Quel “no” di Maurizio Arnesano

Maurizio Arnesano aveva 18 anni quando entrò nella Polizia e 19 anni e mezzo quando incontrò Giuseppe Valerio (detto Giusva) Fioravanti, di due anni più vecchio. Il 6 febbraio del 1980 Maurizio Arnesano era di servizio davanti all’ambasciata del Libano, a Roma, con la sua pistola di ordinanza e l’M-12. Ma quel mattino – come, un anno dopo, raccontò Cristiano Fioravanti, il fratello di Giusva, al sostituto procuratore di Roma – Giusva aveva deciso che si sarebbe procurato un mitra e che a darglielo sarebbe stato un poliziotto. Così si espresse Cristiano:

«La mattina dell’omicidio Arnesano, Valerio mi disse che un poliziotto gli avrebbe dato un mitra; io, incredulo, chiesi a che prezzo ed egli mi rispose: gratuitamente. Fece un sorriso ed io capii».

Maurizio Arnesano, però, non fu disposto a concedergli il mitra, né gratis né in cambio di qualcosa. Neppure in cambio della vita.

«Non vi preoccupate, sono ancora vivo»

Alcuni giorni prima, Maurizio Arnesano aveva spedito alla famiglia una sua fotografia con un biglietto sul quale c’era scritto:

«Non vi preoccupate, sono ancora vivo».

In effetti, ce n’erano parecchi motivi di preoccupazione per la sua famiglia. Non perché Maurizio Arnesano svolgesse un compito particolarmente pericoloso, ma perché quelli erano anni difficili. Brutti, pericolosi per chi indossava una divisa, per chi faceva il magistrato e per altri. Lo era anche per chi si limitava ad andare in banca a Milano, ad una manifestazione a Brescia, alla stazione di Bologna o viaggiava in treno, se vogliamo pensare soltanto a coloro che, come Maurizio Arnesano, furono colpiti dalla violenza terroristica di estrema destra.  Il valzer di sangue danzato da terroristi neri, ma orchestrato da altri livelli, era iniziato con l’esplosione della bomba di Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969 (l’abbiamo ricordata qui, sulla rubrica Corsi e Ricorsi) e proseguito con altre stragi: quella di via Fatebenefratelli, a Milano, quella di Peteano, quella di piazza della Loggia, a Brescia e quelle sul treno Italicus e sul rapido 904… Oltre allo stragismo nero, vi erano le quasi quotidiane “gambizzazioni” degli assassini del terrorismo rosso. Secondo i dati ufficiali, limitandoci al periodo 1969 – 1987, si ha un bollettino di guerra, un fenomeno che nessun altro Paese europeo ha conosciuto. La violenza con motivazioni politiche si è verificata 14.591 volte, uccidendo 491 persone e ferendone altre 1181, senza contare coloro, che, pur senza riportare danni fisici, ebbero la vita devastata.

N.A.R.

Inoltre, non c’erano soltanto i terroristi di destra e di sinistra e i tentati golpe. C’erano anche i killer della criminalità organizzata. Che, ricordiamocelo, in Italia ha tolto la vita a circa 1.000 persone innocenti. Giuseppe Valerio Fioravanti era un terrorista nero, ma, cosa non eccezionale, c’entrava anche con la criminalità organizzata. Giusva, infatti, era, sì, dei N.A.R. (Nuclei Armati Rivoluzionari), anzi ne era il leader, ma questi collaboravano con la Banda della Magliana a Roma, con la banda Turatello a Milano e con la Mala del Brenta nel Veneto. I NAR, sorti a Roma nel ’77, si chiamavano così perché avevano deciso che l’eversione nera doveva emanciparsi tanto dal golpismo e dallo stragismo di organizzazioni, anch’esse fasciste, come Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Ordine Nero, ecc.,  quanto dal neofascismo del Movimento Sociale Italiano (di cui Giusva era stato militante). Per i NAR era scoccata l’ora di colpire direttamente lo Stato e di farlo nella prospettiva dello “spontaneismo armato”:

«Avevamo un punto di vista anarchico: pensavamo che la rivoluzione non potesse essere governata, organizzata o guidata, altrimenti sarebbe stata solo lotta per il potere, e quella non ci interessava. All’interno (dei NAR, ndr) non c’era alcun rapporto gerarchico. Se io mi sono trovato nella posizione di leadership, è stato solo per una maggior capacità organizzativa, non per una questione politica».

«Atti di guerra contro i comunisti»

Da queste e altre parole di Fioravanti si direbbe che egli e i suoi complici avessero forti motivazioni ideali e che fossero queste a costituire il fondamento motivazionale delle loro azioni. Azioni, che essi, parrebbe, interpretavano come eroiche imprese.  Fioravanti spiegò che lui e altri estremisti violenti di destra erano stufi di essere considerati come schierati dalla parte della conservazione e del capitale ed esasperati dal favore con il quale le istituzioni li trattavano rispetto al pugno di ferro riservato ai militanti di estrema sinistra. Le loro prime attività criminose consistettero in attentati con molotov ai danni delle sedi del Messaggero (il 30 dicembre del ’77) e del Corriere della Sera (il 4 gennaio del ’78). Non esattamente delle imprese ammantate di eroismo. E già il 28 febbraio 1978, dimostrarono quanto poco coraggiosi fossero i loro intenti criminali. In occasione del terzo anniversario dell’assassinio di Miki Mantakas (un giovane militante del FUAN che era stato ucciso durante una manifestazione), i due fratelli Fioravanti, con altri sei (Franco Anselmi, Alessandro Alibrandi, Dario Pedretti, Francesco Bianco, Paolo Cordaro e Massimo Rodolfo), a Cinecittà, tesero un agguato a due ragazzi coi capelli lunghi, quindi comunisti per definizione, intenti a fumare una sigaretta, seduti su una panchina. I due fratelli Fioravanti si avvicinarono e subito presero a sparare. Roberto Scialabba, un operaio elettricista, fu colpito a distanza ravvicinata proprio da Giusva, che poi si mese a cavalcioni del suo corpo e gli sparò ancora alla testa. Giusva disse in seguito che lo aveva impressionato, in quel suo primo omicidio, l’espressione di assoluto stupore delle vittime dei suoi spari. Del resto, perché non avrebbero dovuto essere stupite? Lui gli aveva dichiarato guerra, ma loro non lo sapevano.

«Con i valori che avevamo…»

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Come i loro “colleghi” di estrema sinistra e di estrema destra, i NAR non ingaggiavano duelli, non “si battevano alla pari”, commettevano assassinii. Eppure ritenevano di avere dei “valori”, che, asserirono, li condizionavano. Poco dopo, infatti, i NAR tentarono una rapina ai danni di un’armeria, che costò la vita ad uno di loro, Franco Anselmi (per loro divenne subito un eroe-martire). Di qualche interesse sono le parole con le quali Valerio Fioravanti ricordò quell’impresa.

«Eravamo turbatissimi: con i valori che avevamo, arrivare a rapinare un privato ci sconvolgeva. Un conto era l’atto di guerra contro il comunista, cosa diversa era andare a toccare la proprietà privata. Così, mentre a menare o a sparare ai compagni non ci sentivamo in colpa, l’idea di aggredire e derubare un cittadino innocente, che non c’entrava niente, ci faceva sentire dei criminali».

Naturalmente seguirono altre rapine ai danni di privati.

L’attacco a Radio Città Futura

Il 9 gennaio 1979 i NAR, sempre impegnati nella loro guerra anticomunista, presero di mira la sede romana di “Radio Città Futura”, dove era in corso una trasmissione gestita da un gruppo femminista. Armi in pugno fecero stendere sul pavimento le donne presenti e appiccarono il fuoco ai locali. Quindi spararono alle ragazze, terrorizzate, che tentavano di fuggire. Ne ferirono quattro, di cui due gravemente.

Colpire «i rappresentanti dell’antifascismo di Stato»

«Ieri un nucleo armato rivoluzionario ha colpito la sezione del Partito Comunista Italiano di via Cairoli […] se ieri abbiamo colpito semplici attivisti del PCI, complici morali in quanto portatori dell’antifascismo più reazionario, domani colpiremo i responsabili materiali, già individuati e condannati (questa volta a morire). Ribadiamo ancora una volta che i nostri veri nemici sono i rappresentanti dell’antifascismo di Stato, in quanto i loro mezzi subdoli (dai mass media alla magistratura) ci colpiscono certo di più di chi ci affronta apertamente in piazza. Ma chi oggi ha riempito le galere di camerati ed insozzato sui giornali e alla televisione la memoria dei nostri caduti sappia che dopo averli distrutti sapremo anche convincere la gente che quello che abbiamo fatto rientra nel giusto».

Con queste parole veniva rivendicato dai NAR il ferimento di 27 persone nella sezione del PCI dell’Esquilino, dove l’11 dicembre del ’79, era in corso un’assemblea cui partecipavano oltre 50 persone. Avevano lanciato due bombe a mano Srcm e sparato alcuni colpi all’interno dei locali.

Antonio Leandri, quel ventiquattrenne ucciso perché si voltò al grido «avvocato!»

Sei giorni dopo insieme a militanti di Terza Posizione (altra formazione nera) tesero un agguato contro l’avvocato Giorgio Arcangeli, secondo loro, reo di aver denunciato e fatto arrestare Pierluigi Concutelli, uno dei capi dell’organizzazione fascista Ordine Nuovo, autore dell’omicidio del giudice Vittorio Occorsio (lo abbiamo ricordato qui).  A rimetterci la vita, tuttavia, fu Antonio Leandri, un ventiquattrenne, geometra, che si era voltato al grido «avvocato!». Anche in tal caso a sparare il colpo di grazia che uccise il giovane fu Giusva Fioravanti. Un mese e mezzo dopo circa toccò a Maurizio Arnesano imbattersi nella spietatezza di Valerio Fioravanti.

L’omicidio di Maurizio Arnesano

Il 6 febbraio del 1980, Maurizio Arnesano prestava servizio presso la Questura di Roma, il suo incarico era quello di agente di guardia davanti all’Ambasciata del Libano, di via Settembrini. Quel giorno, però, Fioravanti, stando sul sedile del passeggero di una “Vespa” guidata da Giorgio Vale, passava proprio dinanzi alla sede diplomatica.

Arnesano era un ragazzo del Meridione come ce n’erano e ce ne sono tanti. Poche prospettive e necessità di andare a cercare lavoro altrove, lontano da casa. Era nato  il 20 luglio 1960 a Carmiano, in provincia di Lecce. Dopo aver frequentato la Scuola Allievi di Vicenza, era stato assegnato alla Questura di Roma. Ed era contento dell’ incarico che gli avevano affidato.

Fioravanti voleva un mitra

Quel 6 febbraio, però, Fioravanti voleva un mitra. Di pistole e fucili ne aveva razziati tanti, ma gli mancava un mitra. Così la Vespa si fermò. L’ M-12 di Maurizio Arnesano faceva proprio al caso loro. Fioravanti scese impugnando una pistola munita di silenziatore e andò incontro ad Arnesano. A pochi passi da lui gli intimò di consegnarli l’M12.  Maurizio probabilmente lo spiazzò. Non solo perché non volle cedere la sua arma, ma anche per il tentativo di reagire. Fioravanti, a quel punto, gli sparò alcuni colpi di pistola, ferendolo gravemente al braccio con tre pallottole.

In quelle condizioni, per Maurizio Arnesano era impossibile rispondere al fuoco. Col mitra ancora a tracolla, corse, quindi, verso l’ingresso dell’ambasciata, cercando di sottrarsi a quel killer. Fioravanti avrebbe potuto andarsene. Lasciar perdere. Il poliziotto era ferito e gli voltava la schiena nel tentativo di trovare un riparo. Però, Giusva non era tipo da lasciarlo andare via. Presa la mira, gli sparò altri 4 proiettili nella schiena, poi con calma si avvicinò, prelevò l’M12 e se ne andò via.

Il giorno seguente il presidente della Repubblica Sandro Pertini andò a rendere omaggio alla salma di Maurizio Arnesano. I funerali si svolsero l’8 febbraio a Carmiano, il suo paese natale. Ventiquattro anni dopo, gli venne conferita la medaglia d’oro al merito civile dall’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.

«Non sparare alle spalle è un lusso» e gli omicidi di Evangelista e Amato

Giuseppe Valerio Fioravanti continuò ad uccidere. E il bersagli successivo fu un altro poliziotto, l’appuntato Francesco Evangelista (detto “Serpico”), crivellato con sette colpi di pistola, davanti al Liceo classico “Giulio Cesare”. Per l’omicidio, fu arrestato Nanni De Angelis, militante di Terza Posizione, ma totalmente estraneo alla vicenda (fu poi ritrovato impiccato in carcere con evidenti segni di violenze e percosse).

In seguito a chi gli rinfacciò la viltà dell’omicidio di Maurizio Arnesano, Fioravanti replicò:

«Non sparare alle spalle è un lusso»

Non minore vigliaccheria aveva dimostrato anche nel caso di “Serpico”. Neppure un mese dopo, il 23 giugno 1980, un altro assassinio. Non casuale, però.

«Oggi Amato ha chiuso la sua squallida esistenza, imbottito di piombo».

Il sostituto procuratore Mario Amato, 36 anni, era l’unico magistrato ad occuparsi del terrorismo di matrice nera di Roma e dell’intero Lazio. Gli erano stati assegnati, per competenza, i fascicoli di indagine del pm Vittorio Occorsio, che, come ricordato, era stato ammazzato il 10 Luglio 1976 da Pierluigi Concutelli, perché indagava sul terrorismo di destra. In quegli anni, in cui l’attenzione delle forze dell’ordine e delle Istituzioni era maggiormente rivolta verso la repressione del fenomeno eversivo “rosso”, soprattutto dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, all’inizio del 1978, il terrorismo di destra sembrava essere scivolato ai margini del campo visivo. Non solo per questo, però, Amato si sentiva lasciato solo. Oltre ad essere attaccato dalla stampa di destra e da alcuni avvocati, veniva osteggiato dai colleghi e denigrato e perfino velatamente minacciato dal suo diretto superiore, il giudice istruttore Antonio Alibrandi. Il futuro deputato missino lo accusava di “dare la caccia ai fantasmi”. Uno di questi, Fioravanti, aveva deciso che non avrebbe ripetuto l’errore commesso nell’agguato all’avvocato Arcangeli: non conoscendo il volto del procuratore Amato, Giusva era andato in tribunale e se lo era fatto indicare da Alessandro, altro spietato killer dei NAR, figlio proprio del giudice Alibrandi.

Mario Amato, sposato e con un figlio, fu ucciso mentre aspettava l’autobus per andare a lavoro. Gilberto Cavallini gli sparò alla nuca poi fuggì con una motocicletta, alla cui guida era l’altro NAR, Luigi Ciavardini. Mario Amato aveva inutilmente richiesto sia di essere affiancato nelle indagini da altri colleghi sia una protezione, o quantomeno un’autoblindata. Anche questa, infatti, gli era stata negata. Dieci giorni prima di essere eliminato, davanti al CSM, aveva anche annunciato sviluppi clamorosi nella sua indagine, prossima «alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori degli atti criminosi».

Alla notizia dell’avvenuto assassinio, Giusva Fioravanti e sua moglie, Francesca Mambro, festeggiarono con ostriche e champagne. Sul  volantino di rivendicazione che stilarono scrissero:

«Abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata contro il sostituto procuratore dottor Amato, per la cui mano passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri la pagheranno».

Giuseppe Valerio Fioravanti sarà riconosciuto colpevole anche della strage di Bologna del 2 agosto 1980 e complessivamente dell’omicidio di 93 persone.

Alberto Quattrocolo

Fonti

David Barra, Nicola Ventura, Maledetti ’70, storie dimenticate degli anni di piombo, Roma, Gog, 2018

Giorgio Bocca, Gli anni del terrorismo – Storia della violenza politica in Italia dal ’70 ad oggi, Armando Curcio editore, 1989

Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri e Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino, 2000.

Achille Melchionda, Piombo contro la Giustizia. Mario Amato e i magistrati assassinati dai terroristi, Edizioni Pendragon, 2010.

Nicola Rao, Il Piombo e la Celtica, Sperling & Kupfer Editore, 2009

www.csm.it

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