro assassinio. Non casuale, però.

«Oggi Amato ha chiuso la sua squallida esistenza, imbottito di piombo».

Il sostituto procuratore Mario Amato, 36 anni, era l’unico magistrato ad occuparsi del terrorismo di matrice nera di Roma e dell’intero Lazio. Gli erano stati assegnati, per competenza, i fascicoli di indagine del pm Vittorio Occorsio, che, come ricordato, era stato ammazzato il 10 Luglio 1976 da Pierluigi Concutelli, perché indagava sul terrorismo di destra. In quegli anni, in cui l’attenzione delle forze dell’ordine e delle Istituzioni era maggiormente rivolta verso la repressione del fenomeno eversivo “rosso”, soprattutto dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, all’inizio del 1978, il terrorismo di destra sembrava essere scivolato ai margini del campo visivo. Non solo per questo, però, Amato si sentiva lasciato solo. Oltre ad essere attaccato dalla stampa di destra e da alcuni avvocati, veniva osteggiato dai colleghi e denigrato e perfino velatamente minacciato dal suo diretto superiore, il giudice istruttore Antonio Alibrandi. Il futuro deputato missino lo accusava di “dare la caccia ai fantasmi”. Uno di questi, Fioravanti, aveva deciso che non avrebbe ripetuto l’errore commesso nell’agguato all’avvocato Arcangeli: non conoscendo il volto del procuratore Amato, Giusva era andato in tribunale e se lo era fatto indicare da Alessandro, altro spietato killer dei NAR, figlio proprio del giudice Alibrandi.

Mario Amato, sposato e con un figlio, fu ucciso mentre aspettava l’autobus per andare a lavoro. Gilberto Cavallini gli sparò alla nuca poi fuggì con una motocicletta, alla cui guida era l’altro NAR, Luigi Ciavardini. Mario Amato aveva inutilmente richiesto sia di essere affiancato nelle indagini da altri colleghi sia una protezione, o quantomeno un’autoblindata. Anche questa, infatti, gli era stata negata. Dieci giorni prima di essere eliminato, davanti al CSM, aveva anche annunciato sviluppi clamorosi nella sua indagine, prossima «alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori degli atti criminosi».

Alla notizia dell’avvenuto assassinio, Giusva Fioravanti e sua moglie, Francesca Mambro, festeggiarono con ostriche e champagne. Sul  volantino di rivendicazione che stilarono scrissero:

«Abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata contro il sostituto procuratore dottor Amato, per la cui mano passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri la pagheranno».

Giuseppe Valerio Fioravanti sarà riconosciuto colpevole anche della strage di Bologna del 2 agosto 1980 e complessivamente dell’omicidio di 93 persone.

Alberto Quattrocolo

Fonti

David Barra, Nicola Ventura, Maledetti ’70, storie dimenticate degli anni di piombo, Roma, Gog, 2018

Giorgio Bocca, Gli anni del terrorismo – Storia della violenza politica in Italia dal ’70 ad oggi, Armando Curcio editore, 1989

Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri e Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino, 2000.

Achille Melchionda, Piombo contro la Giustizia. Mario Amato e i magistrati assassinati dai terroristi, Edizioni Pendragon, 2010.

Nicola Rao, Il Piombo e la Celtica, Sperling & Kupfer Editore, 2009

www.csm.it

1936, esce Tempi Moderni di Chaplin

Il 5 febbraio 1936, il Rivoli Theatre di New York è gremito per una première molto attesa. Le luci si spengono, il film si apre con una scritta:

Tempi Moderni, una storia sull’industria, sull’intraprendenza individuale, sulla crociata dell’umanità che cerca la felicità.

La scena immediatamente successiva mostra un gregge di pecore, tra le quali una nera che cammina senza seguire la fila, e subito, grazie a una sapiente dissolvenza, si passa a una massa di operai che procede a spintoni fuori da una stazione della metropolitana nell’ora di punta, diretta a grandi passi verso la fabbrica che la ingoierà.

Charlie Chaplin, che del film è produttore, sceneggiatore, regista e protagonista, non è presente. Il feeling con l’America è offuscato da tempo, teme di essere “scrutato e additato come un freak”. Tempi moderni era stato un film complesso, di lunga gestazione, aveva comportato scelte difficili.

Il film nasce indubbiamente dalle riflessioni di Chaplin sulla Depressione. Tra l’ottobre del 1929, agli inizi del crollo della Borsa, fino ai primi mesi del ‘33, negli Stati Uniti il PIL era diminuito del 29%, mentre il tasso di disoccupazione in quasi tutti i settori era balzato dal 3 al 25%.

Dal luglio ‘32 al febbraio seguente, Chaplin scrive per una rivista femminile una serie di articoli intitolati “Un comico vede il mondo”, diario del viaggio durato sedici mesi tra Europa ed Estremo Oriente, strumento prezioso per comprendere la sua visione della società nel periodo immediatamente precedente a Tempi moderni. Tra i temi ricorrenti, la solidarietà nei confronti di coloro che soffrono le maggiori conseguenze della Depressione, operai e disoccupati, rappresentati con un’empatia frutto dell’esperienza della povertà vissuta in prima persona da Chaplin durante l’infanzia; il sospetto che le istituzioni sociali moderne mirino più a controllare e opprimere i lavoratori che a garantire loro la stabilità necessaria per migliorare le proprie condizioni di vita; le riflessioni suscitate dall’incontro con il Mahatma Gandhi in merito “all’industrializzazione sconsiderata con in mente solo il profitto”.

Sempre durante l’ideazione di Tempi moderni, si acuiscono i conflitti tra classe operaia e classe dirigente: nel solo 1934 vengono dichiarati 1800 scioperi, coinvolgendo oltre un milione e mezzo di lavoratori. Durante la campagna per la nomina del governatore della California, da molti storici indicata come l’ingresso del cinema hollywoodiano nella sfera politica del paese, Chaplin si schiera a sostegno del candidato democratico; le sue simpatie per il Partito laburista inglese erano note, così come il suo sostegno al New Deal di Roosevelt: in quegli anni, Chaplin può essere definito un progressista, apartitico, orientato a sinistra, solidale nei confronti dei lavoratori e di quanti risentivano della depressione economica.

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Il contesto generale dei primi anni Trenta incoraggia gli artisti a uscire dall’isolamento estetico per occuparsi di temi sociali e politici. Le tensioni economiche, le condizioni sociali e il clima intellettuale di quel periodo suggeriscono a Chaplin un film in cui sia più diretto il rapporto tra il suo personaggio, Charlot (con tutte le convenzioni comiche a lui legate), e le problematiche dell’epoca.

In una pellicola allo stesso tempo realistica e all’avanguardia, Chaplin riporta in scena per l’ultima volta il Vagabondo, The Tramp, il cui malinconico disincanto è emblema dell’alienazione umana delle classi sociali più emarginate, nell’era del progresso economico e industriale. Charlot si converte qui in operaio fordista, alienato dalla catena di montaggio. Chaplin rivelò che era stata la conversazione avuta con un cronista del “World” di New York a dargli lo spunto per la lunga sequenza iniziale:

Mi parlò delle catene di montaggio adottate dalle fabbriche di Detroit: la storia angosciosa dei robusti giovanotti strappati alle fattorie con la prospettiva di più lauti guadagni, che dopo quattro o cinque anni di lavoro alle catene di montaggio diventavano rottami umani col sistema nervoso a pezzi.

Divorato dalla macchina, nutrito a forza (“Non fermatevi per il pranzo, sconfiggete i vostri concorrenti”), ricoverato per esaurimento nervoso, arrestato per errore con l’accusa di aver guidato un gruppo di rivoltosi e altrettanto casualmente liberato, convertito in guardiano notturno di un grande magazzino, poi intrattenitore per i clienti di un ristorante insieme alla Monella diventata nel frattempo sua compagna di avventure, in Tempi moderni il Vagabondo si contrappone ai Moloch della modernità: sceriffi, capitalisti, Grandi fratelli, guardiani.

Inglobando la questione sociale nella propria poetica, all’interno della stessa formula cinematografica sviluppata nelle sue precedenti commedie, Chaplin consegna al mondo la propria teoria economica, l’utopia che vorrebbe una distribuzione più equa non solo della ricchezza, ma anche del lavoro:

La disoccupazione è il problema centrale dei nostri giorni. E le macchine dovrebbero lavorare per il bene dell’umanità, non per sostituirla.

Il lavoro, che dovrebbe generare libertà, in Tempi Moderni (e non solo quelli del film) finisce per produrre sottomissione: Chaplin sembra volerci ricordare che senza lavoro non esiste uguaglianza, nessuna libertà è possibile, e la “ricerca della felicità” promossa dalla Costituzione americana si risolve in un fallimento. L’uomo moderno ha bisogno di un lavoro per affermare se stesso, ma se la società non lo permette il lavoro diventa una sfida, una lotta: Chaplin annuncia alla co-protagonista che andrà a cercare lavoro (per sé, per loro, per un futuro) “come se stesse annunciando la partenza per una battaglia, o suonando la carica durante uno scontro a cavallo”. In queste piccole scene risiede il senso profondo del film.

Le aspirazioni delle persone comuni come Charlot e la Monella sono semplici, una casa comoda e cibo in abbondanza, ma la realtà concede loro al massimo una baracca ai margini della città. Persino quando sembrano aver trovato un lavoro e la sicurezza economica alla fine del film, i servizi sociali infrangono i loro sogni. Malgrado l’obiettivo di Tempi moderni non sia quello di suggerire una riforma radicale del sistema, il film è sicuramente molto più ancorato alla realtà sociale di quanto lo siano state tutte le opere precedenti di Chaplin.

Tempi Moderni è anche un film – quasi – muto girato in epoca pienamente sonora: unica concessione ai tempi sono i pochi effetti sonori, quasi tutti originati dagli oggetti che presiedono all’alienazione, macchine, schermi televisivi. Anche quando si sente la voce dell’autore, non parla ma canta, e per di più lo fa in grammelot, mischiando parole di varie lingue, storpiate e messe una dopo l’altra senza costrutto. La canzone è nota come Nonsense Song ed è un adattamento di Je cherche après Titine, una canzone francese – in vero francese – del 1917. L’assenza delle parole è una scelta, non un obbligo: nel 1936 i talkies, i film sonori, erano ormai la norma, e Chaplin è tentato di adeguarsi, scrive e prova alcuni dialoghi. Finché l’idea del silenzio e della poesia che ne derivava non hanno prevalso.

L’ultimo film in cui appare Charlot, congedato con una bellissima passeggiata verso l’orizzonte, contiene anche uno degli ultimi inni alla speranza messi in scena dal sempre più scomodo Chaplin: nonostante il futuro dei due protagonisti sia molto incerto, il film si conclude con un invito a non arrendersi mai. Alle accuse di filocomunismo, che nei primi anni Cinquanta comporteranno la sua espulsione di fatto dal territorio americano, Chaplin risponde che la propria ideologia non è altro che quella professata dal suo “omino”:

Avere un tetto sulla testa, lavorare liberamente e formarsi una famiglia. Questo è un ideale democratico, non già comunista.

Il film è un successo, anche se inizialmente non tutti ne colgono gli aspetti di critica sociale; negli anni, diviene un classico proprio grazie al contrasto tra la gravità del messaggio e l’ingenuità del protagonista. Così sintetizzerà dopo quarant’anni, in morte di Chaplin, un commentatore italiano:

Aveva nel sorriso il pianto del mondo e nelle lacrime delle cose faceva brillare la gioia della vita. Toccato dalla grazia del genio era il guanto rovesciato della nostra civiltà, il miele e lo schiaffo, lo scherno ed il singhiozzo; era il nostro rimprovero e la nostra speranza di essere uomini. […] Uomini e donne di tutte le età e colore si riconobbero in lui, si contorcevano dalle risa e sentivano salirsi dentro pietà per se stessi. Andavano per gioire e uscivano pieni di malinconia. […] Il lungo viaggio di un pessimista europeo, con sangue gitano ed ebreo, carico di antichi dolori, compiuto per convincersi che tuttavia conviene credere nell’uomo; questo il transito di Chaplin, il senso della sua opera di artista universale.

 

Silvia Boverini

Fonti:
G. Grazzini, Corriere della Sera, 27 dicembre 1977; A. Pigoni, “Tempi Moderni, Charlie Chaplin”, www.salteditions.it; G. Grossi, “40 anni senza Charlie Chaplin: 5 ricordi di un genio malinconico”, www.movieplayer.it; “La Depressione e il contesto culturale”, http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it; “Il primo film in cui si sente la voce di Charlie Chaplin”, www.ilpost.it; “Tempi moderni, il geniale film-denuncia di Charlie Chaplin compie 80 anni”, http://cinema.fanpage.it; www.it.wikipedia.org; P. Piacenza, “Tempi moderni compie ottant’anni”, www.iodonna.it

Jalta, la conferenza sul destino del mondo

Il 4 febbraio 1945 ebbe inizio il secondo incontro tra i capi politici delle potenze alleate. Churchill, Roosevelt e Stalin, infatti, avevano già avuto modo di conoscersi di persona: due anni prima ebbe luogo la Conferenza di Teheran, dove, tra le altre cose, discussero dello Sbarco in Normandia.

La città ucraina, che sorge in Crimea (da qualche anno zona di aspri conflitti con la Russia), fu teatro di una difficile settimana di discussioni e contrattazioni tra i leader più influenti del globo. L’intero pianeta risentì degli effetti di quei sette giorni. Il Palazzo di Livadija, che era stato la residenza estiva dello zar Nicola II, ospitò il Presidente americano, già duramente colpito dalla poliomielite, e lì ebbero luogo gli incontri.

 

Era ormai chiaro che la guerra volgeva al termine, perciò si discusse principalmente di cosa sarebbe accaduto in seguito. Furono (e sono) in molti ad additare la debolezza di Roosevelt come principale causa della successiva espansione sovietica, nonostante il leader USA tornò in patria presentando l’incontro al Congresso come un grande successo e una grande vittoria della pace. Morì poco più di un paio di mesi dopo, non potendo prendere parte alla conferenza successiva, su cui lui stesso molto aveva puntato: a San Francisco si firmò, infatti, il documento istitutivo delle Nazioni Unite.

Tornando in Crimea, e in generale in Europa, da Jalta uscì trionfante Stalin, poiché riuscì ad allargare i propri confini in Polonia e, più in là, fino a Berlino, dando poi luogo alla costruzione del Muro (di cui abbiamo parlato qui e qui). Certamente, non si può non notare che quei territori erano, di fatto, già sotto il diretto controllo sovietico, poiché era stata propria l’Armata Rossa a liberarli. Forse, bisognerebbe cercare i motivi dei futuri confini sovietici facendo ancora un passo indietro, alle decisioni sui vari fronti di guerra.

Dopo Teheran e Jalta, la “trilogia” di conferenze si concluse a Potsdam, tra luglio e agosto 1945: Berlino, inizialmente scelta come sede dall’elevato valore simbolico, era eccessivamente danneggiata per sostenere un tale incontro. Forse, non solo in senso materiale.

Alessio Gaggero

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Traini apre le danze della violenza razzista

Il 3 febbraio del 2018, Luca Traini sale in macchina a Tolentino, comune della provincia di Macerata, arriva nel capoluogo e compie il raid di cui tanto si è parlato nell’ultimo mese della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2018.

Per diverse vie della città, esplode dei colpi di pistola in direzione di sei persone: cinque uomini e una donna. Hanno tutti tra i venti e i trentadue anni. Ciò che li accomuna più direttamente, però, è la provenienza: arrivano dall’Africa sub-sahariana.

Dopo aver girato in macchina per Macerata, e aver accumulato sei vittime, Traini si ferma davanti al Monumento ai Caduti, scende con la bandiera italiana legata al collo e grida “Viva l’Italia!” facendo il saluto romano. Dopodiché, si arrende alle forze dell’ordine.

Gli agenti troveranno poi in camera sua una copia del Mein Kampf, una bandiera con la croce celtica e altri elementi riconducibili all’estrema destra. Si scoprirà, più avanti, che era stato candidato con la Lega Nord per le comunali di Corridonia del 2017, pur non avendo ricevuto alcuna preferenza.

Quanto alle motivazioni, lo stesso Traini disse poi che, pur non conoscendo Pamela Mastropietro, il suo obiettivo era proprio il carnefice della ragazza, quantomeno all’inizio: si sarebbe voluto recare in tribunale a ucciderlo. Per qualche ragione, cambiò idea, optando per la sparatoria che lo porterà a ricevere una condanna a dodici anni. Il 3 ottobre del 2018 scorso fu infatti trovato colpevole di strage aggravata dall’odio razziale (condanna divenuta definitiva il 24 marzo 2021) e porto abusivo d’arma, nonostante le sue dichiarazioni:

In tutti i locali a cui ho sparato, esclusa la sede del Pd – sono le frasi di Traini citate nella motivazione – c’è lo spaccio. Gli spacciatori sono neri. Io ce l’ho con gli spacciatori.

Dunque, un altro caso di cronaca nera alla base del gesto del ventottenne marchigiano. Il due febbraio era stato infatti fermato Innocent Oseghale, spacciatore nigeriano di ventinove anni, con le accuse di omicidio, occultamento e vilipendio di cadavere. Pamela, allontanatasi da una comunità di Corridonia, era stata trovata smembrata e chiusa in due trolley nelle campagne del Maceratese.

Si apre, con questo evento, un periodo costellato da un crescendo di eventi di violenza a sfondo razzista.

Alessio Gaggero

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Stalingrado: la ferocia, gli ordini, la morte, Hitler, Stalin… e «la dignità umana»

L’assedio di Stalingrado finì il 2 febbraio del 1943, con la vittoria dell’Armata Rossa. Fu la prima grande sconfitta politico-militare delle truppe nazifasciste e segnò l’inizio di quell’avanzata sovietica verso occidente, che si sarebbe conclusa oltre due anni dopo con la battaglia di Berlino.

Il macello di Stalingrado, una carneficina dai costi umani incalcolabili – oltre un milione di soldati tedeschi, rumeni, ungheresi e italiani e mezzo milione circa di soldati russi –, era iniziato il 17 luglio del ’42. Pochi mesi prima, Hitler aveva deciso che le truppe dell’Asse dovevano tornare a vincere sul fronte orientale, dove l’Armata Rossa aveva bloccato la loro avanzata, impedendo la conquista di Mosca, e passando al contrattacco.

Quel brusco risveglio di Molotov e di Mussolini verso l’alba del 22 giugno ‘41

L’Operazione Barbarossa, cioè l’invasione dell’Unione Sovietica, aveva avuto inizio un anno prima, verso l’alba del 22 giugno del 1941. Con un annuncio di poco precedente al tuonare dell’artiglieria, verso le due del mattino, l’ambasciatore di Hitler al Cremlino presentava al ministro degli Esteri sovietico Molotov la dichiarazione di guerra [1]. Alla stessa ora, a Berlino, il ministro degli Esteri tedesco, Ribbentrop, dava udienza all’ambasciatore russo per proporgli la stessa comunicazione. Cessava di esistere così il patto di reciproca non aggressione tra le due potenze totalitarie, noto come patto Ribbentrop-Molotov [2]. Un’ora dopo, mezz’ora prima che i cannoni tedeschi dessero il via al cannoneggiamento lungo un fronte di centinaia di miglia, l’ambasciatore tedesco a Roma svegliò il ministro degli Esteri italiano, conte Galeazzo Ciano, per consegnargli una lunga lettera di Hitler indirizzata a Mussolini [3]. Il Führer  informava il suo alleato della decisione che aveva assunto e messo in atto a sua insaputa, aggiungendo che non avrebbe avuto bisogno dell’aiuto delle truppe italiane per quella campagna [4]. Mentre le truppe sovietiche, colte totalmente di sorpresa, venivano furiosamente travolte da quelle tedesche, Mussolini dava l’ordine di dichiarare immediatamente guerra all’URSS, ma aggiungeva di augurarsi che in quella guerra contro Stalin i tedeschi perdessero «molte penne!».

«Io dichiaro senza riserve che il nemico a Est è stato schiacciato e che esso mai più si rialzerà» (Adolf Hitler)

Il 3 ottobre 1941, con le parole sopra citate, in un discorso al popolo tedesco il Führer annunciò la sua convinzione che la Russia fosse ormai liquidata e che le due più grandi città dell’URSS, Leningrado e Mosca, fossero sul punto di cadere come frutti maturi [5]. Ai suoi generali, intenti a raggiungere le due città, spiegò che, se anche si fossero arrese, esse andavano distrutte. Nella direttiva del 29 settembre del ’41, in effetti, aveva ordinato di «cancellare Pietrogrado (Leningrado) dalla faccia della terra […] Non abbiamo alcun interesse a salvare anche soltanto una parte della popolazione di questa grande città».

Due fatali errori di calcolo dei tedeschi, di cui uno frutto della disumanità

Già da luglio, però, nonostante l’avanzata fulminea delle truppe naziste, alcuni generali tedeschi annotavano nei loro diari che le divisioni dell’Armata Rossa erano meglio equipaggiate e più numerose di quanto Adolf Hitler avesse immaginato (gen. Franz Halder). Inoltre, rilevavano che per la prima volta la loro avanzata non era assicurata dalla copertura area [6]. Infine, osservava il generale Blumentritt, i soldati russi, «anche se circondati, resistevano e combattevano». Il generale Ewald von Kleist osservava con minore stupore la tenacia dei combattenti sovietici, perché sapeva spiegarsela: era provocata dalla ferocia nazista.

Nessuna rivolta popolare contro Stalin

Il Führer era convinto che le sue truppe sarebbero state accolte dalla popolazione civile e dalla massa dei soldati con entusiasmo e che i russi avrebbero colto l’occasione per rivoltarsi contro Stalin e abbattere il suo sanguinario regime. Aveva detto: «Basterà dare un calcio alla porta e tutta quella marcia impalcatura crollerà». Il punto è che quel calcio, seguendo fedelmente i suoi ordini e spesso aggiungendoci un bel po’ di sadica iniziativa personale, le forze d’occupazione tedesche non lo davano alla porta ma al popolo. E con una violenza che superava la spietatezza dello stalinismo [7].

I massacri degli ebrei

Anche in Unione Sovietica le truppe tedesche diedero immediatamente corso a persecuzioni e carneficine contro la popolazione ebraica, come già facevano in Polonia fin dal 1939. La divisione di fanteria SS “Totenkopf”, comandata dal gruppenführer Theodor Eicke, al seguito del IV gruppo corazzato diretto verso Leningrado, ad esempio, eseguì i primi massacri subito dopo aver occupato la Lituania. Le SS, infatti, linciarono centinaia di ebrei per le strade, suscitando orrore e sgomento anche in chi non era fisicamente colpito da quella violenza.

«Centinaia di ebrei con le facce macchiate di sangue, fori di proiettile in testa, arti spezzati, occhi strappati dalle orbite, corrono davanti a noi; i soldati davanti alla prigione picchiano la folla; grondanti di sangue gli ebrei crollano gli uni sugli altri strillando come maiali al macello».

Con queste parole un sergente delle SS, Felix Landau, descriveva “l’operazione”. Anche chi non venne sopraffatto dall’orrore e dalla pietà, assistendo alle atroci violenze inflitte ai suoi concittadini ebrei, si rese conto che una simile crudeltà avrebbe potuto dilagare in ogni momento verso chiunque non fosse tedesco.

La pianificazione nazista del terrore in Unione Sovietica

Tre mesi prima di invadere l’URSS, ai primi di marzo del ’41, Hitler, infatti, spiegò ai capi delle tre armi e ai principali comandanti delle truppe destinate all’Operazione Barbarossa che dovevano mettere da parte ogni scrupolo.

 «È una lotta tra ideologie e razze diversi e dovrà essere combattuta con una durezza, una spietatezza e una inesorabilità senza precedenti […] I commissari del popolo dovranno essere eliminati».

Così venne diramato “l’Ordine relativo ai Commissari politici”. Per sradicare ogni dubbio, il 16 luglio del ’41, ad invasione appena cominciata, Hitler precisò che la soluzione migliore era «fucilare chiunque ci guarderà di traverso». A tale scopo furono impiegati anche reparti speciali, gli Einsatzgruppen, cioè delle squadre di sterminio, che dovevano dedicarsi agli ebrei e ai commissari politici sovietici. Non è dato sapere quanti commissari comunisti siano stati ammazzati, poiché nella contabilità nazista non venivano distinti dalle vittime ebree. Certamente gli ebrei “liquidati” erano moltissimi di più, dato che erano assai più numerosi dei commissari e che ad essere uccise erano intere famiglie. E, per giunta, con ritmi e sistemi industriali [8]. Comunque, uno dei modi utilizzati dai nazisti per incutere il terrore su tutta la popolazione consisteva nell’impiccare o nell’inchiodare i funzionari del Partito Comunista alle porte. Per risparmiare tempo, però, più spesso venivano fucilati [9].

«Oggi i russi combattono con un eroismo e uno spirito di sacrificio senza pari, ed essi combattono contro di noi solo per difendere la loro dignità umana» (Otto Bräutigam)

Contestualmente veniva pianificata un’opera distruzione di ogni industria e un’attività di così vasta e sistematica rapina di ogni risorsa russa, a partire da quelle alimentari che dovevano essere destinate a nutrire il popolo tedesco, che esplicitamente i vertici nazisti affermavano: «Non v’è dubbio che molti milioni di persone moriranno per fame quando porteremo via dal Paese le cose che ci sono necessarie». Otto Bräutigam, vicecapo dell’ufficio politico di Alfred Rosenberg, ministro di un nuovo dicastero sui territori orientali occupati, in un rapporto del 25 ottobre del ’42, mentre infuriava già la battaglia di Stalingrado, scrisse che al loro arrivo in Unione Sovietica le truppe tedesche trovarono «una popolazione stanca del bolscevismo, che attendeva nuovi slogan carichi di migliore prospettive per il futuro». Ma, constatava Bräutigam, «il lavoratore e il contadino non tardarono a scoprire che erano destinati a servire da schiavi alla Germania». Inoltre, faceva notare che «noi ora ci troviamo nella grottesca situazione di dover reclutare milioni di lavoratori dai territori occupati dopo che tanti prigionieri di guerra sono morti di fame come le mosche» [10]. Bräutigam, con estrema cura, indugiava nella descrizione della violentissima caccia all’uomo organizzata dalle forze tedesche per dare corso al reclutamento forzato delle popolazioni slave e spedirle a lavorare in Germania. Poi ne illustrave le inevitabili conseguenze in atto, secondo lui dissonanti con gli interessi del Terzo Reich: «La nostra politica ha fatto confluire i bolscevichi e i nazionalisti russi in un fronte comune contro di noi». E concludeva: «Oggi i russi combattono con un eroismo e uno spirito di sacrificio senza pari, ed essi combattono contro di noi solo per difendere la loro dignità umana».

«Il mito dell’invincibilità del soldato tedesco era stato infranto» (gen. Franz Halder)

La resistenza sovietica, però aveva iniziato a produrre risultati assai prima che iniziasse la battaglia di Stalingrado. Già il 5 dicembre del ’41, su tutto il fronte semicircolare di 200 miglia che si stendeva attorno a Mosca, i tedeschi furono fermati. Anzi, quella sera, il generale Guderian, comandante della seconda armata corazzata, comunicò che era stato costretto ad indietreggiare. La temperatura era scesa di oltre 35 gradi sotto lo zero e i russi non cessavano di difendersi, resistere e contrattaccare, mentre i tedeschi erano stremati. Il 6 dicembre il generale Georgij Zukov su quel fronte lanciò all’attacco sette armate e due corpi di cavalleria. I tedeschi erano in rotta. E sorti non tanto diverse toccavano alle altre linee di invasione. Hitler decise di non permettere agli eserciti tedeschi in Russia di ritirarsi, provocando così gravissime perdite di uomini e di materiali. Un rapporto del 30 marzo 1942 registrava che su 162 divisioni combattenti impegnate all’Est solo 8 potevano ancora essere usate per azioni di attacco.

Il disastro di Stalingrado

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Il Führer decise, allora, che, a partire dall’estate del ’42, ci si doveva concentrare sulle regioni meridionali dell’URSS: i giacimenti petroliferi del Caucaso, il bacino industriale del Donets, i campi di grano del Kuban, la città di Stalingrado sulla Volga. L’obiettivo era togliere ai sovietici il petrolio e buona parte dei viveri e delle industrie di cui avevano bisogno per combattere. Sapeva che se il tentativo non fosse riuscito avrebbe dovuto «porre fine a questa guerra». Lo stesso discorso, però, valeva per Stalin, al quale non sfuggiva che l’occupazione tedesca di Stalingrado avrebbe sbarrato l’ultima via importante per portare il petrolio nella Russia centrale.

La concessione a Hitler,  da parte di Mussolini, di “carne da cannone” italiana

Adolf Hitler, tuttavia, a differenza di Stalin, aveva bisogno di uomini. Si rivolse, perciò, a Budapest e a Bucarest, per avere soldati rumeni e ungheresi, e al suo amico Mussolini. Göring fu spedito a Roma proprio con questo obiettivo, con la raccomandazione di rassicurare il duce circa la certezza della vittoria sulla Russia entro il 1942 e sulla Gran Bretagna entro il ’43. Data la tiepidezza della reazione di Mussolini, il 29 e il 30 aprile Hitler incontrò il duce e Ciano a Salisburgo, riuscendo a persuaderlo a impegnare 9 divisioni, di cui 6 da impiegare nel settore meridionale del fronte, dove si sarebbe svolto l’attacco principale [11].

 L’avanzata estiva delle truppe nazifasciste e l’attacco a Stalingrado

Mentre le truppe di Hitler procedevano nella steppa assolata puntando su Stalingrado, le truppe italiane, rumene e ungheresi si schieravano progressivamente per proteggerne i fianchi allungati sul Don. A metà luglio, la 6ª Armata tedesca, avvicinatasi alla grande ansa del Don, affrontava nuove truppe sovietiche, velocemente raccolte da Stalin per frenare quell’avanzata tedesca verso Stalingrado. Ma il 13 settembre la 6ª Armata, sotto il comando del generale Friedrich Wilhelm Ernst Paulus, sferrava il primo massiccio attacco frontale contro la città. La battaglia così divenne una lotta furibonda, combattuta quartiere per quartiere, via per via, palazzo per palazzo e stanza per stanza, in una Stalingrado resa già spettrale dai cannoneggiamenti e dai bombardamenti aerei tedeschi. Stalin aveva ordinato che la città doveva essere tenuta ad ogni costo. Chi indietreggiava andava punito con la morte. In ballo c’era la sopravvivenza dell’URSS.

La “sacca di Stalingrado”

A fine ottobre sembrava che a Stalingrado la vittoria tedesca fosse ormai certa, ma il 19 novembre 1942, con la parola in codice “sirena”, i sovietici diedero il via all’Operazione Urano. Un’avanzata improvvisa di 500 carri armati T-34, fatti affluire da Stalin nel segreto più assoluto. Gli assedianti tedeschi di Stalingrado divennero così assediati, mentre i difensori russi assunsero il ruolo di attaccanti.

«Resistere ancora non ha senso» (gen. Paulus)

Su tutto il settore, con l’approssimarsi dell’inverno, le cose volgevano al peggio per gli eserciti nazifascisti. L’11 dicembre del 42 era iniziata la seconda battaglia del Don, che costringeva il contingente italiano ad una tragica ritirata (l’abbiamo ricordata in questo post). La mattina dell’8 gennaio il generale Rokossovskij, comandante delle forze sovietiche di Stalingrado, inviò un ultimatum di 24 ore al feldmaresciallo von Paulus. Dopo avergli ricordato che il suo esercito non poteva essere soccorso via terra né più rifornito via aria, aggiungeva:

«La vostra situazione è disperata. State soffrendo la fame, le malattie e il freddo. Il crudo inverno russo è appena iniziato […] I vostri soldati mancano di equipaggiamento invernale e vivono in condizioni sanitarie paurose […] In vista di ciò e per evitare un inutile spargimento di sangue vi invitiamo ad arrendervi»

Le garanzie offerte erano più che onorevoli (a partire dall’assistenza sanitaria assicurata per feriti e malati) e Paulus trasmise via radio l’offerta di resa ad Hitler. Il Signore della Guerra nazista immediatamente la respinse. La mattina del 10 gennaio 5 mila pezzi di artiglieria sovietica aprirono il fuoco. Il 24 gennaio gli emissari sovietici tornarono da Paulus con nuove proposte di resa. Paulus via radio comunicò a Hitler che «resistere ancora non ha senso. L’esercito chiede l’immediata autorizzazione ad arrendersi per salvare la vita delle truppe che restano».

«Proibisco la resa» (A. Hitler)

Hitler rispose immediatamente:

«Proibisco la resa! La 6ª Armata terrà le posizioni fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia, e con la sua eroica resistenza darà un indimenticabile contributo alla costituzione di un fronte di difesa e di salvezza del mondo occidentale».

Gli uomini della 6ª Armata, ridotti a larve in quella Stalingrado sventrata e ghiacciata, pochi anni prima avevano combattuto contro il mondo occidentale in Francia e nella Fiandre.

«Nessun segno di combattimenti a Stalingrado»

Paulus, invece, si arrese il 31 gennaio, quando le truppe sovietiche fecero irruzione nel suo quartier generale, in una cantina delle rovine di un grande emporio. Il 30 gennaio nel decimo anniversario della presa del potere dei nazisti (lo abbiamo ricordato in questo post, della rubrica Corsi e Ricorsi), il maresciallo Göring alla radio aveva detto che tra mille anni i tedeschi avrebbero ricordato la battaglia di Stalingrado con sacro rispetto, poiché essa fu decisiva per la vittoria finale della Germania. Alle 14,46 del 2 febbraio un piccolo aereo da ricognizione tedesco volando sopra Stalingrado trasmise per radio la seguente comunicazione: «Nessun segno di combattimenti a Stalingrado». Di 285.000 soldati dell’Asse ne erano rimasti 91.000. Si incamminavano fuori da Stalingrado, diretti ai campi di prigionia russi. Solo 5000 di questi sarebbero tornati a casa.

Hitler era furioso con Paulus e i suoi generali: si erano arresi invece di uccidersi con un’ultima pallottola. Soprattutto disprezzava Paulus:

«Cos’è la vita?! La vita è la Nazione! […] Egli avrebbe potuto ascendere all’eternità e all’immortalità della Nazione, invece ha preferito andarsene a Mosca!»

Il 3 febbraio l’OKW (l’Alto comando della Wehrmacht) emanò un comunicato straordinario:

«La battaglia di Stalingrado è terminata. Fedele al suo giuramento di combattere sino all’ultimo respiro, la 6ª Armata, condotta esemplarmente dal feldmaresciallo Paulus, è stata sopraffatta dalla schiacciante superiorità del nemico e delle condizioni sfavorevoli in cui le nostre forze sono venute a trovarsi»

Alberto Quattrocolo

[1] Il governo russo fu preso letteralmente alla sprovvista dalla slealtà tedesca. Anche se molti segnali avrebbero dovuto indurlo a comprendere quel che Hitler stava per mettere in atto. Lo stesso Primo Ministro Britannico, Winston Churchill, già il 3 aprile 1941, tramite l’ambasciatore inglese a Mosca, sir Stafford Cripps, aveva inviato un memorandum a Stalin per avvisarlo sulle reali intenzioni di Hitler, informandolo dei movimenti di truppe corazzate tedesche verso la Polonia, che gli erano stati rilevati dai servizi d’informazione britannici. Cripps inoltrò il messaggio solo il 19 aprile, ma Stalin, che diffidava del governo inglese, pensando che volesse scatenare una tensione idonea a incrinare il patto Molotov-Ribbentrop, non lo prese sul serio. Inoltre lo spionaggio tedesco riuscì a fare far credere ai russi che lo spostamento di truppe verso est aveva come unico scopo quello di portare al di fuori del raggio di azione dei bombardieri britannici tutte le forze che sarebbero state utilizzate da Hitler per l’invasione della Gran Bretagna. Stalin, infine, era certo che la Germania non avrebbe aperto il fronte orientale prima di aver invaso la Gran Bretagna. Così il 14 giugno l’Agenzia di stampa ufficiale sovietica, la TASS, scriveva: «La Germania sta osservando i termini del Patto di non aggressione tanto strettamente quanto l’Unione Sovietica. Le voci sull’intenzione tedesca di rompere il patto ed attaccare l’Unione Sovietica sono prive di qualsiasi fondamento». E il 16 giugno, Stalin ricevuta una copia del rapporto di un ufficiale tedesco, trovato dai suoi agenti segreti, in cui si parlava di un attacco all’Unione Sovietica da parte della Germania per il 22 giugno, scriveva: «Rimandatelo a quella puttana di sua madre. Non è una fonte ma un disinformator

[2] Quell’ accordo aveva offerto alla Germania nazista la tranquillità di poter occupare la parte occidentale della Polonia e di volgersi ad occidente prima e a sud est poi per divorare quasi per intero il resto d’Europa, senza dover fronteggiare le truppe sovietiche. E aveva consentito a Stalin di annettersi la Polonia orientale, i Paesi Baltici e la Bessarabia e di tenersi fuori dal conflitto che stava insanguinando il continente europeo.

[3] Mussolini, parecchio infastidito, sbottò: «Io non oso, di notte, svegliare i miei servitori ed i tedeschi mi fanno saltare dal letto senza il minimo riguardo».

[4] Il testo finiva così: «Lasciatemi ancora dire una cosa, Duce. Dopo che, lottando, sono giunto a questa decisione, mi sento spiritualmente libero. L’associarmi all’Unione Sovietica, malgrado la sincerità assoluta dei nostri sforzi per venire ad una definitiva conciliazione, era stato per me assai fastidioso perché, in un modo o nell’altro, ciò sembrava contrario con tutto il mio atteggiamento precedente, con le mie concezioni e con i miei precedenti impegni. Ora sono assai contento di essermi liberato da questo disagio spirituale. Con saluti cordiali e camerateschi, vostro Adolf Hitler».

[5] In sole tre settimane i suoi soldati avevano compiuto sul fronte centrale un’avanzata di quasi 900 km, trovandosi ad appena 200  km da Mosca, mentre a nord, avanzando verso gli stati baltici, puntavano su Leningrado e a sud muovevano verso Kiev, capitale della fertile Ucraina.

[6] Gli aerei da caccia sovietici continuavano a colpire, mentre quelli tedeschi, in mancanza di aeroporti adeguati, restavano tropo per indietro per poter provvedere alla copertura delle loro truppe, che spostavano sempre più avanti il fronte.

[7] Dapprincipio, però, vi furono casi in cui le truppe tedesche furono salutate come liberatori dalla popolazione oppressa e terrorizzata dalla dittatura comunista. Vi furono anche cospicue diserzioni nelle regioni baltiche, che i sovietici avevano occupato poco prima, e in Ucraina. Qui, dove un embrionale movimento indipendentista non era mai stato represso del tutto, molti furono lieti della liberazione dalla dominazione sovietica

[8] Avevano già operato in Polonia per prelevare e chiudere nei ghetti gli ebrei, ma con l’invasione della Russia furono addette alla realizzazione della «Soluzione finale».

[9] Talora insieme ai bambini, alle donne e agli uomini ebrei.

[10] In tutto i tedeschi catturarono 5 milioni e 250 mila soldati sovietici. Di questi 3.800.000 furono presi tra il 21 giungo e il 6 dicembre del ’41. In tutto alla cattività sopravvisse appena un quinto dei russi catturati. «Per noi più prigionieri muoiono e meglio è», affermava Rosenberg.

[11] Il ministro degli Esteri italiano scrisse nel suo diario: «Hitler parla, parla, parla. Mussolini, che è abituato a parlare lui e che lì invece è costretto a tacere quasi sempre, soffre».

 

Fonti

De Tomasi (a cura di), Il Terzo Reich. Macchina di morte, Hobby & Work Publishing, 1994

Joachim C. Fest, Hitler. Una biografia, Garzanti Libri, Milano, 2005

Richard Overy, Russia in guerra, il Saggiatore, Milano, 2000

William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1962

1979: l’ayatollah Khomeini torna in Iran dopo 15 anni di esilio

L’1 febbraio 1979, sull’aereo che riporta l’ayatollah Khomeini in Iran dopo 15 anni di esilio, un giornalista gli chiede cosa prova a tornare in patria:

Hich (Niente)”, è la glaciale risposta.

È il destino di Dio che si compie, non c’è nessuno spazio per i sentimenti dei singoli, sembra voler dire. Non pochi iraniani rimangono sbalorditi da quella battuta. E anche un po’ offesi. Una donna, poco più che bambina nel 1979, ricorda in una recente intervista:

La gente era morta nelle strade inneggiando a lui, all’aeroporto di Merabad lo aspettavano 4 milioni di persone. E quando gli chiedono cosa prova, lui risponde “niente”!

Ruhollah Musavi nasce a Khomein all’inizio del Novecento; la famiglia, appartenente all’Islam sciita, sosteneva di discendere direttamente dal profeta e Ruhollah e i suoi fratelli si dedicano allo studio approfondito dei testi sacri. Brillante studente, versatile, eccellente nelle materie umanistiche, segue lo studioso islamico Yazdi Ha’iri, che lo porta con sé a Qom (città santa sciita) per farne un insegnante. Ruhollah matura una crescente avversione per lo Scià Reza Pahlavi e il figlio Mohammad che gli succederà nel ‘41, che stanno progressivamente occidentalizzando l’Iran: Khomeini critica apertamente i regnanti, divenendo una figura sempre più influente nella comunità religiosa (“Marja-e Taqlid”, persona da imitare).

Negli anni Sessanta, Mohammad Reza Pahlavi avvia un vasto programma riformista noto come Rivoluzione Bianca, realizzando l’eversione della feudalità, la ridistribuzione delle terre, la nazionalizzazione delle foreste, la privatizzazione di alcune imprese governative, la creazione di un sistema di istruzione universale, gratuito e obbligatorio, l’istituzione di un sistema sanitario che copre tutta la popolazione, l’estensione del diritto di voto attivo e passivo alle donne. Tali riforme intaccano profondamente i privilegi della nobiltà iraniana e del clero islamico sciita. Inoltre, il nuovo diritto di famiglia limita la poligamia e vincola l’istituto del divorzio alle procedure giuridiche dello Stato, mentre l’età minima per il matrimonio viene alzata a 18 anni, nel solco tracciato da Reza Shah, che nel 1936 aveva messo fuorilegge il velo e aperto le università alle donne.

Nel 1963 Khomeini tiene un discorso al vetriolo sostenendo che il popolo iraniano sarebbe stato felice di vedere lo Scià lasciare il paese, additandolo come schiavo degli Stati Uniti e in ottimi rapporti con Israele; per questo attacco diretto viene incarcerato fino all’aprile del ‘64 e in seguito deportato in Turchia, per poi raggiungere la città di Najaf, in Iraq, dove trascorre tredici anni della sua vita. Qui sviluppa le linee guida a fondamento della futura Repubblica Islamica dell’Iran, ma il suo attivismo crea gravi imbarazzi al governo iracheno, che gli intima di abbandonare o la politica o il paese: Khomeini sceglie la seconda opzione e raggiunge Parigi nel 1978.

Nel frattempo, in Iran, sta maturando un clima di profonda avversione verso lo Scià: la brutale repressione contro gli oppositori per mezzo della Savak (la polizia segreta), la corruzione del regime e della monarchia, l’appoggio garantito dagli Stati Uniti e da Israele, la crisi economica con alti livelli di disoccupazione e inflazione e la troppo rapida occidentalizzazione dei costumi provocano, sul finire degli anni ’70, un vasto movimento di protesta composto sia dalla sinistra iraniana (intellettuali, studenti, donne, gruppi marxisti) che dai religiosi fondamentalisti e moderati, movimento che inizialmente lo Scià ritiene di poter fermare con la forza.

I discorsi di Khomeini – registrati su audiocassette – entrano clandestinamente in Iran e infiammano l’opposizione islamica. Sono tanti gli iraniani che si radunano in montagna, lontano degli occhi e dalle orecchie della Savak per ascoltare i suoi sermoni. Ma in molti credono che Khomeini avrà un ruolo marginale: una volta caduto lo Scià, si ritirerà a vita privata, avrà un ruolo meramente religioso. Che le cose sarebbero andate diversamente lo si capisce un po’ alla volta.

I dieci giorni che sconvolsero gli equilibri del Medio Oriente, dell’Islam e del mondo iniziano il 16 gennaio 1979 con la precipitosa fuga, ufficialmente per motivi di salute, dello Scià e di sua moglie Farah Diba: poco prima di partire verso gli Stati Uniti, Pahlavi nomina come premier Shahpur Bakhtiar nel vano tentativo di salvare il regime agonizzante. Tutto inutile: il 1° febbraio l’ayatollah Khomeini è accolto da una folla in festa e promette di “prendere a schiaffi questo governo”. L’11 febbraio l’esercito iraniano annuncia il proprio disimpegno dalla lotta. Al primo ministro Bakhtiar non resta che abbandonare il paese. Si compie così l’ “alba dei dieci giorni”, come viene definito il periodo fra il primo e l’11 febbraio di quell’anno (vittoria della Rivoluzione).

Nel marzo 1979 il 98% degli iraniani approva con un referendum la sostituzione della monarchia con una Repubblica Islamica fondata su un sistema duale di potere, in cui l’ultima parola spetta al corpo religioso. L’Iran è il terzo paese in assoluto a diventarlo dopo il Pakistan e la Mauritania, ma il primo governato da religiosi sciiti e non sunniti. Secondo la nuova Costituzione, Khomeini diventa il giurista supremo, di fatto la carica più importante dell’Iran. Con buona pace della dottrina sciita classica, per la quale qualsiasi governo è illegittimo fino al ritorno del Mahdī (il dodicesimo Imam, entrato in occultazione nel X secolo e destinato a tornare alla fine dei tempi) e il corpo religioso ha compiti inerenti soltanto al sacro.

Nel giro di pochi mesi vengono represse le minoranze religiose ed etniche in cerca di autonomia e attaccate le sedi delle organizzazioni di sinistra, gli ex alleati dell’opposizione allo Scià nazionalisti, di sinistra e il clero “moderato” vengono eliminati, politicamente e fisicamente; si limita la libertà di espressione, la musica e ogni influenza culturale occidentale sono messe fuori legge; molte industrie sono nazionalizzate, le leggi e le scuole islamizzate. Ha scritto l’iraniana Farian Sabahi:

A Khomeini spetta dunque il merito, o secondo alcuni la colpa, di aver trasformato lo sciismo da corrente quietista dell’Islam in ideologia politica e teoria terzomondista che sfidava l’imperialismo personificato dalle potenze straniere e dall’alta borghesia iraniana.

Quella che solo due anni prima era stata definita dal presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter “un’isola di tranquillità in un mare in tempesta” si trasforma nell’epicentro di un cambiamento epocale in tutta la regione: la rivoluzione costituisce un modello di mobilitazione politica che ispira ovunque movimenti sunniti e sciiti e alimenta la competizione con l’Arabia Saudita.

La nuova Repubblica Islamica si sgancia presto dal sistema di alleanze dello Scià: gli Stati Uniti si ritrovano senza il loro principale alleato in Medioriente e non è un problema da poco, vista l’importanza che la regione ha sul piano della produzione ed esportazione di gas e petrolio. Nel 1979 i rapporti tra Iran e Stati Uniti si rompono del tutto a causa della cosiddetta “crisi degli ostaggi”. La guerra contro l’Iraq, iniziata l’anno seguente, permette ai nuovi leader religiosi di rafforzare il loro potere e alimentare la retorica del “noi” contro di “loro” – spesso per “loro” ci si riferiva non solo agli iracheni, ma a tutti gli arabi.

Oriana Fallaci, unica donna ammessa al cospetto di Khomeini per un’intervista, ha scritto:

Bisogna tentar di capire. Bisogna ascoltare chi risponde con le lacrime in gola che sì, al tempo dello Scià si poteva bere il vino e la birra e la vodka e lo whisky, però si torturavano gli arrestati con sevizie da Medioevo […]. Soprattutto bisogna prestare orecchio a chi ci ricorda che esistono realtà diverse dalle nostre, e vie diverse dalle nostre per correggere quelle realtà. […] Il settanta per cento della popolazione iraniana è analfabeta. Vegeta nella miseria materiale e culturale in cui l’ha mantenuta un monarca avido e pazzo che si riteneva l’erede di Serse e sprecava miliardi per incoronarsi a Persepoli. E crede in Dio, nel Corano, nel chador. Non ha mai avuto rispetto per gli intellettuali e i politici che hanno sposato le nostre idee, non ne ha mai seguito gli insegnamenti, forse non ha mai nemmeno saputo che lottavano per un mondo migliore e venivano trucidati dalla Savak. I suoi rapporti sono sempre stati coi mullah e con gli ayatollah […].

Il clero peraltro si impone in virtù non solo di un’organizzazione capillare, ma anche di un’enorme disponibilità economica. Khomeini, fin dal suo primo esilio in Turchia, aveva accumulato un’autentica fortuna grazie alla sua rapida affermazione presso i bazarì, i commercianti benestanti, che sono uno dei pilastri della società iraniana, oggi come ieri. La rivoluzione del 1979 non è opera soltanto di studenti, intellettuali e mullah. Il bazar ha avuto un ruolo chiave nel cambio di regime e in seguito nel mantenimento dello status quo.

Se da leader Khomeini è apocalittico, da uomo politico è molto più pragmatico. Tuona contro Israele, ma durante la guerra con l’Iraq accetta volentieri la collaborazione di Tel Aviv, che fornisce armi, informazioni e assistenza tecnica (circa 1.300 consiglieri). Khomeini è inoltre un comunicatore abilissimo. La tv iraniana manda ancora oggi in onda i suoi lunghissimi discorsi, intervallati da pause infinite e cariche di tensione. Dopo di lui la Repubblica islamica non è stata più la stessa cosa anche perché non c’è stato un leader altrettanto abile e carismatico.

Alla Fallaci che gli ricorda che il tanto vituperato Occidente lo aveva pur accolto e protetto a Parigi, domandandogli se non vi sia nulla di buono in esso, l’ayatollah risponde:

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Qualcosa c’è, c’è. Ma quando siamo stati morsi dal serpente temiamo anche uno spago che assomigli da lontano a un serpente. E voi ci avete morso troppo. E troppo a lungo. In noi avete sempre visto un mercato e basta, a noi avete sempre esportato le cose cattive e basta. Le cose buone, come il progresso materiale, ve le siete tenute per voi.

Khomeini muore il 3 giugno 1989. La rivoluzione islamica ha creato un grande impatto in tutto il mondo. Nel mondo non musulmano ha cambiato l’immagine dell’Islam, generando interesse per la sua politica e spiritualità, insieme a paura e diffidenza verso esso e, in particolare, verso la Repubblica islamica e il suo fondatore.

Silvia Boverini

 

Fonti:
www.it.wikipedia.it; V. da Rold, “Iran, 35 anni fa la rivoluzione khomeinista. Oggi Teheran è pronta ad aprire al «Satana occidentale»”, www.ilsole24ore.com; E. Zacchetti, “Da dove viene l’Iran” e “Cinque cose per capire l’Iran”, www.ilpost.it; “Trentotto anni fa nasceva la Repubblica Islamica dell’Iran”, www.tpi.it; F. Sesia, “Le condizioni della donna in Iran prima e dopo il 1979”, www.smartweek.it; O. Fallaci, “Ruhollah Khomeini”, Corriere della Sera, 26 settembre 1979; Radio3 – Cuore di tenebra, 20/5/2011, in www.diruz.it/chi-era-ruhollah-khomeini; E. Giunchi, “Il ritorno in patria di Khomeini”, http://fondazionefeltrinelli.it