«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara»: potrebbe essere questo il sottotitolo della controversa, pluripremiata e famosissima, opera seconda di Micheal Cimino, Il cacciatore (The Deer Hunter), che uscì nelle sale italiane l’8 dicembre del 1978. Tutti i personaggi del film, infatti, sembrano avere dei problemi nel rapportarsi con le loro emozioni e con i loro sentimenti. Questa difficoltà di stare in contatto con il loro mondo interiore, di pensare a ciò che provano, li porta a mettere direttamente in atto, senza il filtro della ragione, i sentimenti ele emozioni, cioè, appunto ad agirli. E, poiché ciò genera esiti distruttivi e autodistruttivi, neppure col senno di poi consapevolizzati, viene da chiedersi se non fosse questo il modo con cui Cimino intendeva “denunciare” a modo suo la guerra del Vietnam. Una guerra vista, quindi, non soltanto come conseguenza di una politica sbagliata e omicida, ma come concretizzazione di una scarsa propensione di un intero popolo all’ascolto di sé, come sanguinoso esito di una profonda difficoltà nazionale nel portare le emozioni a livello del pensiero. L’adesione entusiastica o rassegnata al conflitto vietnamita, pertanto, non sarebbe che il risultato di una tendenza diffusa nei cittadini americani a tradurre sentimenti e pulsioni in irriflessive azioni.
Ma, forse, anche questa chiave di lettura è un agito, l’esplicitazione inconsapevole di un’acritica ammirazione per il regista da parte dell’autore del post.