Tristezza (“per favore, vai via”)

Pressoché impossibile non conoscere, o non avere mai sentito, almeno una volta, questa canzone cantata da Ornella Vanoni.
Come anche impossibile non avere mai sentito o pronunciato i seguenti “modi di dire”:

“Su con il morale”
“Non essere triste”
“Non piangere, solo i deboli piangono”
“Non voglio vederti triste”

Sono, infatti,  solo un piccolo esempio di frasi che ci sentiamo dire o che noi stessi diciamo ad altri, quando il sentimento della tristezza prende il sopravvento.
Nella nostra società, il parlare di tristezza o il fare discorsi “tristi” è, molto spesso, additato e tacciato come sintomo di debolezza e, quasi istintivamente, la prima cosa che facciamo, quando vediamo qualcuno triste, è cercare di confortarlo, di fare in modo che possa allontanare da sé quell’emozione, come se il provare tristezza fosse sempre deprecabile, sbagliato e deleterio per sé e per gli altri.
Generalmente, questa emozione ci coglie impreparati e facciamo fatica a comprendere la sua funzione  di traghettarci da uno stato emotivo all’altro.
L’errore più comune che tutti, o quasi, facciamo, è quello di vedere la tristezza e la felicità come due emozioni contrapposte, molto distanti nel loro modo di essere vissute e quindi manifestate.

Tristezza ed empatia

In uno studio condotto da Paul Zak, neuro-economista americano,  venne dimostrato che la tristezza, il dolore e la felicità arrivano dalle stesse aree emotive.
Secondo questo studio, si arrivò ad affermare che il cervello, quando si trova in uno stato di “tristezza emotiva”, produce determinate reazioni neurochimiche.
Ai partecipanti a quell’esperimento fu chiesto di guardare un video dove si parlava della storia di un ragazzo malato di cancro: la cosa singolare  fu che i partecipanti, che si immedesimavano nella storia e che, quindi, provavano tristezza, oltre al cortisolo che è definito come “l’ormone dello stress”, producevano anche ossitocina, ossia un ormone prodotto dalla neuroipofisi, conosciuto anche come “ormone dell’amore” e, più erano alti i livelli di ossitocina, che erano stati innescati dalla visione del filmato, e più coloro che avevano partecipato all’esperimento erano disposti a fare donazioni.
Lasciando da parte le implicazioni di questo esperimento in ambito di marketing pubblicitario, appare evidente come un aumento di questo ormone possa renderci più generosi e, quindi, maggiormente aperti e fiduciosi verso il prossimo e, considerato che quando si prova tristezza vi sia anche la produzione dello stesso, si può facilmente arrivare alla conclusione che questa emozione possa essere favorente le relazioni e l’empatia.
Chi ha visto il film della Disney “INSIDE OUT”, si ricorderà certamente la scena in cui il personaggio Tristezza seduto accanto a Bing Bong, l’elefante rosa amico immaginario di infanzia della protagonista umana della vicenda, non cerchi di consolarlo, di allontanare da lui il sentimento di dolore e di tristezza che sta provando, ma si metta in ascolto, empaticamente, “semplicemente” riconoscendogli lo stato emotivo di quel momento.
Atto, questo, capace di “risollevare” Bing Bong che, asciugate le lacrime, ricomincia la sua marcia.
Il ruolo del personaggio “tristezza” si rivelerà essenziale e strategico, all’interno dell’intero film, per la vicenda narrata, lasciando favorevolmente sorpresi gli spettatori.

Quale è la funzione che possiamo attribuire all’emozione della tristezza?

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Durante l’analisi delle sette emozioni universali (si vedano il post Si fa presto a dire “emozioni”: la paura nella mediazione, pubblicato nella rubrica Riflessioni, e i video-post di Note di mediazione dedicati alla paura e alla rabbia), abbiamo potuto vedere come la paura ci serva poiché ci rende prudenti dinnanzi ai pericoli, la rabbia ci serva per fare fronte alle avversità, ma cosa possiamo dire al riguardo per quanto concerne la tristezza?
Possono essere molteplici le funzioni di questa emozione.
Come prima cosa, quando la proviamo, determinati atteggiamenti e caratteristiche tipiche del nostro volto e della nostra postura, ci aiutano a mandare un segnale in tal senso, a fare capire agli altri che qualcosa non va, attivando una vera e propria “richiesta di aiuto”.
La tristezza, inoltre, ci porta a contatto con la nostra intimità, ci fa scendere in profondità nel nostro “io”, aumentando la consapevolezza di ciò che ci circonda.
Questo sentimento, serve ad aumentare il nostro senso di realtà; un uomo incapace di provare tristezza e, quindi, di riconoscerla, rischia di essere “non umano”.
A volte, provare tristezza, può aiutarci a recuperare la calma dopo momenti di forte stress, autoproteggendoci e facendo da ponte tra sentimenti differenti, ma, pur sempre, correlati.

Quali sono i fattori scatenanti la tristezza?

Proviamo tristezza quando subiamo la perdita di qualcuno o di qualcosa che era importante per noi, quando subiamo un abbandono o, perché no, quando siamo costretti ad abbandonare una persona a noi cara o un luogo, quando perdiamo un’opportunità o la salute, oppure se proviamo empatia (qui entrano in gioco i  neuroni specchio di Rizzolati) per la sofferenza, la tristezza, di altre persone.
E’ comprensibile, quindi, come alla base dell’emozione della tristezza, vi sia il fattore scatenante, universale, della perdita.
Quando siamo tristi per una situazione che ci affligge, il nostro corpo reagisce abbassando, se non addirittura spegnendo, l’energia vitale.

La tristezza nella comunicazione non verbale

Ecco perché, il nostro corpo, come già accennato prima, invia segnali ben precisi riguardo al fatto che stiamo provando quel sentimento anziché un altro.

Infatti, nella comunicazione non verbale, è importante saper riconoscere le caratteristiche che riguardano la tristezza, anche in virtù della funzione di “richiesta d’aiuto” che esse svolgono.
Quando si è tristi, si tende a mantenere il corpo chino, con perdita del tono muscolare e le braccia (a penzoloni) in avanti; per quando riguarda le espressioni del viso, si manterrà lo sguardo verso il basso, le palpebre saranno rilasciate e i muscoli caratterizzanti* questa emozione, saranno gli angoli interni delle sopracciglia alzati  e gli angoli della bocca abbassati.
Si avrà, quasi certamente, un nodo alla gola, lacrime, respirazione rallentata, voce con tono più cupo e grave, velocità dell’eloquio rallentata, abbassamento del volume e della frequenza, voce tremante e singhiozzante (qualora vi sia anche il pianto); si faranno lunghe pause con ritmo rallentato e finale delle parole “smorzato”; si intercaleranno avverbi di giudizio negativi quali “purtroppo”, “che peccato.”
Anche la tristezza, come tutte le emozioni che proviamo, fa parte della nostra salute emotiva ed è attraverso l’equilibrio dinamico di questi sentimenti che passa il nostro benessere.
E’ un’emozione complessa, che ha due possibili strade davanti a sé: la prima volta ad ottenere un aiuto esterno, l’altra ci porta in un percorso di introspezione, funzionale a cercare protezione anche attraverso il recupero delle energie e, quindi, il riposo.

Il mediatore davanti alla tristezza

In virtù di quanto detto fino ad ora, come può il mediatore familiare o il mediatore dei conflitti in altri ambiti “gestire” un utente che in quel momento sta provando tristezza?

Il riconoscimento della tristezza da parte del mediatore

Non di rado, chi si siede davanti a noi mediatori, durante un colloquio, può provare emozioni forti attraverso la narrazione del proprio vissuto, tali da scaturire in pianto e, di quelle lacrime, molte volte l’utente stesso si vergogna, come se, in quel momento, ci mostrasse la sua parte “debole”.
Molte volte, questo capita quando viene fatta una restituzione da parte del professionista e viene riconosciuto uno stato d’animo che la persona prova sì in quel momento, ma che è stato stimolato da un ricordo legato ad una perdita, un abbandono, un dolore che si ripresenta ogni qual volta si vanno a toccare precise corde emotive.
Come sappiamo, il principale strumento di lavoro del mediatore è l’ascolto empatico (si vedano al riguardo moltissimi post della rubrica Riflessioni, tra i quali Perché “Ascolto e Mediazione” e non soltanto “Mediazione”?, nonché molte delle tesi pubblicate sulla rubrica Tesi dei Corsi di Mediazione Familiare, tra le quali laTesi di Tiziana Petiti: L’ascolto attivo, il silenzio e il riconoscimento come elementi della mediazione familiare) e, per questo motivo, sarà pressoché impossibile che un’emozione così articolata, ma ben evidente, come la tristezza, non venga riconosciuta e rispecchiata dal professionista.
Accettando ed accogliendo la sua manifestazione emotiva, senza giudicarla e senza proporgli una soluzione, verrà meno la sensazione di disagio e di vergogna che la persona può provare nel condividerla.
Sarà, quindi, attraverso il suo riconoscimento che verrà assecondata la richiesta di aiuto esterno che ci viene fatta da chi la sta provando.
Lisa M.Schab sostiene che piangere è il modo naturale che il corpo possiede per liberare la tristezza, poiché gli ormoni dello stress vengono espulsi, proprio, attraverso le lacrime.
Va ricordato, però, che il pianto può manifestarsi anche quando si provano altri sentimenti, quali la rabbia, la gioia, la sorpresa.

La riformulazione, da parte del mediatore, della tristezza ascoltata

Si è parlato di un secondo modo di manifestare la tristezza, ossia l’introspezione e l’isolamento.
Questa strategia è funzionale al “risparmio energetico”, all’autoprotezione in vista di un recupero delle energie in attesa di essere “traghettati” verso un’altra emozione.
Quando il mediatore si trova davanti a questo secondo tipo di tristezza (a patto che la chiusura non sottenda a stati emotivi patologici come la depressione maggiore, che perdura nel tempo, stato dal quale non si riesce ad uscire e che nulla ha a che fare con il carattere passeggero della “tristezza sana”, o ad altre patologie psichiatriche, quali, ad esempio, il bipolarismo, che necessitano di essere attenzionate e valutate ulteriormente),  attraverso la tecnica del reframing, ossia la riformulazione di quanto viene detto dall’utente, può fare in modo che venga rispecchiato, in chiave dinamica e creativa, il vissuto portato dalla persona stessa, così che possa essere stimolata a riconsiderare l’evento scatenante e le sue conseguenze in maniera propositiva e non rimuginando sul dolore stesso in maniera statica e stagnante.
Sarà estremamente importante che il professionista riesca e mantenere il giusto “distacco” mentre  ascolta empaticamente l’utente, poiché il lasciarsi coinvolgere troppo e quindi scendere nello stato emotivo della persona ascoltata, sarebbe disfunzionale all’ascolto stesso, poiché si potrebbe correre il rischio di fare venire meno il principio della neutralità.

La tristezza è cosa seria, maneggiamola con cura!


Daniela Meistro Prandi

Fonti:
-“Il cuore nella mente” Diego Ingrassia (2018)
-“Why your brain loves good storytelling”, in Harward Busines Review (2014), Paul J. Zak
– “The Bulimia Workbook for Teen”, Lisa M. Schab

*Per muscolo caratterizzante si intende un movimento muscolare caratteristico di quella precisa emozione, non riscontrabile in altre.

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