Solo 12 professori universitari, su oltre 1200, rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo

Il 28 agosto di 88 anni fa Mussolini imponeva ai professori universitari di giurare fedeltà al fascismo e di educare alla devozione al Regime

Venne introdotto con il regio decreto legge del 28 agosto 1931 l’obbligo di giurare fedeltà al fascismo.

Cosa chiedeva di giurare quel decreto del 28 agosto di 88 anni fa?

«Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante ed adempiere a tutti i miei doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti la cui attività non si concilii con i doveri del mio ufficio».

Non fu un fulmine a ciel sereno. Quel provvedimento, convertito in legge in ottobre – la n.1227 (pubblicata l’8 ottobre dello stesso anno sulla Gazzetta Ufficiale) -, rientrava in una precisa strategia di fascistizzazione dello Stato e della società italiana da parte di Mussolini (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, l’abbiamo rievocata nel post Verso uno Stato etico, religioso e sociale, che, dalla marcia su Roma del 1922 (l’abbiamo ricordato qui) era a capo del Governo ed era arrivato a mettere fuori legge e perseguire (e perseguitare) tutti i partiti le associazioni e i movimenti politici e sindacali che non fossero fascisti [1].

L’obbligo del giuramento dei professori universitari faceva parte del programma di fascistizzazione dello Stato e degli italiani

Il 26 maggio 1927 alla Camera, Mussolini aveva pronunciato un discorso destinato a fare (“tristemente”) epoca (lo abbiamo ricordato nel post Quel discorso dell’Ascensione che andava preso sul serio):

«In Italia non c’è posto per gli antifascisti; c’è posto solo per i fascisti, e per gli a-fascisti quando siano cittadini probi ed esemplari».

Tra i vari provvedimenti volti a togliere la libertà agli italiani (molti rientranti nel pacchetto di norme che furono denominate “leggi fascistissime”, che abbiamo affrontato nel post Le prime leggi fascistissime) vi è un importante antecedente di quella sul giuramento di fedeltà al fascismo per i professori universitari: è il decreto legge del 24 dicembre del 1925 riguardante tutti i funzionari statali, insegnanti inclusi, applicando il quale vennero allontanati dall’insegnamento, perché non allineate con il fascismo, più di 500 persone, tra presidi, professori e maestri delle elementari[2].

È in questo contesto che si colloca il regio decreto legge del 28 agosto del ’31.

I dodici che dissero di no

Dodici professori ordinari su 1.250 rifiutarono di piegarsi al duce. Quei dodici perdettero la cattedra e la libertà personale, ma non quella del pensiero, della coscienza, non la coerenza con se stessi e i loro valori. E non la dignità.

Erano:

Ernesto Bonaiuti, professore di cristianesimo all’Università di Roma, già allontanato dall’insegnamento prima del Concordato, a causa della scomunica avvenuta nel 1926 per aver difeso il movimento Modernista, nel rifiutarsi di giurare fedeltà alla dittatura fascista si richiamò al rifiuto evangelico. Ciò lo ridusse quasi in miseria e lo sottopose al costante controllo della polizia segreta fascista. Era nato a Roma nel 1881 e vi morì un anno dopo la Liberazione[3].

Mario Carrara, medico legale e docente all’Università di Torino. Era nato a Guastalla nel 1867 ed era presto divenuto uno dei padri della medicina legale italiana, succedendo a Cesare Lombroso, di cui sposò la figlia, Paola[4]. Nell’autunno del 1931, avendo rifiutato di giurare fedeltà al duce, Carrara fu escluso da tutte le cariche pubbliche e nell’ottobre 1936 fu arrestato e imprigionato nelle carceri Nuove di Torino, per attività contro il regime fascista. In carcere continuò a scrivere un Manuale di medicina legale, finché morì nel giugno 1937.

Gaetano De Sanctis, docente di storia antica all’Università di Roma, dov’era nato il 15 ottobre del 1870, visse e insegnò a Torino dal 1900 al 1929, e nella prima capitale del Regno iniziò il suo impegno politico come cattolico, che lo portò a candidarsi nel 1919 e nel 1923 nelle fila del Partito Popolare, non venendo eletto[5]. Nel ’31, nonostante le pressioni della Chiesa, perfino di Pio XI, che mandò padre Agostino Gemelli a conferire con lui, De Sanctis, comunicò al ministro dell’Educazione Nazionale, Giuliano, la sua intenzione di non giurare: «Il mio atto non vuole avere alcuna portata e alcun significato politico. È semplicemente un atto di ossequio all’imperativo categorico del dovere».

Jacob Benedetto Giorgio Errera, professore di chimica a Pavia, autore di importantissime ricerche nel campo della chimica organica. Era nato nel 1860 a Venezia, si era laureato a Torino, ed era stato docente all’Università di Messina, dove il terremoto del 1908 lo rese vedovo (passò ore sotto le macerie accanto al cadavere della moglie). Divenuto professore a Palermo fu aggredito e gravemente ferito da uno studente che aveva bocciato ad un esame; nel ’23 Giovanni Gentile lo nominò rettore dell’Università di Pavia, ma rifiutò l’incarico non essendo d’accordo con il governo fascista, cioè né «con i principi che lo informano né con i metodi seguiti». Per le stesse ragioni, fu il solo professore della Facoltà di Scienze di Pavia a firmare, nel 1925, il Manifesto degli intellettuali anti-fascisti di Benedetto Croce. A seguito del rifiuto di prestare giuramento al fascismo fu messo anzitempo a riposo[6].

Giorgio Levi Della Vida, orientalista, storico delle religioni, semitista, ebraista, arabista e islamista italiano. Nato a Venezia nel 1886, anche lui, come Errera, Volterra e Luzzato, da famiglia ebrea, laureatosi a Roma, fece viaggi studio ad Atene, a Creta e al Cairo, fu titolare di cattedre al Regio Istituto Orientale, alle Università di Torino e di Roma. Entrò anche nel neo-costituito Istituto per l’Oriente, ma nel ’24 lasciò le sue cariche sociali per non collaborare con il regime fascista, scegliendo invece di collaborare con alcuni giornali per opporsi al regime: Il Paese, quotidiano di Roma (che fu devastato e chiuso dagli squadristi fascisti nel ’22) e La Stampa. Anch’egli come Errera firmò nel ’25 il Manifesto di Croce e nel ‘24 divenne presidente dell’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche. Per il suo rifiuto di piegarsi al giuramento del’31 fu espulso dall’insegnamento universitario. A seguito delle leggi razziali del 1938 si rifugiò negli Stati Uniti, dove andò ad insegnare a Filadelfia all’Università della Pennsylvania[7].

Fabio Luzzato, nato a Udine nel 1870, avvocato e professore di diritto civile all’Università di Macerata e poi insegnante presso l’Istituto tecnico Cattaneo, divenne docente di diritto agrario alla Scuola superiore di agricoltura, a Milano[8]. Sarà anch’egli discriminato in quanto ebreo, a seguito delle leggi razziali fasciste, ma ancor prima per il suo impegno politico, come repubblicano e massone, che lo portò con l’affermarsi del fascismo, ancor prima della marcia su Roma, ad essere tra gli animatori dell’Associazione Italiana per il controllo democratico (con Carlo Rosselli, Filippo Turati, Carlo Sforza e Guglielmo Ferrero), e perciò ad essere sottoposto al controllo della polizia segreta fascista, che lo arresterà nel ’30 rilasciandolo per mancanza di prove[9]. Naturalmente Luzzatto rifiutò di sottostare al giuramento di fedeltà al fascismo. Con l’entrata in vigore delle leggi del ’38 gli fu vietato anche l’insegnamento privato[10].

Piero Martinetti, piemontese (Pont Canavese, 21 agosto 1872 – Cuorgnè, 23 marzo 1943), insegnante in vari licei, tra cui l’Alfieri di Torino, docente di filosofia teoretica e morale all’università di Milano, fu il solo filosofo universitario che rifiutò il giuramento[11]. Nella sua lettera di comunicazione del rifiuto al Ministro dell’Educazione scrisse:

«Così ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio. Ora col giuramento che mi è richiesto io verrei a smentire queste mie convinzioni ed a smentire con esse tutta la mia vita; l’Eccellenza Vostra riconoscerà che questo non è possibile. Con questo non intendo affatto declinare qualunque eventuale conseguenza della mia decisione: soltanto sono lieto che l’E.V. mi abbia dato la possibilità di mettere in chiaro che essa procede non da una disposizione ribelle e proterva, ma dalla impossibilità morale di andare contro ai principî che hanno retto tutta la mia vita».

Bartolo Nigrisoli, medico e professore di chirurgia all’Università di Bologna, nacque nel 1858, quando la sua terra era sotto il Regno della Chiesa, e morì nel 1948. Non avendo adempiuto all’obbligo di giurare fedeltà al duce, venne estromesso dalla cattedra a 73 anni, ma continuò a lavorare nella sua Casa di cura fino ad 82 anni suonati. Amava la verità, amava dirla e pretendeva che anche gli altri facessero lo stesso. «Ma ditele le cose, ma ditele», ripeteva. E, del resto lui le diceva. Come quando, tra le trincee della Prima Guerra Mondiale, a Vittorio Emanuele III, venuto visitare il centro medico di primo soccorso in cui egli opera come tenente colonnello della Sanità, alla domanda del sovrano sul come vanno le cose, rispose con il suo tono bofonchiante:

«Un disastro, Maestà. Qui muoiono tutti…».

Firmò il manifesto antifascista di Croce, e oltre a rifiutare il giuramento di fedeltà al fascismo del ’31, nel 1938 si dimise da tutte le associazioni mediche che praticavano l’epurazione degli ebrei.

Francesco (1863 – 1934) e Edoardo Ruffini (1901-1983). Il primo docente di diritto ecclesiastico a Torino, si dedicò soprattutto allo studio delle libertà religiosa e di altre fondamentali libertà. Ebbe tra gli allievi Arturo Carlo Jemolo, Alessandro Galante Garrone, Piero Gobetti (che fu anche suo editore) e Mario Falco. Era stato nominato senatore del Regno d’Italia nel 1914, e al Senato nel 1925 per tre volte si era alzato a parlare contro l’approvazione delle leggi speciali con cui Mussolini eliminava le principali libertà degli italiani. Sempre nel ’25 aveva firmato il manifesto di Croce. Convinto liberale si era opposto al concordato del ’29 tra Stato e Chiesa. Nel 1928 i fascisti lo aggredirono nell’Università di Torino, ma accorsero a difenderlo alcuni suoi studenti, tra i quali Dante Livio Bianco e Alessandro Galante Garrone. Suo figlio Edoardo Ruffini Avondo divenne docente di Storia del diritto nel 1926 all’Università di Perugia. Come il padre Francesco anch’egli nel ’31 non si prestò al giuramento, ponendo così fine alla sua carriera universitaria. In una lettera con severa onestà e franchezza sosterrà che per lui e per il padre non fu difficile la scelta del rifiuto dato il privilegio di vivere in «una sia pur modesta agiatezza»[12].

Lionello Venturi, docente di storia dell’arte a Torino, era nato a Modena nel 1885, aveva fatto una brillante carriera e, in virtù di una posizione politica nazionalista, aveva partecipato come volontario alla Prima Guerra Mondiale, nel corso della quale fu ferito ad un occhio. Nonostante, l’anziano padre, Adolfo, titolare della cattedra di Storia dell’Arte a Roma, lo avesse sollecitato alla sottomissione in nome di uno scopo più alto, restare all’Università e proseguire l’opera paterna, succedendogli nella cattedra, Lionello Venturi non giurerà,  rinunciando così alla cattedra di cui era titolare dal 1919. Sottoposto ai controlli dell’Ovra, con la moglie Ada e il figlio Franco, si trasferì a Parigi[13]. Nel ’39 divenne professore alla John Hopkins University di Baltimora, dove attraverso la Mazzini Society condusse la sua battaglia contro ogni forma di nazionalismo[14].

Vito Volterra, docente di matematica a Roma, era tra i circa 100 docenti ordinari appartenenti alle comunità ebraiche. Nato nel 1860 ad Ancona in una famiglia di idee liberali e anticlericali, perse il padre a soli due anni. A ventitré anni fu uno dei più giovani professori ordinari del Regno d’Italia (meccanica razionale all’Università di Pisa). Matematico e fisico, fu tra i fondatori dell’analisi funzionale e della teoria delle equazioni integrali. Nel 1903 fece parte della Commissione regia per l’istituzione del Politecnico di Torino, di cui divenne Regio commissario l’anno dopo. Nel 1905 fu nominato senatore del Regno per i suoi meriti scientifici e nel 1907 divenne preside della facoltà di Scienze dell’Università di Roma[15]. Nel ’22 in Senato prese posizione contro il Governo di Mussolini. Poi firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce e nel dicembre 1931 oppose il suo rifiuto al giuramento di fedeltà al Fascismo. Lasciò, pertanto, la cattedra e tre anni dopo decadde anche dall’Accademia dei Lincei per un identico rifiuto[16].

Cosa ci hanno lasciato quei 12 uomini liberi?

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Dodici vite, dodici mondi personali e familiari, dodici persone che, citando proprio uno di loro, il De Sanctis,

ebbero “parimenti sdegno di essere oppressi e di farsi oppressori” (vedi nota 9).

Giurando, infatti, avrebbero avvallato l’oppressione e l’oppressore, divenendone collaboratori, complici, sia pur riluttanti. Preferirono dire no. E ad essi Giorgio Boatti ha dedicato il suo Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini (Einaudi, 2001), nel quale ha raccontato con delicatezza, rispetto e umanità le loro 12 diverse ma intrecciate complesse vicende.

Cosa resta di questa loro fermezza oggi? Cosa ci insegna il loro non sbandierato coraggio?

Se, nel 1931, invece di essere solo 12, fossero stati 1.250 a opporre un rifiuto? O, se almeno lo avessero fatto tutti i non-fascisti …[17]?

La Storia non si fa con i se, com’è noto. Però, questa storia, come altre analoghe vicende, ci ricorda che si può perdere la libertà – e con essa, presto o tardi, magari anche la vita (pensiamo a quanti milioni di esseri umani sono morti fino al ’45 per l’avvento dei fascismi in Europa) – un poco alla volta. Ci ricorda che la libertà può essere sbriciolata non soltanto, dunque, da un repentino, imprevedibile (?), colpo di stato, ma anche dal crescere sotterraneo di nazionalismo, intolleranza, fanatismo e autoritarismo. Dal crescere di una propaganda basata sull’odio, sulla sfiducia, sul sospetto e sul capro espiatorio. Ma veicolata (anche) in modo mascherato come se si trattasse di formulare propositi e misure di buon senso. Camuffati da pragmatismo, proposti come ovvietà da riaffermare, venduti come sacrosanta tutela dei più deboli, spacciati come animati da propositi di giustizia vera e rapida, smerciati come pervasi da amor di patria e amore per il popolo, si sviluppano i sistemi liberticidi. 

Incensandosi come unici e valorosi combattente contro il Sistema, demonizzando uno o più gruppi sociali,  delegittimando culturalmente e moralmente, ancor prima che politicamente, chi non ci sta, riescono ad imporsi con efficacia radicale. Accusando i dissenzienti di non amare il proprio Paese, anzi di essere traditori del popolo, giungono ad isolare socialmente e ad emarginare politicamente ogni opposizione e ogni voce critica verso la demagogia imperante.

L’indisponibilità a non essere contemporaneamente oppressi e complici dell’oppressore

Sicché alla fine c’è il rischio che ne restino soltanto 12 indisponibili ad essere contemporaneamente oppressi e sostenitori – magari silenziosi, svogliati, riluttanti o distratti – dell’oppressore.

Il libro di Giorgio Boatti ci aiuta anche rammentare che la resistenza di pochi, per quanto coraggiosa, sobria e ferma, non basta a tutelare tutti. Può salvare la dignità, il rispetto di sé, di quei pochi che opposero un fermo, non ostentato, rifiuto, ma non protegge e non riafferma la dignità di tutti gli altri. E ancor prima ci fa presente che non si può delegare a pochi l’onere di assumere la responsabilità di tenere gli occhi aperti.

Alberto Quattrocolo

Fonti:

Giorgio Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini (Einaudi, 2001)

www.wikipedia.org

[1] Nel 1924, meno di due anni dopo dalla marcia su Roma, il governo di Benito Mussolini e lo stesso fascismo avevano rischiato di essere travolti a seguito del rapimento e dell’assassinio del deputato socialista unitario Giacomo Matteotti (su questa rubrica è stato pubblicato un post su questo delitto in occasione della ricorrenza del ritrovamento del cadavere di Matteotti: il 16 agosto), ma, avevano retto e, anzi, da lì a poco, il Governo aveva dato luogo ad una forte accelerata nell’opera liberticida di instaurazione del regime (ne abbiamo parlato nel post Dall’Aventino alla dittatura ).

[2] Il decreto legge del 24 dicembre del 1925 dispose la rimozione dal servizio per tutti i funzionari statali (quindi anche gli insegnanti) i quali non diano «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio piena garanzia di un fedele adempimento dei propri doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo». Poi per cercare di azzittire anche quei dissidenti che, per non finire in galera o al confino, erano espatriati, un’altra norma del periodo prevedeva la perdita della cittadinanza italiana per chi all’estero commetteva o concorreva a commettere fatti diretti a turbare l’ordine pubblico nel Regno o volti alla diminuzione del buon nome o del prestigio dell’Italia, anche se il fatto non costituiva reato.

[3] Autore di 3.800 opere, tra cui una Storia del Cristianesimo, composta di tre volumi. Alla fine del fascismo non fu reintegrato nel ruolo di professore ordinario, in virtù di un’interpretazione dei Patti Lateranensi che vietavano ai sacerdoti scomunicati di essere titolari di una cattedra di un’università statale. Nel 2012 ebbe il riconoscimento postumo di giusto tra le nazioni dall’istituto Yad Vashem di Gerusalemme, per avere salvato dalla deportazione (nascondendolo a casa sua) Giorgio Castelnuovo, un tredicenne ebreo, affidatogli dalla famiglia, durante la guerra.

[4] Lavorando come medico nelle carceri torinesi, negli anni Venti conobbe molti oppositori del fascismo e, quando suo cognato Guglielmo Ferrero fu costretto all’esilio, lui e la sua famiglia divennero un punto di contatto tra gli antifascisti torinesi e quelli rifugiati all’estero. Si avvicinò così al movimento di Giustizia e Libertà.

[5] Si era opposto all’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 l’abbiamo ricordata nel post Oh, che bella guerra), che considerò una inutile strage; nel ’23 iniziò il suo quarto volume della Storia dei Romani con una dedica: «A quei pochissimi che hanno parimenti sdegno di essere oppressi e di farsi oppressori». Poi, nel ’29, Giovanni Gentile, Ministro dell’Educazione, gli affidò la responsabilità della sezione di Antichità classica per l’Enciclopedia Italiana.

[6] Morì nel ’33, non arrivando così a patire sulla propria pelle le discriminazioni e le persecuzioni antisemite avviate con le vergognose leggi razziali del ’38.

[7] Rientrò in Italia a guerra finita, dove morì ottantunenne. Nelle sue memorie scrisse il suo disappunto per il fatto che molti in seguito credettero che egli avesse perso la cattedra non a causa del suo rifiuto di piegarsi al giuramento, ma perché ebreo, a seguito delle leggi antiebraiche dell’autunno del ’38 (le abbiamo ricordate nei post Il Manifesto della razza si presentò agli Italiani il 15 luglio 1938 e 22/08/1938: censimento speciale nazionale degli ebrei in Italia). Disappunto connesso al fatto che «tra coloro che persero la cattedra per motivi “razziali” ve n’era più di uno che fin dalla prima ora e fino all’ultima aveva militato con entusiasmo e devozione sotto l’insegna del littorio».

[8] Studioso di filosofia del diritto, si interessò alle grandi questioni sociali: l’occupazione femminile, le cause economiche e culturali di alcuni tipi di criminalità.

[9] Era stato arrestato in una retata che aveva coinvolto anche Ernesto Rossi, Ferruccio Parri, Umberto Ceva e buona parte degli aderenti milanesi a Giustizia e Libertà e che era stata sfruttata da Mussolini per diffondere il timore dell’Ovra – la polizia segreta fascista denominata in quel modo dal duce stesso. L’Ovra, per proteggere il suo vero informatore, infiltrato nel gruppo, Carlo del Re, fece trapelare la falsa notizia che a tradire gli aderenti a Giustizia e Libertà fosse stato Luzzatto, ormai sessantenne, che venne particolarmente colpito sia dal suicidio in carcere di Umberto Ceva che dalle dure condanne inflitte agli altri nel ’31.

[10] Nel ’43, quando a seguito della notizia dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, le truppe tedesche presero il controllo della penisola (ne abbiamo parlato nel post 8 settembre 1943, giorno dell’armistizio di Cassibile), Luzzatto con la sua famiglia si sottrasse alla deportazione, rifugiandosi in Svizzera. Morì nel ’54.

[11] Ma aveva sempre mantenuto una posizione di estraneità alle lotte politiche: non aderì né al Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile né al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce.

[12] Sceglierà di vivere appartato a Borgofranco d’Ivrea, dopo la morte del figlio ventenne, nel ’47. E, provato dalla malattia, deciderà di togliersi la vita nell’83, insieme alla moglie. Li troveranno abbracciati nel letto.

[13] A Parigi, Franco, studente alla Sorbona, entrò nel gruppo parigino di Giustizia e Libertà (i suoi amici del gruppo torinese di Giustizia e Libertà erano stati arrestati e lui stesso era stato fermato), per poi essere incarcerato in Spagna e successivamente riportato in Italia e inviato al confino. Partecipò, dopo l’estate del 1943, in Val Pellice, alla Resistenza nelle formazioni di Giustizia e Libertà. Ma anche Lionello nel ’38 finì nel bollettino dei ricercati diramato dalla Polizia Italiana, poiché dopo l’assassinio fascista dei fratelli Rosselli (li abbiamo rievocati nei post Non mollare e 1937, omicidio dei fratelli Rosselli) scrisse l’Invocation à l’homme, un appello sui diritti umani devastati dal regime fascista. Dopo l’approvazione delle leggi antiebraiche creò la sezione italiana della Lega internazionale contro il razzismo.

[14] Finita la guerra, rientrato in Italia, riottenne la possibilità di insegnare. Per dieci anni insegnerà all’Università di Roma, dove morirà il 18 agosto 1961.

[15] L’anno successivo concorse a fondare la Società italiana per il progresso delle scienze e la Società italiana di fisica.

[16] Nel 1936, grazie a padre Agostino Gemelli, fu nominato membro della Pontificia Accademia delle Scienze, l’unica che ne tenne una commemorazione funebre ufficiale nel 1940, quando morì.

[17] Quale sorte avrebbe avuto il fascismo, se, ancor prima, nel ’25, in reazione al regolamento generale delle regie università del 6 aprile 1924, che imponeva un giuramento di fedeltà al Re, violando la tradizionale indipendenza degli atenei e dei suoi docenti, tutti i professori avessero dato le dimissioni? Scelsero di agire in tal modo solo un numero ristretto di docenti e tra questi: Alberto Marghieri, Giuseppe Sanarelli, Alfredo Poggi, Gaetano Salvemini, Arturo Labriola, Enrico Presutti, Silvio Trentin e Francesco Saverio Nitti.

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