Corsi, consulenze e supervisioni per professionisti e aziende

L’Associazione Me.Dia.Re., oltre ai corsi per aziende indicati qui, svolge percorsi ad hoc di formazione, consulenza e supervisione per aziende ed enti sulla gestione di difficoltà relazionali, conflitti e disagi interni all’organizzazione e nei rapporti tra questi e terzi.

A CHI CI RIVOLGIAMO

Il servizio è rivolto

  • alle persone che all’interno dell’organizzazione di lavoro gestiscono sistemi complessi di relazioni (imprenditori, manager, responsabili della sicurezza, professionisti nella funzione HR, coordinatori, etc.)
  • ai membri di un’équipe
  • a liberi professionisti

OBIETTIVI

Offrire un supporto nel fronteggiare e gestire situazioni caratterizzate da problemi di comunicazione e da relazioni conflittuali, interne al gruppo di lavoro e/o nei rapporti con i terzi. A titolo esemplificativo, si può pensare a disaccordi, tensioni e contrasti tra i membri di un’équipe oppure a criticità nella gestione del rapporto con il cliente/utente insoddisfatto.

CONSULENZA E SUPERVISIONE

Il servizio offerto può consistere in:

  • un’attività di consulenza a favore della/e persone incaricate della gestione di un gruppo di lavoro e/o di un servizio o di un’attività, secondo modalità, tempi e specifiche finalità concordate, a partire da un’analisi della domanda e dei bisogni;
  • un’attività di supervisione a favore del gruppo di lavoro, articolato e declinato secondo le specifiche esigenze e possibilità organizzative.

INFORMAZIONI

Per appuntamenti e informazioni scrivere a [email protected] oppure contattare il numero 3407236318.

ESPERIENZE GIÀ REALIZZATE

  • Un percorso di formazione e consulenza è in corso a favore del GOETHE-INSTITUT TURIN
  • 7 corsi di 8 ore (accreditati ECM direttamente da Me.Dia.Re. che è ente provider accreditato dall’Age.Na.S.) sono stati realizzati per la Società Dentlpro Group a favore di medici, direttori sanitari, clinic manager, direttori di area clinica e area manager
  • Una supervisione è in corso dal mese di maggio 2019 per uno staff della Cooperativa Il Ricino
  • In collaborazione con ISMO, l’Associazione Me.Dia.Re. ha svolto nel 2015 un Master in Organizational and Interpersonal Conflcit Management, per professionisti della funzione HR, con particolare attenzione alle dinamiche di gruppo e alla comunicazione e alle tecniche di colloquio per la prevenzione, de-escalation e gestione dei conflitti interni alle organizzazioni.
  • È stata svolta una formazione di 48 ore sulle dinamiche di gruppo e sulla gestione dei conflitti interni alle equipe di lavoro presso la sede di Torino dell’European Training Foundation (ETF).
  • Una formazione di 16 ore è stata realizzata nel 2008 sulla gestione delle dinamiche di gruppo e sulla prevenzione e gestione dei conflitti nell’organizzazione per il Comitato di Direzione dello stabilimento di Settimo Torinese della L’Oréal.
  • Tre corsi di 16 ore l’uno sono stati condotti nel 2007 sulla comunicazione con la clientela e tra i dipendenti a favore del personale della BMW Italia (San Donato Milanese, MI).

La mediazione familiare come relazione

La mediazione familiare è sorta e si è affermata come un intervento di supporto ai genitori in fase di separazione, con l’obiettivo di aiutarli a tutelare i loro figli dagli effetti del conflitto, prevenendone le ricadute più negative. Ma quali sono i suoi tratti distintivi, qual’è il suo significato e quali sono i suoi presupposti?

Il significato della mediazione familiare

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Come altre forme di gestione non giudiziaria del conflitto, la mediazione si propone di tentare di contenere e regolare la conflittualità tra le parti secondo una prospettiva tesa a scongiurare la delega delle decisioni sulle questioni controverse ad un soggetto terzo: il giudice. In altre parole, il primo significato della mediazione è quello di riaffermare l’autodeterminazione dei soggetti in conflitto, ri-attribuendogli la competenza e la responsabilità della gestione del loro rapporto conflittuale.

Tra le caratteristiche più note della mediazione familiare vi sono quelle relative all’imparzialità e alla neutralità del mediatore. Ma, accanto a queste ve ne sono altre, che costituiscono contemporaneamente una premessa teorica e un’indicazione operativa sull’atteggiamento che dovrebbe costantemente mantenere il mediatore. Tutti i modelli di mediazione – non ve n’è infatti uno solo, ma molti e significativamente eterogenei tra loro sia sul piano teorico che applicativo – si basano sul presupposto che il conflitto in sé non è né un bene né un male: c’è, è un fatto naturale. Inoltre, esso non è indicativo di una maggiore o minore moralità, maturità, adeguatezza di coloro che sono in conflitto.

Da ciò discende un’altra caratteristica: il mediatore non solo non decide al posto delle parti la soluzione del loro conflitto, ma neanche le giudica – ciò, peraltro, in qualche misura si correla anche alla garanzia della tutela della riservatezza di quanto esse gli comunicano. La terza caratteristica – ma ve ne sono alcune altre ancora – riguarda il fatto che il mediatore deve sapere ascoltare le parti, o per meglio dire le persone, con cui si relaziona.

Da questi aspetti fondativi della mediazione derivano alcune conseguenze. La più ovvia è che, nella pratica della mediazione, i genitori non dovrebbero mai sentirsi porre sotto accusa né sotto giudizio dal mediatore per il solo fatto di essere in conflitto o per i modi con cui lo affrontano e lo vivono. L’ascolto – empatico – svolto dal professionista e la sua sospensione del giudizio sulle persone che ha di fronte, a ben vedere, rendono la mediazione un percorso idoneo a liberarle dalla preoccupazione secondo cui “dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto” (Beaumarchais). Ciò significa che nella stanza della mediazione si attenua l’ansia di riuscire ad essere persuasivi circa la correttezza etica e morale e l’appropriatezza psicologica e sociale dei propri pensieri, sentimenti e comportamenti sviluppati nel conflitto.

La mediazione familiare non è un mero intervento tecnico, non è una procedura: è, in primo luogo, una relazione.

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Se queste sono alcune delle prerogative che offre il percorso di mediazione familiare, in virtù della sua irrinunciabile natura a-valutativa, è ovvio che esse si correlano al fatto che la mediazione non è un mero intervento tecnico, non è una procedura. Come altre professioni, è in primo luogo una relazione. Una relazione tra persone, di cui una è chiamata, ascoltando, ad aiutare le altre, le quali sono coinvolte in un conflitto che, il più delle volte, ha raggiunto rilevanti livelli di escalation, anche e soprattutto sul piano dell’incomunicabilità. La mediazione familiare perciò è una relazione che può consentire alle persone di ritrovare fiducia nello strumento della parola, dal momento che le fa esperire la possibilità di qualcuno che non solo comprende quel che dicono e cercano di dire, ma le aiuta anche comunicare tra di loro.

Alberto Quattrocolo

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Il conflitto non ha genitori e il mediatore deve tenerne conto

Come la sconfitta, così il conflitto non ha genitori.

In tanti anni di lavoro nell’ambito della mediazione familiare e in altri ambiti (penale, sanitario, organizzativo-lavorativo, scolastico), sia nei Servizi che nella formazione, tra i diversi elementi ricorrenti dei tantissimi conflitti incontrati, ce n’è uno che riveste una certa rilevanza: raramente, per non dire mai, gli attori del conflitto, fintanto che questo è in corso e più o meno apertamente combattuto, si riconoscono anche come autori: ciascuna parte si auto-rappresenta e si descrive agli altri (terzi, alleati e nemici) come un soggetto costretto a subire il conflitto voluto dall’altro, dal nemico.

Il conflitto non ha genitori perché tutte le parti pensano che è stato l’altra ad iniziare

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Quando siamo coinvolti in un conflitto, all’interno della famiglia come in altri ambiti relazionali, siamo portati a pensarci, o cercare di convincerci, che non siamo stati noi ad aprire le ostilità. Che la colpa per l’avvio del conflitto è del nostro avversario-nemico. È stato lui ad iniziare. Il guerrafondaio, il rissoso è lui. Se, poi, per caso, non ci fosse possibile negare, a noi stessi e agli altri il fatto di essere stati proprio noi quelli che per primi hanno iniziato la lite, anche in tal caso, ci sentiremmo comunque non colpevoli dell’innesco del conflitto. Anche in questa situazione, siamo propensi a pensarci come coloro che non hanno azionato il conflitto, ma che hanno reagito ad un intollerabile comportamento provocatorio altrui.

Il conflitto non ha genitori perché tutte le parti si percepiscono come coloro che lo subiscono ma non lo agiscono

Il conflitto non ha genitori, quindi, perché nessuno dei suo attori è disposto a ritenersene responsabile. Per tutte le parti coinvolte la dinamica conflittuale è una cosa che viene subita. Nessuno è propenso ad accorgersi e ad assumersi la responsabilità del proprio contributo all’innesco del conflitto e della sua progressione.

Ciascuno vive e mentalizza la propria condotta conflittuale, non come frutto di una decisione, di una scelta tra opzioni diverse, ma come una scelta obbligata. Il conflitto non ha genitori quindi anche nel senso che per ciascuno dei protagonisti il proprio comportamento conflittuale è inteso come semplicemente reattivo alle ingiustizie, alle provocazioni, agli attacchi e ai colpi (bassi) della controparte.

Il conflitto non ha genitori perché ciascun protagonista crede di reagire ad un’ingiustizia

Brian Muldoon, in The Heart of Conflict, riguardo ai protagonisti del conflitto scrisse: «Almeno uno di essi è convinto di aver subito un torto. Reagisce all’ingiustizia chiedendo giustizia: la convinzione di avere ragione dà fuoco alle polveri del conflitto». Il conflitto inizia e si sviluppa, sul piano emotivo (e affettivo), cognitivo e comportamentale, a partire da questa percezione di sé (e non è detto che sia scorretta) di essere vittime di  comportamenti ingiusti, ai quali non si può non reagire.

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La mediazione (familiare e non solo) di fronte al fatto che il conflitto non ha genitori

Chi si propone di gestire professionalmente un conflitto altrui deve fare i conti con l’orfanilità del conflitto. E non è un aspetto di poco conto, poiché la sua sottovalutazione può pregiudicare irrimediabilmente non soltanto l’andamento e l’esito del percorso, ma ancor di più e ancor prima, la relazione tra il mediatore e le parti.

La mediazione è a-valutativa

Un mediatore familiare, un mediatore penale o un mediatore sanitario, ad esempio, non possono trascurare il fatto che le persone con cui si relazionano hanno una certa sensibilità (se si vuole, un’ipersensibilità) riguardo alla loro genitorialità del conflitto. Così, ad esempio, se si facesse loro presente che sono entrambe responsabili (cioè, genitori) che hanno generato, anche ammesso che proprio così stiano le cose, sarebbe elevatissimo il rischio di farle sentire giudicate. In particolare, si potrebbero sentire giudicate, dal mediatore, colpevoli del conflitto cui partecipano. Ciò potrebbe verificarsi anche il mediatore non avesse alcuna intenzione giudicante o colpevolizzante, ma fosse più semplicemente mosso dall’obiettivo di far loro presente che le loro azioni sono tali, cioè frutto di una decisione, e non sono delle reazioni inevitabili. Oppure, dall’obiettivo di far sì che essi assumano la responsabilità del loro conflitto, diventando consapevoli degli effetti distruttivi che ha su loro stessi e su eventuali altri (i figli, ad esempio, nel caso della mediazione familiare). Tuttavia, a prescindere dal tono e dalle parole usate dal mediatore e dai suoi obiettivi, in effetti, la percezione dei confliggenti di essere ritenuti genitori del loro conflitto, non sarebbe tanto infondata.

Il disagio di sentirsi giudicati colpevolmente conflittuali

Sentirsi considerati da altri, specie da un terzo importante quale è il mediatore, come gli autori del proprio conflitto può essere fonte di disagio. E può innescare una reazione emotiva all’insegna della sofferenza e della rabbia. I coniugi in conflitto (nel caso della mediazione familiare), la vittima e l’autore del reato (nel caso della mediazione penale), il paziente e il medico (nel caso della mediazione sanitaria), potrebbero pensare grosso modo: «non sono io il colpevole di questo disastro, lo è l’altro, che ha fatto quello che ha fatto». In breve potrebbero sentirsi oggetto di un giudizio ingiusto, in quanto errato e offensivo, e non riconosciuti nelle proprie motivazioni razionali ed emotivo-affettive.

La mediazione e la restituzione del governo del conflitto

Chi opera come mediatore applicando il modello Ascolto e Mediazione, consapevole che il carattere non giudicante della mediazione deve impregnare di sé ogni atto comunicativo, nel relazionarsi con le parti in conflitto, non tenta di smontare questa dinamica, non contrasta il fatto che il conflitto non ha genitori. Evita, cioè, di correre il rischio di aggiungere al conflitto che deve gestire un altro conflitto: quello tra sé e i confliggenti che lo vivono come colpevolizzante. Il che, però, non significa che questo mediatore sia indifferente al fatto che il conflitto non ha genitori. Ascoltando empaticamente le parti, cioè accogliendo e rispecchiando a ciascuna le sue emozioni e i suoi sentimenti, svolge anche, indirettamente, un’opera di ripristino dell’autogoverno del conflitto. In altri termini, consente a ciascun protagonista di uscire da una condizione di soggezione ad una dinamica conflittuale meramente subita. Aiuta, in altri termini, ad uscire dai corridoi stretti in cui si è rinchiusi dalla la logica inesorabile della azione-reazione. E, in tal modo, consente anche di sviluppare delle riflessioni autocritiche non contrassegnate dalla colpa, ma orientate al futuro.

Alberto Quattrocolo

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Le due fosse del conflitto

Se vuoi vendicarti di qualcuno scava due fosse (massima attribuita in maniera probabilmente arbitraria a Confucio)

Quante volte accade di mettere in rilievo che nel conflitto convivono aspetti etero-distruttivi e aspetti auto-distruttivi? E quante volte capita anche di accorgersi che questi secondi aspetti non bastano a dissuadere i protagonisti del conflitto dal farsi una guerra senza esclusione di colpi o, comunque, da investire enormemente in esso. Si tratta di investimenti in termini di tempo, di energie, di denaro, e in termini emotivi e affettivi. Investimenti compiuti, e magari ripetuti con frequenza pressoché quotidiana, da ciascun protagonista, con il fine di acquisire o mantenere il controllo sulla conduzione del conflitto, sul suo sviluppo, così da pervenire alla soluzione più soddisfacente per sé.

Ma il proverbio parla di due fosse. Una per seppellire il nemico battuto e l’altra per sé, perché non sarà il nemico il solo ad aver bisogno di sepoltura. Ricorda, cioè, quel proverbio, che il controllo sul conflitto non ce l’ha nessuna delle parti. Ce l’ha il conflitto stesso. E le due fosse si scavano in contemporanea, forse senza neppure accorgersene.

Ma il proverbio pone in rilievo anche un’altra possibilità: che si sappia che si stanno scavando due fosse, di cui una per metterci dentro e ricoprire il nemico e l’altra per noi. Lo sappiamo e ci sta bene così. Lo accettiamo. Infatti, non è raro nell’esperienza di chi si occupa di mediazione familiare, di mediazione penale o di mediazione sanitaria (per fare solto tre esempi), di riscontrare come nelle parti in conflitto vi sia una certa lucida consapevolezza circa i costi di quel conflitto che rilanciano di continuo. Avvisate degli effetti auto-distruttivi delle loro scelte e delle loro azioni, non li hanno ignorati, ma accettati, con una determinazione assoluta che non ammette cedimenti né esitazioni.

Perché?

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Perché, tante volte c’è in gioco qualcosa di così centrale e fondamentale che non vi è alcuna riluttanza a investire tutto quel che si ha (affettivamente, emotivamente, economicamente…) nel conflitto. Inoltre, è raro che le persone in conflitto pensino a se stesse come mosse da spirito vendicativo. Più spesso, si rappresentano come animate dal bisogno di ottenere soltanto ciò che è giusto.

Altre volte, può accadere che gli attori del conflitto ritengano che, in ogni caso, a prescindere da quale sarà l’esito delle ostilità, vi saranno due fosse da scavare: che si sia determinati a tentare di vincere o si sia disposti a lasciar perdere, che ci si arrenda o si combatta, si pensa che non cambierà nulla, perché quel quid, per loro vitale, è già in gioco e forse addirittura ha il destino segnato o è già irrecuperabilmente perduto.

In tali situazioni, un appello alle istanze auto-conservative degli attori del conflitto, un richiamo alla questione delle due fosse, può non sortire l’effetto di un contenimento dell’escalation. Anzi, il più delle volte si rivela una mossa sterile e perfino controproducente .

Il coniuge, che per le delusioni sofferte è giunto a detestate l’ex partner  e che vede in lui/lei un genitore totalmente inadeguato, potrebbe risultare sordo ad ogni richiamo a riflettere sul fatto che, con il proprio ostinato rancore, sta scavando due fosse – e, forse, anche più di due. Analogamente, per stare in ambito sanitario, possono non rispondere ad appelli accorati alla tutela del propri interessi il paziente, se persuaso di aver subito un danno per colpa della negligenza o dell’imperizia di chi lo ha curato, da un lato, e il professionista della salute, che si dichiara indisposto a cedere di un millimetro di fronte a chi lo accusa di essere responsabile moralmente, e non solo legalmente, di “malasanità”.

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Pensando a queste situazioni e ai tanti casi gestiti, non si contano le volte in cui come mediatori ci si è trovati davanti  a persone alle quali la prospettiva di dover scavare due fosse non induceva esitazioni, quasi come se ci fosse stata un’accettazione permeata di orgoglio.

Per tale ragione, e per rispetto anche dei sentimenti e dei valori, dei principi e degli argomenti, che ciascun attore del conflitto nutre o coltiva in sé, nella prospettiva di Me.Dia.Re. la mediazione non è proposta come soluzione più economica o meno rischiosa per i propri interessi. Anzi, in tali casi, si spiega che il percorso di Ascolto e Mediazione può essere l’occasione per ottenere alcune soddisfazioni importanti, come quei riconoscimenti profondi dei vissuti di ingiustizia, che la giustizia formale non sempre può procurare, non essendo deputata a realizzare tale particolari compiti sul piano relazionale.

Alberto Quattrocolo

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Tipologie di conflitto e senso di riconoscimento

Il concetto di conflitto, per quanto latente, è parte concreta di gran parte delle teorie sociologiche: impossibile riportare tutte le riflessioni circa queste intersezioni relazionali, ma è plausibile orientare il focus su alcuni aspetti propri del conflitto, e legati, particolarmente, all’etá moderna in senso più ampio.

Le riflessioni di Jürgen Habermas, ad esempio, si muovono in questa direzione, e possiamo rileggerle sottoponendole al filtro della globalizzazione: vi troveremo espresse tipologie di conflitti che definiamo di “prima generazione”, tra gruppi o strati, oppure classi sociali, che, malgrado tutto, mantengono un senso di legittimità, mentre un’altra tipologia di conflitto va ricercata all’interno della socializzazione, dell’integrazione sociale e della riproduzione culturale, oltre i problemi di redistribuzione delle risorse materiali, per coinvolgere la grammatica delle forme di vita. Si tratta di quelli che possiamo definire di “seconda generazione”, cioè i conflitti di quartiere, di vicinato, familiari, scolastici, inter-culturali, di ambiente, legati al lavoro, etc.

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Se la tecnologia, frutto della ricerca avanzata “spoliticizza” l’individuo, mentre lo stato moderno impone le sue “esigenze sistemiche” sopra i mondi vitali degli uomini, occorre pensare a nuove metodologie interpersonali che affranchino il cittadino dalla passività e lo rendano attore di un “agire comunicativo”, in cui i singoli si sentano “partecipanti ad un discorso pratico”. La modernità prende, quindi, le mosse da una ragione universale che rende possibile la comprensione fra mondi vitali, ossia fra idee, discorsi e contenuti che ruotano attorno a individui o a gruppi di individui. Nella volontà di comunicare universalmente è custodito l’ideale etico della politica in cui confida Habermas anche quando, superati i conflitti sociali dovuti alla distribuzione della ricchezza, si aprono quelli relativi alla “grammatica delle forme di vita”, cioè i nuovi conflitti riguardanti le qualità della vita: l’ambiente, la salute, le culture e la partecipazione sociale“, quelli poc’anzi definiti come conflitti di “seconda generazione”.

Fondamentali risultano i bisogni di riconoscimento e legittimazione della società.

Axel Honneth fornisce ulteriori riflessioni sull’argomento: il conflitto sociale, attraverso la positività delle lotte da esso prodotte, può fornire un possibile contributo al progresso normativo.

Honneth considera compresenti le dinamiche di conflitto e progresso attraverso il concetto di riconoscimento.

È sul piano della lotta per il riconoscimento individuale e collettivo che da un contrasto, da un conflitto, possono svilupparsi le premesse per un progresso normativo e sociale.

Honneth considera che tanto il conflitto tra gruppi, quanto quello tra due soggetti presi individualmente, produca un potenziale di apprendimento pratico-morale, in quanto i soggetti sociali, all’interno di quei conflitti, risulterebbero consapevoli della propria dipendenza reciproca e del destino incrociato delle loro identità individuali.

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Nelle situazioni di violazione dell’integrità delle persone, la negazione di questa è una mancanza o rottura di rapporti di reciproco riconoscimento.

Avremo, per Honneth, diverse forme di affronto, a seconda del tipo di offesa: quando interessa l’integrità fisica (maltrattamenti fisici, lo stupro, cioè l’interruzione a livello corporeo della continuità del sé); se si tratta di una forma di umiliazione che colpisce la comprensione normativa di sé di un individuo (lo spregio della privazione del possesso di un diritto o un’emarginazione sociale); se determina uno svilimento di modi e ideali di vita individuali, oppure collettivi (considerati inferiori, difettosi, così che si nega al portatore di farvi riferimento e di auto-realizzarsi, di comprendersi come essere apprezzato nelle sue qualità e capacità peculiari).

Honneth, oltre all’antropologia più negativa, con gli effetti dell’umiliazione e dello spregio, contrappone ai tre modelli di violazione, altrettanti modelli positivi di reciproco riconoscimento, cioè possibili autorealizzazioni di soggetti sociali nella loro singolarità: rispettivamente all’amore, al diritto, e alla solidarietà, corrispondono i sentimenti sociali della fiducia in sé stessi, dell’auto-rispetto e dell’autostima, sentimenti nascenti all’interno di altrettanti riconoscimenti intersoggettivi.

Al termine di questo breve viaggio, il tratto che accomuna queste brevi riflessioni è rappresentato dalla comunicazione, in ognuna delle sue possibili forme: essa costituisce un discrimine fondamentale tra conflitto e facilitazione dell’integrazione sociale. Proprio su questo terreno, ricco di asperità e contrasti, e sulla cura della comunicazione stessa può agire, concretamente, la mediazione.

Paolo Ghiga

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Società e comunicazione

Viviamo una società ad alto rischio conflittuale, dove nessuno risulta immune da questa endemica e fisiologica “piaga” relazionale: le circostanze che illudono circa l’elusione di più drammatiche situazioni presentate quotidianamente dai notiziari, costituiscono una labile ed illusoria convinzione: il mattino successivo può presentarci il conto, bloccati dalla coda al semaforo, per recarci al lavoro, oppure in attesa presso un ambulatorio medico, o ancora con il nostro/a partner dopo una banale incomprensione di coppia.

I conflitti si presentano, prima o poi, in ogni relazione, sia questa tra persone, gruppi, piuttosto che tra organizzazioni e stati, e questo è un dato di fatto inconfutabile, oltre che una situazione inevitabile.

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Un esempio, tra le migliaia possibili, giunge dal cinema, con una pellicola ormai datata, figlia dell’allora postmodernismo e non già dell’attuale società liquida teorizzata da Bauman, intitolata Prigioniero della Seconda Strada, del 1975, protagonisti Mel (Jack Lemmon) e Edna (Anne Bancroft): è la storia di un ordinary man, con tanto di moglie adorabile e due figlie iscritte al college, con un buon impiego d’ufficio ed un appartamento confortevole. Un uomo che si direbbe realizzato: improvvisamente Mel precipita nel vortice incandescente del conflitto, dell’alienazione sociale, dapprima per futili motivi (quelli che spesso sottendono motivazioni più profonde), in una escalation che si fa, via via, sempre più coinvolgente.

La comunicazione è uno dei focus principali del film: nel caso di Mel si è trasformata in ostinato mutismo fatto di silenzi smarriti, un solipsismo iroso e becero che lo ha sospinto ai margini prima della famiglia, nel rapporto sempre più complicato con la moglie Edna, e poi della società.

Smarrita la capacità di comunicare, il contatto con la società, e, soprattutto, venuto a mancare il senso di riconoscimento da parte dell’altro, tutto è rimesso in discussione da una vampa improvvisa che fa terra bruciata intorno a sé, rendendo Mel estraneo al mondo sociale.

Quando la comunicazione, la capacità di relazionarsi a 360°, si deteriora, si interrompe, il rischio dell’isolamento, del possibile conflitto sociale, è più frequente di quanto si creda.

Grazie alla comunicazione, infatti, siamo in grado di essere parte attiva della società, anche se comunicare appare, nell’era virtuale dei social media, paradossalmente, sempre più complesso.

Innumerevoli gli studi condotti intorno alla comunicazione: seminale fu il lavoro di Watzlawick, Beavin e Jackson, tre ricercatori del Mental Research Institute (MRI) di Palo Alto, California, che ipotizzarono, nel testo Pragmatica della comunicazione umana edito nel 1966, che i rapporti interattivi fra individui siano determinati, essenzialmente, dai tipi di comunicazione che essi utilizzano tra loro.

Essi sostennero due tesi: secondo la prima, il comportamento patologico inteso come nevrosi, psicosi e in genere le psicopatologie, non esiste nell’individuo preso singolarmente, ma si tratta di un tipo di interazione patologica tra individui.

La seconda tesi sostiene, invece, come, attraverso lo studio della comunicazione, sia possibile individuare delle “patologie” della comunicazione e dimostrare che, in realtà, sono quest’ultime a produrre le interazioni patologiche.

Nel testo troviamo anche i cinque assiomi della comunicazione, che delimitano il terreno d’azione della comunicazione umana.

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Interessanti, ai fini dell’aspetto conflittuale della comunicazione, le riflessioni circa le relazioni basate sull’uguaglianza (la simmetria) o sul suo contrario, la differenza (l’asimmetria): l’interazione simmetrica è definita dall’uguaglianza e dalla minimizzazione della differenza, mentre il processo opposto caratterizza l’interazione complementare.

Il contesto sociale e culturale, ove ognuno potrebbe comportarsi in un certo qual modo tale da instradare il comportamento dell’altro, gioca un ruolo molto importante nel guidare queste relazioni (medico-paziente, genitore-figlio, insegnante-allievo, …).

I tre scienziati delinearono procedimenti pragmatici (comportamentali) che permisero di intervenire nelle interazioni e di modificarle.

Altra teoria, che attinge, in qualche misura, al lavoro dell’équipe di Palo Alto, è la Teoria dei sistemi, branca della teoria generale dei sistemi e concepita negli anni ’80 da Niklas Luhmann, e che mira alla comprensione della natura e del funzionamento della realtà sociale. Consiste nello sviluppo di un discorso sociologico in grado analizzare qualsiasi aspetto della realtà sociale: dalla singola interazione, passando per i gruppi organizzati, fino a quella complessa società che troviamo nella nostra epoca.

Alla base della teoria vi è il concetto di “sistema”. Secondo Luhmann un sistema è un insieme di operazioni o elementi collegati fra di loro grazie a criteri già prestabiliti o in base a programmi dotati di una certa autonomia. Uno degli assunti principali della teoria dei sistemi sociali è che i sistemi conservano la propria autonomia rispetto all’ambiente in cui operano. Esistono vari tipi di sistemi, i sistemi biologici, od organici, i sistemi psichici ed i sistemi sociali, che sono costituiti dalla comunicazione, come singole interazioni comunicative, organizzazioni o addirittura società.

Nella teoria dei sistemi sociali la comunicazione è costituita da tre processi: l’atto comunicativo, o azione, da parte di un soggetto (emissione), l’osservazione, o comprensione, di questo atto da parte di un altro soggetto (comprensione), e  infine l’informazione riguardante un contenuto di senso che l’atto comunicativo ha trasmesso, intenzionalmente, a chi l’ha osservato.

La comunicazione risulta essere, quindi, l’insieme delle relazioni che sussistono e si sviluppano negli individui, tra di loro e verso l’ambiente naturale dove vivono.

In questa visione i sistemi sociali sono dunque reti (o processi) di comunicazioni, intrecciate fra loro ed anche, di conseguenza, a rischio conflitto. La realizzazione di tali processi va incontro, però, a due problemi importanti, presenti in tutti i sistemi sociali: il primo problema consiste nell’errata interpretazione dell’atto comunicativo, o addirittura nella mancata interpretazione di tale atto.

Il secondo problema consiste nella mancata osservazione di quell’atto da parte di chi dovrebbe riceverlo. Questo è un problema che potrebbe essere risolto dalla «compresenza fisica» del soggetto con cui stiamo comunicando.

Secondo Luhmann tutti i sistemi sociali si situano in un «ambiente»: esso è tutto ciò che non fa parte del sistema.

Ecco come l’ambiente e la società sono legate a filo doppio dalla comunicazione, unico vero strumento di comprensione e discrimine per monitorare la possibile conflittualità umana. La mediazione, allora, strumento che si declina sulla comunicazione, rappresenta una chiave di volta all’interno della contrapposizione dicotomica società-conflitto sociale.

Paolo Ghiga

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Assassinio di Pino Puglisi il 15/09/1993

La sera del 15 settembre 1993, nel suo 56º compleanno, viene ucciso davanti al portone di casa don Puglisi, parroco del quartiere palermitano di Brancaccio: qualcuno lo chiama per farlo voltare, mentre qualcun altro gli scivola alle spalle esplodendogli uno o più colpi di pistola alla nuca. Una vera e propria esecuzione mafiosa.

Padre Pino Puglisi, “3P” per gli amici, per gli abitanti del quartiere “u parrinu ch’i cavusi” – il prete con i pantaloni – per l’abitudine di non indossare l’abito talare, era stato ordinato prete nel 1960 e dalla fine degli anni Settanta aveva rivestito numerosi incarichi in ambito educativo: pro-rettore in seminario, responsabile del Centro Vocazioni a livello locale e nazionale, docente di matematica e religione presso varie scuole, animatore presso Azione cattolica e Fuci.

Nel settembre 1990 torna a esercitare il presbiterato presso la parrocchia di San Gaetano, nel natio quartiere di Brancaccio, all’epoca dominato dalla famiglia mafiosa Graviano, legata ai Bagarella. A chi gli obietta che è pericoloso, risponde scherzando:

E come potevo rifiutare? Sono diventato il parroco del papa”: Il Papa è il soprannome di Michele Greco, capo di Cosa Nostra dalla fine degli anni Settanta.

In quella zona periferica di Palermo, dove “si fa prima a dire quello che c’è, tutto il resto manca”, Don Pino si impegna su più fronti, partendo dall’educazione dei bambini: bisogna promuovere l’alfabetizzazione e creare campi scuola, in un territorio dove, all’indomani della strage di Capaci, i ragazzini gridavano per le strade “Abbiamo vinto! Viva la mafia!”.

Nasce così il Centro Padre Nostro per la promozione umana e l’evangelizzazione, un luogo dove accogliere i giovani per strapparli alla criminalità: Don Puglisi toglie dalla strada minori che, senza il suo aiuto, sarebbero risucchiati dalla vita mafiosa e impiegati per piccole rapine e spaccio. Egli non tenta di portare sulla giusta via coloro che sono già entrati nel crimine organizzato, ma cerca di non farvi entrare i bambini che vivono per strada e considerano i mafiosi degli idoli: attraverso attività condivise e ludiche, fa capire loro che si può ottenere rispetto senza essere criminali, semplicemente per le proprie idee e i propri valori.

Come scrisse Alessandro d’Avenia, anticipando il venticinquennale dell’omicidio,

La sua battaglia è tanto semplice quanto pericolosa: ridare dignità ai giovanissimi attraverso il gioco, lo studio, la catechesi, prospettando loro una vita diversa da quella del “picciotto mafioso”. La mafia alleva il suo esercito tenendo la gente nella miseria culturale e assicurando il sufficiente benessere materiale, condizioni che riescono a garantire un consenso indiscusso nei contesti da cui attinge. Don Pino ne inceppava dall’interno il meccanismo, ripetendo a bambini e ragazzi di andare “a testa alta”, perché la dignità non è un privilegio concesso da qualcuno, ma dono connaturato al nostro essere qui, voluti dal Padre Nostro e non dal Padrino di Cosa Nostra.

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Don Puglisi si impegna anche come cittadino per la riqualificazione del quartiere, promuovendo la creazione di un centro sanitario, la sistemazione delle fogne, la costruzione di una scuola media. Ma quel prete è soprattutto un profondo innovatore della sua chiesa, in un percorso mirato all’apertura e non alla chiusura, alla libertà e non alla paura: decide di non accettare le donazioni dei privati per le feste patronali – soldi provenienti dai clan mafiosi -, organizza incontri per discutere del rapporto tra Chiesa e mafia, rifiuta come padrini di battesimo uomini legati alle cosche, apre la chiesa ai non battezzati e inizia a dire messa all’aperto. Si rivolge spesso ai mafiosi durante le omelie, a volte anche sul sagrato della chiesa, denunciandone i crimini, senza tuttavia dimenticare il perdono: se infatti la mafia come struttura è peccato ed è da condannare, il mafioso come singolo è un peccatore, e per lui il perdono cristiano è possibile.

Racconta il suo assassino, Salvatore Grigoli, in seguito condannato all’ergastolo per questo e altri 45 omicidi:

Cosa Nostra sapeva tutto. [Che andava] in Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e fare requisire gli scantinati di via Hazon. Sapeva del Comitato intercondominiale, delle prediche. C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare.

Il piccolo e mite prete comincia a dar fastidio. Lavora in silenzio, non fa clamore, non va sui giornali, ma scava nelle coscienze, costruisce legami, apre prospettive diverse. Cominciano allora gli “avvertimenti”: una ad una vengono incendiate le porte di casa dei membri del comitato, poi le minacce, sempre più dirette, e il pestaggio di un ragazzo del Centro. Ma ad ammazzare un prete, fino ad allora, la mafia non si era ancora spinta.

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Mandanti dell’omicidio furono i capimafia Filippo e Giuseppe Graviano, condannati all’ergastolo, rispettivamente nel 1999 e nel 2001, così come i componenti del commando che aspettò sotto casa don Pino. Lo uccisero per rabbia, per paura, per invidia, perché dall’altare li aveva chiamati animali, perché “si portava i picciriddi cu iddu”; ai killer disse soltanto:

Me l’aspettavo”.

Nella motivazione della sentenza della Corte d’Assise di Palermo si legge che, per il gruppo criminale dominante sul territorio, don Puglisi era diventato una spina nel fianco in quanto elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso, conservatore, opprimente che era stato imposto nella zona; appariva intollerabile che egli avesse scelto di schierarsi, senza ambiguità, dalla parte di deboli ed emarginati, appoggiando senza riserve i progetti di riscatto provenienti da cittadini onesti, che coglievano l’ingiustizia della propria emarginazione e intendevano cambiare il volto del quartiere, desiderosi di renderlo più accettabile, accogliente e vivibile.

Nel 2013 padre Pino Puglisi viene beatificato per il martirio “in odium fidei”: vi si arriva dopo non poche difficoltà, perché i mafiosi venivano ancora riconosciuti come battezzati e avevano sempre mostrato deferenza verso la Chiesa, anche se potevano essere considerati peccatori quando commettevano il male. Sul piano ecclesiale si manifesta una certa riluttanza a dire apertamente che è stato ucciso da Cosa Nostra, e sulla lapide murata dentro la chiesa di Brancaccio la parola mafia non viene scritta. Il suo assassinio rischiava di essere una morte fuori dalla storia, decontestualizzata; dichiarare ufficialmente martire Puglisi, invece, per molti credenti appare come un gesto di rottura nei confronti dell’indifferenza tenuta da un certo mondo cattolico ufficiale nei confronti della mafia, come un sottolineare che essa è incompatibile con il vangelo e la questione mafiosa non riguarda solo lo Stato e la società civile.

Nel 2015 gli viene conferita alla memoria la medaglia d’oro al valor civile.

A don Pino interessava non la salvezza astratta dell’anima, ma la salvezza dell’uomo nella sua integrità di essere corporeo e spirituale inserito in un contesto storico e in un territorio. Gian Carlo Caselli, all’epoca dei fatti Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, ha rilevato:

Don Pino Puglisi ha messo in crisi la criminalità organizzata non soltanto per la sua bontà, ma perché ha inteso e vissuto la legalità come giustizia. Giustizia che esce dalle pagine del codice, per cercare chi è in strada, chi è più solo, per incontrare i minori a rischio di devianza e di abbandono, per farsi carico di queste povertà offrendo loro alternative possibili. […] Chi ha sbagliato o è a rischio si vede sempre più spinto verso spirali di ulteriori errori, mentre noi – gli altri, i buoni – tendiamo a separarci rigidamente dai cattivi fino a difendere la nostra sicurezza con una legalità che può sconfinare nello stesso linguaggio di chi sbaglia: la violenza.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.wikipedia.org;
“Atti dei processi” e don F. M. Stabile, “Puglisi, un santino?”,  www.beatopadrepinopuglisi.it;
A. d’Avenia, “A testa alta”, www.corriere.it;
www.it.gariwo.net;
www.archivioantimafia.org;
www.ildialogo.org;
B. Stancanelli, “A testa alta”, Einaudi.