Robert Kennedy: «Non abbiamo bisogno di odio»

Robert Kennedy la sera del 5 giugno 1968, nella sala da ballo dell’Ambassador Hotel di Los Angeles, stava incontrando i suoi sostenitori, per festeggiare la vittoria elettorale conseguita nelle primarie della California e del Sud Dakota, quando fu colpito a morte da dei proiettili.

«E gli altri? Come stanno gli altri?».

Furono queste le ultime parole pronunciate da Robert Kennedy. E in quella parole, dette mentre la vita gli scivolava via, c’era l’uomo che era sempre stato e l’uomo che era diventato. L’uomo che folle entusiaste ascoltavano ai suoi comizi, spesso improvvisati, perché ne sentivano la tensione morale, ne riconoscevano la ferma e indistruttibile determinazione a porre fine alla guerra in Vietnam, e a rimuovere le tante ingiustizie economiche e sociali che affliggevano milioni di persone.

«Come stanno gli altri?» era stato il quesito che aveva imparato a porsi, a sentire e ad anteporre ad ogni altra considerazione o istanza, dopo i dolori e i lutti che aveva vissuto. E non erano pochi.

 

L’infanzia e la giovinezza di Robert Kennedy tra privilegi e dolori

Nato il 20 novembre 1925, in una famiglia appartenente all’élite, Robert Francis Kennedy era cresciuto in una condizione di agio, di opportunità e di prosperità da privilegiati, ma attraversata da sofferenze. Il padre, il petroliere e imprenditore cinematografico, nonché politico e diplomatico, Joseph Patrick Kennedy, e la madre, Rose Fitzgerald, si proponevano di fare dei i loro 9 figli e figlie dei combattenti, anzi preferibilmente dei vincenti, ma non si può dire che eccedessero in manifestazioni affettive [1]. Settimo dei nove fratelli (cinque ragazze e quattro ragazzi), Robert (Bobby) aveva imparato da subito che la ricchezza non esentava dal dolore, ad esempio quello di sua sorella Rosemary [2]. All’età di 19 anni Robert Kennedy aveva vissuto il dolore di perdere un fratello. Joe Jr. (quello che secondo i programmi del padre avrebbe dovuto fare carriera politica fino a diventare presidente), il primogenito, di dieci anni più vecchio, era stato uno dei milioni di esseri umani spazzati via dalla carneficina della Seconda Guerra Mondiale. Secondo i voleri del patriarca, toccava al secondogenito, John Fitzgerald Kennedy, intraprendere la carriera politica puntando alla vetta più alta. Il compito di Bobby era quello di aiutare il suo fratello maggiore nell’impresa.

Robert Kennedy e suo fratello John

Il 6 giugno del 1952, 16 anni esatti prima di essere assassinato, si era messo alla guida della campagna elettorale del fratello John (che tutti chiamavano Jack), di nove anni più anziano di lui, per la carica di senatore del Massachusetts [3].

Se durante gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza il rapporto tra John e Robert Kennedy era stato parzialmente messo in ombra da quello del primo con Joe Jr., dopo la guerra, i due si erano fortemente avvicinati. Il loro rapporto era evoluto in un legame di affetto profondissimo e di lealtà totale. Si amavano e si capivano, pur essendo molto diversi [4].

Bobby, di corporatura più minuta, non aveva lo stesso fascino magnetico del fratello. Era un cattolico osservante, si era sposato molto presto, nel ’50, con Ethel Skakel, ed era tutt’altro che un donnaiolo (ebbe 11 figli). Aveva un carattere decisamente più introverso di Jack. Era così determinato nell’azione da essere paragonato ad un carro armato e, quando si impegnava in qualche impresa, diventava inesorabile. Molti lo consideravano arrogante e aggressivo. E, in effetti, in non pochi casi, non aveva saputo, a differenza del fratello, temperare la propria passione ideale o la propria tenacia con l’empatia verso gli altri, collaboratori o colleghi che fossero. Né aveva alcun riguardo verso quegli avversari che non stimava. Spesso li viveva come nemici e diventava implacabile.

Al fianco di Jack fino alla Casa Bianca

Nel dicembre 1952, su sollecitazione del padre, il senatore Repubblicano Joseph P.  McCarthy, impegnato nella sua isterica e demagogica caccia alle streghe anticomunista, lo nominò consulente del Subcomitato permanente del Senato per le investigazioni [5]. Robert Kennedy riuscì a non compromettersi troppo, evitando di essere associato all’anticomunismo isterico di McCarthy (ne abbiamo parlato, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post A cavallo della paranoia). E quando la stella del senatore repubblicano tramontò (si veda questo post), Robert Kennedy si mise in luce per la sua instancabile tenacia come primo consulente giuridico della Commissione antiracket, guidata da John L. McClellan. In particolare, nella sua lotta contro la mafia, Bobby, fu accanto al fratello John, nel Comitato senatoriale contro il racket, nel colpire senza riguardi Jimmy Hoffa, il capo corrotto del più potente sindacato americano. Lo affrontò così duramente da suscitare in costui un odio viscerale e un risentimento intramontabile.

Nel ‘59 Jack decise di correre per la Casa Bianca e Bobby ebbe l’incarico di manager della sua campagna. Vi adempì instancabilmente e con pugno di ferro, e l’8 novembre del 1960 John F. Kennedy, sconfiggendo di misura il candidato repubblicano Richard M. Nixon, divenne il 35° Presidente degli Stati Uniti (lo abbiamo ricordato nel post L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni») [6]. Il fratello lo nominò Attorney general (l’equivalente del nostro Ministro della Giustizia), e in tale veste Robert Kennedy non si risparmiò nel perseguire i traffici illegali e i delitti della mafia, ma il suo ruolo andava ben oltre [7]. Jack, infatti, si fidava ciecamente di Bobby ed era ricambiato dalla sua fedeltà assoluta [8].

Dopo la crisi dei missili di Cuba, il Primo Ministro inglese, Harold Macmillan, affermò: «il modo con il quale Bobby e suo fratello hanno giocato le loro carte è stato assolutamente magistrale».

«D’improvviso gli era stato tolto tutto».

Venerdì 22 novembre 1963, all’ora di pranzo, Robert Kennedy ricevette una telefonata dal direttore dell’F.B.I., J. Edgar Hoover. «Ho una notizia per lei», gli disse Hoover, senza alcuna emozione. «Hanno sparato al presidente». Bobby ne fu schiantato. Nessuno tra i Kennedy soffrì più intensamente di lui. La notte di quel 22 novembre 1963 Robert Kennedy, nella camera da letto che 100 anni prima era stata occupata da Abraham Lincoln alla Casa Bianca, singhiozzava: «Perché, Dio?… Gli innocenti soffrono… Com’è possibile e come può Dio essere giusto?». Da quel momento un velo di tristezza offuscò il suo sguardo, senza sparire più. Lemoyne Billings, amico d’infanzia dei fratelli Kennedy, disse che Bobby si era dedicato in maniera così totale alla carriera del fratello che la sua morte lo aveva lasciato stordito: « Non sapeva neppure dove si trovava…D’improvviso gli era stato tolto tutto» [9].

Il biografo Evan Thomas jr sostiene che Bobby a parole accettò l’ipotesi dell’attentatore solitario, fornita dal rapporto ufficiale del governo, ma non smise mai di pensare che l’assassino potesse essere stato opera della CIA, di Sam Giancana, di Jimmy Hoffa (della mafia), di Fidel Castro o degli esuli cubani anti-castristi. E tre giorni prima di essere assassinato disse: «Mi rendo ora pienamente conto che solo i poteri della Presidenza riveleranno i segreti della morte di mio fratello».

Liberato dall’ombra del fratello

Nel 1964 venne eletto senatore per lo Stato di New York e quattro anni dopo decise di proporsi come candidato del Partito Democratico per la presidenza degli Stati Uniti. Il 6 giugno 1968, poco prima di essere ammazzato, Robert Kennedy si confidò con il capo della sua campagna nelle primarie per le presidenziali, Kenneth O’Donnell, A questo suo caro amico di vecchia data ed ex assistente politico di John Kennedy alla Casa Bianca disse:

 «Sai, per la prima volta sento di essermi liberato dell’ombra di mio fratello: sento di avercela fatta da solo».

Gli era occorso un bel po’ di tempo e parecchio dolore il riuscirci. Non era tipo da arrendersi, però, Robert Kennedy. E,  sebbene fosse stato quasi completamente distrutto dall’omicidio di suo fratello a Dallas, iniziò a camminare da solo. Aveva “studiato” all’ombra di Jack e continuò a studiare, mettendosi radicalmente in discussione. E, anche nel suo rivedere le precedenti posizioni, fece ricorso alla sua risorsa inesauribile di tenacia. In particolare, il dolore e l’esperienza fecero sì che la sua mente diventasse una porta aperta alle novità e che quella corazza di aggressività trattenuta si sciogliesse, liberando quella capacità empatica che fin lì aveva riservato solo alla cerchia dei famigliari e degli amici più intimi. E cominciò ad andare a cercare la gente che soffriva, quelli che la società lasciava indietro a languire e quelli che discriminava.

Così, pur appartenendo, in virtù della propria carica, del censo, dello status e della cultura, all’élite più ristretta, divenne capace di sintonizzarsi con la sofferenza degli emarginati. E decise di schierarsi apertamente con il popolo: non per aizzarlo contro le istituzioni, ma per indurre queste ultime ad ascoltarne i bisogni. Adottò, quindi, anche un approccio più diretto rispetto a quello di John Kennedy alle ingiustizie sociali e alla discriminazione razziale [10].

Il coraggio di Robert F. Kennedy di cambiare idea

Era stato un sostenitore dell’intervento militare americano in Vietnam, contagiato anche lui dalla mentalità della Guerra  Fredda. Ma la trasformazione che lo stava interessando gli diede anche il coraggio di dichiarare apertamente che aveva cambiato idea e di prendere posizione contro la guerra in Vietnam, allineandosi a chi come Martin Luther King e Muhammad Alì vi si opponeva fermamente e sostenendo la necessità di un ritiro americano:

«Siamo come il Dio del Vecchio Testamento? Possiamo decidere a Washington quali città, quali villaggi, quali capanne saranno distrutti in Vietnam? Abbiamo l’autorità di uccidere decine e decine di migliaia di persone?».

Quest’atteggiamento, che lo aiutò anche a comprendere la contestazione giovanile, gli permise di entrare in contatto emotivo e intellettuale con quanto andava maturando in quegli anni, negli Stati Uniti e nel resto del mondo [11]. Questa sintonia trovò una mirabile sintesi nel citatissimo discorso sul PIL. Il quale, disse Robert Kennedy, misura «napalm, missili e testate nucleari», ma «non comprende la salute delle famiglie o la bellezza della poesia […] Non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».

Anche il suo originario e monolitico anticomunismo mutò:

«Opporsi al comunismo non significa imitare la sua dittatura, ma estendere le libertà individuali», disse all’Università di Capetown, Sudafrica, il 6 giugno 1966, esattamente due anni prima di morire, «In ogni nazione ci sono persone che etichetterebbero come comunista chiunque minacci i loro privilegi. Ma posso dirvi, da ciò che ho visto viaggiando in tutte le parti del mondo, che riformare non è comunismo. E che la negazione della libertà, in nome di qualsiasi cosa, può solo rafforzare lo stesso comunismo che sostiene di combattere».

Parlare non alla pancia ma alla coscienza della gente

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Guardava avanti Robert Kennedy, volgendosi a temi che allora erano quasi del tutto assenti dal dibattito politico, come la tutela dell’ambiente:

«Il carburante che ci dà l’elettricità, la benzina che fa marciare automobili, taxi e autobus, i due chili di cenere e di spazzatura che ognuno di noi getta ogni giorno nella città, e perfino i rifiuti buttati negli inceneritori dei nostri appartamenti, tutte queste cose si scaricano nell’aria che respiriamo».

Riconoscendo la necessità di una politica diversa, sinceramente e correttamente vicina alle persone, Robert Kennedy si guardava dal parlare alla loro pancia: preferiva parlare alla loro coscienza.  E lo fece anche la sera dell’assassinio di Martin Luther King, il 4 aprile 1968 (l’abbiamo ricordato nel post Martin Luther King: sono un uomo!). Bobby si trovava ad Indianapolis, nello stato dell’Indiana, per la sua campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti. Quella sera era previsto che parlasse ad un comizio in un ghetto nero di Indianapolis. Accolse la rabbia, ma non la alimentò, né la sfruttò. Ascoltò il dolore, ma non lo strumentalizzò. Parlò al cuore e alla testa degli abitanti di quel ghetto [12].

L’appello di Robert Kennedy alla compassione e all’amore

«Signore e signori», disse Robert Kennedy a quel migliaio di persone scioccate e brucianti di dolore e rabbia, «questa sera sono qui per parlare un paio di minuti soltanto. Perché… Ho una notizia molto triste per voi […]. Martin Luther King ha dedicato la sua vita alla causa dell’amore e della giustizia per tutti gli esseri umani, ed è morto proprio a causa di questo suo impegno[…]».

«Può certo esserci amarezza, odio, e desiderio di vendetta tra le persone di colore che si trovano tra voi, viste le prove che ci sono dei bianchi tra i responsabili dell’assassinio», proseguì Bobby. «Possiamo scegliere di muoverci in questa direzione come nazione, in una ulteriore polarizzazione, dividendoci neri con neri, bianchi con bianchi, pieni di odio gli uni verso gli altri. O possiamo invece fare uno sforzo per capire, come ha fatto Martin Luther King, e sostituire a questa violenza, a questa macchia di sangue che si è allargata a tutto il Paese, un tentativo di comprendere attraverso la compassione e l’amore».

«Non abbiamo bisogno di odio»

La compassione e l’amore per Robert Kennedy dovevano essere la guida per tutti. Per i politici come per la gente comune. Aveva assimilato fino in fondo la lezione di Martin Luther King e la propose quella sera agli abitanti del ghetto di Indianapolis.

«A quelli di voi che sono tentati di lasciarsi andare all’odio e alla sfiducia verso i bianchi per l’ingiustizia di quello che è accaduto, posso soltanto dire che provo i loro stessi sentimenti in fondo al mio cuore. Ho avuto anch’io qualcuno della mia famiglia ucciso, anche se da un uomo bianco come lui. Ma dobbiamo fare uno sforzo negli Stati Uniti, dobbiamo fare uno sforzo per comprendere, per superare questi momenti difficili. […]. Non abbiamo certo bisogno di divisioni negli Stati Uniti, non abbiamo bisogno di odio, né di violenza o anarchia. Abbiamo invece bisogno di amore e saggezza, compassione gli uni verso gli altri, e di un sentimento di giustizia verso tutti coloro che ancora soffrono nel nostro paese, siano essi bianchi o neri […]. Non siamo ancora, purtroppo, alla fine della violenza, dell’anarchia e del disordine. […]. Dedichiamoci a perseguire quello che i greci scrissero tanti anni fa: domare la natura selvaggia dell’uomo e rendere gentile la vita in questo nostro mondo. Dedichiamoci a questo, e diciamo tutti una preghiera per il nostro paese e per la nostra gente. Grazie».

Quella sera esplosero rivolte sanguinose in moltissime città, grandi e piccole degli Stati Uniti, ma non ad Indianapolis.

«Quelli che vivono con noi sono nostri fratelli»

Robert Kennedy aveva letto, meditato e ascoltato. Aveva ascoltato se stesso e aveva ascoltato gli altri. Aveva rivisto gli errori che aveva commesso, insieme al fratello o senza di lui. Ed erano tanti. Li aveva riconosciuti e aveva imparato. Aveva imparato che un errore, grave, commesso da lui e da Jack quando erano alla Casa Bianca era consistito nell’aver troppo spesso anteposto il pragmatismo all’idealismo. Ciò lo portò a rivolgersi quindi non soltanto alle sofferenze del popolo e alle loro paure, ma alla loro mente e alla loro disponibilità alla compassione e alla solidarietà, al loro bisogno di dare e ricevere amore.

«Solo un uomo attaccato alle cose terrene può ancora aggrapparsi alla buia ed avvelenante superstizione secondo cui il suo mondo è delimitato dalla collina più vicina, il suo universo finisce alla rive del fiume, la sua comune umanità è racchiusa nello stretto circolo di quelli che condividono con lui città, vedute e colore della pelle». Pronunciò queste parole nel citato discorso del 6 giugno ’66. Esse si collegavano a quelle di un altro non meno noto discorso a proposito della violenza (in nota c’è il testo integrale [13]). 

«Quando si insegna un uomo a odiare, ad avere paura del proprio fratello, quando si insegna che un uomo ha meno valore a causa del colore della sua pelle o delle sue idee o della politica che segue, quando si insegna che chi è diverso da te minaccia la tua libertà o il tuo lavoro o la tua casa o la tua famiglia, allora si impara ad affrontare l’altro non come un compatriota ma come un nemico, da trattare non con la collaborazione ma con la conquista. Per soggiogarlo e sottometterlo. Impariamo, in sostanza, a guardare i nostri fratelli come alieni. Uomini alieni con cui dividiamo una città ma non una comunità. Uomini legati a noi da un’abitazione comune ma non da un impegno comune. Impariamo a dividere soltanto una paura comune, soltanto un desiderio comune di ritirarci gli uni dagli altri, soltanto un impulso comune a reagire al disaccordo con la forza. La nostra vita su questo pianeta è troppo breve, il lavoro da svolgere è troppo vasto, perché questo spirito prosperi ancora a lungo nella nostra nazione. È evidente che non possiamo bandirlo con un programma né con una risoluzione, ma possiamo forse ricordare, anche una sola volta, che quelli che vivono con noi sono nostri fratelli che dividono con noi lo stesso breve arco di vita, che cercano come facciamo noi, soltanto la possibilità di vivere la propria vita con uno scopo e in felicità, conquistandosi la realizzazione e la soddisfazione che possono. Sicuramente il legame di un destino che ci accomuna, il legame di scopi che ci accomunano, può cominciare a insegnarci qualcosa. Sicuramente possiamo imparare, almeno, a guardare chi ci sta intorno, il nostro prossimo e possiamo cominciare a lavorare con maggiore impegno per ricucire le ferite che ci sono tra noi e per tornare ad essere fratelli e compatrioti nel cuore».

«Fai sempre ciò che temi di fare».

Nella sera tra il 5 giugno e il 6 giugno 1968, dopo il discorso di saluto, mentre Robert Kennedy veniva fatto allontanare dall’hotel attraverso un passaggio delle cucine, a mezzanotte e un quarto vennero esplosi dei colpi di pistola contro di lui sotto gli occhi dei reporter e dei teleoperatori che lo seguivano. Cinque persone fra i presenti vennero ferite. E ad esse pensò subito Bobby prima di perdere conoscenza. «E gli altri? Come stanno gli altri?».

Il presunto assassino, immediatamente arrestato, era Sirhan B. Sirhan, di origine giordana. Subito sorsero notevoli dubbi sulla dinamica dell’omicidio e sulle sue motivazioni. Dubbi che ancora permangono [14]. Robert Kennedy morì al Good Samaritan Hospital, all’alba del 6 giugno. Aveva 42 anni.

La sua salma fu portata da Los Angeles a New York, poi in treno a Washington. Più di un milione di americani attesero il passaggio del convoglio lungo i binari.

Al funerale suo fratello Edward Moore Kennedy (Teddy), di sette anni più giovane, l’unico ancora vivo dei quattro fratelli maschi, citò alcune parole di Bobby. Parole dure e vere, allora come, purtroppo, adesso:

«C’è discriminazione in questo mondo. C’è schiavitù, fame e uccisioni. Vi sono governi che opprimono i loro popoli e ovunque la ricchezza viene sperperata negli armamenti. Questi sono mali diversi, ma sono opera comune dell’uomo. Essi riflettono l’imperfezione dell’umana giustizia, l’inadeguatezza dell’umana pietà, la nostra mancanza di sensibilità verso la sofferenza dei nostri simili»

Dopo il funerale ad Arlington, dove venne sepolto accanto a suo fratello John, l’astronauta John Glenn, amico di famiglia, riportò a casa i più piccoli dei 10 figli di Bobby (l’undicesima, Rory Elizabeth Katherine nacque qualche mese dopo la morte di Bobby). Dopo averli messi a letto, Glenn entrò nello studio di Robert Kennedy e vide sulla scrivania un poema di Ralph Waldo Emerson. Nella pagina lasciata aperta Bobby aveva sottolineato una frase: «Fai sempre ciò che temi di fare».

 

Alberto Quattrocolo

[1] Per i loro figli, soprattutto per i 4 maschi, l’avere successo, il riuscire a vincere, era sinonimo di essere meritevoli d’amore. Un amore, però, che ricevevano con manifestazioni rare e molto sobrie. La madre, Rose Fitzgerald, infatti, scoraggiava ogni manifestazione emotiva o affettiva e ogni contatto personale.

[2] Terzogenita, nata nel 1918, aveva patito un deficit di ossigeno durante il parto, sicché la madre le aveva riservato un attenzione e un affetto incondizionati e, pur aiutando i fratellini ad essere sempre dolci e premurosi con lei, era stata con loro «molto fredda, molto distante da tutto», come spiegò Charles Spalding, un amico del la famiglia Kennedy.

[3] Laureatosi a Harvard nel 1948, Robert Kennedy dopo una breve esperienza nella Marina, alla fine del ‘51, aveva  iniziato a lavorare come legale nella sezione di sicurezza interna della divisione criminale del Dipartimento della Giustizia, che investigava su sospetti agenti sovietici. Poco dopo, però, nel febbraio 1952, era stato trasferito alla Corte federale per il distretto orientale di New York, per indagare sui casi di frode. Il 6 giugno 1952 era dimesso e aveva assunto il ruolo di guida della campagna elettorale del fratello John, impegnato nella competizione per il seggio di senatore del Massachusetts.

[4] John, tormentato da sempre da una salute instabile e da forti dolori fisici, aveva visto la morte in faccia, sia per le malattie, che durante la guerra, e, come il padre, era un donnaiolo compulsivo di “successo”, aiutato da una straordinaria carica di fascino malinconico e di sex appeal. Inoltre, la sua intelligenza riflessiva ma vivace insieme ad un fortissimo senso dell’umorismo e ad una non comune capacità di mettersi nei panni degli altri, gli impedivano di insuperbirsi o di assumere atteggiamenti arroganti. Era un’idealista, John, sì, ma spesso si lasciava guidare da un pragmatismo che lo portavano a contraddire i propri valori.

[5] Nel febbraio 1954, fu nominato primo consulente per la minoranza democratica, e 11 mesi dopo, nel gennaio 1955, quando i Democratici riconquistarono la maggioranza, ne divenne primo consulente. Bobby mantenne una posizione di secondo piano nelle audizioni del 1954 in cui McCarthy attaccò l’esercito, accusandolo di essere un ricettacolo di comunisti sovversivi. Queste baggianate, finalmente riconosciute come tali dai cittadini americani, quando vennero trasmesse per televisione, determinarono la disgrazia del senatore, ma non compromisero l’immagine di Robert Kennedy.  Il quale, del resto, fu tra i promotori della mozione di censura che pose termine alla generata politica di McCarthy.

[6] Pochi giorni dopo la vittoria, Jacqueline, la moglie di Jack, scrisse un biglietto al cognato: «A Bobby che ha reso possibile l’impossibile e ha messo in gioco tutte le nostre vite»

[7] «Bobby Kennedy non va al gabinetto se non scappa a Jack Kennedy», diceva, il vicepresidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson.

[8] Dalla fallimentare e disastrosa invasione della Baia dei Porci (l’abbiamo ricordata nel post La Baia dei Porci, quando la logica del conflitto porta alla catastrofe), alle compromettenti relazioni sentimentali di Jack, dalla collaborazione con Martin Luther King, alla crisi per l’installazione di missili sovietici a Cuba, c’era sempre Bobby a consigliare qualche, o addirittura la, soluzione.

[9] Nelle settimane e nei mesi seguenti Robert Kennedy cominciò a leggere Eschilo, Euripide, Erodoto e Sofocle e le opere degli esistenzialisti, soprattutto Albert Camus, per cercare un senso al dolore e alle sofferenze che segnano l’esistenza umana. Quelle letture gli furono utili e lo aiutarono a resistere e a reagire.

[10] «Dobbiamo riconoscere l’assoluta uguaglianza di tutte le persone… Dobbiamo farlo non perché sia economicamente vantaggioso, per quanto lo sia; non perché così vogliono le leggi di Dio e dell’uomo, sebbene lo impongano… Dobbiamo farlo per un’unica e fondamentale ragione: perché è la cosa giusta da fare…».

[11] Riguardo alla contestazione giovanile disse: « Il primo compito di chi governa non è di condannare o castigare o deplorare, bensì di cercare il motivo della delusione e dell’alienazione, la ragione della protesta e del dissenso, magari per trarne qualche utile lezione».
[12] I consiglieri gli suggerirono di cancellare il comizio, ma Bobby rifiutò. Salito sul palco davanti a un migliaio di neri, «Lo sanno?» chiese. «Fino a un certo punto – mormorò un organizzatore – lasciamo fare a lei».  E Robert F. Kennedy parlò, facendolo a modo suo.

[13] «Oggi non è giornata per fare politica. Mi sono riservato questa occasione come unico impegno di oggi per parlare brevemente con voi della minaccia insensata della violenza in America che macchia ancora la nostra nazione e la vita di tutti noi. Non è la preoccupazione di una sola razza. Le vittime della violenza sono neri e bianchi, ricchi e poveri, giovani e vecchi, famosi e sconosciuti. Prima di ogni altra cosa erano esseri umani a cui altri esseri umani volevano bene e di cui avevano bisogno. Nessuno, in qualsiasi posto viva e qualsiasi cosa faccia, può essere certo di chi sarà il prossimo a soffrire per un insensato atto di sangue. Eppure la violenza continua, continua, continua in questo nostro Paese. Perché? Che cosa ha mai ottenuto la violenza? Che cosa ha mai creato? Quando un americano toglie la vita ad un altro americano, sia se viene fatto in nome della legge o contro la legge, da un uomo o da una banda, a sangue freddo o in preda al furore, in un attacco di violenza o in risposta alla violenza, quando strappiamo il tessuto della vita che l’altro ha faticosamente e goffamente creato per sé e per i propri figli, quando lo facciamo, l’intera nazione è degradata. Eppure sembra che tolleriamo un crescente livello di violenza che ignora l’umanità che ci accomuna e le nostre pretese di civiltà. Troppo spesso rendiamo onore alla spavalderia, alla prepotenza e a chi esercita la forza. Troppo spesso scusiamo coloro che costruiscono la propria vita sui sogni infranti di altri esseri umani. Ma è una cosa chiara, la violenza genera violenza, la repressione genera rappresaglia e soltanto la pulizia di tutta la nostra società potrà estirpare questo male dalla nostra anima. Quando si insegna un uomo a odiare, ad avere paura del proprio fratello, quando si insegna che un uomo ha meno valore a causa del colore della sua pelle o delle sue idee o della politica che segue, quando si insegna che chi è diverso da te minaccia la tua libertà o il tuo lavoro o la tua casa o la tua famiglia, allora si impara ad affrontare l’altro non come un compatriota ma come un nemico, da trattare non con la collaborazione ma con la conquista. Per soggiogarlo e sottometterlo. Impariamo, in sostanza, a guardare i nostri fratelli come alieni. Uomini alieni con cui dividiamo una città ma non una comunità. Uomini legati a noi da un’abitazione comune ma non da un impegno comune. Impariamo a dividere soltanto una paura comune, soltanto un desiderio comune di ritirarci gli uni dagli altri, soltanto un impulso comune a reagire al disaccordo con la forza. La nostra vita su questo pianeta è troppo breve, il lavoro da svolgere è troppo vasto, perché questo spirito prosperi ancora a lungo nella nostra nazione. È evidente che non possiamo bandirlo con un programma né con una risoluzione, ma possiamo forse ricordare, anche una sola volta, che quelli che vivono con noi sono nostri fratelli che dividono con noi lo stesso breve arco di vita, che cercano come facciamo noi, soltanto la possibilità di vivere la propria vita con uno scopo e in felicità, conquistandosi la realizzazione e la soddisfazione che possono. Sicuramente il legame di un destino che ci accomuna, il legame di scopi che ci accomunano, può cominciare a insegnarci qualcosa. Sicuramente possiamo imparare, almeno, a guardare chi ci sta intorno, il nostro prossimo e possiamo cominciare a lavorare con maggiore impegno per ricucire le ferite che ci sono tra noi e per tornare ad essere fratelli e compatrioti nel cuore».

[14]  Sirhan Sirhan avea sparato frontalmente a Robert Kennedy, ma l’autopsia eseguita dal dottor Noguchi rivelò che c’era un foro d’entrata del proiettile dietro l’orecchio destro. E in effetti, una foto scattata subito dopo la sparatoria rivelava una ptosi palpebrale tipica di una lesione cerebrale. Le conclusioni di Noguchi, tuttavia, furono completamente ignorate, suscitando il sospetto che il colpo mortale fosse stato sparato in realtà da un membro dello staff di Kennedy, mentre il vero ruolo di Sirhan Sirhan sarebbe stato quello di distrarre i presenti, permettendo al vero assassino di colpire e farla franca. I sospetti su di una cospirazione crebbero durante le indagini e il processo. Migliaia di foto e reperti andarono distrutti, inoltre una registrazione audio, realizzata involontariamente da un reporter polacco ha rivelato recentemente che i colpi sparati erano stati 13, ma il revolver di Sirhan aveva solo 8 proiettili, e che 2 erano esplosi a 120 ms l’uno dall’altro, mentre con l’arma di Sirhan il tempo minimo fra un colpo e l’altro era di 360 ms.

1 commento
  1. salvatore cicala
    salvatore cicala dice:

    Sui certo sarà stato anche un “buono” ma non vi sembra che stiamo mitizzando un pò troppo? Era un politico ..quindi non solo lineare e santo. Sicuro aveva valori sani, ma quando diceva che gli Americani hanno bisogno di pace e non di guerra….be sembra proprio il contrario di quanto hanno fatto nei secoli e continuano a fare.

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