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Razzismo e terrorismo

Un dubbio all’insegna del razzismo: “Se qualche immigrato è felice è perché si compiace di una strage?” 

Massimo Gramellini, sul Corriere della Sera, nella sua rubrica il Caffè del 26 maggio 2017 (è leggibile anche nell’edizione on line), ha scritto che 5 giorni prima, lunedì 22, una guardia giurata, residente a Pioltello, tornato a casa e appresa la notizia della strage di Manchester[1] immediatamente ha collegato tale attentato con quanto aveva osservato un po’ prima passando davanti al bar Marrakech di Via Monza 30: dei festeggiamenti. Il collegamento mentale, forse non poco all’insegna del razzismo e dell’islamofobia, è stato: “stanno festeggiando la strage”. Quindi, racconta Gramellini, ha comunicato questo “fatto” ad un giornalista di Panorama, Carmelo Abbate, che, a sua volta, l’ha comunicato al pubblico di Canale 5, nel corso della trasmissione Mattino 5, mentre una consigliera di Forza Italia rilanciava il “fatto” sui social. I carabinieri, però appurarono che i festeggiamenti nel locale incriminato si erano svolti ben prima della diffusione della notizia sulla strage di Manchester e, con la sindaca Ivonne Cosciotti, hanno smentito la falsa notizia.

Su La Stampa del 26 maggio si riportava che la sindaca è stata poi insultata via mail e sul suo profilo Facebook e che intendeva rivolgersi all’Ordine dei Giornalisti: «Non mi preoccupo di pseudo giornalisti che parlano a vanvera su notizie non vere (e per il quale scriverò a ordine dei giornalisti e tv per programmi che di informazione non hanno nulla), mi preoccupo però che ci siano persone che esprimono una violenza verbale che non escludo si possa trasformare in violenza fisica».

 

Il razzismo dal piano della violenza verbale passa a quello della violenza fisica: Pioltello e Finsbury Park.

Come precisa ancora, nel suo articolo su La Stampa, Chiara Baldi, la violenza fisica si è poi palesata la notte del 25, quando qualcuno ha provato a incendiare il bar Marrakech, di proprietà di Adil, marocchino residente in Italia da 14 anni e da 10 a Pioltello – dove mai prima di allora era stato vittima di razzismo o violenza – , e di sua moglie Elvira, russa.

«Si sta creando un brutto clima a Pioltello ma noi comunque andiamo avanti. Il bar Marrakech è sempre aperto a tutti», dice Adil.

Il quale fin da subito aveva negato che qualcuno nel suo locale stesse festeggiando il sangue versato a Manchester.

Tiziana Panella, durante la puntata di Tagadà del 19 giugno, ha chiesto ai suoi ospiti di commentare l’attacco, verificatosi durante la notte appena trascorsa, da parte di un inglese, Darren Osborne, di 47 anni, padre di 4 figli, che pare essere legato ad ambienti di estrema destra, contro i fedeli che si trovavano davanti alla moschea Muslim Welfare House di Londra[2]. Tra gli ospiti della trasmissione vi erano Stefano Candiani, senatore della Lega Nord, e Davide Piccardo, della Consulta Islamica. Quest’ultimo ha parlato di «una dinamica “azione-reazione” che andrebbe interrotta» e, a tal riguardo, ha posto in rilievo come vi siano «due retoriche, due propagande contrapposte. Una è quella dell’Isis che demonizza in toto il mondo occidentale e cerca di spingere persone disturbate e violente a compiere attentati in Europa. E l’altra è una narrazione, una propaganda islamofobica, molto forte, che individua nell’Islam e nei musulmani il nemico e che, ogni volta che c’è un attentato, punta il dito contro l’Islam in toto, dicendo che è da lì che viene il terrore e che quindi è l’Islam in toto che è qualcosa da sradicare e che non è compatibile con la nostra società. Queste due visioni contrapposte, che, però, secondo me, vivono l’una dell’altra, sono molto pericolose». Piccardo ha concluso il suo ragionamento asserendo che quello della notte del 19 giugno è stato il primo caso in cui la retorica islamofoba ha dato luogo alla violenza e che il suo timore è che non sia anche l’ultimo. In realtà, si è sbagliato: non è stata quella la prima volta che si si sono verificate manifestazioni violente di razzismo [3]. E il suo timore appare condivisibile, cioè si può seriamente dubitare che sia l’ultima.

Poco, più tardi, un esempio di retorica islmamofoba si è verificato proprio nel corso della trasmissione, interessando Davide Piccardo e Stefano Candiani: mentre si discuteva della legge sul cosiddetto Ius soli, il sen. Candiani, che dissentiva dalle posizioni di Piccardo e degli altri ospiti (Renata Polverini, Alessia Rotta e Alfredo d’Attorre), ha affermato di ritenersi fortunato per il fatto che Picardo, seduto accanto a lui, non gli avesse ancora tagliato la gola: «è già buono che non mi ha messo un coltello alla gola fino ad adesso. È già buono!». Il senatore della Lega Nord ripeterà questo concetto poco dopo.

 

…E se non ci fossero state prove dell’innocenza degli avventori del Bar Marrakech?

C’era bisogno di un’indagine dei carabinieri per accertare che al bar Marrakech di Pioltello non fosse radunata un’orda di imprudenti e spudorati sostenitori del sedicente Stato Islamico? E se per caso i festeggiamenti degli avventori e/o dei gestori di quel bar fossero iniziati un minuto, mezz’ora o un’ora dopo la strage? Che cosa se ne sarebbe dovuto dedurre? Cosa si sarebbe dovuto fare? Denunciare proprietari e avventori? Metterli tutti dentro perché non potevano non sapere e, essendo immigrati e almeno alcuni di fede islamica, erano indubbiamente pro Isis e pertanto certamente esultanti per il massacro?[4]

 Non voglio mettere in discussione la condotta dei carabinieri che hanno svolto degli accertamenti su quel che accadeva nel bar Marrakech – è possibile anche interpretare la loro azione come una sorta di “mossa ansiolitica” a beneficio della cittadinanza, un’azione, cioè, tesa a prevenire o a stemperare ansie e tensioni crescenti – , ma porre in evidenza un altro aspetto: non soltanto la guardia giurata, il giornalista di Panorama e la consigliera di Forza Italia, hanno trasformato in comportamenti le ansie, la paranoia e i pregiudizi che eventualmente vivono, bensì anche altre soggetti, inclusi coloro che sui social hanno fatto rimbalzare questa assurdità.

 

Oltre la bufala.

L’ingiusta, ottusa e diffamatoria, accusa ai gestori e agli avventori del Bar Marrakech però non è soltanto una bufala, siamo oltre. Che si tratti di razzismo, mi pare non vi sia da discutere. Che sia anche un razzismo del tutto inconsapevole, come spesso accade, non si può escluderlo. Ma l’impressione è che si tratti di un razzismo associato a qualcos’altro: qualcosa in via di vasta e profonda diffusione. Qualcosa che di razzismo si nutre e che a sua volta alimenta il razzismo.

Anche Michele Serra nella sua Amaca del 27 maggio si è soffermato sul carattere razzista di questo episodio, affermando che, a suo parere, si potrebbero chiedere “i danni agli autori e ai propalatori” della falsa notizia.

Ma, ritengo che limitarsi a rilevare l’irrazionalità o l’ottusità di simili comportamenti – con efficace e mesta ironia posti in evidenza da Gramelliini (che non a caso intitola il pezzo “L’incendio dei cervelli”) – non basti più e non aiuti un granché a capire. Già in molti altri post su questo blog ci si è soffermati sulla spersonalizzazione dell’avversario e sulla tendenza delle parti in conflitto a vedere dell’altra parte solo quello che ne conferma l’immagine negativa coltivata: in effetti, anche in relazione a quanto qui accaduto, mi pare possa rinvenirsi, francamente qualcosa di analogo.

 

Un altro punto a favore della guerra totale perseguita dall’Stato Islamico.

Massimo Gramellini, conclude così la sua riflessione: «Urgono pompieri dell’anima». Nel mio piccolo sono d’accordo con lui. E penso che il problema sia politico. Però, non credo che sia soltanto una questione di fiammiferi di stupidità accesi e lanciati «nella polveriera di quartieri con troppi immigrati, trasformato dai media in un tizzone d’inferno che provoca un incendio vero», come ha scritto Gramellini. Credo che ci sia dell’altro. Lo dico sinteticamente: quanto accaduto a Pioltello – esitato peraltro in un’esplosione intimidatoria ai danni della saracinesca di quel bar – e, il ben più grave attacco davanti alla moschea Muslim Welfare House di Londra costituiscono un altro punto segnato nella macabra, diabolica, colonna delle vittorie delle tenebrose istanze su cui poggia lo Stato Islamico.

 

La demonizzazione dell’altro.

In effetti, il sedicente Stato Islamico, come asseriva Davide Piccardo nella citata trasmissione del 19 giugno su La 7, assolutizza il suo rappresentare come nemici tutti coloro che ad esso non aderiscono, fino a considerarli come non umani: per i suoi aderenti tutti gli altri (in qualsivoglia continente vivano) sono demoni da abbattere fisicamente e psicologicamente. L’Is non soltanto ci spersonalizza, ma ci disumanizza, cioè ci considera e ci tratta come se non fossimo esseri umani, in maniera radicale, completa.

I giovani uccisi a Manchester, come tutte le altre persone uccise (e sarebbe bene ricordare che sono tantissime e, visti i numeri, si può dire che sono in larghissima parte musulmane) vengono da esso considerati non come vittime della crudeltà della lotta (come solitamente sono rappresentate dai belligeranti le vittime civili nel corso di una guerra)  – il che è già di per sé mostruoso e raccapricciante –, ma sono definiti come colpevoli per il solo fatto di essere europei, cristiani… Per il solo fatto di non essere sudditi fedeli dello Stato Islamico.

Una risposta all’insegna della demonizzazione di tutti gli islamici.

Ebbene, mi pare, che Darren Osborne, la guardia giurata di Pioltello e le altre persone citate nel pezzo di Gramellini e su La Stampa, come coloro che in Europa e oltreoceano si vanno convertendo e tentano di convertire gli altri – sui social e altrove – all’odio verso tutti i musulmani, così come chi considera un altro essere umano seduto lì accanto come una non-persona capace di tagliargli la gola solo perché crede chiama la divinità in cui crede Allah, abbiano seguito un percorso cognitivo, emotivo e comportamentale che, nella sua struttura di fondo, sia analogo a quello sviluppato dai terroristi dell’Isis: l’altro, lo straniero, è un nemico. E il nemico è visto come capace di tutto.

Infatti, se il mio nemico festeggia è perché sta celebrando una mia disgrazia. Se è triste è perché sta dolendosi di un mio successo. Il nemico fa così perché mi odia, perché vuole il mio male, perché mi vuole morto, anzi peggio che morto: sottomesso.

Mi pare che Piccardo faccia centro quando dice che le due posizioni sono speculari, perché il tipo di ragionamento sopra esposto è proprio del pensiero, a dir poco paranoico e intriso di una forma tutta particolare e assoluta di razzismo, che arde nelle menti degli assassini del sedicente Stato Islamico.

 

La paranoia è contagiosa. 

Temo, dunque, che non sia soltanto una questione di periferie con troppi immigrati, ma ho l’impressione che si possa ipotizzare un contagio della paranoia, che si comunica da loro (Is) a noi. E per noi, intendo, potenzialmente, il resto dell’umanità, e direi anche che il cosiddetto Occidente è il più esposto al rischio del contagio.

In altri termini, mi sembra che si stia materializzando una frequente componente dell’escalation conflittuale, che assume in tal caso un carattere estremo, assoluto e violentissimo. Si tratta di un fattore a cui, come l’esperienza insegna, è difficilissimo porre rimedio. Mi riferisco alla demonizzazione dell’altro, alla sua percezione spersonalizzata, anzi deumanizzata.

 

“Odio per odio”. Verso tutti!

Personalmente sono dell’idea che del disagio sociale occorra prendersi cura. Che si debba farlo per il solo fatto che c’è e non perché può portare a qualcos’altro. Tuttavia, mi viene anche da pensare che occorra, anzitutto, prevenire l’adozione, qui, in Occidente, di una crescente prospettiva tutta di tipo reattivo, simmetrico: “se tu mi odi, allora ti odio anche io”; “poiché vuoi la mia morte, allora io voglio la tua”; “siccome per te sono il Male, anche tu sei il Male per me”; “se per te io non esisto come persona e sono soltanto un nemico da schiacciare, umiliare terrorizzare e uccidere singolarmente o in massa, allora anche tu per me sei soltanto un nemico da spazzare via singolarmente e in massa”.

 

Un razzismo di natura (anche) reattiva

Questa radicalizzazione, questo razzismo  di natura reattiva (cioè un pensare e sentire, in reazione alla violenza dell’Isis, che noi – cristiani, europei, bianchi – che siamo tutti buoni, dobbiamo metterci contro tutti i musulmani, che sono tutti cattivi), direi che costituisce contemporaneamente una condizione emotiva, una forma di pensiero e una serie di comportamenti che sono oggettivamente complici del terrorismo, cioè della sua finalità di dare luogo ad una guerra santa di portata planetaria[5].

L’odio verso lo straniero richiede una difficile e complessa risposta politica

Pertanto temo sia illusorio pensare che politiche sociali migliori di quelle in corso possano magicamente risolvere la cosa. Sono necessarie, utili, improcrastinabili di per sé. Anzi, se ancora rinviate, la loro mancata realizzazione può contribuire potentemente allo sviluppo di un profondo, inguaribile, odio tra poveri. Un odio che può facilmente colorarsi in senso etnico e religioso.

 

Per non dimenticare: alcuni esempi di violenza all’insegna del più ottuso razzismo.

E’ di ieri, 30 giugno, la notizia della denuncia fatta da un cittadino italiano, di origine bengalese, per essere stato preso a calci e pugni a Tor Bella Monaca. Riporta Repubblica che quattro giovani italiani,  ai quali stava chiedendo informazioni per raggiungere l’abitazione popolare assegnatagli dal Comune, prima gli hanno gridato contro il loro razzismo e poi lo hanno aggredirlo brutalmente. Tra pochi giorni, sarà trascorso un anno da quando, il 5 luglio del 2016, Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, richiedente asilo, è stato ucciso a Fermo, nelle Marche. Era arrivato nel nostro Paese dalla Nigeria meno di un anno prima, insieme a sua moglie, Chimiary. In Nigeria i terroristi di Boko Haram avevano devastato il villaggio, ucciso i genitori di lei e la loro figlia di due anni, solo perché erano cristiani. Stava passeggiando con Chimiary, la moglie 24enne, quando si è trovato a doverla difendere dagli insulti, intrisi di razzismo, provenienti da un ultras quarant’enne del posto. È partito il pestaggio. Colpito più volte alla testa, con calci e pugni e forse anche con un paletto, è stato ridotto in fin di vita. Un altro richiedente asilo è stato ferito molto gravemente a Rimini, il 22 marzo di quest’anno. Anche in tal caso si è trattato di un nigeriano, di 25 anni, cristiano, richiedente asilo. Il 39enne, italiano, di Roma, che lo ha aggredito per “ragioni” razziste e che ha diversi precedenti, lo ha prima preso a pugni e calci e colpito con un coltello all’addome. E, quando il giovane ha tentato di fuggire, l’italiano è salito in auto, lo ha inseguito e investito.

 

Urge una politica che promuova il riconoscimento dell’umanità dell’altro

Dubito, dunque, che politiche più spiccatamente keynesiane possano di per sé far regredire la spirale conflittuale già attivata. L’odio, sorto dalla paura, generata a sua volta dal terrorismo, mi pare, non può essere risolta con politiche sociali di tipo “classico”. Né, del resto, con più efficaci misure di sicurezza e ordine pubblico.

Occorrerebbe associarvi una politica in qualche misura nuova, sperimentale. Una politica, che, su tanti diversi registri, sappia accogliere quella paura, senza rinforzarla o sminuirla (qualcosa che in altri post ho chiamato anche ascolto politico), e che, pur riconoscendo la rabbia, generata dalla paura, riesca a bonificarla, così da poter davvero perseguire la promozione del riconoscimento dell’umanità di tutti, nessuno escluso.

Si tratta di qualcosa di inedito, almeno su larga scala. Certo, molte città – grandi e piccole – vedono la realizzazione di importanti progetti, di mediazione dei conflitti , tesi all’integrazione di rifugiati adulti e minori, o di altro tipo, che si pongono su questo registro. Tuttavia, credo che occorra qualcosa di più. Qualcosa di particolarmente complesso e complicato.

Complicato anche perché una tale politica dovrebbe, in primo luogo, sviluppare al proprio interno i necessari anticorpi. Quelli necessari, cioè, per non essere anch’essa contagiata dall’odio (e dalla paura che lo stimola). Poiché, andrebbe continuamente ricordato, le politiche sono elaborate dai politici. E costoro  sono esseri umani esattamente come tutti gli altri. Dunque, provano le stesse emozioni.

 

La negazione dell’altro come essere umano.

Scrive Luciano Peirone, nel secondo capitolo di La vita ai tempi del terrorismo. Psicologia e fiducia per gestire la paura e fronteggiare il Male (Edizioni Ordine degli Psicologi del Piemonte, Torino, 2017), che, dal punto di vista del terrorista, «l’Altro non esiste, non deve esistere (…). “La Verità è una sola: la mia, la nostra”. “La giustizia è una sola: la mia, la nostra”. “Dio è uno solo: il mio, il nostro”». E aggiunge: «Il Non-Io, il Non-Noi viene irrimediabilmente percepito e valutato quale straniero, nemico, non degno di esistere. Si è in presenza di un bisogno profondo, anzi di una autentica necessità. Il conflitto è del tipo aut aut, o Io o l’Altro, meglio: o Noi o gli Altri. Il terrorista decide unilateralmente. Non c’è trattativa perché la controparte “non c’è”. La negazione (poderoso meccanismo intrapsichico) regna sovrana».

Be’, qualcosa di non sideralmente distante si produce anche nel razzismo, nell’odio, nella rabbia e nella violenza verbale e fisica verso gli stranieri. Soprattutto verso quelli di fede islamica.

L’altro come mero oggetto (del nostro odio)

E’ qualcosa che va diffondendosi in Europa. E arriva a condizionare i leader politici, alcuni dei quali, anzi, se ne fanno orgogliosi e potenti portavoce. Forse, risultano così efficaci in tale ruolo, perché anch’essi ne sono in buona parte intrisi.

Ancora Peirone, nelle sue Annotazioni sulla personalità del terrorista del XXI secolo, scrive: «“L’esistenza di qualcuno diverso da Me/Noi minaccia la Mia/Nostra esistenza: quindi Io lo debbo eliminare, Noi lo dobbiamo eliminare”. “Non mi/ci importa nulla dell’Altro: esso è un mero oggetto del Mio/Nostro odio”. “L’Altro non esiste e va fatto fuori”. “La Mia/Nostra Violenza è inevitabile: per generosità posso/possiamo convertirlo (cambiarlo, trasformarlo, renderlo simile a Me/Noi) oppure per spietatezza debbo/dobbiamo toglierlo di mezzo”». E conclude questo passaggio con la seguente riflessione «La logica terroristica è inoppugnabile, ferrea come le armi».

Rischiamo di contraddire noi stessi e di seppellirci.

Se la facciamo nostra, se anche noi italiani, europei, nordamericani, ecc., ci avviciniamo a questi schemi di pensiero, se, come sembra fare il senatore Candiani, in ogni fedele dell’Islam vediamo un tagliagole, e con tali sentimenti ostili e con un altrettanto ostile approccio ci rapportiamo a tutti coloro che credono in Allah, be’, allora cominciamo pure a scavare le fosse per i nostri figli, perché presto ci toccherà seppellirli. E con loro copriremo di terra anche quei principi e quei valori contro cui si scaglia il sedicente Stato Islamico e  che noi abbiamo ricevuto in eredità dalle generazioni precedenti[6]. Quei valori che tante ingiustizie, sofferenze e vite umane sono costate per essere riconosciuti. E che noi, disapplicandoli, dimostreremo di non avere meritato.

Per concludere, dunque, meritiamocele, le sofferenze, le fatiche, le perdite e le lotte affrontate da  milioni di individui, che, anche loro come noi, mentre erano di passaggio su questa Terra, nel corso dei secoli e fino ad oggi, hanno portato il loro granello di sabbia – come forse avrebbe detto Luciano Bolis – per edificare un mondo più giusto, più umano.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Quel lunedì sera Salman Abedi, britannico di origini libiche, alle 22.33, si è fatto saltare in aria all’Arena, dov’era in corso un concerto della cantante statunitense Ariana Grande, uccidendo 23 persone e ferendone altre 122, soprattutto giovanissime

[2] Osborne si era precipitato con un furgone, da lui noleggiato per 80 sterline alcune ore prima a Cardiff (270 km da Londra), contro un gruppo di persone di fede islamica, fermatesi fuori dalla moschea per aiutare un uomo che era collassato a terra, provocando la morte di una persona (un cinquantunenne di nome Makram Ali) e il ferimento di altre 10. Darren Osborn, bloccato dai presenti, gridava di voler uccidere tutti i musulmani. A salvarlo dalla reazione dei presenti è stato l’intervento di Mohammed Mahmoud, un imam della moschea.

[3] Pensiamo, per stare agli esempi più recenti di razzismo reattivo, agli attacchi ai negozi e alle moschee, nonché alle persone e pensiamo alle risse verificatisi in Corsica nel 2015 e nel 2016 o a quanto emerso nell’indagine a carico dei carabinieri di Aulla, di cui quattro arrestati. Inoltre sempre in tema di violenza e razzismo non andrebbe sottovalutato quanto evidenziato da sindaco di Londra, Sadiq Khan, che (come riporta il Fatto Quotidiano, citando dati pubblicati dalla Polizia Metropolitana ha segnalato come, dopo il 3 giugno, si è passati da 3,5 attacchi di stampo islamofobico al giorno a una media di 20.

[4] Il 26 maggio è giunta la notizia di un attentato in Egitto, 34 morti, uccisi perché coopti. Le polizie di tutto il mondo avrebbero dovuto indagare su tutti coloro che nel mondo stavano festeggiando qualcosa? Analogamente, è possibile che vi fossero persone sorridenti o perfino intente a festeggiare qualcosa riguardante i fatti loro quando veniva diffusa la notizia il 31 maggio di un’autobomba (un camion) fatta esplodere  Zanbaq Square, in una delle aree più sicure di Kabul, dove si trovano diverse ambasciate (tra qui quella tedesca, francese, iraniana e pakistana) uccidendo 80 persone e ferendone 300, o quando il giorno prima i media (l’Ansa, ad esempio) riportavano che a Baghdad nell’arco di 12 ore due attentati avevano ucciso più di 20 persone tra cui molti bambini. E chissà quanta gente il 2 gennaio di quest’anno era felicemente in vacanza mentre si apprendeva che un’autobomba a Baghdad aveva tolto la vita a 39 persone, oppure chissà quante erano beatamente in ferie oppure intenti a trascorrere una serata spensierata all’aperto, mentre arrivavano le informazioni dei 4 attentati di Baghdad della notte tra il 2 e il 3 luglio dell’anno scorso che costarono la vita a 324 persone, tra cui molti bambini e minori (è stata definita la strage dei bambini). Ad esempio, è possibile che, il mattino del giorno dopo, educatori e bimbi di qualche centro estivo stessero festeggiando il compleanno di un compagnuccio. Andrebbero denunciati nel dubbio che in realtà fossero al corrente della strage commessa poche ore prima? Quando il 24 maggio di quest’anno è stata diffusa la notizia di un’imbarcazione ribaltatasi al largo del porto libico di Zuara, soccorsa dalla Guardia Costiera italiana e dall’ong Moas, che hanno rinvenuto 34 cadaveri, tra cui molti bambini, e contato 156 dispersi, è possibile che più di qualche europeo stesse festeggiando in pubblico un’assunzione, la promozione ad un esame universitario o un qualche tipo di progetto andato a buon fine. Non avendo, costoro, esposto cartelli illustranti le ragioni della loro felicità, si sarebbe dovuto verificare che non fossero esultanti per la morte di tanti migranti?

 

[5] Per “comportamenti oggettivamente complici del terrorismo” mi riferisco anche alle condotte poste in evidenza da Gramellini, Serra e Baldi nei loro articoli e ad altre analoghe, o assai più gravi, azioni.

 

[6] Vale la pena ricordare che nel mese di giugno del 1944, a Civitella della Chiana (Arezzo), reparti della divisione Göring in ritirata uccisero 203 civili, tra cui anziani, donne e bambini. Sarebbero stati “colpevoli” di aver aiutato le formazioni partigiane. A nord della Linea Gotica l’operazione Wallenstein (una serie di rastrellamenti) costò la vita a 156 civili e 70 partigiani, mentre furono deportate 1798 persone. Gli alleati poco più di tre settimane prima (il 6 giugno) erano sbarcati in Normandia. E, a proposito del D-Day e del film più premiato dalla critica e dal pubblico su quell’evento – Salvate il soldato Ryan – , come non ricordare una battuta sempre attuale? “Meritatelo”, dice il capitano  John H. Miller (Tom Hanks), colpito a morte dal fuoco tedesco, al soldato James Francis Ryan (Matt Damon). Lo dice, spirando, a colui per la cui salvezza lui e quasi tutti i suoi uomini hanno perso la vita. Tante storie individuali e collettive, svoltesi nel corso dei secoli, sono alla base della nostra Costituzione e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Documenti nei quali è fissata l’uguaglianza di tutti davanti alla legge e la pari dignità per ogni persona. Si tratta di principi antitetici a ciò che è intrinseco ad ogni forma di razzismo. Incompatibili, in realtà, non solo con il terrorismo e  con i disegni di dominio di Daesh, ma anche con certe sub-culture criminali, quali, ad esempio la ‘ndrangheta. Tali alte dichiarazioni sollecitano a tenere sempre presente un fatto: l’altro è un essere umano. Senza questa consapevolezza, che non sta solo sul piano intellettuale, risultano vuote parole quelle dell’art. 1 della suddetta Dichiarazione Universale: « Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. »

 

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